Trascriscrizione degli atti dell'incontro commemorativo su Antonio
Russo:
"Quando di libertà d'informazione
si muore.
Giornalismo come vocazione per la dignità professionale"
(Roma, 31 gennaio 2001)
a cura di Stefania Pavone, Giorgio Cusino e Antonio Borrelli
Voce. La Giuria ha assegnato il Premio Andrea Barbato per il Giornalismo
al dottor Antonio Russo, inviato dal Kosovo per Radio Radicale con le
seguenti motivazioni: "quale esempio di una professionalità qualificata
e appassionata, esercitata in condizioni eccezionali, a rischio anche
della propria incolumità". Eccolo.
Antonio Russo: Colgo intanto l'occasione per ringraziare tutte
le Istituzioni, compreso il Presidente Scalfaro, di cui mi onoro di
condividere una esperienza quale questa, per il discolo giornalista
che ha messo a repentaglio la sua vita e ha mandato in fibrillazione
le massime Istituzioni dello Stato alla ricerca di questo discolo del
giornalismo. Volevo fare una puntualizzazione su l'etica delle obiettività:
forse per un giornalismo quale quello che io amo di più, cioè il giornalismo
di guerra, dove a livello di evento della storia si verifica l'epokè
di qualsiasi istituzione politica, sociale, giuridica e di rispetto
dei diritti anche universali dell'uomo. In quel momento il silenzio
è totale in termini anche proprio del silenzio assordante in cui non
c'è più parola che possa esprimere quello che è il gioco anarchico delle
assenze appunto. E in quel momento si inserisce il corrispondente di
guerra. L'impegno è cercare di difendere soprattutto i valori dell'umanità
perché poi i fondamenti dei diritti dell'uomo sono sulla difesa dell'umanità,
quindi il rispetto della dignità il rispetto dei diritti umani.
Questo è forse uno dei compiti più ardui e più difficili e soprattutto
anche come corrispondenza di guerra perché spesso, per quella che è
la mia esperienza personale, di rischiare di essere preso dai giochi
delle parti all'interno di queste anarchie, anche involontariamente,
perché è un grande gioco, è un gioco agli scacchi in cui le regole si
inventano di volta in volta.
Quindi questo è il tentativo che io nel Kosovo ho fatto. E' stata un'etica
della scelta, è stata una scelta difficile, consapevole, sapevo di trovarmi
in pieno isolamento e nel rischio anche della vita e dovere contare
solo su me stesso e comunque poter comunicare con l'esterno per dire
quello che succedeva e condividere con il popolo, il popolo kosovaro,
quella che è stata, alla fine del millennio una ripetizione di una Shoah
e che anche proprio sulla pelle, come mia esperienza personale dover
poi anche fuggire con gli stessi profughi, provare lo stesso terrore,
condividere con loro la deportazione nel treno, "blase" - che significa
"fango" in macedone - il condividere con loro il fango ,quindi, il nostro
era un evento giornalistico ma anche umano.
E' un'esperienza che rimarrà nell'animo per tutta la vita e anche a
livello di crescita umana.
Ringrazio ancora le Istituzioni, il Presidente Scalfaro e il grande
giornalista Zavoli.
Voce: cosa ti è rimasto negli occhi?
Antonio Russo: Prova a guardarli.
ANTONIO BORRELLI. Ecco, neanche io avevo veduto ancora questo
primo video che abbiamo trasmesso, questo vi da l'idea dei lavori artigianali
che sono stati fatti per arrivare a questo incontro.
Grazie anche a voi della presenza.
Antonio Russo pensava la libertà e la ricercava, di lui parleranno in
questa giornata in sua memoria in molti.
E' stato torturato e ucciso perché amava la verità e la giustizia, a
Tiblisi, lo scorso 15 ottobre, gettato ad opera di specialisti sul ciglio
di una strada, a decine di chilometri di distanza dove è stato trovato
con il passaporto e la catenina d'oro il 16 ottobre 2000.
Antonio era iscritto al Partito Radicale transnazionale e lo rappresentava
al punto da immolarsi nella piena coscienza del rischio debordante i
rischi stessi già connessi alla guerra cecena per la quale era inviato
di Radio Radicale.
Partì per non tornare da dove non avrebbe mai voluto farvi ritorno,
a causa del monito ricevuto dalle autorità russe durante il fermo subito
nel suo primo viaggio, quando la Russia chiese l'espulsione del Partito
Radicale Transnazionale dall'Onu, con accuse ridicole quanto tragiche,
di complicità con i terroristi ceceni, di collusione al narcotraffico
e di promozione internazione della pedofilia.
Un gruppo di amici più prossimi ad Antonio, si sono collegati sin dall'ottobre
scorso al fine di costituire un'associazione in memoria di un giornalista
e di un uomo speciale, del quale opere e sacrificio abbiano senso e
non ne rimangano prive.
Un'associazione che sapendo nascere, esistere e resistere, si faccia
promotrice di un premio giornalistico in collaborazione o a supporto
degli intendimenti della mamma, dottoressa Beatrice Russo.
E' stato un lavoro fatto al meglio delle possibilità di ognuno, con
amore, sviluppatosi con le tante emergenze organizzative che queste
cose comportano.
Si tratta di un primo incontro che speriamo possa portare, con la collaborazione
di tutti, alle due giornate di commemorazione ad un anno della scomparsa,
del 15 e 16 ottobre prossimo venturo, con l'istituzione del premio internazionale
di giornalismo intitolato ad Antonio Russo.
Nel gruppo di amici c'è Virgilio Violo al quale sto per cedere la parola
anche in qualità di presidente della Free Lance international Press
che in collaborazione con il Cinema Pasquino, qui rappresentato dall'amica
cara di Antonio Russo, Francesca Spinotti, hanno organizzato, assieme
a Patrizia Sterpetti, che è qui al tavolo, amica dell'università, che
coordinerà una parte dei lavori, hanno organizzato l'incontro con il
contributo di Radio Radicale, contributo in massima parte usato per
avere con noi oggi e li salutiamo, la signora Mubera Bujari, la mamma
kosovara possiamo dire, di Antonio Russo, e l'amico Fatmir Dedhi da
Pristina e Alexandre Kvatashidze, che ha portato del materiale e una
preziosa testimonianza che però purtroppo non può rendere in quanto
non abbiamo la traduzione dal russo.
Il contributo di Radio Radicale poi si completa con la trasmissione
di questo nostro incontro.
La parola a Virgilio Violo, presidente della Free Lance International
Press.
VIRGILIO VIOLO. Buona sera a tutti, vi ringrazio per essere venuti
numerosi all'incontro commemorativo di Antonio.
Io per la verità mi ero preparato anche un discorsetto sull'informazione,
sui problemi dell'informazione in Italia, ma in questo momento, preferisco
ed è giusto che sia così, più dare accento a quello che era l'amicizia
che mi legava ad Antonio e parlando uscirà qualche argomento, ma sarò
brevissimo comunque, lo tirerò fuori.
Antonio: quando l'ho visto è come se lo avessi conosciuto da tanto tempo,
parlavamo normalmente, non c'era assolutamente barriera formale o ostacoli
perché non ci eravamo mai visti.
Lui approdò alla nostra Associazione nel maggio del 98 e parlammo subito
dei problemi dei Free Lance. Lui veniva dalla gavetta e aveva riconosciuto
nella nostra associazione la sua casa. Infatti ogni volta che tornava
dall'estero passava sempre da noi, ci invitava a cena e ci raccontava
le cose e guai a pagare noi, voleva pagare lui. Era come se fosse tornato
a casa.
Ricordo l'ultima volta, l'estate scorsa mi chiamò, erano le 9 di sera
e disse: andiamoci a fare una bella mangiata fuori.
E io gli dissi: ma sono le 9. Finimmo in un ristorante a Fiesta, era
estate e a Fiesta c'erano questi ristoranti con le specialità sud americane
e mangiammo a più non posso al ristorante brasiliano.
Questo è l'ultimo ricordo che ho di lui e parlando mi raccontava delle
sue esperienze nel Kosovo, le persone che aveva incontrato, l'umanità
che aveva riscontrato dappertutto. Così alternavamo informazioni relative
all'antropologia umana a quelle giornalistiche.
Ecco, lui aveva aderito alla nostra associazione perché aveva sposato
appieno la nostra causa che era anche la sua causa. Ci aiutava come
poteva, nella nostra sede centrale c'è ancora un computer che lui ci
regalò perché non avevamo molti soldi e tuttora non è che navighiamo
nell'oro.
Volle subito essere socio sostenitore e diciamo anche il suo contributo
economico per noi è stata una forte spinta ad andare avanti.
La nostra battaglia, voi lo sapete, è quella di dare dignità professionale
ed economica ai free lance che qui in Italia, se non sono considerati
res nullius poco ci manca. La realtà è che il 70% dei quotidiani che
voi leggete è fatto da free lance. Il lavoro grosso giornalistico è
fatto da free lance e ahimè devo dirlo, non abbiamo Ordine dei giornalisti
e tanto meno Sindacato che tutelino oltre che la nostra professionalità
la nostra dignità.
Noi abbiamo iscritti che, per poche migliaia di lire, ogni giorno escono
per trovare informazioni e alle volte fanno difficoltà ad unire il pranzo
con la cena. Questa è la realtà dell'informazione in Italia, al di là
delle grandi concentrazioni editoriali eccetera.
Antonio. Preferisco soffermarmi su Antonio.
Io non so se la parola scandalizzi, io lo definirei almeno per quanto
attiene alla mia esperienza, come un prete laico, un figlio delle stelle
mandato in terra a raccontare all'umanità ( lui era corrispondente di
Radio Radicale) delle immani tragedie umane che la guerra comporta.
Lui aveva il dono delle lingue, sapeva parlare con tutti, condivideva
quello che ha detto lui nel suo discorso al Premio Barbato. Condivideva
con la gente le sofferenze ma aveva questa facoltà di trascendere e
raccontare agli altri. Questa è una qualità non indifferente per essere
un buon giornalista. Io so che un giorno fu ripreso da un responsabile
dell'Ordine dei Giornalisti perché essendo stato chiamato "giornalista"
non aveva detto: "no, non sono ancora giornalista perché non sono iscritto
all'Albo dei Giornalisti". Cose ridicole perché Antonio aveva il giornalismo,
la professionalità giornalistica nel sangue, giornalisti si nasce, non
è un esame che ti fa diventare giornalista, queste sono sovrastrutture
che non hanno nulla a che vedere con la funzione giornalistica.
Il primo dovere del giornalismo è quello di essere occhio vigile della
società civile, non dei vari potentati industriali, politici e lobbies
affaristiche. Quindi parlavamo anche di questo con Antonio, qui in Italia
il free lance è figlio dell'informazione pura, il free lance sposa la
testata che fa informazione per informazione.
Qui in Italia non si riscontrano, ad onore del vero, molte testate che
fanno informazione per l'informazione a favore della società civile,
senza interessi nascosti.
Le più grandi testate, scusate se mi permetto di dirlo, le consideravamo
appendici di gruppi affaristici, lobbistici, politici e non fini all'informazione
ma forse strumento di lotte di potere e di altre cose che nulla hanno
a che vedere con la giusta informazione, ovvero sia con il riferire
alla società civile degli accadimenti che effettivamente ci sono nel
mondo.
Ci sarebbero tante altre cose da dire su Antonio.
Quello che più mi ha colpito favorevolmente è questa sua umanità. Lui
sapeva parlare benissimo con il povero e con il ricco e trattava tutti
allo stesso modo e non si faceva- e questo va detto a suo onore- minimamente
impressionare dal potere.
Lui è stato un guerriero vero come pochi ce ne sono.
Non ho altro da aggiungere più di me, anche se l'ho conosciuto, potranno
parlare i successivi relatori e le altre persone che lo hanno conosciuto
meglio di me.
Vi ringrazio per essere venuti e passo la parola ad Antonio Borrelli.
ANTONIO BORRELLI. Grazie Virgilio.
Abbiamo ricevuto diversi messaggi, alcuni anche per scusarsi di qualche
defezione che c'è stata. Comunque il programma è molto fitto.
Anzitutto desidero, consentitemi, salutare già in questo momento, la
presenza in sala dell'onorevole Marco Boato e desidero leggere un primo
messaggio che è arrivato da un'amica che ha frequentato molto Antonio
negli ultimi mesi e in questo momento è a New York e, che avendo organizzato
il venticinquennale della morte di Pasolini a New York, una importante
retrospettiva, nella commemorazione del venticinquennale della morte
di Pier Paolo Pasolini questa, in apertura è stata dedicata ad Antonio
Russo.
Non è una cosa da poco. Thara Hadid manda questo messaggio, lo leggo
perché è molto bello.
"Non esistono molti uomini che comprendono o conoscono la verità nella
sua interezza. Antonio Russo era uno di quei pochi.
La realtà e la verità era compresa e vissuta da lui in modo completo,
la sua vitalità e comprensione del vero lo inondava di una luce vivente
e la sua fame di vita ancora risuona fra quelli che ha lasciato indietro."
Molto bello il senso.
A questo punto devo dare la parola all'amica Patrizia Sterpetti che
è venuta alla prima notizia della scomparsa di Antonio Russo, davanti
a Palazzo Chigi ad una manifestazione, si è lei stessa manifestata come
una lontana amica dell'università e nonostante non avesse frequentato
Antonio nell'ultimo periodo, si è prestata come pochi di noi, già pochi,
lei ha fatto un lavoro straordinario per l'organizzazione di questo
incontro.
E' una antropologa, membro della Lega internazionale delle donne per
la pace e la libertà. A te la parola.
PATRIZIA STERPETTI. Grazie. Io innanzitutto volevo dirvi che
noi, per questa prima commemorazione, abbiamo pensato di non farlo diventare
un incontro di riflessione e di studio in particolare sull'attività
giornalistica di Antonio perché era un po' prematuro. In ogni caso già
sappiamo che c'è un archivio straordinario - quello di Radio Radicale
- dove già abbiamo riscontrato esistono ben 500 schede per cui si potrà
fare un lavoro interessantissimo.
Invece noi abbiamo scelto di fare una manifestazione che desse la possibilità
di ascoltare più memorie polifoniche, soprattutto sulla formazione di
Antonio e poi anche di vedere i problemi del giornalismo, della missione
di free lance in un paese come l'Italia.
I miei punti di contatto con Antonio Russo sono il Movimento studentesco
della Pantera, nel 1990 e l'incontro nella Conferenza organizzata dall'Onu
per l'istituzione del Tribunale penale internazionale nel giugno/ luglio
1998.
Se posso definire quale è l'impatto di questa morte su di me, immediatamente
devo pensare a due cose: innanzitutto l'umiliazione assoluta che lui
ha ricevuto con questo omicidio; seconda cosa è la sensazione interna
di appartenere ad un gruppo di destinati a poter essere distrutti da
una manciata di repressori.
Ecco, la sensazione è stata poi di una nostalgia tremenda per due aspetti
che hanno caratterizzato lo stile della cultura giovanile degli anni
precedenti, degli ultimi decenni prima del '90, cioè questa capacità
di sentire la strada, questa confidenza col mondo, di trasformare il
mondo nel corridoio di casa nostra, di avere coraggio e sapere arrangiarsi
e un altro aspetti tipico dello stile giovanile degli ultimi decenni,
che è quello della militanza come dato scontato, dato spontaneo.
Ecco, aver condiviso un movimento studentesco lascia una sensazione
quasi di difesa corporativistica della memoria della persona che lo
ha condiviso perché, in effetti, sono poche le persone che all'interno
di questi movimenti di massa, hanno la capacità di dare un contributo
qualificato, con stile, di assumersi delle responsabilità delicate,
come scrivere statuti e quindi questa sensazione della rarità poi lascia
i percorsi fra le persone un po' paralleli.
Anche se non ci si vede per anni si resta in qualche modo e si fanno
le stesse cose.
Antonio è una persona che ha voluto far parte della storia e riflettere
filosoficamente, antropologicamente, storiograficamente sulla storia.
Lo possiamo definire come un intellettuale dilettante nell'accezione
di Edward Seilder, cioè una persona che sceglie di non perfezionarsi
mai in funzione di una committenza.
Antonio è stato un autodidatta, un intellettuale autogestito, un mecenate
dell'editoria che ha messo a disposizione questa sua casa editrice a
colleghi universitari, a docenti e ricercatori .
Un'altra caratteristica di Antonio è la sua formazione assolutamente
interdisciplinare. Antonio oscillava dall'antropologia all'etnologia,
filosofia, storia, scienze politiche. Basta vedere la sua biblioteca.
Un altro elemento, forse Antonio viveva a Roma però in qualche modo
era un outsider, frequentava la Toscana e l'Abruzzo e questo è come
se in qualche modo lo lasciasse non omologato, sempre capace di una
ricerca molto rigorosa.
Questa formazione, tra l'altro, è completamente distante dalle ultime
tendenze che si sono andate affermando all'interno dell'Università che,
invece, si muove in direzione dei diplomi, delle lauree brevi, degli
iperspecialismi. Noi vediamo che questa sua formazione è completamente
in controtendenza con queste tendenze.
Per tornare al parallelismo che accompagna chi divide una esperienza
nei movimenti universitari eccetera, chi ha questa necessità costante
di assecondare il proprio impegno civile, ha una serie di prospettive
che sono in qualche modo limitate; cioè o si occupa di politica o si
mette nell'associazionismo o nella cooperazione, nella ricerca sociale
o nel giornalismo.
Antonio Russo sceglie il giornalismo di guerra e noi sappiamo che il
suo percorso è stato alquanto accidentato, che ha subito una serie di
umiliazioni, una serie di rifiuti sia da testate giornalistiche, sia
da Radio. Questo dato è un dato che ho riscontrato fra molti amici free
lance, giornalisti, cioè il fatto che essi portano articoli magari scritti
da persone che appartengono appunto alla ricerca sociale e che quindi
hanno delle competenze, se vogliamo, a volte superiori a quelle del
giornalista che lavora all'interno di una certa testata e questi pezzi
non vengono tenuti in considerazione, c'è discriminazione retributiva,
vengono prese foto e non vengono retribuite. Il leader di partito fa
una missione scappa e fuggi e il suo pezzo viene strapagato, invece
una persona che ha una grossa competenza e ha seguito con grossa attenzione,
lungamente, una certa causa viene pagato male o rifiutato.
Quindi noi sappiamo che per molti anni Antonio Russo ha avuto spazio
solamente nei giornali federalisti europei fino alla sua collaborazione
a partire dal 1993 con Radio Radicale che ha rappresentato per lui una
sponda molto importante, un fatto propizio per la sua vocazione.
In questo momento possiamo dire che Antonio in qualche modo, da professionista
e da intellettuale dilettante, diventa intellettuale professionista
però con tutto un bagaglio straordinario dipendente dalla sua formazione,
per cui il momento in cui Antonio noi sappiamo che ha vissuto diverse
iniziazioni etniche, veramente da fare invidia ad un etnologo, quando
Antonio parlava di ceceni come una popolazione di montagna, chiusa,
diffidente, noi sappiamo che questa è una chiara consapevolezza di tipo
etnografico.
Però, in effetti, non esiste una storia universale, esistono delle storie
locali, per poter documentare dei contesti così disparati è necessario
che la persona sia in grado di conquistare la fiducia delle persone
per potersi collocare in una posizione favorevole a documentare all'esterno
un certo contesto. Forse la condizione migliore è quella di entrare
nella storia degli altri e prendere posizione.
Ci sono diverse metodologie in campo, ci sono persone che si occupano
di mediazione di conflitti, nell'ultimo decennio ci sono state delle
esperienze di donne incentrate sul fatto di frequentare luoghi difficili
e stabilire relazioni con donne, però bisogna dire che spesso queste
esperienze non sono accompagnate con un approfondimento intellettuale,
con un largo respiro intellettuale come per esempio nel caso di Antonio.
Sicuramente Antonio si è trovato ad agire in situazioni di crisi e quindi
in queste situazioni di crisi lui ha preso la parte dei lesi, degli
offesi. Bisogna ricordare appunto, che l'attività internazionale di
Antonio comincia proprio dalla Conferenza di Vienna nel 1993 e poi aveva
seguito appunto nel 98, la Conferenza per l'istituzione di un Tribunale
penale internazionale. Quindi lui si era specializzato nella documentazione
di crimini per la denuncia nei consessi internazionali.
Credo che la sua partecipazione, la sua entrata nella storia del Kosovo
sia stata più riuscita della sua partecipazione, al suo entrare nella
storia della Cecenia. Lì qualcosa deve essergli sfuggita di mano.
Adesso, quello che dobbiamo fare sicuramente è di continuare il suo
impegno per comprendere e documentare la questione cecena, rilanciare
il mestiere di free lance che necessita proprio dove c'è un decadimento
dal punto di vista delle risorse umane, perché appunto è tramontato
questo modello della partecipazione dell'intervento che invece Antonio
ha incarnato così bene e cercare di dare un impulso forte alla rappresentazione
dei fatti internazionali che in un paese come l'Italia sono molto coperti
e questa è anche una delle ragioni per cui poi non si capiscono le migrazioni
internazionali. Quindi questo è un impegno forte al quale non possiamo
assolutamente sottrarci.
ANTONO BORRELLI. Grazie Patrizia, ottimo intervento.
Io voglio salutare anche la presenza in sala, sin dall'inizio, dalle
prime battute, del maestro onorevole Furio Colombo. Io passerei la parola,
a questo punto, a Rodolfo Calpini, ricercatore di filosofia teoretica
presso l'Università degli studi di Roma La Sapienza.
RODOLFO CALPINI. Io riferirò brevi ricordi ma molto intensi di
collaborazione con Antonio Russo, specialmente dal punto di vista filosofico.
Diciamo che i miei ricordi risalgono dall'88 al 93, all'incirca. Poi
ci sono stati altri contatti, una telefonata da Pristina per un incontro
tra il Rettore dell'Università La Sapienza e il Rettore dell'Università
di Pristina e poi, dopo, praticamente ci siamo persi di vista.
C'è stato un suo intervento sul Ruanda ad un mio seminario sul genocidio
in Ruanda. Però il periodo di più intensi incontri risale appunto all'occupazione,
come ha detto anche Patrizia Sterpetti, anche all'occupazione dell'Università
di Roma da parte della Pantera e poi alla pubblicazione di un libro
che lui ha voluto, che io ho scritto e sul quale abbiamo poi riflettuto
assieme, che era: "Lineamenti di una teoria dell'etnocidio", che è proprio
della Casa Editrice Russo.
Diciamo la formazione filosofica. Io non sono d'accordo sul fatto di
dire: quanto era professionale dopo o quanto lo fosse prima, per me
era già un grande professionista prima di incontrarsi con Radio Radicale.
Quale era la sua professionalità nel senso filosofico? Era, diciamo,
di comprendere e di vivere la filosofia come filosofia critica.
Era scandalizzato dal potere Antonio, non ammetteva che si potesse disporre
della vita e delle culture degli altri come di un oggetto, di qualsiasi
tipo di mercificazione era nemico, per cui le nostre riflessioni erano
certamente di attacco alla classe accademica, in particolare a quella
della Sapienza, come dominio esclusivo del sapere mirato ad interessi
che con la cultura non hanno nulla a che fare, per questo il senso dell'appoggiare
le occupazioni dell'Università.
La nostra analisi, perché in quei giorni ne abbiamo discusso frequentemente
insieme, non era solamente critica con l'Università ma era critica contro
la museologia; in particolare ricordo un incontro bellissimo da un punto
di vista della disputa, violentissimo, avuto con la classe dirigente
del Museo Pigorini, del Museo etnologico di Roma, museo che non a caso
si chiama preistorico etnografico in chiave tutta evoluzionista, in
cui insieme con Antonio e con altri circa dieci studenti, dopo diversi
anni che lottavamo in questo Museo per cercare di fare entrare la storia
in quel Museo.
Ecco quello che si diceva e che io ancora dico, è che questi tristissimi
musei etnologici sono la fase finale dell'etnocidio in cui la popolazione
che è stata fatta oggetto di etnocidio( in quel caso particolare si
parlava di Indios) viene messo dentro una vetrina. L'utente guarda la
vetrina e non sa da dove viene questo etnocidio, vede solamente dei
cartelli, delle plumarie, del vasellame degli Indios e basta.
Allora c'è una cancellazione della storia, c'è un silenzio. Ecco perché,
attraverso la chiave del silenzio si può anche capire bene perché lui
voleva parlare attraverso il suo giornalismo, perché in quegli anni
lì abbiamo approfondito che cosa voleva dire il silenzio dei musei,
sia dei musei dei missionari e sia dei musei dei laici, cioè quelli
fatti dagli antropologi di professione, titolari di cattedre universitarie.
Noi in fondo cosa dicevamo? Vogliamo portare la storia dentro il museo.
Il museo non ci parli solamente delle plumarie, ci dica perché queste
popolazioni sono scomparse.
Ecco il problema della scomparsa di una popolazione - ecco il problema
dell'etnocidio e del genocidio - perché sono scomparse.
La lotta era quella di far parlare i musei di farne dei luoghi di riflessione,
un principio anche per il Movimento studentesco che io ho posto in tutti
gli anni dell'occupazione dell'università.
Allora la sua collaborazione al mio libro: "Lineamenti di una teoria
dell'etnocidio", che sostanza aveva? Io ero riuscito a invitare Robert
Jolen, l'unico antropologo onesto dell'occidente, insieme a Clastr,
che aveva denunciato alla Società degli americanisti, il genocidio degli
indios e aveva fatto di questa denuncia il suo cavallo di battaglia.
Era il '92, si celebrava il quinto centenario della cosiddetta scoperta
dell'America e io come Università per quello che potevo fare come studioso
di museologia, come studioso del fenomeno dell'etnocidio e del genocidio,
volevo che si facesse un seminario su queste cose e questo seminario
che poi fu fatto, fu un seminario che durò 10 giornate molto intense
all'Università di Roma, fu l'unico segno di protesta contro le celebrazioni
che erano le celebrazioni di un genocidio.
Diciamo che è questo che io volevo ricordare di Antonio, la sua formazione
filosofica.
Quello che è avvenuto dopo nel Partito Radicale è quasi una logica conseguenza.
La sua morte potrebbe anche essere una logica conseguenza; però i suoi
principi in qualche maniera si sono formati in questi dibattiti che
abbiamo avuto negli anni all'Università.
Vorrei solamente concludere dicendo che forse Antonio ha rappresentato
l'intellettuale, ma un intellettuale che si è formato nelle lotte contro
un potere stabilito dentro l'Università e dentro le Istituzioni, perché
la capacità di fare genocidio che noi abbiamo, non nasce improvvisamente
per una pazzia di un gruppo di persone, è profondamente dentro le nostre
strutture culturali sia religiose che scientifiche e tecniche.
Allora a questa analisi io vorrei che venisse dato un seguito e anche
magari delle giornate di studio che magari verranno nel futuro. Grazie.
RICCARDO VILLARI. La prima cosa che mi viene in mente dovendo parlare
di Antonio è che Antonio era una di quelle persone che è impossibile
classificare. Una specie di dimostrazione empirica del detto che il
tutto è molto più della somma delle parti perché l'attività di Antonio
è stata talmente molteplice e per certi versi contraddittoria in apparenza,
perché, come ho detto prima, è impossibile racchiudere tutto questo
in una singola etichetta, "giornalista professionista."
Quello che è importante è che in tutto quello che ha fatto da filo conduttore
è stata indubbiamente la passione.
Antonio era un appassionato di qualunque cosa abbia fatto ed era una
delle poche persone che ho conosciuto, che è riuscito a vivere fino
in fondo tutto quello che ha fatto, pagando di persona questo vivere
fino in fondo le cose.
E' stata una persona in un certo senso, senza un filo di diplomazia,
una di quelle persone che devono fare sempre la cosa giusta anche se
non è il momento, anche se in quel momento fare la cosa giusta è rischioso,
è contro il bon ton, contro la buona educazione, contro quello che uno
si aspetterebbe da un civile individuo occidentale.
In questo senso Antonio era sicuramente una persona molto particolare,
una persona molto difficile, unica, come tutti sicuramente.
Poco fa è stato detto quanto Antonio fosse allergico al potere, non
solo al potere che tutti conosciamo, ma anche alle piccole cose, anche
al potere interpersonale tra le persone. Per quanto una persona fosse
dalla sua o fosse un suo amico doveva comunque essere critico fino in
fondo, ma questa sua critica non ledeva mai la sua umanità.
Riusciva ad essere contemporaneamente una delle persone più umane e
calde che abbia conosciuto e nello stesso tempo, rigido e duro sino
in fondo, dal punto di vista intellettuale.
Questa unione delle due cose è assolutamente difficile anche perché
era assolutamente rigido soprattutto verso se stesso. Io penso sia difficile
rendere a parole la fatica, il dolore che gli deve essere costato comunque
fare quello che riteneva giusto fare…E che me lo renderà sempre indimenticabile.
E' una persona che mi mancherà sempre.
Detto questo penso posso anche interrompere l'intervento.
MARIO COLAFRANCESCHI. Io vorrei leggervi un brevissimo intervento
perché altrimenti l'emozione non garantisce della mia lucidità.
Vorrei parlare di Antonio, della sua grande passione per la società.
Antonio ha portato a questo suo grande amore le sue tante letture giovanili
che gli hanno permesso di acquisire un'erudizione quasi sterminata.
La sua esperienza sociale del Movimento del 77, che doveva poi, da universitario,
rivivere nell'89 con il movimento della Pantera.
La sua libertà da qualsiasi appartenenza politica, la sua disponibilità
al dialogo anche con chi era molto distante da lui. Un dialogo che per
Antonio era un momento di verifica, di scontro e di prospettiva, un
dialogo in cui si doveva mettere in gioco tutto, in un rapporto carico
di tensione comunicativa, un dialogo che era anche una esperienza emotiva
in cui erano ammesse imperfezioni linguistiche, ellissi, anacoluti per
cui occorreva parlare senza reticenze ed esprimere il proprio punto
di vista.
La filosofia, la sua grande passione, ha offerto ad Antonio un apparato
di categorie utili a governare il dialogo. Gli ha portato l'esempio
dei filosofi del 700, quelli intellettuali e lluministi che attraverso
i loro pamplet e l'Enciclopedia, cercarono di far uscire la Filosofia
dal silenzio, dalla riflessione di élite per farla irrompere nella vita,
quella vita che interessava anche ad un altro filosofo che ad Antonio
piaceva molto che aveva molto studiato che era Wittgestein, un filosofo
che apprezzava molto e che in qualche modo gli aveva dato delle indicazioni
che lui ha cercato di seguire nella sua esperienza, perché l'incontro
con la filosofia da parte di Antonio è stata soprattutto una esperienza
praticata. Una esperienza che lo ha portato a incontrare altri giovani
e con loro creare la rivista Philosophema, una iniziativa spregiudicata
per quei tempi con una redazione molto numerosa composta da una trentina
di persone al di fuori degli ambiti accademici, senza comitati scientifici,
senza persone di prestigio. Studenti che avevano il coraggio di praticare
la filosofia e di mettere per scritto i loro pensieri senza alcun tipo
di investitura. E lui con generosità assunse per conto comune tutti
gli oneri che derivavano dalla proprietà. Poi sulla base di questa esperienza
con l'esperienza di tante altre iniziative editoriali, altre riviste
offerse la sua capacità, il suo nome per coordinare e garantire che
queste iniziative crescessero.
Contava anche sul fatto che l'Università potesse fare da committente
per altre iniziative che il mondo universitario stimolasse e permettesse
la crescita di questa iniziativa editoriale.
Scommise anche su questo al punto anche da investire dei suoi denari,
della sua famiglia, per comprare un computer dal costo allora proibitivo
di una ventina di milioni, un computer comprato in leasing, con rate
che poi non riuscì a pagare completamente al punto che il computer gli
fu pignorato.
Ebbe una enorme delusione che lo portò a ripiegare su lavori di altro
genere, su lavori nel campo dell'edilizia, lavori poco remunerativi,
il lavoro in nero, ad avere anche altri problemi, anche di salute, sofferse
una gravissima malattia.
Poi miracolosamente si riprese e cominciò questo percorso intellettuale
cominciando da Radio di paese, di quartiere, fino ad approdare a Italia
Radio e poi a Radio Radicale.
Avviò poi rapporti parallelamente a questa attività giornalistica in
cui faceva esperienza sul campo e cercava analiticamente di ritrovare
delle verità, di comprendere cosa avvenisse dietro i fatti, proseguì
con questa attività intellettuale filosofica, prendendo contatti con
Università straniere, creò anche un supplemento di Philosophema con
studiosi di storia tedeschi, di cui io non ho documentazione ma insomma,
so per certo che lui ha realizzato.
In ultimo volevo concludere ricordando ed evocando un episodio che ho
condiviso con Antonio: andai, grazie ad un'amicizia che lui aveva con
delle persone vicine all'Istituto Filosofico di Napoli a presentare
la rivista.
Fummo ricevuto dal professor Antonio Gargano che apprezzò molto il nostro
lavoro, erano solo tre anni che ci lavoravamo, lui lo considerò un lavoro
pregevole.
Poi vista la singolarità della cosa, prese contatti con l'avvocato Marotta
che era impegnato altrove, ci fece attendere qualche ora. Arrivò l'avvocato
Marotta e ci presentò.
L'avvocato Marotta pensò di trovarsi di fronte a dei ricercatori, dei
valenti studiosi e noi dicemmo: guardi, siamo degli studenti peraltro
anche abbastanza irregolari.
Al che da buon napoletano, superata la sorpresa ci disse: guardate che
sono gli irregolari che fanno tutto perché i regolari non fanno niente.
ERASMO CATAVOLA. Io personalmente ho conosciuto Antonio nel periodo
che va dal 94 al 97, nel periodo in cui siamo stati più a contatto perché
da quello che ricordo, era appena passata da poco la stagione referendaria
In Italia e all'Università ci siamo trovati con un gruppo di studenti
appartenenti a varie organizzazioni giovanili dell'area laica, tra i
Radicali e la Sinistra, senza stare a specificare.
Ci siamo ritrovati con la voglia di provare a fare delle attività all'interno
dell'Università, un'attività politica che avesse una grossa base culturale
e in cui cercare di rendere l'Università meno esamificio. Questa era
una delle cose che sentivamo fortemente. A un certo punto posso dire
che è apparso Antonio, nel senso che mi sono, io ed un gruppo di persone
ci siamo trovati a contatto con Antonio in una dialettica che è stata
molto forte nell'ispirazione ma anche nel contrasto che c'è stato in
questa iniziativa che noi volevamo portare avanti in questo senso. Spesso
c'è stata una difficoltà di comunicazione tra quello che può essere
stato il modo molto profondo, radicale di Antonio, che diceva di andare
a fondo alle questioni e quello che, in un certo senso era probabilmente
il nostro modo più ingenuo anche più sprovveduto di tentare di fare
dell'iniziativa all'interno dell'Università. Questa è stata una costante
nell'attività che abbiamo portato avanti e che non ci ha portato a fare
un'associazione politica ma ci ha portato ad organizzare una rivista
che abbiamo pubblicato per due anni.
In questa iniziativa ci siamo conosciuti e lui ha portato la sua esperienza
e la sua profondità, la sua voglia di andare a fondo alle questioni
come elemento critico all'interno di quella che poteva essere la nostra
iniziativa.
Questo è un elemento che ci ha portato avanti per una parte dell'iniziativa
perché, ad un certo punto il conflitto ha portato Antonio ad allontanarsi
dal gruppo.
Io personalmente ripensando a quel periodo ho avuto l'impressione che
in un certo senso, cercando di leggere le varie esperienze che ha fatto
Antonio e come l'ho conosciuto, mi ha dato spesso l'impressione di essere
una persona che in un certo punto diventava consapevole che il suo modo
di andare a fondo alle cose poteva portarlo avanti soltanto in solitudine.
Questa è una cosa che mi ha colpito molto in Antonio; ho percepito spesso
da parte sua una coscienza del non poter resistere al cercare di servire
in un certo modo la verità, ma essendo pienamente consapev0ole e soffrendo
di dover essere solo a farlo e in qualche modo a doverlo fare in solitudine.
Questa è una cosa che mi è rimasta molto impressa di Antonio e che mi
ha colpito e mi ha fornito spunti di riflessione su come poi affrontare
un'attività intellettuale. A parte questa esperienza posso dire che
in quel periodo ero anche nel Movimento Federalista Europeo e c'è stata
occasione di far conoscere Antonio nel Movimento e questo poi gli ha
dato in qualche modo la possibilità di mettersi in contatto con una
dimensione nazionale che poi in solitudine ha cercato di portare avanti.
Questo per quanto riguarda il nostro contatto. A livello di ricordi
quello che volevo dire è che un'altra delle cose che mi ha colpito di
Antonio è stata la sua forte disponibilità a mettersi in gioco nelle
cose, a livello materiale, quotidiano. Per dire, ci è capitato qui a
Trastevere di dover organizzare una manifestazione con il Movimento
federalista e una delle cose che mi ha colpito è stato che dovevamo
montare il palco, cercare di costruire materialmente il luogo in cui
poi svolgere l'iniziativa e Antonio ha chiamato un suo amico barbone
che si chiama Elvio e insieme hanno costruito il palco con il poco aiuto
che potevamo dare noi, come gruppo di giovani.
Questo fatto mi ha colpito, mi è rimasto impresso così come mi è rimasta
impressa un'altra situazione in cui eravamo a Novi Sad in Vojvodina
e una persona era stesa per terra, sembrava stesse male e Antonio, senza
pensarci si avvicinò per cercare di capire cosa avesse e in che modo
potesse essere disponibile.
Questo per me è un ricordo che rappresenta un insegnamento, qualcosa
da tenere presente.
Un piccolo ricordo che forse è qualcosa di particolare rispetto alle
esperienze di Antonio è un viaggio di ritorno da una riunione che abbiamo
avuto a Verona come Movimento federalista: all'interno del treno ci
siamo trovati a inscenare una specie di Candid Camera in cui abbiamo
finto di essere un gruppo di non conoscenti che all'attesa delle due
persone che avevano prenotato ci siamo dati dei ruoli.
Per un'ora e mezza sino a quando siamo arrivati, abbiamo fatto questa
messa in scena in cui Antonio si era dato il ruolo dell'intellettuale
un po' trombone, un po' chiacchierone che assieme ad un altro dei nostri
amici che aveva questa propensione a chiacchierare, avevano il ruolo
di far finta di chiacchierare dei massimi sistemi, con molta ironia.
Questa è un'altra delle cose che mi è rimasta impressa, la voglia sempre
di scherzare, di ironizzare, di sdrammatizzare comunque le cose e il
piacere di stare assieme al margine di qualsiasi attività o iniziativa
che si facesse assieme.
A questo punto penso di aver finito. Forse, per quello che mi ricordo,
Antonio probabilmente avrebbe…Ricordo che quando prendevo la parola
ero sempre quasi pronto a sapere che Antonio avrebbe preso la parola
e avrebbe modificato di sana pianta quello che dicevo.
ANTONIO BORRELLI. Proseguiamo con degli interventi brevi.
GIANNA SCARSI. Io con la vita quotidiana ho da fare perché faccio
la maestra, anzi facevo la maestra. Adesso ho chiesto i lavori sedentari
che consistono nello spostare una biblioteca da una parte all'altra,
comunque ancora sono sul campo.
Quando ho conosciuto Antonio è stato perché Riccardo Villari un giorno
me lo ha portato a casa. Sarà stato nell'89 e Antonio mi disse, io dovevo
andare alla stazione e nessuno mi accompagnava, ti porto io. Allora
cosa fa? Mi da le chiavi della macchina.
Antonio mi disse non so guidare. E allora come pensavate di portarmi
alla stazione se non hai la patente.
Dopo di che è cominciata questa amicizia per cui io ero l'autista di
Antonio. Era una cosa molto bizzarra, noi andavamo in giro per Roma
facendo un po' i matti, chiacchierando dei massimi sistemi o di altre
cose, a volte anche di vino, perché Antonio ne capiva molto bene anche
di vino e sapeva distinguere un buon vino da un cattivo vino, anch'io,
essendo di origini piemontesi mi sono dimenticato di dire liguri- piemontesi
ed è venuta questa amicizia molto profonda.
Non ero la sua segretaria, era una battuta perché lui aveva inciso sulla
segreteria telefonica una cosa demenziale che diceva che la sua segretaria
era super bona, al che io dicevo: sono io.
Dicevamo delle sciocchezze insieme. Dicevamo delle sciocchezze ma anche
delle cose molto importanti.
E allora io adesso specifico delle cose che ha detto Riccardo.
Tu hai detto che è molto difficile etichettare Antonio, io specifico:
è contro dio, se dio c'è, etichettare Antonio.
Siccome Antonio per me ha avuto moltissimo rispetto e altrettanto io
ne ho avuto per lui, vorrei che questo rispetto fosse da parte di tutti.
Questa mania superficiale che ha la gente di etichettare chiunque sia.
ANTONIO BORRELLI. Intanto leggiamo un messaggio pervenuto da
parte di Emma Bonino che cita: "non posso essere fisicamente tra di
voi, ma grazie di questa occorrenza".
Saluto la signora Beatrice Russo (che sappiamo è in arrivo, è in viaggio
dalla Toscana e con grande sacrificio), alla sua età sta arrivando,
nonostante non fosse nelle migliori condizioni di salute.
"Saluto la signora Russo e tutti i partecipanti a questa prima commemorazione
di Antonio Russo.
Antonio ha portato fino all'estremo la volontà di liberare l'accesso
ai media e all'intervento umanitario internazionale nelle zone coinvolte
in conflitti devastanti per ogni coscienza umana e civile.
Antonio Russo è il simbolo di questa battaglia che mi ha visto, mi vede
e mi vedrà costantemente coinvolta.
Ai suoi assassini, esecutori e mandanti dico con tutti voi che non dimenticheremo
affinché vi sia la giustizia, la libertà e la pace in un mondo senza
fame e impunite crudeltà."
FRANCESCA CIPOLLONI. Io volevo dire due cose a Beatrice ma adesso
Beatrice non c'è. Se qualcuno pensa di aver fatto torto ad Antonio gettandolo
in mezzo alla strada sbaglia di grosso. Antonio amava la strada più
di qualsiasi altra cosa, in mezzo alla strada diventava il centro del
mondo ed entrava in contatto con tutti e risolveva tutti i problemi.
Da vivo, certo, da vivo.
Ma da lì, dalla strada continua a parlarci come prima e anche di più.
Antonio un cuore e una strada.
CARLO GHIRARDATO. La mia quotidianità come quella di tutti ha
piacere quando viene alleviata da una presenza a cui riconosci diversi
topos o più semplicemente parlando il fatto di essere più o meno della
stessa generazione, di essere alimentati da una inquietudine che non
trova pace e soprattutto quello che a chiacchiere tutti si riempiono
la bocca, per me è un po' più difficile perché sono un anarchico militante
da sempre, ma per Antonio comunque un dato oggettivo legato al proprio
modo di essere e poi, alle proprie scelte, sempre faticose sempre sofferte,
sempre in conflitto comunque con il fatto che una qualche gerarchia
ci deve essere, un qualcuno che comanda un qualcosa che deve soprassedere.
Beh, questa quotidianità ovviamente da quando manca Antonio è più faticosa
perché era una costante che ad ogni ritorno da un suo viaggio, col fatto
che comunque io invece mi sono legato sentimentalmente, ho una piccola
bambina, ho un cane, ho una vita che cerco in qualche modo di conciliare
con la mia militanza, con il mio lavoro e il tutto e allora c'era questo
piacere di incontrarsi, due che si annusano, si sanno essere lupi, scegliere
il lato comunque globale del discorso, le due facce della medaglia,
il night and day e puoi stravolgerlo.
Ovviamente io, nello stravolgere, oggi come oggi vado molto più cauto
ma per questo non appena lo conobbi, riconobbi in lui, al pari di me
questo lupo, questo anelito alla libertà. Un anelito, adesso io sto
benissimo, non mi manca quasi niente, ma adesso che mi manca Antonio
capisco e comprendo anche a me le ragioni di quanto a volte uno possa
portare il tutto troppo in là eppur saperlo, perché ogni volta che partiva
dicevo: attento Antonio, mi raccomando. Comunque sentivo da parte mia
che era utile ricordarglielo perché io intanto immaginavo, non perché
sia fatalista ma perché lo conoscevo.
Posso solo fare un esempio: al suo ultimo viaggio lui è partito con
una sorta di commissione diciamo, nel senso che ci tenevo e lo caldeggiai
che sarebbe dovuto uscire su questo numero della Rivista, ma purtroppo
non c'è come non c'è neppure Antonio, un pezzo che fosse sul leasing
delle armi, degli uomini, di questa pace, definiamola pace, che è pace,
tutto sommato il mondo forte comunque è in pace e poi bene o male i
conflitti e la guerra fredda sono superati è tutto un altro contesto
geopolitico, quello che vi pare. Però nel singolo nel soggetto in Antonio
questa ricerca di libertà e di verità che poi si accompagna a un'epoca
che ancora di bello aveva maestri.
Ecco perché ritorna il dato generazionale, noi che non siamo più giovani
ma non siamo nemmeno così maturi che comunque…
A me verrebbe in mente Albert Camus, ma ce ne sono tanti, perché da
Antonio questo tasto è stato suonato prima della sua formazione filosofica
e che porta con se, proprio nel senso della ricerca della verità, in
questo senso si. Ma poi riesce ad affinare una professione e qui rimane
il dolore perché era sicuramente a pochi passi da quella che era, però
serve, serve proprio per una questione di autostima, sicuramente era
quasi arrivato finalmente ad una sorta di consacrazione almeno come
giornalista.
Ci aveva lavorato, ci continuava a lavorare, ci metteva il massimo dell'impegno
e della serietà. Sicuramente oggi io non ho parole sufficientemente
alte per gridare allo scandalo, perché oggi questa sala è bella piena,
nei giornali c'era solo un trafiletto minimo, un tamburino, "morte di
un reporter" che rientra un po' nello stile, tutto quanto, quando vita,
quello che fai amicizie, dure lotte, testimonianze e tutto continua
in qualche modo, anche se non c'è più il pezzo di Antonio che mi chiedeva
tempo perché lo voleva fare bene.
Sicuramente rispondeva ad una esigenza che oggi credo che sia ancor
maggiormente sentita questa verità, questa libertà di informazione dove
come, quando, perché può morire un uomo come Antonio- e in che modo-
ma quello è già altro.
Comunque grazie per avermi ascoltato e spero che questo sia il primo
di altri incontri nei quali le intelligenze, affinandosi sempre di più
e magari con l'unione dei singoli che in qualche modo, ognuno portando
la sua competenza, anche le sue aree, cioè rendere la cosa sempre più
possibilmente vitale che è il modo migliore per ricordare Antonio perché
sulla vitalità di Antonio, per quanto disperata comunque mi è sempre
stata ben presente, ne sono completamente consapevole, tanto è vero
che nell'ultimissimo incontro io gli ho regalato una sciocchezza, che
era un dramma teatrale che mi era stato dedicato, ma siccome trattava
liberamente della vicenda di Giordano Bruno e del suo Rogo, lui mi disse:
già oggi - ed è una cosa che mi è rimasta perché quando un amico, qualcuno,
qui si dice intellettuale, per me Antonio rimane amico, comunque ti
da la descrizione dello spirito del tempo. E allora ti dice con due
parole che però implicano la solitudine, tutti temi che sono stati accennati
da tutte le persone che hanno parlato oggi. Si capisce che lo hanno
conosciuto e in qualche modo hanno catturato un aspetto di questo personaggio
così poliedrico.
Mi diceva: si bisogna farsi leggenda, in qualche modo giocarsela tutta
per come la credi, per come la vedi e andiamo avanti pure così. Grazie.
ANTONIO BORRELLI. Adesso ci sarà un breve intervento di Mohsen
Melliti, scrittore e regista che Antonio ha avuto modo di incontrare
in Algeria durante un lavoro. Dopo di che pregherei di preparare il
secondo video, "una voce nel silenzio", di Emilio Casalini.
MOHSEN MELLITI. Di Antonio mi interessava il lato umano, l'amico
di sbronza come si dice. L'ho visto due giorni prima che partisse, è
stata una bevuta lunghissima.
Il giorno che è morto ho cercato di immaginare il suo stato d'animo.
"Ho febbre, mi sveglio con rabbia, odora di sesso e nostalgia e voglia
terribile di follia.
Ho bevuto tutte le lacrime di dio, camminando a piedi nudi verso il
paradiso o inferno mio. Non ho la verità, tranne il vapore della parola
e il non detto e la vita come poesia". Grazie.
ANTONIO BORRELLI. A proposito di compagni di sbronza ci tengo a
dare un particolare: Marino Busdachin che doveva intervenire, della
Segreteria dei Radicali, che sta seguendo le indagini, anche in seguito
all'apertura di un incartamento per un processo da parte della Procura
di Roma, una nota particolare perché poi è la cosa che addolora, aggiunge
dolore al dolore, Antonio è stato ritrovato con un tasso alcolico scarsissimo.
Per chi lo conosceva questo significa che Antonio, che io ho sentito
alla una, ora locale della Georgia, alle dieci di sera mentre stavo
a Chianciano in una assemblea del Comitato dei Radicali, con la linea
disturbata, dove lui già aveva i suoi carnefici in casa, mi chiedeva
delle informazioni e voleva parlare con il Segretario del Partito Radicale
Transnazionale e che cercava probabilmente forza da quella telefonata.
Ecco, questo vuol dire che Antonio è sparito nelle prime ore della notte
e che è stato torturato per tutto un giorno, per poi morire probabilmente,
nella sera del 15 ottobre scorso.
Questo è un dato veramente singolare.
Se è possibile far partire il video e vi ricordo che per questo video
c'è l'inibizione alla registrazione da parte di Radio Radicale - Internet.
…………. una secca denuncia della cosiddetta pulizia etnica messa in atto
dai Serbi nei confronti della comunità albanese del Kosovo, è giunta
da Antonio Russo, il giornalista di Radio Radicale che per 7 giorni
a Pristina è stato testimone dell'esodo della popolazione civile.
Ascoltiamolo.
Antonio Russo: Stiamo cercando di investigare sul fatto che ci hanno
detto che poco distante da qui c'è una fossa comune di circa 60 persone
che sono state uccise.
Nonostante i vari ultimatum, le varie firme che sono state apposte da
Belgrado e dalle autorità militari serbe, di lasciare il Kosovo che
si possa assistere a immagini come durante il periodo della guerra,
delle case bruciate e della popolazione indifesa e non protetta dalle
forze della Nato.
Scusate un momento perché questa è una diretta proprio al momento come
si dice, sul campo.
Stiamo cercando ulteriori informazioni di quella che è stata l'azione
portata avanti dall'abbandono dei serbi.
Anche a Kosovo Mitroviza c'è stato appunto un grosso esodo da parte
sia della ….
Come far conciliare o come fare scordare queste crudeltà fatte nei confronti
delle etnie albanesi, del silenzio anche giornalistico, per tanti versi
nei vari giochi giornalistici informativi sono stati portati avanti…
Tra l'altro noi abbiamo anche visto un cadavere vicino allo stadio di
Kosovo Mitroviza, in una zona lacustre e paludosa, che era monca tanto
delle gambe quanto delle braccia.
Questo solo per far capire quello che noi dobbiamo dare di cronaca e
per noi è un fatto di cronaca, un fatto di giornalismo.
Vi lascio immaginare quale possa essere lo stato di un popolo albanese
kosovaro che sta soffrendo queste ferite.
Questa è la stanza dove ho fatto per 10 giorni i reportage, questa qua.
Questo è il telefono, alla faccia di tutte le tecnologie, un fottuto
telefono anni 50, ho fregato anche la CNN così, niente satellitare.
Nel frattempo leggevo Fedor Dostoijevski, in inglese, Delitto e Castigo
che è una lettura come dire consolante, vista la situazione che capitava,
questa era la mia illuminazione, eccola qua.
I moccoli delle candele con cui io, stando seduto per terra perché qui
sparavano come i matti facevo i miei reportage per mezzo mondo.
Mi ricordo sempre Luca Giurato: sappiamo che c'è un giornalista italiano,
era il suo modo simpaticissimo di dire non possiamo però, per motivi
di sicurezza dire il nome, chi è chi non è, che è ancora a Pristina.
Gli facciamo tanti auguri.
Questo era il modo simpaticissimo di Luca Giurato e ogni giorno mi ricordo
che diceva questo. Mi faceva compagnia alle 7,30, era una cosa che faceva
piacere comunque sentire questo fatto.
Questa era la mia camera dove ho fatto per dieci giorni il mio lavoro
per mezzo mondo, a dire quello che succedeva qui a Pristina. Poi dopo
si è dovuto scappare.
Avete cinque minuti di tempo per andare via.
Quindi hanno cominciato a raccogliere tutte le persone nelle varie case
e li hanno raccolti in un punto all'hotel Parca e da lì hanno cominciato
a indirizzarci verso la stazione.
Sono stati momenti di panico.
Io stavo qui in mezzo.
Ah si? Tutti quanti fanno libri sul Kosovo, escluso io.
Questo è un proiettile da 90 millimetri della zona di montagna che sto
facendo vedere a un mio amico. Adesso lo usiamo per i fiori. Un tocco
di arte anche durante la guerra.
Allora io faccio un libro e dico: Kosovo io non c'ero, per dire, scusate
se avrei qualcosa da dire. Kosovo io non c'ero.
Una casa alla fin fine ce l'ho, un tetto ce l'ho, la luce riesco ancora
a pagarla rompendo al limite anche i coglioni a mia madre, quando non
ho i soldi e dire: mi paghi la bolletta della luce fino a che le regge
la pompa e si tira avanti così. Quale è il problema?
Ero l'unico giornalista, credimi, l'unico giornalista che andava lassù.
Persino in dicembre sai in dicembre nevica, prova a immaginare che una
… va ad arrivare fino a Pale, però dalla strada di montagna, non dalla
strada principale.
Ci sono arrivato. Tu sai che io non vedevo l'ora adesso di ritornare
a Pale per visitare il vecchio.
Dico sempre non sono un buon giornalista. Perché essere giornalista
vuol dire fregarsene e dire: "ah, cazzo, mi sono rotto i coglioni",
non avere rapporti di cuore, sentimentali con la gente per le cose,
le situazioni.
Bella fregatura.
Comunque lui adesso ha una terra che nessuno gli può prendere.
ANTONIO BORRELLI. Sono già le 18. La mamma di Antonio, la signora
Beatrice Russo non è ancora arrivata, speriamo sia andato tutto bene
nel viaggio. Roma è difficilissima da penetrare.
La parola a Ugo Ferruta, membro dell'Esecutivo del Movimento europeo
internazionale.
Poi ricordo che al termine del nostro incontro verranno riproposti i
due filmati.
UGO FERRUTA. Antonio me lo presentò Erasmo, uno di quelli che
sono intervenuti nella prima parte. del convegno.
Era qui a Trastevere, io venivo dalla Germania, ero all'epoca, qualche
anno fa, vice presidente europeo dei giovani federalisti. Tornavo a
casa e andavo a una riunione, quella che pensavo una riunione tra amici,
dirigenti a cui volevo bene con cui condividevo delle idee. Una riunione
alla quale andavo un po' alla leggera, con la superbia di quello che
ha raggiunto qualcosa sul piano politico, che viene a parlare con gli
amici del luogo da dove è partito.
Pensavo quindi ad una riunione tranquilla e a una cena ancora più tranquilla.
Invece mi imbattei in Antonio Russo e in quella serata mangiammo bene
e cominciammo a discutere.
Antonio cominciò a contestare, a confutare tutto quello che dicevo,
anche quello che dicevano gli altri ma comunque, su tutto, su tutti
gli argomenti, non solo le affermazioni delle mie convinzioni sul piano
politico ma anche dal punto di vista di formazione anche quando si parlava
di legge, quando si parlava di diritto, quando si parlava di diritto
romano.
E più mangiavamo bene più lo stomaco mi si bloccava e più dicevo: ma
questo chi è, ma questo chi ce lo ha portato. Come cazzo fa a sapere
tutte queste cose?
Mi costrinse a tirare fuori a dire tutto quello che sapevo, a rispondere.
Così terminai quella serata con un notevole mal di stomaco e con un
nuovo amico.
Il nuovo amico era Antonio Russo.
Da allora facemmo parecchie cose insieme e ci divertimmo molto perché
stare con Antonio significava senz'altro provare emozioni ma significava
anche molto divertirsi, anche molto sdrammatizzare. Io ho visto alcuni
dei personaggi che sono stati con lui premiati, alcuni dei personaggi
anche molto importanti, istituzionali e non, con cui ha condiviso delle
esperienze.
Chi lo conosce può immaginare, chi non lo conosce non potrebbe immaginare
le battute dissacratorie, le fotografie, il modo in cui fotografava
il modo comico, a volte anche se con stima apprezzamento di tutti questi
personaggi.
Per tagliare corto Antonio Russo, Antonio Russo chi? Il giornalista?
Io non vorrei parlare solo di Antonio Russo il giornalista, anche perché
quello che abbiamo visto nel video, nel primo video, quello del premio,
non era un giornalista, non era solo un giornalista, era un extra terreste
se vediamo le cose che ha detto era una persona che aveva una formazione,
uno spessore culturale umano, che andava ben al di là delle dignità
e dell'amore, della passione con cui faceva la professione di giornalista.
Era un extra terreste ripeto, piovuto da qualche galassia in un contesto
di autorità politiche istituzionali invece molto terrestri.
Io vorrei parlare di Antonio Russo non il giornalista, non l'uomo di
cultura il ricercatore che è stato presentato da altri, per aiutare
un po' a definire la complessità di questo personaggio; vorrei parlare
di Antonio Russo militante politico.
Antonio era un militante politico, amava la politica, credeva in quello
che faceva.
Era un militante nel senso che una figura importante tra i padri del
movimento federalista europeo appunto definiva il militante come colui
che fa della contraddizione tra fatti e valori una questione personale.
Questo era Antonio in politica. Antonio era un difensore, io sono d'accordo
con Antonio Borrelli quando ha detto che era un difensore della verità
e della giustizia. Nel video lo abbiamo sentito parlare di umanità.
Io direi che era un difensore della dignità, della dignità delle persone
e della dignità dei popoli.
In questo senso lui ha abbracciato, tra le diverse cause che ha abbracciato,
ha abbracciato quella degli Stati Uniti d'Europa.
ANTONIO BORRELLI. E' entrata in questo momento la signora Beatrice
Russo(applausi). Buonasera.
Prego Ugo, puoi continuare.
UGO FERRUTA. Grazie. Dunque lui ha abbracciato la causa degli
Stati Uniti d'Europa perché aveva capito che dietro la demagogia nazionalista,
la demagogia degli stati nazionali si nascondeva a volte, la miccia
dell'estremismo, la giustificazione dell'oppressione.In questo senso
lui ha abbracciato la causa.
Mi convinse, ne discutemmo insieme a lanciare una iniziativa che è la
più significativa di altre iniziative, parlerà Luca D'Ascia successivamente
e sono iniziative più universitarie, accademiche.
Io vorrei qui solo sottolineare la straordinarietà del fatto che storici
tedeschi di livello nazionale se vogliamo, alcune delle massime autorità
della storia moderna tedesca, abbiano pubblicato- e in Germania pubblicano
solo per milioni di marchi e per libri che vendono centinaia di migliaia
di copie -, abbiano accettato di scrivere un saggio in un libro pubblicato
in Italia da Antonio Russo Editore che, era chiaro fin dall'inizio,
avrebbe venduto qualche decina di copie se non qualche centinaio al
massimo.
Ecco, questo spiega ancora una volta la straordinaria complessità, lo
spessore umano, culturale del personaggio, che la persona può diventare
personaggio, altrimenti io non penso che queste persone avrebbero accettato
di imbarcarsi in questa impresa.
E allora, come altri io ho accettato di imbarcarmi con lui nell'iniziativa
"Caffè Europa", che ci portò e qui voglio sottolinearlo, ci tengo a
dirlo, grazie in gran parte ai contatti, ai rapporti privilegiati che
Antonio aveva già da prima attraverso la sua militanza radicale, attraverso
le persone che aveva conosciuto nel Partito Radicale da militante, non
da giornalista, da militante politico che aveva conosciuto in precedenza
a Zagabria, in altri posti.
Lanciammo questa iniziativa che ci portò con un gruppo di giovani di
diversi paesi europei a testimoniare solidarietà in Bosnia, a Sarajevo,
a Mostar, contro l'oppressione e il virus del nazionalismo.
Così cominciarono le prime esplorazioni che poi continuarono dove solo
lui riusciva, poteva, sapeva andare.
Io ho assistito alle prime difficoltà, le difficoltà per farsi accreditare,
alla lotta contro la burocrazia, al momento in cui non era facile salire
il primo livello.
Su questo vorrei anche narrare le difficoltà che Antonio ha incontrato
nel nostro Movimento, scusatemi se ne parlo, ne parlo anche perché sono
contento che qui emergano realtà spesso sommerse, realtà politiche,
realtà culturali, spesso sommerse ma di grande valore come gli anarchici,
come le riviste di filosofia, come altre che abbiamo viste qui testimoniate,
come la Free Lance, a cui Antonio aveva teso una mano.
E' importante che emergano da questa iniziativa, è importante usare
il biglietto come una figura storica del Partito Radicale disse, il
biglietto di Radio Radicale per far conoscere anche queste realtà.
Io penso che lui ne sarebbe stato contento.
Vado e taglio e volevo dire questo: Antonio nel Movimento non fu capito
da tutti, fu molto apprezzato, moltissimi lo hanno stimato, si sono
battuti con lui. Altri sono rimasti indifferenti o scettici perché non
tutti lo hanno capito e credo che questa sia una costante nel percorso
di Antonio attraverso le realtà che ha attraversato.
Non tutti hanno capito e mi permetto di dire una cosa, c'è stato nel
video che abbiamo visto e ascoltato prima la musica, la colonna sonora
della prima parte era dei Queen - che hanno scritto una canzone per
ricordare il loro capo carismatico - che si chiamava "To Much Love will
killing", troppo amore ti ucciderà.
Se volgiamo, sul piano logico, volevo dire che Antonio era una persona
che appunto spesso non ha capitalizzato perché si è molto preoccupato
di dare, ha amato nel senso di dare. Ha dato moltissimo a molti è rimasto
qualcosa di quello che ha dato; molti invece non hanno capito tutto
questo e lo hanno osteggiato, non lo hanno riconosciuto, non hanno sfruttato
l'opportunità che il rapporto con Antonio poteva dare.
Questo è successo nel Movimento, io credo sia successo anche altrove
e ci tengo a dirlo perché se ne discuta e ci tengo a dire anche un altro
fatto prima di arrivare alla conclusione. Antonio negli anni, come era,
si è fatto molti estimatori e anche molti nemici ed è per questo che,
secondo me, sarà molto difficile, non per questo si deve rinunciare,
ma al contrario capire da dove è venuta la mano che lo ha ucciso, perché
i nemici erano tanti, come gli estimatori.
Era un personaggio che divideva, un personaggio che si amava e spesso
si odiava.
Dunque lui credo considerasse limitata, benché ripeto, ne avesse abbracciato
la causa di lotta del Movimento federalista europeo, non gli bastava
confutare l'estremismo nazionalista sul piano della logica intellettuale,
convincere gli altri con argomentazioni razionali che non era giusta
la costruzione dell'Europa divisa in stati nazionali.
Lui voleva anche capire, scoprire denunciare i motivi e gli interessi
che muovevano in modo più o meno discreto e occulto, lo scatenarsi di
quelle passioni che quando si scatenano giustificano, agli occhi di
chi le compie, discriminazioni e atrocità.
Ecco perché è andato in prima linea, ecco perché a un certo punto è
partito, ha compiuto il suo percorso, qualcuno lo ha detto bene, la
sua corsa senza perdere di vista mai, quelli che con lui avevano fatto
assieme un pezzo di strada e ne avrebbero potuto, un domani forse, compierne
un altro.
Del metodo Antonio Russo abbiamo parlato e vorrei dire che la figura
di Antonio secondo me, ma questo dipenderà anche da noi, ma comunque
la figura di Antonio, secondo me, la figura di un altro grande, molto
grande e in modo molto diverso da lui, Altiero Spinelli una figura che
verrà scoperta poco a poco.
Spinelli è uno dei due autori del Manifesto di Ventotene, è stato per
decenni apprezzatissimo da elite intellettuali e anche politiche ma
è rimasto la conoscenza, il patrimonio di pochi.
Antonio, proprio per il suo modo di essere, è rimasto per lunghissimo
tempo, il patrimonio grande di pochi e di pochissimi.
A un certo punto, per mille motivi, per la necessità di trovare una
mestiere perché nella vita è necessario avere un mestiere, lui ne aveva
dieci, quindici dentro di se di mestieri potenziali.
Qualcosa lo ha fatto ridiventare giornalista, era già stato giornalista,
aveva lavorato per una delle tante radio che poi non lo avevano dichiarato
e lo avevano messo ancora una volta di più in difficoltà, non concedendogli
di prendere quello che si chiamava il patentino.
E' ridiventato giornalista e di fare il giornalismo appunto come lo
sapeva fare lui, con cultura, con profondità, con umanità e con passione
senz'altro.
Voglio chiudere ripetendo una sua frase che ho letto in un suo articolo
che ha scritto in seguito ad una esperienza in Tibet, una volta che
mi venne a trovare in Germania.
Poche parole: parte di verità e parte di menzogna hanno da sempre costituito
l'anima della politica.
Anche in questo onestissimo e dico che Antonio, come nel caso della
ex Jugoslavia, come nel caso del nostro primo viaggio insieme, a Sarajevo,
ha voluto immergersi nel centro della geopolitica, nel labirinto delle
umane contraddizioni e verificare se quelle che potevano per altri restare
ipotesi generiche, avessero invece un riscontro fattuale.
Questa, per chi lo conosceva è semplicemente la conferma che anche il
progetto dell'ultima indagine era prima di tutto suo, che era lui che
lo aveva fatto, che lo aveva concepito e aveva trovato poi, successivamente,
la struttura che gli dava i mezzi per farlo e portarlo avanti. Come
era stato per noi federalisti, così è stato in altre occasioni.
E che questo progetto veniva da lontano, che c'erano voluti anni per
realizzarlo da vero uomo libero, da autentico free lance dell'informazione
e della politica che ha cercato e trovato con fatica e a caro prezzo,
non padroni e committenti ma sinergie e compagni di un pezzo di strada.
Grazie.
ANTONIO BORRELLI. A questo punto ho il piacere di dare la parola
all'onorevole Furio Colombo che per primo ha citato Antonio in un suo
libro come esempio di giornalismo e che per primo, anche pubblicamente,
ha suggerito di istituire un premio giornalistico a lui intitolato.
Grazie.
FURIO COLOMBO. Grazie per avermi invitato qui e di darmi questa
occasione di essere con voi in una situazione nella quale la parte viva
e la parte di contemporaneità della figura di Antonio Russo è di gran
lunga superiore, nonostante il dolore dei tanti di voi che gli sono
stati amici cari e penso alla mamma che adesso è qui, qualcosa che appartiene
alla realtà e appartiene al presente, è un fatto della vita dei nostri
giorni.
Devo dire l'impegno che a me sembra ragionevole e ci pensavo mentre
guardavo quel video che è molto bello, è quello di collocare Antonio
Russo nella storia del giornalismo contemporaneo.
Perché ci penso? Perché mentre quando è stato ucciso, in quei giorni
stavo insegnando ad un corso di giornalismo internazionale alla Luiss
e mi trovavo di fronte 40 ragazzi, 40 giovani con cui ogni settimana
si parlava, si rifletteva sullo stato del giornalismo contemporaneo
e quando l'evento è accaduto era impossibile non discutere con loro
di cosa sapete di Antonio Russo e che cosa avete letto o ascoltato sulle
radio e le televisioni o sui giornali, di Antonio Russo?
Ho chiesto a quelli di loro che lo avessero voluto - nelle scuole di
giornalismo italiano non si fanno prove scritte, si fa quasi sempre
conversazione - io ho detto: vorrei delle prove scritte, vorrei che
scriveste, oppure fate della radio e della televisione quello che volete,
ma vorrei il documento giornalistico.
Mi sono accorto che, accidenti, se non era passata invano questa presenza
nel giornalismo contemporaneo. Non posso neanche dire nel giornalismo
italiano perché è stato molto di più che il giornalismo italiano. E'
giusto dire giornalismo contemporaneo.
Ho avuto un ritorno di lavori che mi dicevano quanto era stato importante
per questi giovani che pensavano di fare i giornalisti essere stati
intercettati da una voce, essere stati intercettati da una linea di
comunicazione, essere stati intercettati da un modo di comunicare. E
aveva lasciato un segno, aveva lasciato un segno che era ben distinguibile,
era molto diverso il modo con cui loro mi parlavano di cose che conoscevano
perché le avevano apprese dalle forme tradizionali di informazione e
di giornalismo e le cose che sapevano per averle apprese dal giornalismo,
dal modo di fare giornalismo di Antonio Russo.
E' stata quella l'occasione nella quale mi è venuta l'idea, ho pensato
che si dovesse avere l'idea di avere un premio di giornalismo di Antonio
Russo, un premio di giornalismo internazionale di Antonio Russo.
Io immagino, avendo ascoltato alcuni di voi qui e avendo, per quello
che poso capire, non avendolo conosciuto, o avendolo conosciuto soltanto
come voce e non è poco, ma avendolo conosciuto soltanto come voce, mi
domando se alcuni di voi non temano che questa sia una forma di istituzionalizzazione.
Ho capito e sentito benissimo che per capire Antonio Russo e la sua
vita debbo rifarmi a certe mie esperienze di vita americana negli anni
60, quando l'umanità si distingueva agli occhi dei giovani in Hip e
Square. Io sarei Square, lui certamente Hip. E' tra HIp e Square che
si è giocato quel decennio nella cultura americana.
E' tra Hip e Square che si è giocata la grande tensione, la grande spaccatura
americana sulla questione della guerra del Vietnam.
E' tra Hip e Square che si è giocata la letteratura americana di quel
periodo e anche la musica e anche le cose che hanno lasciato un segno
di quel periodo.
La definizione di Hip era uno che non puoi mettere a posto in nessuno
modo perché non c'è un contenitore che lo possa ospitare, per quanto
grande e comodo sia il contenitore, anzi più lo accomodi e meno lo ospiti,
più lo faciliti e meno ti arriva.
Hip è qualcosa di più di libertario, è qualcosa di diverso dalla pura
e semplice professione di anarchia. E' un fatto esistenziale molto forte
che reclama la propria impronta, che reclama la propria unicità, reclama
una identità che non si presta ad essere sopraffatta anche benevolmente
da identità protettive, non si presta ad essere protetta, che è l'estremo
non prestarsi.
E' facile per molti di noi indignarsi degli antagonismi, è molto più
facile irritarsi e sottrarsi alle benevolenze, alle protezioni e agli
accomodamenti. Di qui si identifica questo genere di persona e questa
persona.
Io ascoltavo e pensavo, ho seguito istintivamente due filoni di ricordi
per analogia: uno è il ricordo per analogia del lavoro del corrispondente
di guerra. I corrispondenti di guerra, tipicamente - anche i bravi i
seri, anche gli onesti - hanno alcune regole che prima o poi finiscono
per seguire in qualche modo.
Un corrispondente di guerra è sempre a cavallo in un punto indefinibile,
per usare il linguaggio di Primo Levi, tra i sommersi e i salvati, tipicamente
il giornalista di guerra si sposta sui salvati. Si, li vede i sommersi,
li racconta i sommersi e si, se è bravo e serio, usa gli accenti giusti,
il linguaggio giusto, ma sta con i salvati. E' un fatto della vita.
Il giornalista di guerra prima o poi torna nel grande albergo, torna
a trovare elementi di compensazione e consolazione. Il giornalista di
guerra sta nel club di coloro che sanno, di coloro che sono in grado
di dare le informazioni ufficiali, di coloro che sono in grado di dare
dei materiali, dei documenti, delle indicazioni e qualche anticipazione
e imparano che è bene frequentare in modo che le cose giuste arrivino
al momento giusto perché si insegue lo scoop, perché è bene stare vicino
a dove le buone informazioni ti possono venire.
Il corrispondente di guerra impara che devi dosare estremamente la partecipazione
e il distacco, ma che il vero segreto è il distacco.
Ricordo una cosa che mi raccontava mia figlia mentre faceva scuola di
Medicina a New York, mi diceva: sai cosa ti dicono quando entri nella
parte più grave e drammatica della chirurgia, la chirurgia oncologica,
quella più difficile da tollerare per i giovani, i ragazzi che mettono
per la prima volta le mani in questa materia, ti dicono "si ma non sta
capitando a te". Ricordati bene mentre stai facendo ciò che stai facendo,
che non sta capitando a te.
Io vedevo mia figlia scandalizzarsi di questa cosa, perché diceva: no,
io faccio il medico esattamente perché vorrei identificarmi con le persone
che stanno soffrendo.
Ma la scuola era un'altra, la scuola era. Attenzione, tranquilli tutti,
nessuno si impressioni per quello che vedrà tra poco sul tavolo operatorio,
non sta capitando a te.
Quando lei me lo ha raccontato mi ha fatto venire in mente quanto questo
sentimento è istintivamente, silenziosamente diffuso quando si fa il
corrispondente di guerra, quando si fa il corrispondente di dolore di
orrore e di repressione, non sta capitando a me e ti tocchi in tasca
i documenti, il tuo passaporto, la tua identificazione, il tuo tesserino
perché dici: terribile quello che vedo e buone le parole che posso trovare
per descriverlo, ma ho il mio documento, il mio lasciapassare. Io me
ne vado.
Ecco, quello che ho visto, quello che sapevo dai giorni di Pristina,
quello che ho visto da questi video, quello che ho sentito nelle vostre
voci, mi descrive, mi racconta, mi riporta, mi attribuisce dimensioni
in più da quelle di un giornalista che ascoltava con infinita ammirazione
un altro giornalista, mi restituisce una immagine che certo non si presta
ad essere catturata in una struttura istituzionale di nessun tipo.
Eppure io insisterò in questa idea di un premio che porti il suo nome,
perché cosa possiamo sapere dei tanti che vengono avanti, specialmente
fra le persone giovani, specialmente fra quelli che ancora non hanno
potuto respirare in pieno la loro vita professionale. Che cosa possiamo
sapere del modo in cui lo faranno e perché non dovremmo dargli un punto
di riferimento, perché non dovremmo dargli un modello.
Un modello come Antonio Russo non è una cosa che si prende e si dice:
faccio come. No, però è un riferimento.
Badate che molto nella vita dipende dai simboli alti, buoni e nobili.
Quante volte abbiamo notato che simboli ignobili producono, prima o
poi comportamenti ignobili e che brutte espressioni e avvilenti descrizioni
e modi terribili di raccontare le cose producono azioni maledette. Quante
volte lo abbiamo visto?
Non è vero che c'è una grande differenza, una grande vallata tra le
parole e i fatti. C'è un flusso continuo di influenze e se si può fare
qualcosa, dico io dal mio versante Square, se si può fare qualcosa perché
non il nome, non la vita, non il lavoro, non una parte almeno di ciò
che ha fatto come reporter, come giornalista, come testimone possa diventare
simbolo e modello per le persone più giovani, che si orientano a fare
il mestiere del narrare vita, avventure, disavventure, tristezza e morte
degli altri. Non sarebbe poco e potrebbe avere molta importanza.
Un segno che vale meno della sua vita e di ciò che ha detto e fatto
e rischiato, ma che vale di più dell'omologazione nel silenzio che è
quello in cui siamo molto ma molto bravi, tutti quanti, non voi ma in
generale, nella vita che ci circonda e che è fatta di quel tessuto ormai
che si vede in certi film di fantascienza, in cui la ferita si rimargina
subito mentre guardate. Viene ferito il robot che sta per assalirvi,
che rappresenta il pericolo e la sua ferita, per quanto grave, immediatamente
si rimargina e il tessuto ritorna intatto come se non fosse passato
il segno che avrebbe dovuto fermarlo.
Qui ci troviamo di fronte ad una doppia situazione che non dobbiamo
lasciar cadere e che non dobbiamo permettere che venga ignorata. Una
è quella del valore e del simbolo alto della persona, della sua vita,
del suo modo di lavorare, della testimonianza, del suo modo di fare
il testimone di quel suo stare dalla parte di.
Fuori dai club, fuori dagli alberghi, fuori dai circoli privilegiati,
fuori dalla protezioni e accanto a coloro, popoli, persone o individui
su cui cade il buco nero, la cappa nera e terrificante della sofferenza.
Il contrario esatto di quella scuola di Medicina di cui stavamo parlando,
di quella rassicurazione: tranquilli, non siete voi.
Lui ha preso l'altra posizione. No, io sono qui perché sono voi e non
è né facile né comune né tradizionale. E' il contrario per la maggior
parte dei modi con cui si esercita la professione.
L'altro aspetto per cui vorrei persuadere che questa è la cosa che va
fatta, è il tipo di inchiesta che è in corso, è il tipo di delitto che
rimane aperto e potrebbe rischiare di rimanere impunito, il tipo di
morte che Antonio Russo ha dovuto affrontare perché faceva il giornalista
in quel modo.
E' per questa ragione che vorrei la costrizione del dover riascoltare
il suo nome, riascoltare le ragioni per le quali è bene che altre persone,
tante altre persone sappiano di lui e stiano attente a quello che è
accaduto.
Io credo che sarà una storia lunga, io credo che sarà un'inchiesta incerta,
io credo che ci saranno delle soluzioni e delle risposte che non saranno
soluzioni e non saranno risposte, perché troppe altre storie, comprese
tante di cui Antonio Russo si è occupato, sono state di questo tipo
e che il tipo di delitto della storia di Antonio ci costringe a rivedere
è di quegli orrendi delitti di stato che si fanno ignobilmente e che
si coprono facilmente.
E allora questa è l'altra ragione, la stessa per cui ad esempio esiste
negli Stati Uniti un Committee for protection journalist, un gruppo
che non ha altro scopo che di proteggere i giornalisti quando sono in
situazioni di pericolo e persino quando si autoproteggono nel modo che
vi dicevo un momento fa.
Vedete, nell'ultima storia del giornalismo contemporaneo si dipartono
due filoni come alla foce di un fiume, o meglio il delta. Da una parte
c'è una serie di percorsi che vanno sempre più persino profittando della
estrema agilità delle nuove tecnologie vanno sempre più omologandosi
e diventando una sorta di giornalismo compatibile con quasi tutto. Un
giornalismo di normalità, un giornalismo che non spacca, che non rompe,
non provoca, non altera, non denuncia, non sussulta e non provoca sussulti.
Dall'altra parte esistono rare, ma ci sono, focolai, centri di giornalismo
partecipativo che vuol dire: io ci sono e la cosa mi riguarda, la cosa
che ho capito mi riguarda e non tacerò. Non tacerò e continuerò a parlarne,
continuerò a parlarne e continuerò a identificarmi.
Il giorno che conta non è quello in cui partirò ma è il giorno in cui
sono arrivato perché da quel giorno si è creato un legame che sono deciso
a mantenere.
Esiste questo tipo di giornalismo, affiora meno, è più raro ma c'è.
Non dirò che Antonio Russo sta da questa parte o dall'altra e che abbiamo
descritto, state descrivendo, state amando l'immagine, la figura, non
il ricordo, ma la vita di qualcuno che non si presta ad essere messo
in uno scaffale per quanto lo scaffale sia bene illuminato e sia messo
nel punto buono della casa.
Però vorrei che aveste fiducia nel fatto che da tanta energia vitale
e da tanto contributo appassionato e incessante di quella qualità e
di quel rischio, restassero alcuni segni che è bene che restino. Da
una parte perché avranno una grande importanza educativa e questa è
una professione sociale, è la parte educativa, la parte di mobilitazione
di qualità professionali ma anche di sentimenti e di modi di farlo ha
importanza.
Dall'altra, per impedire, anche con l'espediente della ripetizione organizzata
del nome, del senso della storia, dell'evento, per impedire che cadano
silenzi tranquilli e quelle giornate dell'oblio che sono la gran parte
delle nostre giornate.
Per cui anche se l'idea di un premio internazionale Antonio Russo vi
può sembrare per un momento un'idea Square, io vi prego di pensarla,
io vi prego di sostenerla perché credo che si debba trasformare in un
progetto.
Vi ringrazio di avermi permesso di dirvelo qui.
ANTONIO BORRELLI. Abbiamo un programma in netto ritardo.
Pregherei Luca di essere breve o posposto perché c'è Piera degli Esposti
che ci ha fatto questo grande regalo di leggere un pezzo di Antonio,
quindi sarà un momento emozionante e abbiamo molti interventi.
Decidi Luca. A questo punto io inviterei al tavolo Beatrice Russo e
Mubera Busgiari La mamma di Antonio, Beatrice Russo e la mamma kosovara
di Antonio che l'ospitò per due anni a Pristina.
Si stanno incontrando in questo momento, non si erano ancora viste ed
erano una seduta dietro l'altra.
Mubera Bujari: Faccio le mie condoglianze alla famiglia da parte mia
personalmente e da tutta la mia famiglia e da tutto il Kosovo.
Lui ha fatto tanto per noi e ha meritato tutto quello che noi abbiamo
dato a lui.
Lui mi ha raccontato tanto di sua madre e mi faceva tanto piacere sentirmi
chiamare mamma anche a me.
ANTONIO BORRELLI. E' l'incontro che abbiamo fortemente voluto
perché Antonio era un uomo che appassionava, amava la gente e quindi
era anche amato.
Non so se Piera degli Esposti è pronta adesso o tra un poco.
Prego allora Oliviero Beha di intervenire con la preghiera, in questa
circostanza, di usare pochi minuti perché siamo emergenza.
OLIVIERO BEHA. La sintesi per me, ringraziando iddio, non è un
problema.
Invece di partire da Antonio Russo parto da Furio Colombo.
Io sono uno dei molti credo, affascinati dall'eloquio e dalla musica
delle parole di Furio Colombo, che è una specie di Pifferaio di Hammelin.
Il problema è di capire chi sono i topi.
Si parla adesso di Antonio Russo per una serie di motivi, è ovvio, per
la fine che ha fatto, che è una fine tragica.
Il secondo è che ha fatto questa fine tragica perché stava facendo un
certo tipo di mestiere e lo stava facendo in un certo tipo di modo.
La prima domanda credo per voi, non so appunto se voi o noi si sia i
topi o semplicemente i cittadini che venivano liberati dei topi grazie
al Pifferaio di Hammelin, questo è tutto da discutere.
Io credo che ci dovremmo domandare come mai ci sia un Antonio Russo
che fa quelle cose e ci lascia la pelle e poi tutti gli altri. Dove
stanno tutti gli altri?
Compresi coloro che lo commemorano, dove stanno abitualmente, cosa fanno?
La prima cosa che penserei sentendomi dire queste cose, nei vostri panni
dire: ma perché Beha dice questo, a quale titolo?
Il titolo è quello personale e professionale per quello che faccio tutti
i giorni, per il fatto che non appena mi è stato possibile Antonio Russo
l'ho commemorato in un certo modo, per ricordare che cosa succede, che
cosa è successo e che cosa invece non succede e dovrebbe succedere,
per il fatto che questo è un Paese e il discorso lo potremmo fare su
scala internazionale e sarebbe prezioso ogni riferimento international,
come ha fatto Furio Colombo ai Comittee americani.
Ma io mi attengo al disagio di Tor Bella Monaca, sapete ognuno ha la
visione delle cose che gli pertiene, dico che rimanendo in questo Paese
la categoria dei giornalisti di cui nominalmente faccio parte io, nominalmente
fa parte Furio Colombo che è parlamentare, perché contemporaneamente
fa il giornalista, era il rappresentante americano della Fiat, tutto
straordinariamente legittimo ma, per capirci, semplicemente per chiamare
le cose con il loro nome, altrimenti non si capisce più nulla, altrimenti
si manca di rispetto, sia pure retoricamente inteso nei confronti di
chi stiamo commemorando.
E allora il problema è che questa categoria alla quale, sul piano sostanziale
Antonio Russo apparteneva, la categoria in Italia si è dissolta, è stata
letteralmente comprata dalla politica, come sappiamo tutti, in senso
stretto e in senso lato, dalla pubblicità e dalla promozione pubblicitaria
per cui sembra che quasi tutti facciano quasi sempre gli uffici stampa
di loro stessi o di coloro che rappresentano.
Non c'è più curiosità, nessuno ha voglia di andare a capire, ricostruire
storie. Non mi meraviglierebbe se, dietro la vicenda di Antonio Russo
ci fosse qualche altra cosa, cioè qualche rimando alle armi come sembra,
all'uranio impoverito.
Insomma nella realtà mondiale il difficile non è scoprire la singola
tessera del mosaico, è mettere a fuoco tutto il mosaico. Manchiamo di
bravi mosaicisti, non di bravi figurinisti tesseristi, quindi di solito
si riesce a fare in qualche modo avere il segreto e tenere in penombra
e non riuscire a vedere bene la figura intiera. Si vede la tesserina
e quella tesserina spesso non riesce in qualche modo, faticosamente,
dopo qualche tempo a venire alla luce.
Solo che a quel punto, quando viene alla luce non è più in grado di
essere messa giustapposta, di essere associata alle altre tessere.
E allora non si capisce più, allora sembra che Antonio Russo - sia o
sia stato, sia perché nel caso di persone così il presente storico è
molto più adatto e rispettoso- uno stravagante.
Allora noi ci possiamo permettere il lusso di Antonio e della sua morte
perché è diverso da noi. Attenzione, ognuno allora si prenda la responsabilità
di quello che dice. Non lo dico a voi in questo caso a chi materialmente
non fa quello, lo dico a chi fa parte della categoria alla quale apparteneva
e dalla quale si staccava Antonio Russo e vive un altro tipo di vita.
Guardate, proprio alle corte, sempre in omaggio alla sintesi, rispetto
tantissimo, l'ho fatto prima lo faccio in mortem, Antonio Russo, ma
quello che mi riesce intollerabile è che la categoria e le persone rappresentative
della categoria facciano i saprofiti sulla sua memoria.
Questo per me è troppo, ma forse sono io che sono di stomaco debole.
Grazie.
ANTONIO BORRELLI. Grazie Oliviero.
Non lo avevo presentato adeguatamente. E' un giornalista Rai che per
primo ha avuto modo di fare una trasmissione radiofonica dedicata ad
Antonio Russo. Grazie.
Se nel frattempo si prepara la postazione di Piera degli Esposti che
ci sta per fare questo grande regalo: la lettura di un testo di Antonio,
"La congiura del silenzio".
E' pronta adesso e quindi la salutiamo, è presente con noi, una delle
maggiori attrici italiane per me. Quindi lo dico in senso assoluto.
Grazie.
PIERA DEGLI ESPOSTI. Il secco, inconfondibile e sussurrato tac
dell'orologio avverte. Alzo gli occhi anche se non ce ne sarebbe bisogno.
Lancio una veloce occhiata, le 18,30. Ho capito, ricomincia il balletto.
E' il marzo del 99 a Pristina.
L'operazione Nato è in atto da giorni e la televisione tra poco ululerà
il suo clac mortale e il silenzio sarà l'unica compagnia di un'attesa.
Mi affaccio alla finestra per registrare rumori, sussulti di una città
condannata a morte.
Le strade sono deserte. Quella principale che conduce a Vellania è sgombra
dal solito ceck point della polizia.
Quanti ricordi in quei ceck point maledetti.
La strada che conduce a Villania parte dalla grande moschea di Ali Pascia
per poi arrampicarsi a sinistra zigzagando verso la collina.
Su questo tragitto nei mesi passati si svolgeva il gioco dei controlli
della Milizia su chiunque passasse. Era un gioco tragicomico, una sorta
di gatto e topo, dove un ironico croupier si divertiva a tenere banco.
L'ora era sempre la stessa, le 7,30.
All'imbrunire la Polizia militare soprannominata gli uomini blu, come
uno stormo di nottole usciva disponendosi nei punti principali d'ingresso
ai vari quartieri albanesi di Pristina. I più rabbiosi si situavano
all'ingresso del quartiere per Brasniesvki.
Un caldo caffè che bevo mi riporta ad un presente dai tragici presagi.
Ritornano immagini di Sarajevo durante la guerra bosniaca, una città
anch'essa in agonia, torturata dalle mille astuzie di carnefici, umiliata
nella sua dignità passiva, nell'attesa di una dichiarazione di morte.
A Pristina la differenza è l'abbandono, l'accettazione di una spugna
gettata sul ring da parte del mondo nel denunciare l'efferatezza di
una sentenza, la soluzione finale sola, blindata, incompresa, usata
nel suo forzato isolamento.
La pulizia etnica appartiene al paradosso di una privacy non dichiarata
ma accettata dalle politiche di sovranità.
Nel trascolare delle memoria il suono del campanello mi richiama. Corro
senza sapere chi possa essere. Apro e sono i vicini, mi chiedono di
poter telefonare a Premiza, per avere notizie dei loro parenti.
Sono due ragazze di circa 22, 23 anni, semplici nel loro imbarazzo,
cercano il contatto, la pazienza della ripetizione dei gesti per un
numero telefonico nasconde il nervosismo angosciato di una risposta.
Attendono, riprovano, incrociano i loro sguardi assorti dal dubbio.
Mi guardano chiedendomi: si, perché?
Balbetto loro che la guerra è qui, divertirsi delle congiure del silenzio.
Finalmente, dopo l'ennesimo tentativo prendono la linea, parlano concitatamente.
Il loro sguardo per un momento si rasserena, le tristi paure si allontanano
al solo sentire le voci dei propri cari.
Stanno bene. La città la stanno svuotando con i rastrellamenti, saccheggi,
distruzioni sono la quotidianità.
Il cibo scarseggia e la paura non da loro modo di fuggire. Dopo tutto
viviamo Inshallah, per volontà di dio.
Curiosamente ritrovo a vivere la concitata esistenza degli assediati,
di prigionieri non dichiarati.
Ci scambiamo sorrisi e sguardi di consolazione, ci domandiamo quale
possa essere il nostro destino e, al contempo, l'istinto femminile osserva
il disordine della camera dove vivo lavoro, passo le notti.
All'unisono si apprestano a pulirmi la stanza riordinandola e anche
la cucina. Mi imbarazza, cerco di dire loro che non importa, che lo
posso fare anch'io. Bugiardo dico a me stesso. Non c'è cosa più meravigliosa
di una donna che nei momenti più tristi si affaccia… solo per dichiararti
una solidarietà, una presenza quasi protettiva, rassicurante, silenziosa,
dove il domestico rumoreggiare di richiami mi riporta ai tempi felici.
Mi chiedono quanti anni abbia e perché non sia ancora sposato, non è
un bene per un uomo essere senza famiglia e senza figli.
Gli imbarazzi di domande e risposte scompaiono di fronte all'emergenza.
Si solidarizza pur nella solidarietà.
Ci salutiamo e ritornano nella casa prossima alla mia dove il resto
della famiglia vive.
Profughi da Sdremiza vivono ormai da quattro mesi in questa casa messa
a disposizione da un conoscente. I loro sei bambini sono, ai miei occhi,
la cosa più cara, le loro voci mattiniere hanno rallegrato quasi a miracolo,
i giorni trascorsi.
Gli spari le granate unico rumore che rompeva il silenzio tombale della
città, scomparivano di fronte all'incosciente gioco dei fanciulli.
Un giorno li vidi giocare dietro casa, in un campo aperto dove la visuale
per i cecchini era delle migliori. Nessun riparo, nessuna possibilità
di mettersi in salvo. Poco distante dal muro di facciata della casa
c'era la carcassa di un cane, ucciso da una delle tante gragnuole dell'offensiva
serba alla periferia della città, forse da qualche cecchino posizionato
sulle alture antistanti il nostro quartiere.
Con la massima disinvoltura i pupi trotterellavano avanti e indietro
in un gioco la cui fantasia mi era sconosciuta, incuranti di quella
carcassa, di quel terrore che non risparmiava neanche gli animali.
Gli spaventati richiami dei genitori per farli rientrare a casa non
sortivano alcun effetto; la loro gioia comunque prevaricava qualunque
logica.
Li guardavano divertiti, ironici sfrontati nella loro dichiarazione
di vita. Presi la macchina fotografica e scattai alcune foto con il
pensiero di una cara memoria da portare con me.
Squilla ancora il telefono, rispondo. E' una delle tante corrispondenze
con il mondo che comunque cercavo di fare, resoconto di una esecuzione
in atto, denuncia di come l'intelligenza propagandistica serba approfittasse
dei bombardamenti Nato per lavorare più alacremente nella pulizia etnica
e nello svuotamento della città. Gli attacchi ai quartieri in perfetta
coincidenza con gli attacchi Nato.
Le case bruciate come enormi falò dipingevano le notti di oscuramento.
Mi appresto a passare l'ennesima notte, preparo la candela.
La notte scende nella sua inesorabile complicità.
La case si serrano, le serrande si chiudono come occhi per la buonanotte.
I cani si preparano a spadroneggiare per le strade, spavaldi netturbini
dell'abbandono.
Non si dormirà. La notte sarà lunga.
L'unico momento di quiete sarà verso le 3 di mattina.
Accendo la candela solo quando non riesco a trovare qualcosa. Per il
resto mi orizzonto al buio quasi come un cieco.
Aspetto l'inizio degli attacchi e raccolgo le idee sugli appunti presi
durante il giorno e le mie perlustrazione per la città per i prossimi
reportage che durante la notte dovrò fare.
Nelle pause tra una chiamata e l'altra, non posso fare a meno di rimemorare
la simpatica vitalità di Bellania, il quartiere di Rugosa il futuribile
Presidente di una futuribile Repubblica del Kosovo.
Quale febbrile vivacità durante il giorno. Decine di studenti dai 18
anni in poi la mattina, verso le 7,30, si ritrovavano in un allegro
consesso nell'attesa di entrare nelle strette, anguste aule ricavate
da case private.
Educazione, cultura, futuro. Tutti i giorni, da mesi ormai scendendo
in centro li incontravo, chiassosi quanto mai, irriverenti come tutte
le generazioni studentesche.
Dalla finestra li vedevo dedicarsi scherzosamente all'ora sportiva per
poi riconcentrarsi nelle aule, chini sui banchi anni 60, dalla fòrmica
verde e li scorgevo dalle grandi finestre di aule quattro metri per
cinque, pigiati in 20 o più stancamente assorti nelle lezioni.
Al mio passaggio ci incontravamo con gli sguardi fra il curioso e il
gentilmente indispettito testimone della loro quotidianità, scambiandoci
un implico buon giorno.
Nonostante l'apparente normalità la guerra era lì.
Non c'è cosa più terribile delle guerre non dichiarate, dove solo la
forza dei nervi aiuta a sopravvivere.
Un sussulto, inizia il carosello.
Sono circa le 8,30. La notte avvolge come in un piumone la città, quasi
a voler attutire o nascondere quello che qui stava succedendo.
Un'offensiva feroce era da poco iniziata da parte serba nella parte
sud della città a circa 5 chilometri nel quartiere di Matucian, situato
alle spalle di Villania dove mi trovavo.
Si percepisce senza difficoltà l'avvicinarsi degli spari. E' chiaro
che è in atto una serrata offensiva per sbaragliare le posizioni sulle
colline presidiate da soldati della HLK e dalla difesa civile e nel
contempo, per finire di circondare, stringendoli in una morsa di ferro
i restanti quartieri a sud di Pristina, eliminando così l'ultima possibilità
di una via di fuga in direzione di Skopie.
La trappola si sta sempre più chiudendo nell'inesauribile piano di soluzione
finale.
E' chiaro a tutti noi che è una questione di ore prima che il destino
si compia.
E da questo, impietriti, ci anestetizziamo in un'attesa infernale.
Ecco, da lì a poco, le 10,30 circa, da lì a poco iniziare i bombardamenti
Nato. Un amaro sorriso ci disegna i volti, un irrisorio scoppio di speranza
dipinge un cuore stanco delle tante attese e infingimenti sulle nostre
aspettative.
Che dire a me stesso? Cauto ottimismo, ferma diplomaticità nel nascondermi
la premonizione di quello che là fuori, fuori dalla finestra come in
un film.
"Natenenia", buona notte Pristina. E con le dita spegnevo la luce di
una candela che quasi a faro illuminava il gioco dei…
Inshallah.
ANTONIO BORRELLI. Piera grazie, la lettura di un testo giornalistico
solo tu potevi farlo in un contesto del genere.
La caratteristica di Antonio, quando scriveva e anche quando parlava
era di mettere in successione anche solamente due parole e in mezzo
a un racconto di cronaca generare poesia, letteralmente.
Aveva questo tipo di caratteristica Antonio.
Io invito Luca D'Ascia a intervenire in questo momento
Mentre Luca D'Ascia arriva inviterei al tavolo un grandissimo amico
di Antonio, in modo che così saluta la mamma Beatrice Russo, Francesco
Marzio, che veramente era un grande amico di Antonio e che spero un
giorno, dal momento che è mio figlio possa magari vincere il premio
giornalistico intitolato ad Antonio Russo.
La parola a Luca D'Ascia, ricercatore di Storia all'Università di Pisa
e membro del Comitato editoriale di Contravia.
LUCA D'ASCIA. Immagino che tutti siano rimasti molto colpiti
dalle immagini di Antonio che abbiamo potuto vedere dal servizio da
Pristina.
Qualcuno ha parlato molto bene di disperata vitalità ricordando Pasolini,
un autore che era molto caro ad Antonio, io direi che forse l'impressione
della vitalità ha prevalso sulla disperazione di fronte ai drammi umani
che Antonio ne aveva visti tanti nelle sue corrispondenze da tutto il
mondo.
Però in questo video abbiamo visto soprattutto un uomo felice di essere
nell'azione. Non sappiamo cosa avrebbero potuto dare ancora 50 anni
ad Antonio. Sicuramente se fosse arrivato a 90 anni sarebbe stato un
novantenne interessante, ma comunque, visto che questo è stato il destino,
possiamo vedere in questi suoi 40 anni di vita che Antonio, con i suoi
alti e bassi, passando le sue crisi come tutti e forse con maggiore
intensità di tanti altri, però stava comunque affermandosi, stava conquistando
una propria identità, come giornalista e anche come persona.
Man mano che passava il tempo lo vedevamo sempre più sicuro di se stesso,
sempre più convinto della validità del suo lavoro e quindi anche più
felice, perché per essere felice per Antonio significava essere lì presente,
informando, facendo lavoro politico e giornalistico.
Sicuramente Antonio era un personaggio molto diverso da tanti altri,
lo ricordava benissimo Ugo prima, l'impressione sua quando conobbe Antonio
deve essere stata un po' l'impressione di tutti quelli che lo abbiamo
conosciuto. La cosa forse più straordinaria di Antonio è che non faceva
nessun mistero di essere diverso, io non ho conosciuto nessuno a cui
importasse tanto poco quello che gli altri penseranno di lui.
Veramente Antonio era assolutamente indifferente alle convenzioni, non
gli importava assolutamente di rappresentare nessun gruppo, nessuna
istituzione. Era veramente un personaggio che veniva da lontano, perché
Antonio era un alternativo vero.
Alternativa è stata tanta gente negli anni '60 e '70, poi sempre meno
negli anni '80 e '90, moda prima esserlo, moda poi non esserlo, prendere
le distanze da una cultura che sembrava vecchia, superata, il sessantottino
con l'eskimo diventava un personaggio ridicolo, da film comico.
Per Antonio questo problema non esisteva perché essere un alternativo
per lui non era un fatto di moda era veramente una realtà esistenziale.
Antonio non si poneva il problema di essere diverso, di aderire a una
moda alternativa, di essere hippie o essere square e mai si sarebbe
posto il problema in questi termini. Semplicemente era diverso.
Era diverso direi e veniva da lontano. Dietro Antonio intanto c'è un'Italia
antica, ci sono questi Abruzzi, questa cultura montanare, questo sentirsi
in un certo senso ancora legato al campo e questo gli ha permesso di
capire molto bene culture così diverse dalla nostra cultura urbana,
cultura di Paese sviluppato, come la cultura jugoslava, la cultura algerina,
l'Africa, l'America latina e la Cecenia.
Di fronte a queste culture pastorali, queste culture arcaiche, non uso
ovviamente la parola primitive perché Rodolfo Carpini molto bene ci
ha indicato quanta violenza culturale c'è anche in queste categorie
di culture primitive, di popolazioni vicine alla natura.
Antonio aveva un enorme rispetto per quello che possiamo chiamare le
culture arcaiche, le sentiva vicine perché probabilmente anche lui,
in qualche modo, sentiva che lì erano le sue radici, che lui era un
forza del passato sempre per citare Pasolini, di fronte alle varie popolazioni
del terzo mondo che incontrava Antonio si metteva assolutamente sullo
stesso piano e qui non era veramente un fatto di moda o che lui cercasse
un certo atteggiamento culturale quando diceva che Congolu, il figlio
di Mobutu, questo Congolu è solo un imbecille, lo diceva con la stessa
inflessione con cui avrebbe potuto dirlo un congolese, partigiano di
Cabila.
Quando descriveva un discorso di Loren Desiree Cabila sarà il tipico
africano, promette grandi cose, avanti compagni recuperiamo le nostre
risorse, nazionalizziamo l'oro, i diamanti e non so che cosa, veramente
ci metteva davanti agli occhi questa figura che mai avremmo pensato
che potesse avere un ruolo nelle nostre vite.
Antonio veramente avvicinava a tutti noi il terzo mondo per questa capacità
di empatia di vivere le sensazioni dall'interno.
Non era un distaccato, non era un analista, era un etnologo pratico
come ha detto molto bene Patrizia prima.
Però questa sua capacità era una capacità assolutamente acquisita nel
corso dell'azione, era la capacità anzitutto di identificarsi con persone
concrete, con i destini umani che si trovava di fronte.
Questo gli ha permesso di superare la barriera culturale di fronte a
gente di altre razze, di altre religioni, di altre culture, con una
facilità che credo che nessuno di noi avrebbe avuto nelle sue posizioni.
Antonio era molto sensibile alle realtà primarie della vita, del ciclo
della natura, dei lavori agricoli, dei sentimenti di fedeltà all'interno
del gruppo familiare, all'interno dei clan. Era una necessità avere
amici nei paesi dove andava; però avere amici era anche la difficile
conquista di uno che capiva quali erano le regole del gioco in quel
tipo di società.
Avere amici significava avere la protezione per poter svolgere il proprio
lavoro ma implicava anche integrarsi nella mentalità, nel tipo dei rapporti
sociali di fronte a cui Antonio si trovava.
Io penso che questo grande talento che aveva Antonio, come etnologo
pratico, abbia inciso molto su questo aspetto vitale, ottimistico, di
cui parlavo prima a proposito della vita, perché Antonio sicuramente
era, come dicevo prima, un alternativo vero, istintivo e deve aver sofferto
moltissimo nel vedere che da un lato la cultura alternativa diventava
una moda, dall'altro che varie ondate di riflusso ci si sovrapponevano,
perché per Antonio il fatto di non avere un ruolo professionale, di
rifiutare i ruoli culturali istituzionali, di essere coltissimo ma di
non avere una laurea, di poter mettere in difficoltà qualsiasi accademico
con i suoi accostamenti impensati e provocatori di cose che il buon
accademico non metterebbe mai in relazione. Tutto questo significava
un senso molto forte di non appartenenza.
Antonio sapeva di essere un matto, sapeva di essere una bestia rara
nell'Italia di oggi.
Da un lato Antonio aveva molta ironia quindi ci scherzava pure su questo
suo essere un provocatore, essere un personaggio scandaloso nei vari
ambienti in cui aveva a che fare, sicuramente ci soffriva anche.
Gli accademici si sa, per loro pensare significa non pensare troppo,
coltivare il proprio orticello, guardarsi l'ombelico e siccome è tondo,
pensare che è il microcosmo in rapporto con il macrocosmo, conosciamo
anche troppo questa brutta razza.
Dei giornalisti altri parleranno con maggiore competenza di me, ognuno
si guarda intorno. Sicuramente Antonio poteva stabilire un rapporto
con tutti, poteva provocare molta gente, però non aveva un suo ruolo.
Il terzo mondo, il periodismo free lance è stata la risposta positiva,
la risposta vitale di Antonio a questa crisi di disadattamento. Non
voleva diventare come avrebbe detto lui epigono di se stesso, non voleva
fare l'alternativa alla moda, ma non voleva neanche far finta di essere
uguale a tanti altri perché tanto la sua diversità veniva fuori in maniera
prorompente e incontenibile in tutte le occasioni formali in cui aveva
occasione di partecipare. Aveva quindi bisogno di un'altra dimensione
e l'ha trovata nel giornalismo, ma il giornalismo visto come testimonianza
militante nel terzo mondo, anzitutto visto come un confronto con società
arcaiche e con i conflitti che si potevano sviluppare dentro le società
arcaiche, i cosiddetti conflitti etnici.
Naturalmente qui è un punto molto importante che ha sottolineato prima
Ugo nel suo intervento, nessuno più di Antonio ci ha insegnato a diffidare
della categoria di "conflitto etnico" perché Antonio aveva molto chiare
le radici economiche, le radici storiche dei conflitti che sono stati
presentati come incompatibilità tra certe etnie, i serbi e i croati,
i ceceni e i russi, i curdi e i turchi.
Dietro queste categorie Antonio, proprio per il suo buon senso di etnologo
pratico, vedeva la strumentalizzazione di traffico di armi, di traffico
di droga, di volontà di intervento spesso ammantate dal pretesto di
difesa dei diritti umani. Era molto diffidente verso la categoria dell'etnico
come spiegazione di conflitti. Voleva vederci chiaro, voleva trovare
anche conflitti di interesse.
Precisamente per questo Antonio ci ha insegnato molto sulla questione
jugoslava.
Anche io come Ugo ho conosciuto Antonio soprattutto in occasione della
crisi jugoslava. Ci siamo conosciuti nel 94, a un seminario a Trieste
sul problema iugoslavo, in cui intervenne anche il Sindaco di Sarajevo
.
Poi dopo Ugo e Antonio andarono insieme a Novi Sad, nel 95, in una iniziativa
del Movimento federalista europeo e, ancora più tardi, nel 96, ho incontrato
di nuovo Antonio a Novi Sad in Serbia.
Non ho avuto occasione di osservare tanto in dettaglio, le corrispondenze
cecene di Antonio quindi preferisco concludere parlando di Antonio come
testimone della crisi jugoslava, anche perché qui si vede una cosa molto
importante: Antonio sentiva il dovere di prendere posizione, un aspetto
che ha sottolineato molto bene Ugo nel suo intervento, per Antonio non
era possibile limitarsi a una condanna generica del nazionalismo, a
una condanna generica dell'odio etnico, nemmeno ad una predica moralistica
contro il traffico d'armi e di droga, contro la volontà neocolonialista
delle potenze occidentali. Tutti questi discorsi andavano bene, pero
era anche necessario prendere posizione in concreto.
Tutti sappiamo quanto Antonio abbia preso posizione sulla questione
del Kosovo, le immagini che abbiamo visto, la lettura del testo, "La
congiura del silenzio" mostra la partecipazione con cui lui ha vissuto
la tragedia degli albanesi e dei kosovari.
Su questo non vale la pena di insistere perché è chiaro. Quello che
vorrei sottolineare è che Antonio aveva avuto una esperienza molto diretta
e molto intensa dell'altra parte del conflitto.
Antonio conosceva molto bene la Serbia, la conosceva con quella sua
grande capacità di integrazione di cui si parlava prima; gli amici serbi
erano la sua fonte fondamentale di informazione, lui era stato varie
volte in Serbia e, in particolare in Vojvodina, a Novi Sad, per cui
la sua presa di posizione sul Kosovo non deve essergli risultata sicuramente
facile, perché schierarsi con gli albanesi significava rompere con gli
amici serbi, significava una lacerazione anche personale.
Ci può essere della gente che ha pensato, nel 98, quando è scoppiata
la guerra in Iugoslavia, ma che succede a questo Antonio Russo, come
fa un uomo di sinistra a mettersi in ginocchio di fronte a santa Nato
e a recitare le preghiere a santo missile.
Ovviamente il caso di Antonio non era questo. Antonio aveva preso posizione
molto seriamente, molto coerentemente in favore del Peace and forosing,
in favore di un'azione anche militare in difesa dei diritti umani degli
albanesi minacciati di etnocidio. Però questa sua posizione non era
stata una reazione emotiva in cui si fosse dimenticato della sua tradizione
di uomo della sinistra, della sua posizione critica nei confronti degli
interventi occidentali. Al contrario, erano passati prima due anni in
cui Antonio aveva visto aggravarsi la situazione in Serbia, aveva visto
prepararsi questo etnocidio, soprattutto aveva seguito molto la opposizione
cosiddetta democratica serba a Milosevic, si era posto il problema se
questa gente rappresentava una vera alternativa politica a Milosevic
nella costruzione di una federazione iugoslava veramente plurietnica,
rispettosa delle diverse comunità e religioni ed era giunto ad una conclusione
negativa.
Ci ricordiamo tutti come nel 95, dopo gli accordi di Dayton, quasi tutti
ci dimenticammo della Jugoslavia, tornammo a ricordarcene alla fine
del 96, quando si mobilitarono i sostenitori di Gingic eletto sindaco
di Belgrado, con Milosevic che gli aveva rubato il posto falsificando
le elezioni e come dopo ce ne siamo ridimenticati, nel 97, quando si
raggiunse una specie di accordo tra Gingic e Milosevic.
Antonio era lì. Antonio a Novi Sad discuteva tutti i giorni con gli
amici serbi, studiava la loro mentalità e gli poneva il problema: quale
sarà l'atteggiamento del partito di Gingic dei democratici serbi, se
riescono realmente a togliere il potere a Milosevic di fronte agli albanesi
e vedeva che degli albanesi questi amici non volevano proprio sentir
parlare.
Con la sua straordinaria capacità di discutere a braccio di fronte a
qualsiasi interlocutore, Antonio sulle rive del Danubio a Novi Sad,
litigava con professori di scienze politiche dell'Università di Novi
Sad, dicendogli: cosa significa per voi questa identità serba se non
siete capaci di concepire in termini interetnici questa relazione con
gli albanesi.
Antonio frequentava molti amici serbi, si era fatto una mentalità precisa
della mentalità serba e vedeva in questa gente una grande fragilità,
un grande bisogno di potere carismatico. Per questo non pensava che
potesse venire fuori una vera alternativa a Milosevic, pensava che ci
fossero certe strutture di potere….
Vengo subito alla conclusione.
Proprio la conoscenza della mentalità serba in quegli anni è stata la
ragione della posizione assunta da Antonio sul conflitto jugoslavo.
Ho citato questo esempio per mostrare come Antonio facesse, in ogni
caso, seriamente i suoi conti con le sue amicizie prima di assumere
le sue posizioni politiche, come le sue erano scelte sofferte.
Aveva sempre un alto grado di partecipazione personale ai problemi e
sapeva che per essere sempre fedeli a se stessi non bisogna aver paura
di perdere l'amicizia, bisogna contare il rischio della polemica, bisogna
affrontare lo scontro e che senza lo scontro non c'è neanche lealtà
nei rapporti umani.
Probabilmente per questo Antonio è stato sempre un isolato perché, per
poter affermare la sua identità politica doveva porsi in contrasto,
doveva scontrarsi.
Non è stato un personaggio facile.
E qui concludo. Adesso che lo stiamo ricordando tutti in qualche odo
stiamo cercando di trarre una lezione umana dalla vita di Antonio. Direi
che una delle cose belle di Antonio è stato il coraggio della polemica,
il coraggio di assumere posizioni controverse, senza mai trasportarla
su un piano personale, sempre col massimo rispetto della persona, dell'altro,
però sapeva che essere amico e che scontrarsi la politica non è mai
una utopia, ma è sempre anche durezza della realtà, confronto con la
rugosa realtà.
ANTONIO BORRELLI. Grazie Luca.
Invito Maria Carmen Colitti, vice rappresentante del Partito Radicale
transnazionale all'ONU e anche per "Non c'è Pace senza Giustizia", di
cui ha peraltro un messaggio che porta qui.
MARIA CARMEN COLITTI. Innanzitutto vorrei introdurre Non c'è
Pace senza Giustizia, che è una organizzazione non governativa nata
nel 94, da una campagna del Partito Radicale transnazionale, in supporto
alle attività dei due Tribunali ad hoc per i crimini commessi in Iugoslavia
e in Ruanda e anche alla costituzione di una Corte Penale internazionale
permanente.
Noi di "Non c'è Pace senza Giustizia", a nome del Presidente Sergio
Stanzani, vogliamo ricordare Antonio come professionista, non quindi
come un amatore incosciente ma come persona …..
.. fino in fondo. Tenace ricercatore, attento nella conferma incrociata
dei suoi reportage.
Antonio capace di raccontarci la storia, di costruire per noi, sulla
base di racconti, le mille storie, tutte le storie singole delle persone
con cui lui aveva a che fare tutti i giorni, non sulla base di qualche
gran piano o strategia, ma sulla base della sua capacità di raccontare
le storie quotidiane.
Antonio era una persona capace di vivere in prima persona le storie
che ci raccontava, coinvolgendosi personalmente, in modo che le sue
fonti non erano mai semplicemente mere fonti di informazione ma amici,
persone con cui alla fine condivideva tutto.
Soprattutto era capace di tradurre per noi ascoltatori, di farci veramente
vivere e capire con lui la situazione, la storia e le storie di ogni
posto da cui mandava i reportage.
La prima volta che noi di Non c'è Pace senza Giustizia abbiamo cominciato
a lavorare con Antonio è stato alla fine del 98 a Pristina, città che
Antonio aveva adottato come seconda patria, sia come cittadino che come
giornalista.
Noi ci trovavamo in Kosovo, in realtà non io personalmente, ma c'era
una nostra equipe guidata dal nostro capo progetto Nicolò Figa Talamanca.
Eravamo lì per un progetto di documentazione delle gravi violazioni
del diritto della guerra, proprio in sostegno alle attività del Tribunale
per l'ex Iugoslavia e Antonio era lì a fare il suo mestiere, portare
avanti la sua passione, la sua professione.
Antonio era lì già dall'estate del 98, quando ancora in Italia del conflitto
in Kosovo non si parlava, e attraverso i microfoni di Radio Radicale
tutti i giorni ci raccontava gli orrori di quello che stava accadendo
in Kosovo.
La storia raccontata da Antonio era una storia di orrori, orrori dell'Europa
di fine secolo, dai massacri in Kosovo, che comunque è stato sottoposto
alla cattiveria del regime di Milosevic, sino poi quelle che sono state
le ultime cronache dalla Cecenia in cui ci raccontava gli stermini di
Putin.
"Non c'è Pace senza giustizia" si trovava in Kosovo e lavorava insieme
con i funzionari del Tribunale per l'ex Jugoslavia e la nostra equipe
girava lì appunto per raccogliere le prove delle violazioni del diritto
della guerra. Si cercava di ricostruire l'ordine di battaglia dell'esercito
iugoslavo e delle forze di sicurezza serbe che comportava sistematiche
violazioni del diritto della guerra conseguenti alle decisioni politiche
prese da Milosevic.
Tutto ciò era molto complicato finché l'equipe di Non c'è Pace senza
Giustizia non ha incontrato Antonio all'Hotel Dea di Pristina e con
tutta semplicità ha fatto gli onori di casa, ha presentato lo staff
ad un suo amico che ora è ancora in carcere in Serbia, assieme ad altri
700 civili kosovari.
Così Antonio ha aperto un po' la strada ai nostri "investigatori", creando
rapporti di fiducia, interagendo direttamente con le persone, con persone
che poi erano suoi amici.
Vorrei ricordare perché poi questa cosa non si sa molto in giro, che
Antonio ha dato un grosso supporto agli investigatori del Tribunale
dell'ex Iugoslavia, in quanto lui stesso ha consegnato un grosso fascicolo
di testimonianza nel posto.
Quindi diciamo che il nostro ricordo va ad Antonio come un nostro collega.
E' ancora vivo il ricordo di Antonio che, con gli occhi lucidi, raccontava
delle sue ultime cose che stava facendo in Cecenia.
Vorrei concludere con una piccola nota personale perché Antonio era
anche un mio carissimo amico. La notizia della sua morte è arrivata
mentre io mi trovavo con un piccolo gruppo di testardi compagni radicali,
negli ultimi giorni di una grossa battaglia che abbiamo combattuto,
però non con le armi ma in maniera più diplomatica all'ONU contro la
menzogna della Federazione Russa che chiedeva l'espulsione del Partito
Radicale Transnazionale, ONG di prima categoria al Comitato economico
e sociale delle Nazioni Unite perché accusava appunto il Partito Radicale
Transnazionale per una sua campagna proprio condotta in Cecenia di essere
un'organizzazione terroristica, finanziata - pensate un po' - dal narcotraffico.
Ebbene, proprio tre giorni dopo la morte di Antonio, questa battaglia
è stata vinta e all'unisono, questo mi preme proprio dirlo, questa battaglia
e questa vittoria che è la vittoria della verità gli è stata dedicata
dai microfoni di Radio Radicale, da quella che è stata definita una
cronaca pirata effettuata con un cellulare nascosto proprio dietro i
banchi dell'aula in cui si svolgeva la seduta. Questa vittoria è stata
dedicata dal mio collega e compagno Marco Perduca ad Antonio Russo,
appunto eroe della verità.
ANTONIO BORRELLI. Grazie a te Carmen.
Do la parola all'onorevole Marco Boato con molto piacere.
MARCO BOATO. Lascia stare l'onorevole. Vi ringrazio molto di
questa iniziativa .Purtroppo, come avete visto io ho potuto venire nella
prima parte, avevo promesso che sarei tornato, forse tu non ci avevi
creduto, l'ho visto nei tuoi occhi. Tu pensavi che fosse la solita scusa
quando si dice: tornerò ma poi nessuno torna. Io per una volta ho saltato
anche le votazioni alla Camera, non lo faccio mai però in questo caso,
per ricordare assieme a voi Antonio Russo , ho pensato che fosse doveroso
farlo.
Io mi auguro che ci sia qualche momento magari notturno, vedo Massimo
Bordin in sala, in cui Radio Radicale ritrasmetta questa giornata.
Io sono prevalentemente un ascoltatore serale e notturno di Radio Radicale,
per cui mi dispiace di aver perso i ¾ di questo incontro.
C'è un incontro in cui è meno importante ciò che uno come me può dire
ed è molto più importante ciò che può ascoltare, per esempio, nei primi
interventi che ho ascoltato ho ascoltato anche una ricostruzione, una
testimonianza della vita di Antonio Russo, nella fase in cui non lo
conoscevamo, attraverso i microfoni di Radio Radicale, perché non è
nato soltanto lì e ci permette di capire perché è arrivato a quell'ultimo
percorso degli ultimi anni che mi ha interessato molto, che ho trovato
di straordinaria importanza.
Antonio Russo non so se l'ho conosciuto personalmente, sinceramente
non lo so perché in tante occasioni radicali, spesso mi capita, da amico
dei Radicali da sempre di frequentare, può darsi che ci siamo anche
incrociati.
Però io l'ho conosciuto sistematicamente attraverso Radio Radicale,
sono un ascoltatore sistematico ovviamente nei limiti di cui posso farlo.
Mi hanno sempre colpito le cose che sono state dette nell'ultimo intervento
e nel penultimo intervento le trovo molto vere. Questo coraggio della
verità della coerenza, starei per dire che l'ultimo intervento ci spiegava
"amicus Plato magis amica Veritas", rapporto di amicizia con tutti ma
l'amicizia che non faceva mai velo alla necessità di affermare anche
verità scomode e impopolari.
Fra l'altro questo lo dico incidentalmente, perché vedo riportato in
questa bellissima rivista, la piccola posta di Adriano Sofri, una sinergia,
una sintonia per alcuni aspetti per quanto riguarda la Cecenia ma per
quanto riguarda la Bosnia, per quanto riguarda il Kosovo, rispetto alle
cose che ha detto e scritto in questi anni Adriano Sofri, in particolare
per quanto riguarda la Cecenia.
Penso, per altri aspetti, perché sono due figure una molto diversa dall'altra,
ma che hanno una somiglianza di testimoni e profeti del nostro tempo,
in quello che ha detto e scritto per esempio Alexander Langer. Alexander
ha deciso di chiudere volontariamente la sua vita nel luglio del 95,
ma se voi guardate gli scritti di Alex Langer raccolti per esempio nel
"Viaggiatore leggero", vedete le cose scritte sulla Bosnia e ancora
sul Kosovo quando la maggior parte di noi non sapeva quasi cosa fosse
il Kosovo. Parlo dell'inizio degli anni 90 quando c'era la Iugoslavia
e non l'ex Jugoslavia.
Sul Kosovo come possibile realtà esplosiva e poi ripetuta, dopo la Bosnia
come tappa successiva quando ancora nessuno riteneva o pensava a queste
cose.
Trovo delle sintonie, delle analogie fra persone che poi, umanamente,
personalmente sono molto diverse, uno si è suicidato, Antonio è stato
assassinato, Adriano Sofri si trova sepolto in carcere, sostanzialmente
con la prospettiva di carcere a vita, questo è un paese dove può succedere
questo. Possiamo leggere Adriano sul Foglio, su Panorama, su Repubblica,
come leggessimo un opinionista qualunque. E' un paese che ingoia tutto.
Per tornare ad Antonio a me ha colpito quando la notizia dell'assassinio
perché io l'ho chiamato così sin dall'inizio, quando ancora nelle prime
ore si faceva un discorsi molto fumosi, mi ha colpito come la notizia
di Antonio Russo è stata data dal principale telegiornale del nostro
paese con un flash di agenzia di pochi secondi, quasi con il fastidio
di dover dare la notizia.
Io sono rimasto inorridito. E sono rimasto inorridito perché sapevo
cosa Antonio Russo andava facendo in Georgia, rispetto alla Cecenia
e che cosa aveva fatto nel Kosovo, cosa aveva fatto in Bosnia, cosa
aveva fatto nella regione dei Grandi Laghi in Africa e così via, come
avesse passato le più terribili tragedie del nostro tempo recente, rischiando
ogni volta la vita e testimoniando una verità che pochissimi altri,
o a volte nessun altro, aveva il coraggio di testimoniare e in Kosovo,
come tutti sappiamo è stato l'ultimo a lasciare.
Mi ha colpito come non ci fosse in immediato riconoscimento di cosa
stava facendo.
L'ultimo intervento che mi ha emozionato perché ho vissuto quelle ore
anch'io, sempre attraverso i microfoni di Radio Radicale, me la ricordo
quella cronaca clandestina, quella sera tornai a casa dalla Camera,
sapevo che quel giorno si doveva decidere, c'era uno sfasamento di sei
ore come sappiamo per il fuso orario, sapevo che si doveva decidere
a New York e accesi immediatamente Radio Radicale e poco dopo cominciò
quella straordinaria diretta clandestina dall'Ecosoc e provai una profondissima
emozione.
Questa connessione che è stata fatta nell'ultimo intervento è verissima
ma secondo me non c'è solo la connessione soggettiva ed è stato molto
bello che quella vittoria che nessuno si aspettava per la quale anch'io
mi ero battuto e voi sapete che per fortuna avevo raccolto alla Camera
le firme di tutti i Capigruppo, eccetto un Gruppo, sulla mozione a favore
del Partito Radicale Transnazionale rispetto al tentativo prima di espellerlo,
poi di espellerlo per tre anni che era lo stesso l'espulsione dal Consiglio,
dallo status di organizzazione non governativa presso il Consiglio economico
e sociale delle Nazioni Unite.
C'era a mio parere una connessione tra quei due fatti, non c'era solo
il dedicare alla memoria di Antonio Russo tre giorni dopo il suo assassinio
quella vittoria straordinaria che quasi nessuno si aspettava.
Se debbo essere sincero nel giudizio pesantissimamente critico che do
sul ruolo che i mass media italiani hanno avuto in questa vicenda, in
questo fascicolo è riportato oltre all'articolo di Massimo Bordin sul
Messaggero, oltre alla piccola posta di Adriano, mi pare un articolo
che trovo a rileggerlo oggi è scritto abbastanza a caldo, è molto bello,
uscito sull'Observer se non ricordo male il 12 novembre.
Ma magari i giornali italiani avessero scritto qualcosa del genere.
Sull'Observer lo leggiamo.
Bene, in questo panorama quasi totalmente, non dico totalmente ma quasi
totalmente nefando e nefasto, debbo dire che la voce di Giuliano Amato
è suonata come una eccezione straordinaria, essendo il Presidente del
Consiglio, ha immediatamente reagito alla notizia dell'assassinio di
Antonio Russo, non solo riconoscendolo per quello che era, ma anche
mettendo in connessione le due vicende.
Connessione che, secondo me, è più un fatto di contestualità di avvenimenti.
Starei quasi per dire che l'una rappresenta la firma dell'altra. L'una
vicenda fa emergere la firma della tragedia, dell'omicidio che è stato
perpetrato.
Ovviamente lo dico come lo avrebbe voluto dire scusate, non è che mi
paragono a Pasolini ma come Pasolini poteva fare l'accusa sulla stragi
nel modo con cui lo faceva lui, non è che lo faceva sul piano giudiziario,
né io lo faccio sul piano giudiziario. Ma qua lo sto dicendo perché
bisogna essere ciechi per non vedere cosa è stato quel rapporto.
Ecco, io credo che una iniziativa come quella di oggi, ho detto che
avrei parlato per due minuti e invece sto esagerando, chiudo subito.
Una iniziativa come quella di oggi, se non ho capito male è annunciata
nel primo anniversario il 15-16 ottobre è una iniziativa anche con documentazione
e credo che qui ci sia un patrimonio straordinario da mettere assieme.
Io credo che sia molto importante tutto questo. Io mi auguro che a un
certo punto si riesca, io non so se questa iniziativa, a parte Radio
Radicale, ma abbia poi una eco giornalistica che vada al di là di questo.
Non ho idea di chi ci sia stato in sala in questo pomeriggio.
Mi auguro che si arrivi a sfondare questo muro di silenzio e di omertà
che, a parte pochi altri, il Presidente del Consiglio ha sfondato, Pannella
lo ricorda spesso, in questi casi si censura anche il Presidente del
Consiglio. In questi casi si censura anche il Presidente del Consiglio,
perché una frase come quella pronunciata da Giuliano Amato era un frase
di una forza tale, una dirompenza tale che avrebbe dovuto essere fra
i titoli del telegiornale, perché il Presidente del Consiglio che dice
quello che ha detto Giuliano Amato avrebbe dovuto inserire almeno lui
nei titoli del telegiornale.
Questo non è avvenuto e si è in qualche modo rimosso e censurato persino
quell'intervento.
ANTONIO BORRELLI. Perché era Radicale.
MARCO BOATO. Si, certo.
Io sono andato ai funerali di Antonio Russo, anche lì non c'era molto
del mondo politico. Mi pare che ho visto Ottaviano del Turco, ho visto
pochi altri.
C'era il mondo Radicale, il mondo degli amici di Antonio Russo, anche
al di là dei confini Radicali.
Mi ha molto emozionato quell'incontro signora Russo, quell'estremo congedo,
quell'addio ad Antonio, perché non era poi solo un addio, era un addio
certo sul piano umano ma era un dire: resti con noi, non ti dimentichiamo
e voi lo state dimostrando oggi che è esattamente così e continueremo
a farlo.
Però una giornata come quella di oggi è come se dicessimo al nostro
Paese: tu Italia hai un patrimonio straordinario nella esperienza, senza
santificarlo senza beatificarlo. Io Antonio non l'ho conosciuto sul
piano umano e personale ma come tutti noi avrà avuto i suoi limiti,
i suoi difetti, le sue debolezze, li abbiamo tutti, non è che ne dobbiamo
fare un santino, un beato.
Ha avuto un patrimonio straordinario in questa vita e in questa morte
che è quasi un martirio e forse il quasi lo possiamo togliere, è stato
un martirio, e tu Italia sei un Paese inconsapevole di questo.
E' questa la tragedia nella tragedia.
Ecco io credo che comunque questo incontro di oggi possa aiutare questo
Paese disgraziato, che molte volte non si rende conto dei patrimoni
straordinari che ha al suo interno in una proiezione europea e mondiale,
possa aiutare l'Italia a riconquistare la vita e la morte di Antonio
Russo. Grazie.
ANTONIO BORRELLI. Grazie, grazie molte veramente.
Tu hai citato Radio Radicale, hai citato Massimo Bordin e lo invito
a parlare in questo momento.
In 25 minuti abbiamo da esaurire parecchi adempimenti.
Anch'io avevo parecchie note anche a proposito da rendere. Purtoppo
il tempo
MASSIMO BORDIN. Io me la caverò in cinque minuti perché credo
che tutto sia stato detto.
L'intervento di Boato, l'intervento di Carmen, l'intervento di Furio
Colombo e poi, soprattutto l'intervento di persone che invece al contrario
di queste, non conoscevo e che mi hanno fatto non conoscere ma, oserei
dire, riconoscere l'attività di Antonio Russo.
Non conoscevo francamente i suoi amici però conoscevo la sua rivista
perché me la portava, sapevo dei suoi interessi, del suo modo di vita.
Quindi credo sia stato utile davvero questo incontro.
Credo anche che sia giusta la proposta che faceva Furio Colombo, proprio
per le motivazioni che proprio Colombo addiceva e che mi pare adesso
Boato riprendesse.
Non si tratta tanto non arriveremo- temo- ragionevolmente a trovare
il killer che ha ucciso e ci ha tolto Antonio, però io credo che la
responsabilità politica, la firma di quell'omicidio sia assolutamente
intellegibile e credo che non sia giusto che qualche prezzo politico
costoro non paghino. Voglio dire in fondo l'informazione non asservita,
l'informazione militante, oserei dire, ci sta apposta.
Ecco, io credo quindi che… bisognerà vedere. Radio Radicale naturalmente
farà la sua parte, i Radicali faranno la loro parte.
Naturalmente noi ci collegheremo e ci colleghiamo con la famiglia di
Antonio, in primo luogo, naturalmente con i suoi amici e vedremo senz'altro
di fare di queste due giornate un qualcosa di valido.
Io concludo su una cosa che è quella che più ci deve stare a cuore,
ha ragione Boato anche in questo, questa giornata è stata senz'altro
assai importante e in alcuni momenti toccante.
E' evidente che è una giornata che abbiamo vissuto noi, qua, e gli ascoltatori
di Radio Radicale.
Bisognerà che questa due giorni di cui parlava Borrelli prima, diciamo
riesca a rompere il muro del silenzio che, come sapete, per quel che
riguarda i Radicali è molto spesso , è una coltre che chiude tutto praticamente.
Su questo dovremo davvero riuscire a preparare qualcosa non di adeguato
ad Antonio perché in partenza sappiamo che purtroppo non ci riusciremmo;
però insomma, di qualcosa che approssimativamente possa adeguarsi alla
perdita che abbiamo avuto, al rimpianto che lascia e però al problema
politico che senza dubbio, quello si, dobbiamo in qualche modo tenere
aperto e, per altri versi, risolvere.
Radio Radicale e i Radicali su questo faranno senza dubbio la loro parte.
Questo ve lo assicuro.
GIORGIO FABRETTI. Grazie alla Free Lance noi eravamo nella stessa
associazione con Antonio, io seguivo il settore esteri e mi intervistò
al ritorno da alcune mie missioni all'estero e diventammo amici.
Mi sembra come ieri, nel 1997, era una serata piovosa, vicino alla stazione
Termini dove lavorava lui, mi ricordo le parole: devi scrivere la tua
vita di free lance, 200 missioni, 150 paesi, 50 guerre in trincea. Noi
siamo diversi.
Io risposi, "tiramm innanze" Antonio, i vecchi sanno e devono morire,
i giovani nascono e non sanno niente. E' la natura. Il mondo non vuole
sapere troppo.
Lui, con il suo spirito mi disse: il tuo scetticismo è solo per dare
un senso alla morte che ti aspetta come reporter.
In realtà anche tu credi in quello che fai, mi disse riferendosi all'argomento
che avevamo toccato nella trasmissione radiofonica, credi che Pol Pot
debba essere salvato per finire di fronte ad un tribunale - si riferiva
alle minacce che avevo ricevuto io per questa iniziativa di salvare
la vita di Pol Pot per portarlo davanti al tribunale.
Non ti capiscono però tu devi insistere.
Non aveva la macchina e quella notte piovosa restammo parecchio tempo
in questo portone, mentre cadeva l'acqua.
Poi prendemmo la metropolitana, andammo a casa e volle che gli raccontassi
questo che poi si sarebbe rivelato un incredibile presagio e cioè la
vicenda del mio ferimento grave nel 1990. Nell'agosto del 90 io partii
per conto dell'Espresso per una missione nei Paesi dell'est e a Pristina
fui arrestato dai serbi perché accusato di spionaggio e messo in prigione.
Mi interrogarono e mi accusarono di essere una spia per conto dei croati,
qualcosa del genere, mi assolsero perché, secondo loro, avevano trovato
nella perquisizione della mia auto, delle copie dell'Espresso con la
mia firma per cui mi dissero: lei è il giornalista di un giornale di
sinistra, una stupidaggine del genere. Quindi sappiamo che non è un
fascista e non è quindi filo croato.
Con questa stupidaggine mi liberarono e io potei intervistare Rugova
che si nascondeva, era clandestino.
Continuai, arrivai a Odessa dove il caporedattore dell'Espresso mi aveva
chiesto di intervistare il vice sindaco sulle navi che sparivano dal
porto, intere navi. La connessione mafia - politica poi sarebbe diventata
così diffusa in Unione Sovietica.
Io chiesi l'intervista a questo vice sindaco e fui avvicinato da una
specie di mediatore, uno strano studente armeno, russo, che mi propose
di voler vendere all'Espresso dei segreti e io immediatamente identificai
come un personaggio ambiguo e poi venne la sera con due soldati, quelli
che sembravano soldati in borghese e fui pestato.
Svenni e mi furono riscontrate 137 fratture.
Antonio mi commentò questa storia che gli raccontai nei dettagli dicendo:
con i russi non si scherza. Sue parole.
Era uno strano presagio che io ho voluto raccontare per dire come Antonio
era perfettamente cosciente, era una persona che era stata avvisata
in tutti i modi dalla vita.
Questo è importante capirlo perché il suo è stato un sacrificio, un
sacrificio volontario.
I segnali che lui ha ricevuto e io adesso ho testimoniato questo mio,
ma sono stati tantissimi e lui si è sacrificato proprio per la verità.
Grazie.
Patrizia Sterpetti: La parola ad Aurelio Grimaldi che aveva scritto
una sceneggiatura e quindi vediamo come Antonio stava interessando anche
il mondo del cinema.
Tutte persone giovani questo per dire, a proposito del discorso dell'esempio,
dell'ispirazione, dell'azione educativa.
AURELIO GRIMALDI. Tutto è cominciato nove mesi fa quando Leonardo
Giuliano che con il socio Pasquino è coorganizzatore di questo nostro
incontro, mi chiese se avevo voglia di scrivere una sceneggiatura sulla
storia di Antonio Russo, su Antonio Russo, perché a Leo era venuto in
mente, aveva conosciuto Antonio e gli era venuto in mente di fare un
film sulla Cecenia.
Non so chi aveva convinto l'uno l'altro. Penso che, essendo vulcanici
tutti e due si fossero convinti immediatamente l'uno con l'altro.
E così Antonio mi venne a trovare in Sicilia dove abito e passò una
giornata nella nostra casa, mia , di mia moglie e dei miei tre figli.
Non lo avevo mai incontrato prima di allora e i miei figli lo attendevano
con un po' di imbarazzo e rispetto perché io avevo raccontato loro:
guardate, è un giornalista importante, specializzato nel raccontare
le guerre più difficili e più pericolose e ci trovammo questa persona
un po' alternativa, non che i miei figli non siano tanto abituati all'alternatività,
però ce lo aspettavamo diverso, ma nonostante questo riuscimmo subito
a familiarizzare.
Adesso sentendo le altre persone, trovo un filo comune, perché ci chiese
subito se c'era qualcosa di forte da bere. Da noi non c'era niente,
c'era soltanto una bottiglia di Vodka che ci avevano regalato in chissà
quale festival cinematografico ed era rimasta lì, sempre intoccata e
lui apprezzò molto. Infatti gli dicevo poi di portarsela perché tanto
a noi non serviva. Invece se la dimenticò per cui a noi è rimasta di
lui questa bottiglia di Vodka e il suo bigliettino con tutti i suoi
numeri di telefono.
Così Antonio cominciò a raccontare un sacco di cose. Io gli facevo le
domande, altre volte non c'era bisogno di fare domande. Quindi venivano
fuori questi due binari, da una parte quindi il suo convincimento che
immediatamente divenne anche il nostro, che fosse in atto un genocidio
contro il quale bisognava fare comunque qualcosa, se di cinematografico,
di televisivo o di giornalistico, di umano, di personale eccetera; dall'altro
punto di vista l'essere umano. L'idea di Leonardo era di raccontare
sia la Cecenia che l'essere umano, quindi il reporter perché aveva questa
particolare motivazione a raccontare certe cose che gli altri giornalisti
normalmente non facevano. Antonio mi confermò che gli altri giornalisti
non ci andavano, senza per questo si direbbe, sentirsi un eroe ma sentendosi
orgoglioso di appartenere a quella categoria, che lo faceva volentieri.
Quindi cominciò questo lavoro di scrittura, di altri incontri e venne
fuori una prima versione.
In verità prima di quella prima versione lui partì per la Cecenia, non
ci incontrammo e Leonardo mi aveva chiesto e io ho accettato e anche
Antonio, che anch'io andassi in Georgia, quindi di vedere quei posti.
E poi per vari motivi, il principale fu anche quello che in quel momento
eravamo in difficoltà finanziarie, sia Leonardo che io avevamo difficoltà
a comprare anche dei biglietti aerei e cose del genere, ma sta di fatto
che avremmo dovuto completare la sceneggiatura dopo questo viaggio.
Invece il viaggio saltò, saltò d'estate quindi pensammo poi di farlo
a settembre e nel frattempo saltò fuori questa versione.
Naturalmente il personaggio di Antonio, che per Antonio e per Leonardo
poi doveva essere recitato dallo stesso Antonio, cosa non facile ma
che era un tentativo folle che andava fatto, io ero d'accordo con loro,
non era il personaggio di un santino, assolutamente.
C'era in questa sceneggiatura l'inquietudine e la solitudine che immediatamente
a me Antonio, mi sembra confermato dalle persone che lo hanno conosciuto
meglio di me, sicuramente trapelava.
C'era anche, in questo personaggio, il rigore, la rigidità sia dei propri
ideali che delle proprie ideologie che, secondo me, facevano parte di
questa motivazione molto, molto forte. E poi naturalmente c'era la Cecenia,
tutti i personaggi che lo aiutavano, che lo hanno aiutato e che lo avrebbero
aiutato ancora, i suoi punti di riferimento, il suo essere un giornalista
che adesso riconosco in altri interventi, adesso è più facile collegare
tante cose dopo aver soltanto parlato con Antonio e adesso aver sentito
persone che lo hanno conosciuto bene.
Per esempio il non volere andare negli hotel ma voler andare in case
private, stare più a contatto con le persone da raccontare.
Tutto questo era diventata una sceneggiatura insolitamente lunga, io
scrivo sempre sceneggiature per film da un'ora e venti e invece questa
venne fuori di due ore. Questa sceneggiatura che avrebbe dovuto essere
perfezionata prima di partire, Antonio la lesse, trovò che il suo ritratto
in certi momenti era poco santinesco, ma Leonardo lo convinse facilmente
che questo doveva essere assolutamente doveroso.
Fece anche il complimento che anche se non ero mai stato in Cecenia,
ma era un complimento da fare a lui stesso, l'aveva descritta così bene
che anche senza esserci stato erano credibili le scenografie che erano
state inserite.
Però ci eravamo riproposti comunque di mettere anch'io il piede in quel
posto e di finire la sceneggiatura, anche se narrativamente era finita,
di congedarla in quel momento.
Poi accadde quello che accadde e adesso la sceneggiatura c'è. La sceneggiatura
è stata presentata al Dipartimento dello Spettacolo e sarà esaminata
il mese prossimo per forse avere, ma le percentuali di partenza sono
l'8%, statistiche puramente statistiche, la patente di film di interesse
nazionale e culturale l'unica possibilità di avere finanziamenti governativi.
Non lo so se passerà. Se passerà ci auguriamo che non sia per retorica,
perché sia doveroso farlo, se non passerà, speriamo che questo non accada,
perché la sceneggiatura non è politicamente corretta.
Su questo Antonio non aveva bisogno di convertirci di più, certamente
noi non crediamo che nel mondo esistano solo i buoni o solo i cattivi,
noi pensiamo che nella guerra tutti diano il peggio di se stessi, ma
certamente i russi, in questa circostanza hanno fatto molto, molto peggio
di quanto hanno fatto i ceceni.
Questa è la sua testimonianza ad avercelo comunicato senza il minimo
dubbio.
In più questa sceneggiatura è stata offerta a Rai fiction dove, dopo
vari tentativi di riuscire a contattarlo, Stefano Munafò il potente
responsabile di Rai fiction ha detto a voce che secondo lui questa è
una storia che deve essere raccontata.
Questo purtroppo non significa ancora nulla, assolutamente nulla. Sarà
molto più concreta la risposta si o no, dei fondi governativi perché
la Commissione esamina e risponde e non c'è scampo, si o no, i tempi
sono quelli mentre la Rai, io non ho mai fatto proposte alla Rai per
i miei film, mi spiacerebbe molto fare proposte alla Rai ma è un tale
meccanismo così paludoso, altro che speriamo, Stefano Munafò l'ha detto,
però non sono frasi che hanno valore vincolante. Speriamo ce lo auguriamo
tutti.
Certamente credo sia una storia da raccontare, lo era già da prima,
non c'era bisogno che Antonio morisse perché questa storia fosse da
raccontare.
Chiudo riflettendo che a me questa storia, questa morte, questo omicidio
fa pensare al delitto Impastato, io sono palermitano. Ebbene Peppino
Impastato fu ucciso. Fu subito chiaro chi fossero gli assassini anche
se sul "Corriere della Sera" si diceva, fu scritto, che era morto dilaniato
da estremista di sinistra con la propria stessa bomba.
Però era la stessa cosa, per noi siciliani era evidente chi fosse stato
l'assassino, ma nonostante tutto, quello fu una morte, un omicidio sempre
paludoso dove comunque, anche se la verità era evidente, non necessitava
di prove, però non c'era verso di venir fuori a poter additare dei responsabili.
Infatti, a 23 anni di distanza, la madre di Peppino Impastato ancora
ha da fare la testimone al processo, perché ancora non esiste una condanna
per lo Stato italiano.
Ora io ho l'impressione che quell'omicidio come questo omicidio siano
due omicidi così scomodi, così fastidiosi, così irritanti che la verità
farà una grande fatica a venir fuori, anche se è evidente una idea chiara
e distinta di che cosa sia accaduto.
E' terribile per me immaginare, grazie ai racconti di Antonio, figurarmi
la sua morte. Ed è meglio non pensarci, perché se mi aveva dato e ci
aveva dato un'idea così chiara di quello che succedeva laggiù, purtroppo
anche questa evoluzione è terribilmente chiara.
Però grazie al cinema adesso Peppino Impastato prima lo conoscevamo
soltanto noi siciliani palermitani e pochi altri, adesso Peppino Impastato
è conosciuto non solo in Italia ma anche, piano piano, sarà conosciuto
anche altrove. Questo non sarà più un omicidio paludoso, poi lo potrà
anche essere giudiziariamente, ma moralmente, storicamente, non sarà
più un omicidio paludoso.
Noi dobbiamo assolutamente riuscire a fare questo film, ma conoscendo
Leonardo Giuliano e la sua testardaggine sono sicuro che questo film
si farà con o senza i finanziamenti governativi o quelli della Rai,
comunque si faranno delle cose, bisogna raccontare questa storia e in
questa prima giornata di commemorazione - a me questo termine commemorazione
non piace molto, avrei preferito di ricordo eccetera - però credo che
sarà la prima di tante altre e ci terremo anche aggiornati su questo
progetto, speranza, obiettivo eccetera.
Speriamo che al quinto giorno, sesto giorno di ricordo potremo dire:
benissimo, si sta cominciando e poi, un giorno, vedercelo qui tutti
assieme, perché il cinema ha tanti difetti, però ha questa grande forza
di riuscire a far si che non si può più dimenticare. Se un film è stato
su Peppino Impastato non c'è verso che Pino Impastato sia dimenticato
mai e noi tutti vogliamo, siamo qui per questo, che Antonio, dopo quello
che è successo ma non sia mai più dimenticato. Grazie.
Patrizia Sterpetti: Se Antonio Grimaldi non è riuscito a raggiungere
Antonio in Georgia però qui abbiamo un invitato che è un carissimo amico
di Antonio, come sempre un ragazzo giovane che parlerà in inglese e
tradurrà Francesca Spinotti che è stata una delle persone che si è impegnata
nell'organizzazione di questa giornata e che ha creato tutti i contatti
più artistici, più cinematografici e teatrali.
ANTONIO BORRELLI. Alexandre ha passato parecchi giorni nella
casa di Antonio a Tblisi, è giovanissimo ma è molto interessante.
Ha portato parecchio materiale, purtroppo la nostra organizzazione qui
è stata assolutamente fallosa, non siamo riusciti a trovare, a contattare,
tra le mille cose da fare, un interprete di lingua russa.
ALEXANDRE KVATASHIDZE. Mi scuso per non poter parlare in italiano,
che è una lingua bellissima, e anche il mio inglese purtroppo non è
molto buono.
Ho conosciuto Antonio un mese prima che venisse ucciso, questo mese
è diventato abbastanza lungo per poter diventare buoni amici.
Ho avuto modo di imparare moltissimo da Antonio in questo mese.
Antonio stava combattendo per la verità, la verità è la cosa migliore
per cui gli esseri umani possano combattere.
Vengo dal Caucaso e ci sono parecchie cose che possono essere fatte
in quella zona per la verità.
Cercherò di fare il mio meglio per continuare, per proseguire nella
direzione che Antonio è riuscito a passarmi in questo mese. Grazie Antonio.
ANTONIO BORRELLI. Francesca, tu sei una delle maggiori organizzatrici
di questo splendido convegno e in rappresentanza del Cinema Pasquino
si, ma soprattutto come grande, cara amica di Antonio e quindi vieni
qui al tavolo.
Io vorrei sapere, prima di mandare ancora una volta il video, se c'è
in sala l'addetto stampa dell'Onu a Pristina che aveva annunciato la
sua presenza in sostituzione di Laura Boldrini.
Pochi minuti. Abbiamo Dino Frisullo che avevamo tra gli interventi previsti.
A tutti l'invito: dieci minuti di testimonianza perché dobbiamo tassativamente
lasciare poi la sala.
DINO FRISULLO. Anzitutto mi scuso, sono venuto in ritardo a questo
incontro perché ero impegnato in una di quelle cose che, secondo me,
per il poco che ho conosciuto e poi lo dirò, avrebbero interessato anche
Antonio.
Un non evento qui in una sala carina, rimediata all'ultimo momento,
400 emigrati dall'Asia fra cui alcuni che non sanno più nulla delle
loro famiglie sotto le macerie del terremoto, in assemblea ordinatissima.
Sembrava un'assemblea classica degli anni 70, come lavoratori per il
permesso di soggiorno e anche in solidarietà fra loro, Paesi che si
fanno la guerra nel momento del bisogno e del pericolo.
Una bella assemblea che metterà capo a una bella manifestazione sabato
prossimo, che è una non notizia, perché dovremo fare i salti mortali,
come sempre, per bucare nei prossimi giorni la stampa normale che è
in tutt'altre cose affaccendata.
Scusate questa digressione, non era solo per scusarmi del ritardo ma
devo dire, una cosa che io ho conosciuto in comune fra me e Antonio,
noi ci siamo conosciuti e ci siamo litigati immediatamente, come credo
sia successo a molti che hanno conosciuto Antonio, perché abbiamo, ce
l'ho anch'io caratteri spigolosi. Chi lavora e vive in modo, come si
usa dire border line, in una non so più quale assemblea di giornalisti
in una città toscana dove eravamo invitati tutti e due, io per via della
mia esperienza in carcere turco e lui per la sua esperienza recente
in Kosovo, ovviamente litigammo sulla guerra in Kosovo, ovviamente non
sulla Nato o sulla guerra, sulle sue responsabilità, le colpe, la loro
statuizione eccetera. Litigammo furiosamente e io almeno lo lasciai
ma credo di averlo letto in lui, con la precisa sensazione come dire,
di una affinità nel modo di essere nel mondo e nel modo anche di fare
la professione.
Io non sono professionista e neanche lui credo che lo fosse. Diciamo
che il mestiere che facciamo sia più di testimoni che di giornalisti,
essere da una parte.
Essere da una parte significa il partito preso, i preconcetti, le bende
eccetera, ma aderire alla realtà umana che è di fronte in carne ed ossa,
di esseri umani, alla loro verità e poi metterla continuamente in discussione.
Questo tipo di approccio non è il benvenuto nella stampa. Io non conosco
bene, non ho avuto il tempo poi di conoscerci ancora e ovviamente la
sua morte mi ha colpito profondamente, anche per una ragione se volete
un po' egoistica perché penso che altre volte, in altri luoghi del mondo,
dalla Bosnia alla Palestina, alla Turchia, al Turkestan sarebbe potuto
e potrebbe succedere anche a me a ognuno di noi di quelli che non passano
il tempo solo dietro un computer o una telescrivente, cose rispettabilissime,
questo modo di testimoniare ha un destino strano nelle redazioni dei
giornali. Se volete aggiungo questo piccolo spicchio di esperienza.
Io da 20 anni scrivo, fra l'altro quando andai a finire in Turchia e
nel carcere, io dissi: sono giornalista e mi risposero, fai vedere il
tesserino. Mai avuto tesserino, mai iscritto a Ordini, no ne ho avuto
mai il tempo.
Dopo di che gli arrivarono 6 o 7 redazioni che dicevano: si, collabora
e allora è giornalista.
Fui un po' più tutelato, mica tanto.
Però quel modo di essere, tornato in Italia, dopo un attimo di celebrità
transeunte, è fastidioso, è fastidioso anche per i giornali della Sinistra,
anche io milito a sinistra ora non voglio perdere i giornali più vicini
a te o a come la pensi; è fastidioso perché si è affermato ormai negli
ultimi anni, una logica che non era né nella mia formazione, io credo
di essere un po' più vecchio di Antonio, ma credo neanche nella sua,
la logica del professionismo.
La logica per cui appunto, i giornalisti stanno dietro quelle telescriventi
o quelle scrivanie lo fanno solo gli addetti ai lavori, i giornali,
l'informazione, la comunicazione e coloro che sanno la realtà, perché
io quella assemblea mi sono sforzato di trasformarla realtà mezz'ora
fa e in Turchia mi sono sforzato di trasformarla oltre a testimoniarla.
Essere testimoni è già un modo di cambiare realtà.
Sono avvertiti come scomodi perché di parte, comunque non di parte ripeto
non nel senso di partigianeria ma nel senso di prendere parte, in ogni
caso anche se non per questo comunque quelli che fanno le cose non le
raccontano, chi le sa non le deve raccontare.
Non è vero secondo me, chi le fa le cose come le faceva Antonio, come
mi sforzo di farle io come altri, ha il dovere morale di raccontarle
e il dovere del mondo della comunicazione sarebbe amplificarle, dare
canali a questi racconti che sono racconti di essere umani.
Tutto qui come testimonianza.
ANTONIO BORRELLI. Grazie della tua testimonianza.
Invito per due minuti l'addetto stampa dell'Onu a Pristina, Andrea Angeli,
in sostituzione di Laura Boldrini che ci teneva a partecipare, l'ho
sentita più volte al telefono questa mattina, era disastrata da una
influenza.
ANDREA ANGELI. Buona sera, buona sera signora Russo.
Io sono dal 93 tuttora all'Ufficio stampa dell'Onu nelle varie zone
dei Balcani.
Non eravamo amici intimi con Antonio, ma le nostre vite si sono sempre
incrociate, dove era lui ero io e viceversa.
Il primo incontro fu - Ugo qui me lo ricorda - o fine 94 o primi 95.
Ricordo come uno zelante funzionario finlandese venne da me a dirmi:
c'è un italiano con i capelli lunghi. Dice di essere giornalista ma
non ha la tessera dell'Ordine, per cui non possiamo…
Dovetti convincere questo collega per un paio d'ore a spiegargli che
i Radicali erano contro l'Ordine dei giornalisti pertanto lui poteva
emettere benissimo il tesserino perché già lo conoscevamo.
Dopo di che ci siamo visti in tantissime altre occasioni. Io ho sempre
interpretato il mio lavoro in maniera molto ecumenica. L'ufficio mio
è stato sempre aperto a tutti, alle grandi testate, alle piccole testate,
ai conservatori, ai progressisti, bianchi, neri, triestini o siciliani.
Antonio veniva, passava, non era uno che aveva bisogno di niente. Lui
suola e tacchi andava, passava per dare un'occhiata ai giornali, quello
che era uscito. Era lui a venire a dire cose a noi, quello che ci serviva.
Ricordo che ci contattarono a Tirana, dopo l'euforia dei primi collegamenti
di Antonio da Pristina se potevamo fare qualcosa noi per tirarlo fuori.
Io francamente dissi: qui non possiamo fare niente, possiamo solo peggiorare
la situazione di Antonio, ma dentro di me, non lo volli dire agli interlocutori
che mi chiamavano da Bruxelles, ma dentro di me pensai veramente solo
un miracolo può tirar fuori Antonio. Ero molto, molto preoccupato.
E poi invece se n'è uscito alla sua maniera, rocambolescamente come
ha sempre vissuto.
Concludo solo dicendo che la vita è bella perché è varia e perché c'è
di tutto. Antonio era uno di quelli talmente particolare, talmente unico
che ci mancherà. Un mondo molto più triste. Anche il nostro mondo dell'informazione
senza di lui.
Ci mancherà veramente tanto.
ANTONIO BORRELLI. Adesso Patrizia Sterpetti leggerà un breve
messaggio.
Dopo di che partiranno in successione i due video che abbiamo trasmesso
in questo convegno e poi chi vuole resta a vederli, chi li ha perduti
può vederli, altrimenti cominceremo ad uscire.
PATRIZIA STERPETTI. Io volevo un attimo rispondere a Oliviero
Bea che è intervenuto ormai un'ora fa e volevo garantirgli che in questa
sala ci sono persone che rischiano la pelle e che hanno la posta controllata.
Pertanto lui può stare tranquillo, che ci sono molti simili ad Antonio
e non sono dei semplici spettatori.
Questa è la prima cosa. Per esempio Luca D'Ascia non ha visto le corrispondenze
dalla Cecenia perché sta in Colombia che non è un paese poi tanto tranquillo.
Io ringrazio sentitamente Luca D'Ascia perché ha spiegato bene nel suo
intervento come Antonio non fosse un guerrafondaio. Noi abbiamo sofferto
molto per certi fraintendimenti di Antonio e proprio riascoltando alcune
sue corrispondenze dalla Serbia lui, spiegava che l'azione preventiva
consiste nel non far andare al potere delle elite che siano nefaste.
Lui aveva chiara l'idea di come si possano prevenire i conflitti.
"A nome della Lega internazionale delle donne, mi unisco a tutte le
persone che celebrano la vita di Antonio Russo e il suo impegno a esporre
e condannare l'ingiustizia.
Fin dal suo inizio 86 anni fa, la lega lavora affinché la violenza in
ogni forma sia abbandonata e perché i conflitti possano essere risolti
con negoziazioni e in spirito di mutuo progresso.
L'ingiustizia è la radice della violenza in Cecenia, violenza che ha
fatalmente coinvolto Antonio Russo, saranno eliminate solamente quando
il concetto di sicurezza e supremazia nazionale, sarà costituito dal
concetto di sicurezza umana in cui la priorità è data non dal trionfo
egoistico ma la qualità e integrità della vita, vita sana di ogni componente
dell'ambiente naturale e vita degna di ogni essere umano.
Esorto ognuno di noi ad onorare la memoria di Antonio lavorando affinché
prenda radice una completa cultura di pace. Con pena e speranza. Bruna
Nota."
ANTONIO BORRELLI. Grazie a Patrizia Sterpetti.
Francesca?
FRANCESCA. Io volevo semplicemente dire una cosa che è un pensiero
che mi è venuto in mente riguardo al silenzio.
E' vero, questo è un primo tentativo che è venuto fuori, prima da incontri
tra amici, per cui rimettendo in piedi una rete e man mano costruendo
e riuscendo ad arrivare fino a questo punto.
E' ovvio che da qui si partirà per andare oltre. L'intento è ovviamente
(ma difficilmente potrà essere) quello di andare a scoprire delle cose,
però l'intento è quello di non far calare il silenzio su un metodo o
su un messaggio di una persona quale è stata Antonio per tutti quelli
che lo hanno incontrato e per tutti gli altri. Grazie.
ANTONIO BORRELLI. Viva Antonio Russo. Possono partire le immagini.
Grazie a tutti per la partecipazione e a presto rivedervi tutti.