I mezzi e i fini
Può uno Stato che debba difendersi dalla violenza del singolo cittadino ricorrere allo strumento della pena di morte? E' giusto che il mezzo usato lo renda uguale a chi vuole combattere?
A questa domanda il Parlamento europeo ha già dato una risposta con la risoluzione Aglietta: nessuno Stato può disporre della vita di una persona, neanche come conseguenza di reati gravissimi
Fin da quando ero una ragazza ho sempre pensato che non avrei voluto fare due cose: l'insegnante e il giudice. Come dire che non mi sono mai sentita addosso la misura necessaria per propormi agli altri, perfino alle mie figlie, come un modello da imitare. Ma soprattutto, non ho mai pensato che avrei voluto assumermi la terribile responsabilità di giudicare gli altri, decidendo della loro libertà. Invece, come ognuno di noi sa, le cose che temiamo sono senz'altro quelle che ci metteranno alla prova. Così, nella mia vita politica - iniziata a Torino nel 1974, a trentaquattro anni, sul richiamo irresistibile dei diritti civili - il divorzio, l'aborto, l'obiezione di coscienza - mi è successo di dovere assumere in prima persona i ruoli che avevo più temuto. Erano i cosiddetti anni di "piombo"; di lì a pochi mesi le Brigate rosse avrebbero "processato" e ammazzato Aldo Moro, mettendo fine, con questo misfatto, alla loro parabola ascendente. In Italia si respirava un clima di paura e di inquietudine, accompagnato spesso a una tensione individuale, come se da noi, dalle nostre singole vite, dipendessero i destini e la storia dell'Italia. Si trattava solo di decidere come, con quali strumenti e a quale prezzo personale. Lo scontro fra violenti e nonviolenti era quotidiano e intenso. I terroristi proponevano il loro modello di rivoluzione: la lunga notte della clandestinità, degli attentati, dei comunicati abbandonati nelle cabine telefoniche e poi rivendicati. I nonviolenti proponevano la disobbedienza civile, le autodenunce degli aborti praticati; le manifestazioni annunciate; i referendum contro le leggi liberticide; il dialogo intransigente con le forze dell'ordine. Le quali spesso ci reprimevano duramente, per l'incomprensione profonda verso i nostri metodi. In questo clima rovente, io, che ero segretario politico del Partito radicale, fui sorteggiata come giudice popolare al processo istruito nella mia città, a Torino, contro le Brigate rosse. Erano al banco degli imputati: Curcio, Franceschini, Ferrari, Ognibene, Bonavita, Bertolazzi... Non so dire da dove nasca il coraggio: forse semplicemente dalla paura che diventa necessità. Avevo paura in quei giorni nei quali, ogni mattina, mi recavo al processo e attraversavo le strade da sola? Non lo so più. Di sicuro avevo molta più paura per le persone che mi erano care che per la mia stessa vita: non avrei sopportato un lutto che derivasse dalle mie scelte. Rifiutai la scorta. Se le Brigate rosse avessero deciso di colpire, non avrei messo in pericolo anche la vita dei poliziotti. L'anno prima, per settantatré giorni, avevamo digiunato per ottenere la riforma del corpo degli agenti di custodia, massacrati fra la legislazione di emergenza e lo scoppio delle carceri. Alla fine, eravamo riusciti ad impegnare Andreotti, allora presidente del Consiglio, a una riforma effettiva. Il resto è storia che si conosce: i brigatisti ebbero il loro processo che si concluse con pesanti condanne. Si trattò tuttavia di un vero processo: qualcosa di molto diverso da quelli che si fecero in seguito con le leggi Cossiga, la carcerazione preventiva e il teorema Calogero. A Torino valsero ancora le prove a carico piuttosto che le "colpevolezze oggettive". Molti anni dopo, nel corso delle visite ispettive che periodicamente facevo nelle carceri di tutta Italia, ho incontrato i miei "condannati": Alberto Franceschini, Roberto Ognibene e gli altri, anche loro in sciopero della fame. Ho sentito che fra di noi non c'era rancore, ma invece una specie di conoscenza profonda, che divenne negli anni amicizia, e, per alcuni, una comune militanza radicale. Forse violenti e i nonviolenti, nel deserto morale dell'indifferenza, sono destinati a ritrovarsi.
Dall'Europa: non uccidere!
Dopo pochi mesi dalla mia elezione, mi recai a Parigi dove si teneva la prima riunione della Commissione politica del Parlamento europeo, a cui partecipavano Jacques Delors e il presidente del Consiglio europeo. Quando venne il mio turno di parola, quasi di istinto, facendo una sintesi delle cose in cui credo di più, proposi che il Parlamento europeo definisse un suo impegno per l'abolizione della pena di morte, e che si schierasse sulla situazione del Tibet convocando subito un'audizione pubblica. La proposta fu accolta, e il 25 e il 26 aprile 1990 il Dalai Lama venne ufficialmente ascoltato dal Parlamento europeo. In seguito sono stata nominata relatrice sulla pena di morte: il tema che riassume, amplificandoli, i contenuti politici e di diritto che mi hanno sempre appassionata. I relatori del Parlamento hanno il compito di istruire il dibattito sul tema che gli viene affidato, e di preparare un testo di risoluzione da sottoporre all'assise parlamentare. Hanno lavorato con me alla stesura della risoluzione Antonio Marchesi di Amnesty international e Olivia Ratti. I punti di riferimento abolizionisti da cui partiamo sono, per cominciare, quelli già esistenti: - Il secondo Protocollo opzionale al patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni unite, entrato in vigore nel 1991, ma firmato solo da 20 paesi e ratificato da 17. Esso recita: Nessuno che sia sottoposto alla giurisdizione di uno Stato parte al presente protocollo sarà giustiziato. Ogni Stato adotterà le misure necessarie all'abolizione della pena di morte nell'ambito della propria giurisdizione. L'articolo 1 del Sesto protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1983, dove si legge: La pena di morte deve essere abolita. Nessuno deve essere condannato a tale pena o giustiziato. Entrato in vigore nel 1985, è stato firmato da 20 paesi e ratificato da 18, il Sesto protocollo è il primo trattato internazionale giuridicamente vincolante - anche se in un ambito geografico delimitato - a prevedere l'abolizione della pena di morte anche in tempo di pace. La pena di morte evoca i contenuti su cui ho sempre riflettuto nel mio impegno politico: il rapporto fra Stato e cittadino; la definizione del ruolo dell'istituzione, e i limiti del suo potere legittimo. Lo stesso problema lo affrontammo in Italia fra il 1975 e il 1979, quando discutemmo della depenalizzazione dell'aborto: anche in quel caso si trattava di definire il territorio di non ingerenza dello Stato. Quel settore dell'esistenza su cui l'istituzione, il potere, lo Stato in quanto tale, non possono arrogarsi diritti prevalenti sulla vita e sulla coscienza del singolo cittadino. Naturalmente, qualcuno potrebbe chiedere che senso abbia occuparsi della pena di morte in Italia o in Europa, dove questa in pratica non c'è più. La risposta è semplice: la cultura abolizionista dell'Europa può essere il tramite di una grossa campagna internazionale contro la pena capitale. Per fare questo è necessario che scompaia innanzi tutto dagli ordinamenti dei paesi della Comunità, laddove è ancora formalmente prevista. Più precisamente, la situazione è la seguente: essa è prevista dal codice penale o dalla Costituzione per reati "ordinari" in Belgio e in Grecia, sebbene da oltre vent'anni non se ne esegua alcuna; è prevista solo nei codici militari, o per reati "eccezionali" in Italia, Spagna e Inghilterra, dove è mantenuta anche per il reato di alto tradimento. Per quanto riguarda i paesi del Consiglio d'Europa, la Svizzera rappresenta una novità positiva, avendo abolito la pena di morte per tutti i reati. Nel resto dell'Europa, tempi duri in Bulgaria, dove una parte del Parlamento sarebbe favorevole alla proposta di abrogare la moratoria sulle esecuzioni del 1990. Recentemente, il testo di ripristino della pena capitale è stato battuto di strettissima misura. Nelle tre Repubbliche baltiche (fanno parte del Consiglio d'Europa solo Estonia e Lituania) nessuna novità legislativa, nonostante la campagna di Amnesty International e le sollecitazioni del Parlamento europeo. In Albania sono riprese le esecuzioni capitali. In Moldavia, benché la pena di morte fosse stata abolita nel 1992 per reati economici e di spionaggio, è stata proposta nella nuova Costituzione. Molto probabilmente, verrà seguito l'esempio della Russia: limitazione della pena di morte ai soli reati di sangue.
Pena di morte o democrazia?
Un capitolo a parte è costituito dalla situazione degli Stati uniti d'America. Dopo una lunga sospensione delle esecuzioni durata fino al '77, gli Stati uniti hanno riattivato l'esecutività delle condanne a morte: nel volgere di pochi mesi un numero rilevante di detenuti è stato ucciso. Sta accadendo sostanzialmente per due ragioni. La prima: sono giunti a termine i ricorsi e le fasi processuali per oltre un migliaio di detenuti nei braccetti della morte; la seconda: l'attuale Corte suprema è composta per la maggioranza da conservatori (sette su nove sono favorevoli alla pena di morte) indisponibili a concedere altri rinvii. La pena capitale era stata sospesa perché le Corti supreme precedenti l'avevano giudicata una pratica inusuale e crudele, che non garantiva una morte sopportabile. Per molti anni, alcuni folli hanno continuato a perfezionare sedie elettriche, camere a gas e iniezioni letali, per rendere simili strumenti sempre più efficaci e "meno crudeli". Dei sei ultimi candidati democratici alla presidenza degli Stati uniti, soltanto due erano contro la pena di morte: l'ex governatore della California Brown e il senatore Arkin. Clinton stesso ha interrotto la sua campagna elettorale per respingere una richiesta di grazia, a lui presentata come governatore dell'Arkansas. Inoltre, l'opinione pubblica americana, a causa della violenza che ha raggiunto una soglia altissima, è sempre più favorevole alla pena di morte, e i politici - con rarissime eccezioni - non osano mettersi contro di essa. Naturalmente, la violenza esplode dove il livello di vita è inferiore: nel ghetto, tra gli immigrati, fra gli ispano americani, fra i negri. Si calcola che un nero abbia cinque probabilità più di un bianco di essere "giustiziato". Ma non basta. Gli Stati uniti, quando solo recentemente hanno firmato il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni unite hanno posto le riserve sulla pena di morte nei confronti dei minori, degli handicappati e delle donne in stato di gravidanza, "riservandosi", appunto, la facoltà di eseguire la sentenza anche su loro.
La vita è indisponibile allo stato
Quando ho cominciato a raccogliere il materiale di riflessione necessario a formulare una proposta di risoluzione per il Parlamento europeo, mi è sembrato che il primo argomento fosse che nessuno Stato, a maggiore ragione se democratico, può disporre della vita delle persone, neanche come conseguenza di reati gravissimi, e con sentenze formulate in un processo legittimo. La nostra ambizione è stata quella di indicare una concezione dello Stato, del diritto e dei diritti, che si ponesse come riferimento per la comunità internazionale, e come diga contro una pratica oscena che non è un retaggio del nostro passato ma, come sostiene il sociologo Luigi Manconi, all'orizzonte del nostro futuro. Per questa ragione, il secondo punto della risoluzione, afferma il dovere legittimo, che si configura come tale, di intervenire per impedire che la pena di morte venga praticata. La risoluzione chiede inoltre una moratoria generalizzata delle esecuzioni, e che la Comunità imposti la propria politica estera e di cooperazione economica ponendo come condizione fondamentale, il pieno rispetto dei diritti umani, e in particolare l'abolizione della pena di morte. Benché l'autorità del Parlamento europeo sia solo morale e le indicazioni contenute nella risoluzione non siano operative e non vincolino neppure i paesi della comunità, è indubitabile che il grande confronto democratico e giuridico si gioca innanzi tutto sui limiti del potere dello Stato, ed in secondo luogo sulla funzione riabilitativa o retributiva della pena. Nella recente sentenza della Corte suprema degli Stati uniti sul caso Leonel Torres Herrera, la cui esecuzione non è stata sospesa benché si fossero acquisite le prove della sua innocenza, si legge: "Una rivendicazione di innocenza effettiva non è di per sé un diritto costituzionale". Con queste parole, la Corte, risponde definitivamente a chi dovesse obiettare: e se state uccidendo un innocente? Per il sistema americano, quello che conta è che il processo sia stato legittimo; che non ci siano vizì formali; che la sentenza sia stata espressa a seguito di un processo giusto. La grande e formale democrazia americana, purché abbia compiuto perfettamente i suoi riti giuridici, può, e vuole, assumersi il rischio di mandare a morte un innocente. Allo stesso modo, essi dicono, in cui si manda libero per sempre un colpevole che sia risultato processualmente innocente. Questo principio, che si fonda sul rispetto delle regole e accetta la parzialità della verità processuale, paradossalmente diventa integralismo giuridico allorché ricorre a una soluzione totale come la pena di morte. E' questo assurdo che ha fatto scrivere all'editorialista Furio Colombo un bellissimo articolo nel quale scrive fra l'altro: "Il processo che la cultura Usa chiama del Trial and error (sbagliare e riprovare) è il solo percorso che consente la civiltà. Quando viene abolito in favore di soluzioni assolute, esplodono fascismi e stalinismi. Sappiamo dalla psichiatria che la certezza assoluta è patologica. L'assassino la possiede. Non può possederla il suo giudice, per ragioni tecniche prima ancora che per differenze morali".
Nessuno tocchi Caino Una campagna entro l'anno 2000
La risoluzione da me proposta, è stata approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo 1992. In tal modo il principio di indisponibilità per lo Stato della vita della persona è diventata la posizione della Comunità europea. Ad essa si contrappone la posizione della Corte suprema americana che rivendica allo Stato il diritto di pronunciare (purché a seguito di un processo regolare) ed eseguire una sentenza di morte, anche se il condannato sia stato successivamente riconosciuto innocente. E' evidente che, per noi, dopo la sentenza della Corte suprema americana, il problema non è più quello di sottrarre qualcuno alla pena di morte perché potrebbe essere innocente, ma di affermare l'indisponibilità della vita del più colpevole degli imputati: quello sul quale non esistano dubbi di innocenza, ma solo la certezza della colpa. Caino, appunto, l'assassino del fratello. Forti dell'approvazione della risoluzione e di un esteso sostegno alla decisione di creare un coordinamento internazionale che ne promuova ovunque l'impostazione e le finalità, abbiamo organizzato al Parlamento europeo il Congresso di fondazione dell'Associazione: Nessuno tocchi Caino, campagna di cittadini e di parlamentari per l'abolizione della pena di morte nel mondo entro il 2000, che promuove una campagna di informazione, di mobilitazione e di pressione presso i parlamenti di tutto il mondo. L'associazione ha tenuto il suo primo Congresso il nove e dieci dicembre, ospiti del Parlamento europeo e del Gruppo verde; hanno preso parte ai lavori quasi centocinquanta rappresentanti di organizzazioni e parlamenti provenienti da tutto il mondo. Nei due giorni di riflessione, si sono identificate le priorità della nostra campagna abolizionista per i prossimi anni. Il documento finale del Congresso, esprime il proprio sostegno alla costituzione del Tribunale delle Nazioni unite sui crimini di guerra nella ex-Iugoslavia. Il primo tribunale penale internazionale che non processa imputati in contumacia, e non condanna alla pena di morte neanche il più efferato degli assassini. Neanche i cosiddetti boia di Sarajevo. Il Parlamento europeo ha sostenuto decisamente la costituzione del Tribunale, e ha fatto giungere la sua posizione anche alla Conferenza mondiale sui diritti umani, che si è tenuta a Vienna dal 10 al 24 giugno 1993. Benché sapessi che non bisognava aspettarsi molto da un'assise che aveva accettato il veto posto dalla Cina sul diritto di parola al Dalai Lama, mi sono comunque recata a Vienna nel corso dei lavori delle Organizzazioni non governative. Avevamo un appuntamento con il segretario generale della Conferenza, Ibrahima Fall, per consegnargli 60.000 firme in appoggio alla costituzione del Tribunale internazionale e per l'abolizione della pena di morte. Insieme ad esse, giungeva una risoluzione del Parlamento europeo, ispirata ancora una volta da noi, che chiedeva una moratoria generalizzata. La risoluzione chiedeva anche che il documento finale della Conferenza considerasse l'abolizione della pena di morte come uno dei punti fondamentali della politica dei diritti umani e dell'evoluzione del diritto internazionale.
Salman Rhusdie: la mia causa È quella dell'Europa
Nel mio discorso di apertura ai lavori del Congresso di fondazione di Nessuno tocchi Caino, sono stata particolarmente fiera di rendere conto di una iniziativa presa dal mio Gruppo e dal Gruppo socialista. Insieme abbiamo invitato al Parlamento europeo Salman Rhusdie, l'unico cittadino europeo sulla cui testa gravi una pesante condanna a morte, decretata e annunciata al di fuori di qualsiasi norma di diritto internazionale. Condannato a morte dal governo iraniano per avere pubblicato il famosissimo libro Versetti satanici, egli conduce una vita da prigioniero, mentre la sua sentenza a morte - la Fatwa che tutti i credenti islamici sono invitati a eseguire - è stata ripetutamente confermata nell'arco di cinque anni. A ciò, al rischio costante, assurdo, fanatico, di essere ucciso per mano di uno delle migliaia di islamici che gli danno la caccia, si è aggiunta, fra le tante difficoltà (vivere scortato, nella clandestinità) anche quella derivante da una incredibile decisione di alcune compagnie aeree britanniche e americane. Esse non consentono a Salman Rhusdie di avvalersi dei loro voli neppure per partecipare a riunioni internazionali dove parlare del suo caso. Grazie al nostro impegno, alla reiterate occasioni di dibattito, alla problematica complessa che egli evoca con la sua esistenza (il conflitto fra una società tollerante e la barbarie fondamentalista, ma anche il diritto di un cittadino europeo a circolare liberamente, e il dovere delle istituzioni di garantire che questo accada) siamo riusciti a organizzare un incontro con il Parlamento europeo e una conferenza stampa. "Spero che si potrà trovare una soluzione politica, per questo sono qui. La mia causa è anche quella dell'Europa", ha detto Rhusdie. E infatti, che Europa sarà mai la nostra se l'Iran obbliga un semplice cittadino a vivere nella clandestinità, se continua a esprimere una vera e propria sfida verso le istituzioni europee? Il traduttore del suo libro è stato aggredito in Giappone; il suo editore è stato ucciso in Norvegia; mentre si svolgeva la conferenza con il Parlamento europeo, il governo iraniano, per bocca di Ali Khamenei, ha accusato i paesi occidentali di "servirsi" dello scrittore britannico "per offendere l'Islam, i musulmani e il profeta". Che Europa sarà la nostra se i rapporti politici e economici con gli Stati non saranno subordinati al rispetto dei diritti umani, al valore della tolleranza, della libertà, della libera circolazione delle idee e degli uomini? Come ci impegnamo a fare rispettare Maastricht e il concetto di cittadinanza europea, affinché le decisioni non rimangano parole prive di conseguenza? "Sono ovviamente d'accordo, sono sempre stato abolizionista - ha detto Rhushdie - e oggi ho ancora più ragioni personali per esserlo. Sono sicuramente a favore dell'abolizione della pena di morte nel mondo. Possibilmente prima del 2000".