"A
Pristina la differenza è l'abbandono, l'accettazione di una spunga gettata
sul ring da parte del mondo, nel denunciare l'efferatezza di una sentenza,
la soluzione finale. Sola, blindata, incompresa, usata nel suo forzato
isolamento; la pulizia etnica appartiene al paradosso di una privacy non
dichiarata ma accettata dalle politiche di sovranità."
Il secco,
inconfondibile, sussurrato tac dell'orologio avverte. Alzo gli occhi,
anche se non ce ne sarebbe bisogno. Lancio una veloce occhiata, le 18.30.
"Hmm" - biascico - "ho capito, ricomincia il balletto". E' il marzo del
'99, a Pristina l'operazione Nato è in atto dal 24. La televisione fra
poco ululerà il suo clack mortale e il silenzio sarà l'unica compagnia
di un'attesa. Mi affaccio alla finestra panoramica ad angolo del salone
per registrare rumori, sussulti di una città condannata a morte. Le strade
sono deserte; quella principale che conduce a Velanja è sgombra dal solito
check point della polizia. Quanti ricordi di quei check points maledetti.
La strada che conduce a Velanja parte dalla grande moschea di Ali Pascja
per poi inerpicarsi a sinistra, zigzagando verso la collina. Su questo
tragitto, nei mesi passati, si svolgeva il gioco dei controlli della milizia
su chiunque passasse. Era una gioco tragicomico, una sorta di gatto e
topo dove un ironico croupier si divertiva a tenere banco. L'ora era sempre
la stessa, le 7.30.
All'imbrunire la polizia militare, soprannominata gli uomini blu, come
uno stormo di nottole usciva, disponendosi nei punti principali di ingresso
ai vari quartieri albanesi di Pristina. I più rabbiosi di questi checks
si situavano all'ingresso del quartiere per Vranievz; considerato covo
di terroristi solo perché davano rifugio a profughi che arrivavano da
Jakova, Drenica, Obelic e sulla strada per Velanja, quartiere della intellighentia
kossovara. Il caldo caffè che bevo mi riporta ad un presente dai tragici
presagi, ritornano immagini di Sarajevo, durante la guerra bosniaca; una
città anch'essa in agonia, torturata dalle mille astuzie di carnefici,
umiliata nella sua dignità, passiva nella attesa di una dichiarazione
di morte.
A Pristina la differenza è l'abbandono, l'accettazione di una spugna gettata
sul ring da parte del mondo nel dununciare l'efferatezza di una sentenza,
la soluzione finale.
Sola, blindata, incompresa, usata, nel suo forzato isolamento; la pulizia
etnica appartiene al paradosso di una privacy non dichiarata ma accettata
dalle politiche di sovranità. Nel trascolorare delle memorie il suono
del campanello mi richiama, corro senza sapere chi possa essere, apro,
sono i vicini, mi chiedono di poter telefonare a Drenica per avere notizia
dei loro parenti. Sono due ragazze, di circa 22 o 24 anni, semplici nel
loro imbarazzo. Cercano il contatto. La pazienza della ripetizione dei
gesti per un numero telefonico nasconde il nervosismo angosciato di una
risposta. Attendono, riprovano, incrociano i loro sguardi assorti dal
dubbio, mi guardano chiedendomi pse, perché. Balbetto loro che la guerra
è questo: divertirsi con le congiure del silenzio. Finalmente, dopo l'ennesimo
tentativo, prendono la linea, parlano concitatamente. Il loro sguardo
per un momento si rasserena, le tristi paure si allontanano quali nubi
all'orizzonte al solo sentire le voci dei propri cari. Stanno bene, la
città la stanno svuotando con i rastrellamenti, saccheggi e distruzioni
sono la quotidianità, il cibo scarseggia e la paura non dà loro modo di
fuggire, dopo tutto viviamo inshallah, per volontà di Dio.
Curiosamente, mi trovo a vivere la concitata esistenza degli assediati,
dei prigionieri non dichiarati. Ci scambiamo sorrisi e sguardi di consolazione,
ci domandiamo quale possa essere il nostro destino e al contempo l'istinto
femminile osserva il disordine della camera dove lavoro e passo le notti.
All'unisono, si apprestano a pulirmi la stanza, riordinandola. E la cucina.
Mi imbarazza, cerco di dire loro che non importa, che lo posso fare anch'io.
"Bugiardo", dico a me stesso. Non c'è cosa più meravigliosa di una donna
che, nei momenti più tristi, si affaccendi per te, solo per dichiararti
una solidarietà, una presenza quasi protettiva, rassicurante, silenziosa,
dove il domestico rumoreggiare ti richiami a tempi felici. Mi chiedono
quanti anni abbia e perché non sia ancora sposato, non è bene per un uomo
essere senza famiglia e dei figli. Gli imbarazzi di domande e risposte
scompaiono di fronte all'emergenza. Si solidarizza, pur se nella estraneità.
Ci salutiamo. Ritornano nella casa prossima alla mia dove il resto della
famiglia vive. Profughi da Drenica, vivono ormai da 4 mesi in questa casa
messa a disposizione da un conoscente. I loro sei bambini sono ai miei
occhi la cosa più cara. Le loro voci mattiniere hanno rallegrato quasi
a miracolo i giorni trascorsi. Gli spari, le granate, unico rumore che
rompeva il silenzio tombale della città, scomparivano di fronte all'incosciente
gioco dei fanciulli.
Un giorno li vidi giocare dietro casa, in campo aperto dove la visuale,
per i cecchini, era delle migliori. Nessun riparo, nessuna possibilità
di mettersi in salvo. Poco distante dal muro di facciata della casa c'era
la carcassa di un cane ucciso da una delle tante gragnole dell'offensiva
serba alla periferia della città o forse da qualche cecchino posizionato
nelle alture antistanti il nostro quartiere. Con la massima disinvoltura,
i pupi trotterellavano avanti e indietro, in un gioco la cui fantasia
mi era sconosciuta, incuranti di quella carcassa, di quel terrore che
non risparmiava neanche gli animali. Gli spaventati richiami dei genitori
per farli rientrare in casa non sortivano alcun effetto, la loro gioia
comunque prevaricava qualsiasi logica. Mi guardavano divertiti, ironici,
sfrontati nella loro dichiarazione di vita. Presi la macchina fotografica
e scattai alcune foto col pensiero di una cara memoria da portare con
me.
Squilla ancora il telefono. Rispondo. E' una delle tante corrispondenza
con il mondo, che comunque cercavo di fare, resoconto di un'esecuzione
in atto, denuncia di come l'intelligenza propagandistica serba approfittasse
dei bomardamenti NATO per lavorare più alacremente nella pulizia etnica
e nello svuotamento della città: gli attacchi ai quartieri in perfetta
coincidenza con gli attacchi NATO, le case bruciate che come enormi falò
dipingevano le notti di oscuramento. Mi appresto a passare l'ennesima
notte, preparo la candela, la notte scende nella sua inesorabile complicità.
Le case si serrano, le serrande si chiudono, come occhi, per la buona
notte. I cani si preparano a spadroneggiare per le strade, spavaldi netturbini
dell'abbandono. Non si dormirà, la notte sarà lunga, come per le altre,
l'unico momento di quiete sarà verso le 3 di mattina. Accendo la candela
solo quando non riesco a trovare qualcosa, per il resto mi orizzonto al
buio quasi come un cieco. Aspetto l'inizio degli attacchi e raccolgo le
idee sugli appunti presi durante il giorno e le mie perlustrazioni della
città per i prossimi reportages che durante la notte dovrò fare.
Nelle pause tra una chiamata e l'altra, non posso fare a meno di rammemorare
la simpatica vitalità di Velanja. Già! Il quartiere di Rugova, un futuribile
presidente di una futurabile repubblica libera del Kosovo.
Tutti i giorni vedo la sua bianca casa, elegantemente rifinita, a tre
piani, dalle facciate a intonacatura a graffiato e il suo padellone satellitare.
Una casa appena ad un centinaio di metri dalla mia. I due figli sono ancora
qui, ma nulla del padre.
Quale febbrile vivacità nel quartiere durante il giorno! Decine di studenti
dai 18 anni in poi, la mattina verso le 7.30, si ritrovavano in un allegro
consesso nella attesa di entrare in strette ed anguste aule ricavate da
case private. Educazione, cultura, futuro? Tutti i giorni, da mesi ormai,
scendendo in centro li incontravo chiassosi quanto mai, irriverenti come
tutte le generazioni studentesche. Dalla finestra li vedevo dedicarsi
scherzosamente all'ora sportiva per poi riconcentrarsi nelle aule. Chini
su banchi anni sessanta dalla formica verde, li scorgevo dalle grandi
finestre di aule, quattro metri per cinque, pigiati in 20 o più, stancamente
assorti dalle lezioni. Al mio passaggio ci incontravamo con gli sguardi,
fra il curioso e il gentilmente indispettito, testimone della loro quotidianità,
scambiandoci un implicito buongiorno. Nonostante l'apparente normalità,
la guerra era lì. Non c'è cosa più terribile di guerre non dichiarate
dove solo la forza dei nervi aiuta a sopravvivere. Un sussulto inizia
il carosello, sono circa le 8.30. La notte avvolge come un piumone la
città, quasi a voler attutire e nascondere quello che qui si stava succedendo.
Un'offensiva feroce era da poco iniziata da parte serba nella parte sud
della città, a circa 5 km nel quartiere di Mantica situato alle spalle
di Velanja dove mi trovavo. Si percepisce senza difficoltà l'avvicinarsi
degli spari. E' chiaro che è in atto una serrata offensiva per sbaragliare
le posizioni sulle colline, presidiate da soldati dell'ALK e dalla difesa
civile e, al contempo, per finire di circondare, stringendoli in una morsa
di ferro, i restanti quartieri sud di Pristina, eliminando così l'ultima
possibilità di una via di fuga in direzione di Skopje. La trappola si
sta sempre più chiudendo nell'inesorabile piano di soluzione finale. E'
chiaro a tutti noi che è una questione di ore, prima che il destino si
compia e da questo impietriti ci anestetizziamo in un'attesa infernale.
Ecco da lì a poco, le 10.30 circa, iniziare i bombardamenti NATO. Un amaro
sorriso ci disegna i volti, un irrisorio soffio di speranza dipinge un
cuore stanco dalle tante attese e infingimenti sulle nostre aspettative.
Che dire a me stesso, cauto ottimismo, ferma diplomaticità nel nascondermi
la premonizione di quello che là, fuori dalla finestra ad angolo, come
un film mi mostrava.
"Natenemir", buona notte Pristina, e con le dita spegnevo la luce di una
candela, che quasi a faro, illuminava il gioco dei corvi. Inshallah.
|