"La
sofferenza, e non la spada, è il simbolo della razza umana"
("Young India", 5 novembre 1931)
"Gli occhi umidi di tristezza rilevano una rassegnazione antica:
poter morire sulla propria terra, dura, ingrata ma propria."
La macchina corre
sulla statale georgiana per l'Ingushetia. Ho un visto turistico russo
di quindici giorni, solo duecento dollari, non importa della spudorata
menzogna. Per i giornalisti non è possibile entrare dalla parte georgiana,
solo da Mosca.
E' il 20 gennaio. Siamo in quattro: un georgiano, contattato all'ultimo,
Georgy Malkhash il fraterno amico ceceno e un pazzo tassinaro georgiano
di una cinquantina d'anni di nome Mamu, classico praticone sul passaggio
dei confini, basso, traccagnotto, capelli brizzolati, appena spruzzati
d'argento, grande urlatore nel traffico caotico georgiano, che ci dovrebbe
"traghettare" attraverso il confine russo. Solo 100 dollari per portarci
per circa 350 km fino al confine inguscheto. Freddo pungente. Attraversiamo
la frontiera osseta del nord (Alania) pensando che ormai manchi poco al
confine. All'improvviso, sonnolenti, veniamo accecati da una lampada di
stop della polizia. Frenata brusca. Ci riprendiamo. Controllo documenti.
L'uomo che prende i nostri passaporti sembra conoscere benissimo Mamu
il tassinaro. E' un anziano sergente della polizia con baffetti e un modo
violento di comportarsi con noi. Uscendo dalla macchina ci strattona urlandoci
di entrare nella baracca del posto di blocco. Penso fra me e me: "cribbio
siamo fregati". Mamu, che ha mangiato la foglia, vedo che si allontana
dal taxi e dai poliziotti. Guardandolo mi viene da dire a Malkhash:"che
figlio di puttana". Okay ora dobbiamo gestirci la situazione fra di noi,
io, Malkhash e Georghy. Il timore è che per Georghy forse ci siano dei
problemi. Comunque siamo assieme e assieme avremmo sfangato. Sapevo che
gli osseti nel 1993 avevano avuto un conflitto con gli ingusheti con la
morte di 100 persone da entrambe le parti. L'astio comunque non è finito
anche nei confronti dei georgiani che all'epoca preferirono non intromettersi.
Ben altri problemi negli ultimi anni interessarono la Georgia: la guerra
abkhata con circa 10.000 morti e 250.000 profughi, guerra aiutata anche
da parte russa a favore ossetina, la guerra civile fra il 1992 e il 1993
nella competizione fra il presidente Gamsachurdija e il nuovo presidente
Sevardnadze, la guerra con la Ossetia del Sud a seguito delle rivendicazioni
della Armenia per una riunificazione dei territori, essendo la maggioranza
osseta di origine armena: 1000 furono i morti. Per questo sono preoccupato
insieme a Malkhash. Ci diamo un'occhiata di intesa e di coraggio. Georghy
è con noi, vuole raggiungere Vladikavkaz dove ha amici e parenti. L'anziano
sergente, chiaramente ubriaco ci spintona all'interno della guardiola.
Gli altri agenti, fra il divertito dai modi del sergente e il faceto,
ci guardano come succulente prede. Controllato il mio passaporto senza
il minimo problema mi chiedono dei soldi. Gli chiedo il motivo. Laconicamente
mi risponde:"C'è la prigione": Cedo. Georgy, spinto nell'angolo della
guardiola, iperriscaldata dalla stufetta a legna di alluminio. è sotto
le vessazioni del vecchi sergente che continuamente sbraita nei suoi confronti.
Gli urla in georgiano. Non riesco a capire. Ad un tratto il sergente lo
colpisce con la lampada in faccia. Mi sento umiliato, il primo istinto
è di rendergli la pariglia. Malkhash capisce e mi tira per la manica del
cappotto. Ma non è finita. Dopo aver pagato il "pizzo" circa 60 dollari
l'agente mi lascia andare ma non il vecchio sergente. Si rivolge a me
chiedendomi il visto russo in qualità di turista. Lo controlla ma non
crede che io possa essere un turista. Nella perquisizione della macchina
trovano il computer. E' furbo ma stupido. Ingaggia con me un interrogatorio.
Pensa che io sia una spia e come per Georgy mi minaccia con la lampada.
Alzo le braccia a mò di difesa. Malkhash è preoccupato. La sua quotidianità
come per Georgy era l'essere lupi travestiti da agnelli. La tensione si
respira nella afosa aria della guardiola. Sono le due di notte e siamo
soli. Finalmente ci lasciamo andare. In macchina Georghy esplode in un
effluvio di male parole nei confronti dei polizziotti ossetini. E' nervoso,
umiliato di essere stato picchiato senza poter reagire. E' un ragazzo
robusto non avrebbe avuto problema di mettere a knout-out il sergente.
Ma così va la vita. Finalmente raggiungiamo Vladikavkaz. andiamo a casa
di amici di Malkhash. Il mio codino potrebbe tradirmi, siamo in territorio
russo. A casa di Sadi, bevendo tè parliamo della situazione dei profughi
ceceni. Vivono in tredici in un solo grande stanzone, sei di loro sono
profughi da Grozny, con loro non è tutta la famiglia gli altri sono rimasti
a Grozny sotto i bombardamenti. Chiedo loro quali sono le condizioni di
vita. La nonna, l'anziana della famiglia arrivata a Vladikavkaz dopo 15
giorni di viaggio in pieno inverno, mi racconta che il cibo non è sufficiente.
Soldi non ce ne sono:"non abbiamo soldi, i russi ce li hanno presi solo
per lasciarci andare via. Il lavoro qui non c'è. Dio benedica Mosser per
la ospitalità che non possiamo contraccambiare." Gli occhi umidi di tristezza
rivelano una rassegnazione antica: poter morire sulla propria terra, dura,
ingrata ma propria. Chiedo informazioni sugli altri profughi. Purtroppo
non ci sono organizzazioni internazionali o umanitarie che possano fare
più di tanto, i russi non lasciano passare nessuno e tanto meno organizzare
un'assistenza. I bambini intorno a noi giocano chiassosi. La "matrioska"
quasi in lacrime mi chiede :"che possiamo fare? Ormai sono più i vecchi
che i giovani. Quelli che possono combattere sono in Cecenia solo noi
e i bambini siamo riusciti, Allah sa come, a metterci in salvo. Non pensavo
che alla mia età dovessi ancora vedere questo. Io ricordo i tempi passati
e nessuno sapeva. La mia famiglia fu deportata nel 1944 in Kazakistan.
Nessuno si salvò solo io riuscii a sopravvivere, Inshallah. E ora?" Guardandomi
negli occhi lasciò cadere il discorso. Stanca, affranta, tradita non aveva
più voglia di parlare. Con Malkhash parliamo di questo incontro. Mi risponde
raccontandomi la sua storia.
"Vedi Antonio la mia famiglia fu distrutta allo stesso modo nella deportazione
dei 40.000 in Kazakistan. Era il marzo del '44 quando i ceceni vennero
deportati, compresa la mia famiglia. Dopo due settimane di viaggio, blindati
nei vagoni furono abbandonati nella parte nord-est del Kazakistan. Sai
lì è deserto, e in inverno il gelo è il peggior nemico. Abbandonati, scaricati
come sacchi di farina cercarono di sopravvivere riscaldandosi con quello
che si poteva trovare. Poi la tragedia. Divelte le ultime traversine della
ferrovia per fare il fuoco gli anziani decisero, pur di salvare i giovani,
di sacrificare la loro vita gettandosi nei fuochi ormai sfiniti per mantenere
il calore nella speranza di salvare i giovani da questa tragedia. Ti sembra
romantico eh?" mi chiese Malkhash. Non so cosa. rispondere, resto attonito
quasi incredulo. Sapevo bene delle pulizie etniche sotto il regime di
Stalin ma poco sul destino dei ceceni. "La mia famiglia è una di queste.
Completamente distrutta solo mio nonno è riuscito a sopravvivere tutti
gli altri furono trucidati dai soldati russi. Si salvarono solo quelli
che riuscirono a fuggire". Cerco di capire meglio una storia dimanticata.
Vengo a conoscenza del fatto che Stalin decise questo sterminio con l'accusa
nei confronti dei ceceni di essere stati collaborazionisti con i tedeschi
durante la seconda guerra mondiale. Ma la storia non è questa. Da 170
anni i ceceni dimostrano la loro fierezza nel difendere una indipendenza
che rispetti la loro dignità culturale e etnica. L'estremismo islamico
non è parte di loro. i profughi in Ingushetia al momento sono circa 250.000
e la stessa UNHCR ha problemi per il monitoraggio e la assistenza. Nessun'altra
organizzazione internazionale è presente! Forse l'errore ceceno è che
non sanno gestire l'immagine. Gente silenziosa, fiera, difficile alla
lagrima, combattiva.
Cerchiamo di raggiungere Mozdok lingua estrema della Ossetia del Nord
nel territorio russo. Le informazioni ricevute erano importanti. Per i
profughi ceceni in Ingushetia la situazione è estremamente grave sotto
le vessazioni dei soldati russi e la assenza di assistenza sanitaria e
alimentare. Ci fermano e veniamo tenuti in stato di fermo per circa 28
ore. Siamo io e Malkhash. Georgy è rimasto a Valadikavkaz. Per loro siamo
sospetti, un giornalista con un ceceno. Siamo in stato di fermo. Durante
la interminabile attesa i soldati di frontiera russi vessano chiunque
attraversi il confine. La media è di 50 dollari a persona ma la tassa
è flessibile a seconda dell'appetito dell'ufficiale e del suo umore. Senza
vergogna davanti a me l'ufficiale alacremente mette la mano in tasca piena
di soldi: lari (moneta georgiana), rubli, dollari. Per i ceceni il trattamento
è speciale. Per poter passare il confine le tariffe vanno dai 150 ai 500
dollari. Il fatto che solo gli uomini possono passare la frontiera per
la Georgia. Le donne vengono rimandate indietro. Perfidia del ricatto.
In questo modo l'uomo si terrà in disparte, non si arruolerà con i guerriglieri
per la paura di perdere la sua famiglia. Ho visto la scena di questa separazione
diverse volte davanti a me durante lo stato di fermo in frontiera. Gli
occhi, i visi, le espressioni, l'apparente sottomissione sono immagini
che non si possono dimenticare. Malkhash mi dica:"Hai visto questo è una
delle tante torture che ci stanno facendo. Ricordalo! Penso che sia buono
per i tuoi reportages." Mentre Malkash mi parla ho in mente le parole
"It's fools game, nothing about fools game, standing in cold rain feeling
like a clown".
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