Tibet: storia di un genocidio
Mi sono recata in Cina per la prima volta nel 1991, allorché il Parlamento europeo ha ripreso le relazioni con la RPC. Facevo parte della delegazione ufficiale nella mia qualità di presidente del gruppo verde e di membro dell'intergruppo sul Tibet, e avevamo il compito esplicito di recarci in quella regione e di approfondire il problema delle violazioni dei diritti umani. Benché sia molto difficile che notizie dettagliate passino le frontiere del Tibet, l'azione delle associazioni di tibetani in esilio riesce a dare informazioni continue e dettagliate sulla situazione tibetana, ed in particolare sui singoli casi di persecuzione. Come, ad esempio, quando il giornale Tibetan Youth Congress di Dharamsala, insieme all'Ufficio tibetano di Zurigo, diffusero la notizia - confermata da Amnesty International - che stava per essere giustiziato lo studente ventiduenne Lobsng Tenzing, condannato nel marzo 1988 con l'accusa di avere ucciso un poliziotto cinese. La prassi cinese prevede una carcerazione di due anni prima dell'esecuzione; questa normalmente viene eseguita pubblicamente per intimidire la popolazione. Nella Repubblica popolare cinese, ci sono cinquantasei nazionalità ridotte a un numero esiguo, e per tanto insignificanti rispetto all'integrazione; inoltre, benché le minoranze etniche abitino il 55% di tutto il territorio, esse costituiscono solo il 10% della popolazione. Il Tibet, invece, insieme alla Mongolia e al Turkestan orientale, costituisce per la RPC un problema di integrazione irrisolto, tanto per la densità della popolazione, quanto per le legittime rivendicazioni di indipendenza. In effetti, nonostante i cinesi ribadiscano in ogni occasione che il Tibet è stato "liberato pacificamente nel 1951", la realtà storica è che il Tibet era una nazione indipendente che è stata brutalmente occupata militarmente dalla Cina, cosa che nel corso della visita non perdevo occasione di puntualizzare. Occupato militarmente nel 1951, e restituito ad autonomie del tutto insignificanti e marginali dal 1965 in poi, il Tibet è stato sottoposto ad una lenta e massiccia sinizzazione, che ha ridotto a ruolo di minoranza sei milioni di persone, soverchiati da sette milioni e mezzo di cinesi immigrati e che occupano il 70% dei posti amministrativi. Inoltre, il territorio tibetano, sottoposto a una selvaggia deforestazione, è stato utilizzato come discarica di residui tossici e di scorie radioattive, oltre che come base per le armi nucleari cinesi. Questo risultato è stato ottenuto, con l'occupazione fisica e progressiva del tetto del mondo, ma soprattutto con violenze incredibili contro la popolazione tibetana. Migliaia di arresti senza nessuna garanzia processuale, sterilizzazioni di massa; applicazioni di leggi marziali e esecuzioni capitali; distruzione dei templi e dei monasteri; sistematica repressione dell'insegnamento buddista e della trasmissione della cultura tibetana. Un vero e proprio genocidio. Insieme ad Alex Langer, preparo una risoluzione che il Parlamento dovrà rapidamente trasmettere al governo cinese. In essa si ribadisce che tutti i futuri accordi economici e commerciali con la RPC, dovranno essere subordinati al rispetto dei diritti umani in Cina e nel Tibet; che le autorità cinesi intanto concedano al Tibet un reale statuto di autonomia e che pongano fine alle immigrazioni di popolazione cinese; che siano rilasciati tutti i tibetani incarcerati per motivazioni politiche; che siano ritirate le armi nucleari e messo fine ai disboscamenti selvaggi; che si aprano le trattative con il Dalai Lama. Benché la nostra risoluzione abbia dato l'avvio al documento definitivo sul Tibet (relatore l'on. Sakellarion), non riesco a non pensare che si tratta di una lotta impari. Incontrandoli, mi accorgo sempre di più che i cinesi - ambasciatori, diplomatici e inviati della RPC - hanno una peculiarietà comune: sono ineffabili. Qualunque critica dettagliata o richiesta di chiarimenti non gradita, sono pronti a fare finta di non avere ascoltato e a ricominciare a parlare da dove avevano smesso, trattandoci come deficienti o come individui da indottrinare. A me personalmente fanno spesso saltare i nervi.
Se Vienna dice no al Dalai Lama
Di questa ineffabilità devono avere appreso qualcosa anche i responsabili della seconda Conferenza mondiale sui diritti umani, che si è tenuta a Vienna nel giugno 1993. In quella occasione, i cinesi sono riusciti a ottenere che il Dalai Lama, premio Nobel per la pace e capo spirituale del Tibet, non partecipasse ai lavori e non prendesse la parola nella Conferenza delle Organizzazioni non governative. Uno scandalo che è rimbalzato ovunque e che forse, una volta tanto, è servito alla causa tibetana molto più di quello che avrebbero potuto la presenza o la denuncia dello stesso Dalai Lama. Naturalmente, una tale ingiustificata esclusione si è potuta determinare non solo per responsabilità della Cina - la quale continua a considerare il Tibet null'altro che una provincia del proprio impero, completamente rappresentata dal governo centrale cinese - ma anche per responsabilità dei nostri governi che non hanno voluto opporsi alla richiesta della RPC. I nostri governi che, invece, dimenticano le continue violazioni dei diritti umani in Cina, al momento di stabilire con essa relazioni economiche vantaggiose e intense. L'interdizione di parola al Dalai Lama, il quale ha spiegato chiaramente di propugnare il rispetto dei diritti umani e l'autonomia culturale del Tibet, non pregiudizialmente la sua indipendenza (la parola d'ordine è infatti divenuta non più Free Tibet, ma Save Tibet), ha dato la misura esatta di quanto anche i diritti fondamentali unanimemente riconosciuti nella Dichiarazione universale trovino difficoltà a divenire una misura comune e comunemente applicata negli organismi internazionali. La drammatica situazione del Tibet rappresenta interamente tutta la potenzialità distruttiva del mancato processo di democratizzazione delle istituzioni cinesi. Ci separano da esse storia, cultura, religione, filosofia: l'unico punto di mediazione, se non di contatto, può essere la nonviolenza di cui sono portatori il buddismo e la grande tradizione tibetana. Se malauguratamente dovessero soccombere, rimarrebbe solo il capitalismo alla cinese: e cioè, il consumismo europeo senza il rispetto dei diritti civili e umani nei quali l'Occidente è cresciuto per secoli. Riuscite a immaginare una simile catastrofe?
Secondo viaggio in Cina
Torno sempre con molta apprensione in Cina; cerco risposte a domande formulate altre volte, in altri documenti ufficiali. I cinesi sono così: rispondono molti anni dopo A Vienna, la Cina ha ribadito la sua concezione dei diritti umani; la loro irrilevanza rispetto ai diritti cosiddetti sociali: al diritto di mangiare, di vestirsi, di sopravvivere. Al diritto insindacabile del potere costituito di difendersi dagli oppositori con soluzioni semplificatorie quali la pena di morte. E se qualcuno dovesse sostenere che tutto questo non è democratico, riceverebbe per risposta che in Cina i processi si svolgono pubblicamente e che le esecuzioni avvengono negli stadi. E questa non è forse democrazia? Proprio durante lo svolgimento della Conferenza sui diritti umani, ci giungono notizie di numerosi arresti in Tibet, che fanno seguito a manifestazioni di protesta contro il governo cinese che ha impedito l'incontro fra la delegazione degli ambasciatori della comunità e i dissidenti politici tibetani. La delegazione europea, partita il 16 maggio 93, al suo ritorno aveva rilasciato una dichiarazione molto preoccupata tanto per il rifiuto di ingresso al Tibet agli osservatori stranieri o ai giornalisti, quanto per il rifiuto del Governo alla presenza di osservatori durante i processi. A questo proposito, ci sono alcune cose che vanno dette: i processi in Cina - dicono le leggi - sono pubblici. Ma se qualcuno viene arrestato, la famiglia non sa più nulla di lui per giorni e giorni; egli stesso conosce le accuse a suo carico in un tempo, a discrezione dei suoi accusatori, che per lo più è insufficiente a garantire l'organizzazione della difesa; e nel caso di processi politici di fatto nessuno può assistere ai processi. Nella maggioranza dei casi, la pubblicità è, per così dire, assicurata dal resoconto di un funzionario. L'ordinamento giuridico non prevede la presunzione di innocenza bensì quella di colpevolezza: l'accusato deve dimostrare la propria estraneità ai fatti di cui è incriminato, e l'avvocato, fornito dallo Stato, deve sottoporre la propria linea di difesa al potere politico. Egli non può richiedere la "non colpevolezza" per il suo assistito, benché essa sia prevista dall'articolo 28 del codice di procedura penale. Nel nostro secondo viaggio, abbiamo ricevuto risposte a domande formulate nella prima visita: è la loro prassi. Anche questa volta, mi sono preparata una serie di domande che riguardano soprattutto la riforma del sistema giudiziario e lo svincolo definitivo del processo penale dal potere politico; il ruolo dell'avvocato e le garanzie dell'imputato. Si sta riflettendo a queste cose, quali ipotesi sono allo studio? la risposta è scontata: le nostre informazioni sono errate, frutto di propaganda anticinese, I problemi che noi proponiamo non esistono. Eppure io so che a livello universitario e di giuristi questa riflessione è in atto: chissà, forse se la nostra delegazione riuscisse a sfuggire alla prassi di incontrare solo "politici", riusciremmo a capire cosa si sta muovendo. Perché certamente qualcosa si sta muovendo. Ovviamente questo non è possibile, non solo per limiti organizzativi del Parlamento europeo, ma per i limiti impostici dai nostri ospiti. Questa volta i nostri interlocutori sono veramente seccati per l'ultima risoluzione del Parlamento votata alla vigilia della partenza, nella quale si affermava che solo uno dei prigionieri che avevamo segnalato due anni fa (senza avere mai ricevuto una risposta) era stato liberato. Ne sono stati liberati molti di più, e questo è il segno del pregiudizio del Parlamento e di alcuni di noi verso di loro. Questo problema incomberà su tutto il viaggio della delegazione, condizionando la qualità del dialogo e la disponibilità degli interlocutori. In realtà, di quei venti prigionieri, solo quattro hanno ripreso una vita normale: alcuni di loro sono stati mandati nei Laoagai; altri non sono stati più messi nelle condizioni di lavorare, prima o poi finiranno di nuovo in galera. Il nostro viaggio prevede quattro tappe: Pechino, Shangai, Hong Kong e Macao. A Shangai incontriamo il vicesindaco della città: è una donna e si occupa soprattutto di politica sanitaria. A lei consegno un appunto ricevuto dalle mani del console francese in Cina; si tratta di un detenuto in condizioni di salute drammatiche e io le chiedo di fare tutto il possibile per aiutarlo. Mi risponde che se ne occuperà; a lei vorrei rivolgere qualche domanda sulla politica demografica e sulle donne. In Cina, ogni sei mesi c'è l'obbligo della visita ginecologica e l'aborto, nel caso si sia superato il numero di figli consentito dallo Stato: è così anche per la provincia o solo nelle grandi città? Come si può capire, in Cina c'è la stessa situazione della Romania rovesciata: le due facce del totalitarismo. Nel 1997 e nel 1999 sono previsti il rientro nella sovranità cinese rispettivamente di Hong Kong e di Macao. L'obiettivo perseguito dalla Repubblica popolare cinese è di realizzare la "riunificazione pacifica della patria", in base al principio "uno Stato, due sistemi". Per entrambe le regioni, la Cina si è impegnata a non intervenire nei loro sistemi politici e amministrativi per un periodo di cinquant'anni. Chiediamo che cosa dà loro la garanzia che la promessa verrà mantenuta, e riceviamo risposte diverse. A Macao sono tranquilli: dicono che comunque non ci sono alternative alla riunificazione; a Hong Kong, invece, sono molto preoccupati e l'associazione per i diritti umani che abbiamo occasione di incontrare, è decisamente angosciata. La ragione c'è ed è molto importante: Hong Kong ha sostenuto e finanziato economicamente la rivolta di Tien an Men. Come dare loro torto?
Non è difficile capire che essere relatrice per i rapporti fra la Comunità europea e la Cina non è stato un compito semplicissimo, e non solo nei confronti dell'attività dell'ambasciata cinese. Infatti, mentre questa cerca di assicurarsi buoni rapporti con la Comunità, bloccando qualsiasi risoluzione critichi la politica della RPC, alcuni deputati la sostengono con i loro comportamenti. Essi fanno parte di partiti al governo particolarmente impegnati nelle relazioni economico-commerciali con la Cina, e si preoccupano che il Parlamento sia ostile ad approfondire i rapporti con la Cina prescindendo dal rispetto dei diritti umani e dall'evoluzione democratica del paese. Questa posizione è stata acquisita dal Parlamento come principio guida, anche se con un certo tasso di elasticità, dei suoi rapporti con gli Stati terzi ed è stata ribadita più volte nei confronti della RPC. La risoluzione approvata in Commissione esteri il 4 gennaio 1994, e prevista in plenaria per febbraio, rappresenta un'estrema resistenza rispetto al cedimento dei nostri paesi di fronte alla crescita vertiginosa della potenza economica della Cina e all'aprirsi di un mercato potenziale di un miliardo e duecento milioni di consumatori. In essa, pur non ponendo veti, per altro risibili e controproducenti, si pongono le premesse perché vi possa essere una legittima pressione sul fronte dei diritti umani e dell'evoluzione democratica. Vi si afferma, infatti, che senza progressi significativi in questo campo il Parlamento non potrà essere a favore di eventuali e più impegnativi accordi. Contemporaneamente, si incoraggia il livello di rapporti esistenti, che sono essenzialmente progetti di formazione di classe dirigente; progetti di aiuto allo sviluppo in alcuni settori; o progetti a favore delle zone abitate da minoranze.
IL PARLAMENTO EUROPEO ALLA CINA -Considerando che le relazioni tra la repubblica popolare di Cina e l'Unione, sospese in seguito ai tragici fatti del giugno 1989, sono in una fase di "ripresa graduale", e che, a causa del permanere di violazioni dei diritti dell'uomo, sono ancora sottoposte a due sanzioni: la sospensione delle visite dei capi di Stato e il divieto di commercio di materia militare; -Considerata la posizione della Cina nei confronti della questione tibetana, e rammaricato che tutti gli sforzi, attivati dall'Assemblea generale dell'Onu e dalla Corte di giustizia, per trovare una soluzione al problema non abbiano avuto esito positivo; considerando che, con l'entrata in vigore del Trattato sull'Unione europea, il ruolo del Parlamento in materia di politica estera si è accresciuto; -Prende atto dei mutamenti del sistema economico in atto nella RPC, ma giudica indispensabile realizzare una riforma politica che garantisca i principi democratici e, in particolare, il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. -Ricorda alla RPC il carattere universale della nozione dei diritti fondamentali, così come è espressa nella Dichiarazione dei diritti dell'Uomo di cui essa è firmataria, e che ha confermato in occasione della firma della Dichiarazione emessa dalla conferenza internazionale sui diritti umani; -Ribadisce la sua condanna della pena di morte e della tortura, ovunque siano praticate; -Auspica che il sistema giudiziario cinese possa divenire realmente indipendente dal potere politico e capace di garantire ai cittadini il diritto alla difesa e a processi equi; -Esprime la sua condanna e la sua preoccupazione rispetto alla situazione delle minoranze: conferma in particolare il dispositivo della propria risoluzione sulla situazione del Tibet, e stigmatizza ancora una volta senza riserve le violazioni dei diritti dell'Uomo perpetrati in Tibet dalle autorità cinesi; denuncia la distruzione dell'ambiente e lo sfruttamento delle risorse naturali tibetane; -Auspica che la prevista riunificazione con Hong Kong e Macao, nell'ambito del principio "Uno Stato, due sistemi" avvengano con il massimo di garanzie democratiche; -Si augura che le condanne a morte relative alle notizie secondo cui, nell'ambito di una vasta campagna anticrimine, sarebbero state condannate a morte e ai lavori forzati centinaia di persone, non siano eseguite; -Si rammarica che, per perseguire vantaggi commerciali, i Capi di governo degli Stati membri si siano recati in visita in Cina, prima che si registrassero significativi miglioramenti nel rispetto dei diritti umani; -Ritiene che i rapporti fra l'Unione europea e la Cina debbano tendere a sostenere i processi di democratizzazione e lo sviluppo equilibrato della società su un piano quanto più esteso possibile; -Rammenta la propria insistenza sulla necessità di inserire una clausola di rispetto dei diritti umani negli accordi commerciali con i paesi terzi; ritiene inoltre necessario che qualsiasi rapporto di cooperazione a livello di commissione mista, di Parlamento europeo, di Stati membri, non sia disgiunto da una valutazione puntuale sull'evoluzione democratica e la situazione dei diritti umani nell'ambito della RPC; si impegna a non dare parere favorevole ad eventuali nuovi accordi di cooperazione se non in presenza di cambiamenti significativi; -Ritiene, in conclusione, che un ulteriore approfondimento dei rapporti fra la RPC e l'Unione europea debba essere accompagnata da: a) la ratifica, da parte della RPC del patto delle Nazioni unite sui diritti economici, sociali e culturali, del Patto internazionale delle Nazioni unite sui diritti civili e politici e l'effettiva applicazione della Convenzione delle Nazioni unite del 1987, sul divieto dei trattamenti crudeli, inumani e degradanti. b) il superamento del sistema dei Laogai, o campo di lavoro forzato, e la liberazione dei prigionieri politici; c) il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali del popolo tibetano e l'avvio di negoziati con il Dalai lama o il governo tibetano in esilio; d) accordi che garantiscano il rispetto dei diritti dell'uomo, delle popolazioni di Hong Kong e Macao, dopo il ritorno di questi territori alla sovranità cinese. Questa risoluzione, al momento in cui scriviamo, è stata approvata solo in commissione. |