L'Europa dei Trattati
Interventi parlamentari (1992)
di Adelaide Aglietta
Quando si parla dell'Europa politica, cioè di un'Unione europea dotata di un ordinamento federale con istituzioni democratiche e competenze limitate e reali, sottratte alla sovranità degli Stati membri, sono due i nomi che devono essere richiamati alla memoria storica: Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Nel documento che essi scrissero negli anni del confino a Ventotene, e che fu reso pubblico nel 1941, si legge: "Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per fare nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta in Europa". Rossi e Spinelli - benché duramente perseguitati dal fascismo, separati dalle loro famiglie e condannati a una vita di stenti e di privazioni - stavano già sognando la fine della guerra e il riordino dell'Europa. Essi riescono a immaginare gli Stati uniti d'Europa e come bisognerà trovare la forza di farli nascere dalle ceneri dei nazionalismi e degli imperialismi. Con il documento di Ventotene, il federalismo ha una svolta decisiva, e dimostra di avere appreso una lezione ancora sconosciuta ai federalisti del secolo precedente: nessuna meta è preventivamente assicurata, nessun esito predeterminato in anticipo. L'Europa non cade dal cielo, è il loro motto, e costruirla vuole dire coniugare il pensiero all'azione, procedendo nella critica del marxismo, della restaurazione democratica nazionale e dei nuovi razzismi. La lunga marcia dell'Unione europea ha inizio con il Trattato di Parigi del 1951. Esso sanciva la nascita della Ceca (comunità europea del carbone e dell'acciaio) ed era sottoscritto dai governi della Francia, dell'Italia, della Germania, del Belgio, dell'Olanda e del Lussemburgo. Lo slancio europeista condusse alla firma nel 1953 del Trattato della Comunità europea di difesa e alla elaborazione dello Statuto della Comunità politica, primo vero progetto di costituzione europea. Scriveva Altiero Spinelli: "I poteri di cui l'autorità federale deve disporre, sono quelli che garantiscono la fine delle politiche nazionali esclusiviste. Perciò la federazione deve avere l'esclusivo diritto di reclutare e di impiegare le forze armate; di condurre la politica estera; di determinare i limiti amministrativi dei vari Stati associati, in modo da soddisfare alle fondamentali esigenze nazionali e di sorvegliare che non abbiano luogo soprusi sulle minoranze etniche (..) di emettere un'unica moneta federale, di assicurare la piena libertà di movimento a tutti i cittadini entro i confini della federazione". Ma entrambi furono spazzati via da un voto dell'Assemblea nazionale francese che esprimeva un sentimento molto diffuso nei paesi membri, e il progetto di avere una politica estera e di sicurezza comune, benché continuamente riproposto, finora è sempre fallito, da ultimo anche nel Trattato di Maastricht. Questo fallimento è certamente fra le cause più importanti del mancato ruolo dell'Europa nella politica internazionale, come interlocutore dei processi politici all'Est, e come autorità capace di evitare o contenere le grandi catastrofi del nostro tempo, da ultima la guerra nella ex-Jugoslavia. La Comunità in assenza di una politica comune e di un'unica sede decisionale, si è trovata divisa, paralizzata, lacerata, incapace di un'azione autonoma, all'altezza dei compiti e delle aspettative. Al suo posto c'é stata un'azione dei Governi limitata e pericolosa che, con l'alibi della Comunità, ha perseguito la strada degli interessi e delle politiche nazionali. Con il Trattato di Roma del 1957, la dimensione economica dell'integrazione ha preso il sopravvento sulla creazione dell'Unione politica: fu sancita la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei lavoratori, senza però fare nessun passo verso l'organizzazione dei poteri europei. Il primo luglio del 1961 furono soppressi i dazi doganali e si avviarono una serie di politiche comuni, soprattutto agrarie e commerciali. A quest'Europa senza regole, ma delle merci e dei capitali e che si avviava a divenire una potenza economica mondiale, chiesero di aderire anche la Gran Bretagna, la Danimarca e l'Irlanda, benché per farne parte abbiano dovuto aspettare la fine dei negoziati nei quali la nazionalissima Francia di De Gaulle oppose il suo veto per ben due volte, nel 1961 e nel 1967. Dunque, il primo ampliamento della Comunità è avvenuto nel 1972. Esso sollevò nuovi problemi da affrontare: primo fra tutti, la necessità di una politica economica comune che non poteva fondarsi solo sul principio di stabilità dei cambi e sulla illusione monetarista. Lo scontro fra i federalisti e gli altri fu molto duro: per i primi, infatti, l'unione monetaria avrebbe dovuto essere una conseguenza dell'unione politica; per gli altri, invece, essa poteva esistere indipendentemente dal resto o, al massimo, doveva costituire un primo passo verso l'unione politica. Vincono i secondi (la storia della Comunità europea è frequentemente giocata sul piano del realismo politico e con un reiterato rifiuto del "sogno" federalista), e nel 1979 insieme al Parlamento europeo nasce lo Sme: il sistema monetario europeo, che ha lo scopo di arrivare ad una regolamentazione dei cambi delle monete dei singoli Stati membri, fino a raggiungere le condizioni per una moneta unica comune: l'ecu. Fra il 1981 e 1986, anche la Grecia, la Spagna e il Portogallo chiedono di entrare nella Comunità, e le disparità di sviluppo economico fra i dodici paesi si accentuano. A questo punto, le strade da seguire sono solo due: o si affrontano i problemi posti dai dislivelli economici e politici dei dodici Stati in una chiave di soluzione sovranazionale, capace di armonizzare le differenze e di intervenire laddove lo Stato nazionale non è più capace di essere adeguato; o si restituiscono i poteri agli Stati nazionali, mettendo in comune solo i mercati e la moneta. Per mediocrità e per egoismo nazionale, si è fatta sempre questa seconda scelta, e le modifiche al Trattato di Roma, introdotte nel 1985 con l'Atto unico europeo (registrato dai federalisti di tutta Europa come un'occasione mancata) ne sono state una ulteriore conferma. Dal 1991, e per tutta la durata della legislatura, sono stata presidente del Gruppo verde: un incarico che mi ha richiesto molto tempo e attenzione, e che mi ha costretta a fare delle scelte rispetto ad altri possibili interessi: tuttavia, ne è valsa la pena perché si è trattato di un banco di crescita enorme. Ero già stata presidente del gruppo radicale alla Camera dei deputati, ma il compito ricevuto al Parlamento europeo conteneva molte e nuove difficoltà, rispetto a quelle di cui avevo già avuto esperienza. In primo luogo, l'eterogeneità delle componenti: le provenienze diverse, non solo in senso strettamente geografico, ma culturale e di approccio politico. Poi - ed è stato forse lo scoglio più grande - l'appartenenza di alcuni membri a partiti nazionali invadenti e decisi a gestire il gruppo parlamentare come un proprio prolungamento di potere politico, e il Parlamento come una struttura da usare per scopi di parte. In un gruppo europeo si possono vivere le stesse difficoltà che, in scala maggiore, si vivono nei rapporti fra governi: la strenua resistenza a conservare piena e indiscussa la propria sovranità; il tentativo costante di non cedere a un progetto comune, nel quale si stemperino le pretese individuali e si giunga a scelte sostenibili e convincenti per tutti. Io ho lavorato a costruire un gruppo parlamentare dotato di autonomia dai partiti di appartenenza e capace di esprimere una politica propria, con risposte indipendenti, elaborate autonomamente, sui diversi problemi posti dalla costruzione dell'Europa. Sono stata presidente del gruppo verde, con l'eccezione dei primi diciotto mesi, per la durata dell'intera legislatura, e dopo un periodo di confronto duro e di qualche incomprensione - si è determinata una situazione di collaborazione e di intelligenza comune che ci ha permesso di mettere al centro della nostra attenzione il problema delle regole per l'Europa, della sua Costituzione, dei suoi poteri e dei suoi compiti. Lentamente, un giorno dopo l'altro, lavorando fianco a fianco, il Gruppo verde - all'inizio assolutamente diviso fra fondamentalismi e soggettivismi, anti-istituzionale per istinto e atterrito da qualunque ipotesi di politica comune, immediatamente percepita come imperialista - è riuscito a esprimere una posizione anche su temi difficilissimi come la difesa e la sicurezza dell'Europa, argomento che più di ogni altro scatenava tutte le diversità e le diffidenze. Non è stato facile comprendere, ma infine ci siamo riusciti, che mentre per i governi dei 12, complessivamente e individualmente, le minacce sono prevalentemente militari, per noi ecologisti e per chi guarda al futuro del pianeta all'alba di questo nuovo millennio, i pericoli vengono dal sottosviluppo, dal razzismo, dalle catastrofi ambientali, dai dissesto idrogeologico che si è prodotto in questo ultimo decennio, dai possibili terremoti, dalle nuove epidemie, dalla fame nel mondo, della necessità di un controllo demografico fondato sull'informazione e la libertà, invece che sulla repressione e il totalitarismo. Ciò che siamo riusciti a comprendere collettivamente, è che non si combattono i rischi di costruire una forza "imperialista" negando la possibilità di una politica estera e di sicurezza comune, ma costruendo istituzioni democratiche - con un ruolo rafforzato del Parlamento europeo - che determinino la politica dell'Unione e non consentano ai paesi più forti di imporre le proprie scelte nazionaliste e di profitto a svantaggio degli altri Stati membri. Dopo la definitiva approvazione del trattato di Maastricht, il Gruppo verde - superata la delusione per un Trattato che ha scontentato tutti e ha accentuato il potere degli Stati nazionali e dei Governi a detrimento dei poteri del Parlamento - è riuscito a esprimere delle posizioni di critica costruttiva e una strategia per rilanciare il processo di unificazione democratica dell'Europa. La nostra parola d'ordine è allora divenuta: superare Maastricht. A parte i contenuti specifici della proposta ambientalista e ecologista, una critica decisa va fatta alla regola che vincola le decisioni più importanti all'unanimità. Pretendere che si possa governare con un voto espresso all'unanimità è l'esatto contrario di quello che accade in democrazia, dove esiste il governo della maggioranza e il rispetto del ruolo e dei diritti delle minoranze. La regola dell'unanimità è quella che permette a ciascuno Stato di esercitare un potere di veto sulle decisioni comuni, garantendo in tal modo i propri interessi nazionali a scapito di quelli dell'Unione euroepa. Maastricht ha riconfermato questo criterio nazional-governativo a discapito dell'Europa dei popoli. E' chiaro, inoltre, che l'Europa non può avanzare - ma è destinata a subire continue sconfitte - ricorrendo a soluzioni che invece di essere politiche siano amministrative e tecnocratiche. L'Europa può esistere solo con il sostegno popolare e la coscienza di ognuno di essere parte di un'Unione, delle cui decisioni è direttamente o indirettamente partecipe. Questo è il senso di una cittadinanza comune, che il Trattato di Maastricth prevede, senza però porre le istituzioni comunitarie nelle condizioni di renderla effettiva e sicura. Ancora una volta emerge il contrasto fra due diverse visioni politiche: quella di chi intende la cittadinanza europea come un'aggiunta di democrazia, ovvero come una facoltà della libertà individuale e un progresso nel cammino dei diritti civile e umani, e chi vuole che la libertà di circolazione derivi e sia funzionale all'Europa dei capitali e delle merci, in una esasperata e inutile illusione economicistica. Noi, verdi e federalisti d'Europa, siamo convinti che la nascita della cittadinanza europea sia un primo, obiettivo, riconoscimento dell'esistenza di una nuova dimensione politica, al di là degli Stati nazionali, e della necessità che questa si doti di un proprio effettivo governo.
Alla scadenza elettorale, che eleggerà direttamente la IV assemblea parlamentare europea, i cittadini europei dovranno votare un Parlamento in piena e responsabile funzione, che risponda della rappresentanza dei suoi elettori, e che eserciti un'effettiva coodecisione nei processi e nelle scelte. Questo è tanto più impellente in quanto la Comunità europea sta per allargare i propri confini, cosa che non deve accadere senza un dibattito che definisca i poteri, le competenze, i ruoli delle istituzioni, e che consenta l'adozione contemporanea d'una riforma istituzionale di tipo federale. Superare Maastricht vuole dire essere capaci di opporci a chi - senza fare nessun dibattito politico - vorrebbe un'Europa aperta solo ai mercati e incapace di assumere le contraddizioni dell'ingresso nella Comunità di paesi poveri, come la Polonia, l'Ungheria e la Cecoslovacchia che hanno più volte chiesto, senza essere accolti, di entrare a fare parte dell'Unione europea, o come i Paesi dei balcani, o le repubbliche dell'ex-URSS, che cercano la propria sicurezza in una qualche forma di integrazione europea. Non ci possiamo più permettere soltanto l'Europa dei paesi ricchi, non solo perché questo corrisponde a una politica degli egoismi nazionali, ma perché esprime una volontà proterva di continuare a non rendersi conto di quello che sta accadendo attorno a noi. L'integrazione dei popoli nel rispetto dei diritti, nella tolleranza delle diversità, l'offerta di confronto - mentre la domanda di Europa sale dai paesi scandinavi, dall'Austria, e da tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale - non solo è una necessità democratica, ma è anche ciò che ci "conviene" fare. Infatti, solo un'Europa politica forte, aperta, tollerante e democratica, può costituire un ancoraggio contro la ricomparsa dei nazionalismi, dei conflitti etnici, e contro i rischi di involuzione autoritaria. Ma come possiamo riuscire a fare tutto questo, come possiamo tentare di imporre scelte democratiche al Consiglio dei ministri - emanazione dei Governi nazionali, dove si prendono tutte le decisioni politiche, sapendo che molto spesso gli stessi parlamentari garantiscono solo il proprio paese e la propria parte politica? E' già successo che alla vigilia di decisioni importantissime per la Comunità europea, quando il vertice intergovernativo di Maastricht stava per approvare il Trattato con i contenuti che noi tutti disapprovavamo, il Parlamento abbia votato una mozione durissima, minacciando, se le cose non fossero cambiate, di non accordare il parere conforme. Ma le cose non sono andate così: benché l'empito di orgoglio e di responsabilità lasciasse ben sperare, rapidamente i Governi hanno ripreso il controllo dei singoli deputati, attraverso le pressioni dei partiti nazionali. Ora i problemi si ripresentano sotto gli occhi di tutti, e alcune scelte diventano improcrastinabili: la necessità di riprendere il dibattito sulla costituzione europea e di approvarla, dotando finalmente l'Unione e i cittadini europei di una carta fondamentale; riprendere un ruolo deciso di controparte politica nei confronti delle istituzioni europee, come il Consiglio dei ministri, richiamandolo ai limiti dettati dalle reciproche interdipendenze, e riproponendo il problema delle riforme delle istituzioni, del suo calendario e del metodo da seguire per realizzarle.Il Trattato di Maastricht va revisionato, convocando al più presto una conferenza interistituzionale che restituisca al Parlamento europeo il ruolo che gli compete, e che gli riconosca il potere di codecisione costituente. Il Parlamento europeo, con i soli poteri attribuitigli da Maastricht, dispone già di alcune frecce al proprio arco: voto sul bilancio, parere conforme, cooperazione e codecisione per alcuni settori, censura dell'operato della Commissione. La minaccia di rifiutare il parere conforme a tutti i trattati o gli accordi che prevedano un allargamento della Comunità senza l'adozione contemporanea di una riforma istituzionale di tipo federale può condizionare in maniera decisa l'operato dei Governi, e costituire una influenza determinante su come sarà l'Europa. Ma questa sarà la storia del prossimo Parlamento. Successi, sconfitte, speranze.
Il Parlamento europeo, come tutti i Parlamenti, è governato dalla Conferenza dei Capigruppo che si riunisce per prendere le decisioni politiche riguardanti i rapporti internazionali e con le altre istituzioni, la gestione del lavoro d'aula e in commissione. A differenza degli altri Parlamenti, però, quello europeo non ha una maggioranza di Governo, né, quindi, una vera opposizione. Questo rende i nostri incontri di lavoro molto particolari, perché non esiste mai una soluzione precostituita, e su ogni argomento possono determinarsi schieramenti inaspettati. Per questo, nella mia responsabilità di presidente del Gruppo verde, ogni volta ho saputo che dovevo impegnarmi fino in fondo per riuscire a rendere maggioritari punti di vista e contenuti squisitamente ecologisti, frutto dell'impegno del gruppo Verde e di ciscuno di noi. E' accaduto che, a volte, ci riuscissimo, e che l'Europa "portasse a casa" spezzoni di politica ambientale, tanto per quanto attiene a risultati operativi,tanto per quanto attiene ai fondamenti e ai valori della scelta politica. Ci siamo battuti per imporre dibattiti sulle catastrofi ambientali e sui problemi dell'inquinamento; sui problemi della sicurezza delle centrali nucleari; sulla sicurezza nei luoghi di lavoro; sulle reti transeuropee per un modello alternativo di trasporto; per la riforma della politica agricola comune, distrutta dalla "riforma" precedente, tutta finalizzata ad un modello produttivistico che ha distrutto il tessuto stesso delle campagne. Abbiamo posto un limite al delirio della scienza sulla natura: sulle biotecnologie siamo riusciti a scongiurare che si brevettassero esseri viventi; abbiamo imposto norme molto severe per gli alimenti geneticamente modificati; abbiamo ottenuto un alto grado di protezione per gli alimenti irradiati; norme unificate e non inquinanti per gli imballaggi. Siamo stati al centro di un rapporto sulle droghe, e dei problemi derivanti dalla politica proibizionista su questa materia. Grazie a noi, la commissione di inchiesta istituita a questo scopo, ha dovuto convenire sul fallimento del modello proibizionista. Abbiamo descritto i contenuti di un nuovo modello di difesa non esclusivamente militare, in grado di fronteggiare i nuovi pericoli per il nostro pianeta, intervenendo sulle catastrofi ecologiche che incombono o si sono già verificate. Abbiamo lottato, fino all'ultimo momento utile, per trovare soluzioni diverse da quelle militari, sia per la guerra nel Golfo che per la tragedia della ex-Jugoslavia. Abbiamo inciso sulla definizione dei rapporti della Comunità con i paesi del Mediterraneo, contribuendo a bloccare protocolli economici con paesi, come la Siria e il Marocco, che non rispettavano i diritti umani. Abbiamo imposto, ogni volta che ci è stata data l'opportunità di farlo, la condizione del rispetto dei diritti umani a premessa delle relazioni economiche con la Comunità. Siamo riusciti a portare in aula centinaia di risoluzioni sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, attivando lo spauracchio delle sanzioni o la prospettiva dei crediti e degli aiuti. Abbiamo contribuito a portare a termine la transizione democratica di paesi dell'Est come la Romania, e di paesi africani come il Madagascar; abbiamo sventato - con la complicità attiva di Carlo Ripa di Meana, allora Commissario della Cee - l'Esposizione universale di Venezia, una tangentopoli ecologica che il ministro De Michelis avrebbe voluto produrre.