SONO IMMAGINI CHE NON SI POSSONO DIMENTICARE
di Antonio Russo

Diritto e Libertà: numero 2 Aprile/Giugno 2000

"La sofferenza, e non la spada, è il simbolo della razza umana"
("Young India", 5 novembre 1931)
"Gli occhi umidi di tristezza rilevano una rassegnazione antica:
poter morire sulla propria terra, dura, ingrata ma propria."

La macchina corre sulla statale georgiana per l'Ingushetia. Ho un visto turistico russo di quindici giorni, solo duecento dollari, non importa della spudorata menzogna. Per i giornalisti non è possibile entrare dalla parte georgiana, solo da Mosca.

E' il 20 gennaio. Siamo in quattro: un georgiano, contattato all'ultimo, Georgy Malkhash il fraterno amico ceceno e un pazzo tassinaro georgiano di una cinquantina d'anni di nome Mamu, classico praticone sul passaggio dei confini, basso, traccagnotto, capelli brizzolati, appena spruzzati d'argento, grande urlatore nel traffico caotico georgiano, che ci dovrebbe "traghettare" attraverso il confine russo. Solo 100 dollari per portarci per circa 350 km fino al confine inguscheto. Freddo pungente. Attraversiamo la frontiera osseta del nord (Alania) pensando che ormai manchi poco al confine. All'improvviso, sonnolenti, veniamo accecati da una lampada di stop della polizia. Frenata brusca. Ci riprendiamo. Controllo documenti. L'uomo che prende i nostri passaporti sembra conoscere benissimo Mamu il tassinaro. E' un anziano sergente della polizia con baffetti e un modo violento di comportarsi con noi. Uscendo dalla macchina ci strattona urlandoci di entrare nella baracca del posto di blocco. Penso fra me e me: "cribbio siamo fregati". Mamu, che ha mangiato la foglia, vedo che si allontana dal taxi e dai poliziotti. Guardandolo mi viene da dire a Malkhash:"che figlio di puttana". Okay ora dobbiamo gestirci la situazione fra di noi, io, Malkhash e Georghy. Il timore è che per Georghy forse ci siano dei problemi. Comunque siamo assieme e assieme avremmo sfangato. Sapevo che gli osseti nel 1993 avevano avuto un conflitto con gli ingusheti con la morte di 100 persone da entrambe le parti. L'astio comunque non è finito anche nei confronti dei georgiani che all'epoca preferirono non intromettersi. Ben altri problemi negli ultimi anni interessarono la Georgia: la guerra abkhata con circa 10.000 morti e 250.000 profughi, guerra aiutata anche da parte russa a favore ossetina, la guerra civile fra il 1992 e il 1993 nella competizione fra il presidente Gamsachurdija e il nuovo presidente Sevardnadze, la guerra con la Ossetia del Sud a seguito delle rivendicazioni della Armenia per una riunificazione dei territori, essendo la maggioranza osseta di origine armena: 1000 furono i morti. Per questo sono preoccupato insieme a Malkhash. Ci diamo un'occhiata di intesa e di coraggio. Georghy è con noi, vuole raggiungere Vladikavkaz dove ha amici e parenti. L'anziano sergente, chiaramente ubriaco ci spintona all'interno della guardiola. Gli altri agenti, fra il divertito dai modi del sergente e il faceto, ci guardano come succulente prede. Controllato il mio passaporto senza il minimo problema mi chiedono dei soldi. Gli chiedo il motivo. Laconicamente mi risponde:"C'è la prigione": Cedo. Georgy, spinto nell'angolo della guardiola, iperriscaldata dalla stufetta a legna di alluminio. è sotto le vessazioni del vecchi sergente che continuamente sbraita nei suoi confronti. Gli urla in georgiano. Non riesco a capire. Ad un tratto il sergente lo colpisce con la lampada in faccia. Mi sento umiliato, il primo istinto è di rendergli la pariglia. Malkhash capisce e mi tira per la manica del cappotto. Ma non è finita. Dopo aver pagato il "pizzo" circa 60 dollari l'agente mi lascia andare ma non il vecchio sergente. Si rivolge a me chiedendomi il visto russo in qualità di turista. Lo controlla ma non crede che io possa essere un turista. Nella perquisizione della macchina trovano il computer. E' furbo ma stupido. Ingaggia con me un interrogatorio. Pensa che io sia una spia e come per Georgy mi minaccia con la lampada. Alzo le braccia a mò di difesa. Malkhash è preoccupato. La sua quotidianità come per Georgy era l'essere lupi travestiti da agnelli. La tensione si respira nella afosa aria della guardiola. Sono le due di notte e siamo soli. Finalmente ci lasciamo andare. In macchina Georghy esplode in un effluvio di male parole nei confronti dei polizziotti ossetini. E' nervoso, umiliato di essere stato picchiato senza poter reagire. E' un ragazzo robusto non avrebbe avuto problema di mettere a knout-out il sergente. Ma così va la vita. Finalmente raggiungiamo Vladikavkaz. andiamo a casa di amici di Malkhash. Il mio codino potrebbe tradirmi, siamo in territorio russo. A casa di Sadi, bevendo tè parliamo della situazione dei profughi ceceni. Vivono in tredici in un solo grande stanzone, sei di loro sono profughi da Grozny, con loro non è tutta la famiglia gli altri sono rimasti a Grozny sotto i bombardamenti. Chiedo loro quali sono le condizioni di vita. La nonna, l'anziana della famiglia arrivata a Vladikavkaz dopo 15 giorni di viaggio in pieno inverno, mi racconta che il cibo non è sufficiente. Soldi non ce ne sono:"non abbiamo soldi, i russi ce li hanno presi solo per lasciarci andare via. Il lavoro qui non c'è. Dio benedica Mosser per la ospitalità che non possiamo contraccambiare." Gli occhi umidi di tristezza rivelano una rassegnazione antica: poter morire sulla propria terra, dura, ingrata ma propria. Chiedo informazioni sugli altri profughi. Purtroppo non ci sono organizzazioni internazionali o umanitarie che possano fare più di tanto, i russi non lasciano passare nessuno e tanto meno organizzare un'assistenza. I bambini intorno a noi giocano chiassosi. La "matrioska" quasi in lacrime mi chiede :"che possiamo fare? Ormai sono più i vecchi che i giovani. Quelli che possono combattere sono in Cecenia solo noi e i bambini siamo riusciti, Allah sa come, a metterci in salvo. Non pensavo che alla mia età dovessi ancora vedere questo. Io ricordo i tempi passati e nessuno sapeva. La mia famiglia fu deportata nel 1944 in Kazakistan. Nessuno si salvò solo io riuscii a sopravvivere, Inshallah. E ora?" Guardandomi negli occhi lasciò cadere il discorso. Stanca, affranta, tradita non aveva più voglia di parlare. Con Malkhash parliamo di questo incontro. Mi risponde raccontandomi la sua storia.

"Vedi Antonio la mia famiglia fu distrutta allo stesso modo nella deportazione dei 40.000 in Kazakistan. Era il marzo del '44 quando i ceceni vennero deportati, compresa la mia famiglia. Dopo due settimane di viaggio, blindati nei vagoni furono abbandonati nella parte nord-est del Kazakistan. Sai lì è deserto, e in inverno il gelo è il peggior nemico. Abbandonati, scaricati come sacchi di farina cercarono di sopravvivere riscaldandosi con quello che si poteva trovare. Poi la tragedia. Divelte le ultime traversine della ferrovia per fare il fuoco gli anziani decisero, pur di salvare i giovani, di sacrificare la loro vita gettandosi nei fuochi ormai sfiniti per mantenere il calore nella speranza di salvare i giovani da questa tragedia. Ti sembra romantico eh?" mi chiese Malkhash. Non so cosa. rispondere, resto attonito quasi incredulo. Sapevo bene delle pulizie etniche sotto il regime di Stalin ma poco sul destino dei ceceni. "La mia famiglia è una di queste. Completamente distrutta solo mio nonno è riuscito a sopravvivere tutti gli altri furono trucidati dai soldati russi. Si salvarono solo quelli che riuscirono a fuggire". Cerco di capire meglio una storia dimanticata. Vengo a conoscenza del fatto che Stalin decise questo sterminio con l'accusa nei confronti dei ceceni di essere stati collaborazionisti con i tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Ma la storia non è questa. Da 170 anni i ceceni dimostrano la loro fierezza nel difendere una indipendenza che rispetti la loro dignità culturale e etnica. L'estremismo islamico non è parte di loro. i profughi in Ingushetia al momento sono circa 250.000 e la stessa UNHCR ha problemi per il monitoraggio e la assistenza. Nessun'altra organizzazione internazionale è presente! Forse l'errore ceceno è che non sanno gestire l'immagine. Gente silenziosa, fiera, difficile alla lagrima, combattiva.

Cerchiamo di raggiungere Mozdok lingua estrema della Ossetia del Nord nel territorio russo. Le informazioni ricevute erano importanti. Per i profughi ceceni in Ingushetia la situazione è estremamente grave sotto le vessazioni dei soldati russi e la assenza di assistenza sanitaria e alimentare. Ci fermano e veniamo tenuti in stato di fermo per circa 28 ore. Siamo io e Malkhash. Georgy è rimasto a Valadikavkaz. Per loro siamo sospetti, un giornalista con un ceceno. Siamo in stato di fermo. Durante la interminabile attesa i soldati di frontiera russi vessano chiunque attraversi il confine. La media è di 50 dollari a persona ma la tassa è flessibile a seconda dell'appetito dell'ufficiale e del suo umore. Senza vergogna davanti a me l'ufficiale alacremente mette la mano in tasca piena di soldi: lari (moneta georgiana), rubli, dollari. Per i ceceni il trattamento è speciale. Per poter passare il confine le tariffe vanno dai 150 ai 500 dollari. Il fatto che solo gli uomini possono passare la frontiera per la Georgia. Le donne vengono rimandate indietro. Perfidia del ricatto. In questo modo l'uomo si terrà in disparte, non si arruolerà con i guerriglieri per la paura di perdere la sua famiglia. Ho visto la scena di questa separazione diverse volte davanti a me durante lo stato di fermo in frontiera. Gli occhi, i visi, le espressioni, l'apparente sottomissione sono immagini che non si possono dimenticare. Malkhash mi dica:"Hai visto questo è una delle tante torture che ci stanno facendo. Ricordalo! Penso che sia buono per i tuoi reportages." Mentre Malkash mi parla ho in mente le parole "It's fools game, nothing about fools game, standing in cold rain feeling like a clown".