LE CONGIURE DEL SILENZIO
di Antonio Russo
A Diritto & Libertà la testimonianza dell'unico giornalista
rimasto a Pristina durante i bombardamenti della NATO.

Diritto e Libertà: numero 1 Gennaio/Marzo 2000


"A Pristina la differenza è l'abbandono, l'accettazione di una spunga gettata sul ring da parte del mondo, nel denunciare l'efferatezza di una sentenza, la soluzione finale. Sola, blindata, incompresa, usata nel suo forzato isolamento; la pulizia etnica appartiene al paradosso di una privacy non dichiarata ma accettata dalle politiche di sovranità."

Il secco, inconfondibile, sussurrato tac dell'orologio avverte. Alzo gli occhi, anche se non ce ne sarebbe bisogno. Lancio una veloce occhiata, le 18.30.

"Hmm" - biascico - "ho capito, ricomincia il balletto". E' il marzo del '99, a Pristina l'operazione Nato è in atto dal 24. La televisione fra poco ululerà il suo clack mortale e il silenzio sarà l'unica compagnia di un'attesa. Mi affaccio alla finestra panoramica ad angolo del salone per registrare rumori, sussulti di una città condannata a morte. Le strade sono deserte; quella principale che conduce a Velanja è sgombra dal solito check point della polizia. Quanti ricordi di quei check points maledetti. La strada che conduce a Velanja parte dalla grande moschea di Ali Pascja per poi inerpicarsi a sinistra, zigzagando verso la collina. Su questo tragitto, nei mesi passati, si svolgeva il gioco dei controlli della milizia su chiunque passasse. Era una gioco tragicomico, una sorta di gatto e topo dove un ironico croupier si divertiva a tenere banco. L'ora era sempre la stessa, le 7.30.

All'imbrunire la polizia militare, soprannominata gli uomini blu, come uno stormo di nottole usciva, disponendosi nei punti principali di ingresso ai vari quartieri albanesi di Pristina. I più rabbiosi di questi checks si situavano all'ingresso del quartiere per Vranievz; considerato covo di terroristi solo perché davano rifugio a profughi che arrivavano da Jakova, Drenica, Obelic e sulla strada per Velanja, quartiere della intellighentia kossovara. Il caldo caffè che bevo mi riporta ad un presente dai tragici presagi, ritornano immagini di Sarajevo, durante la guerra bosniaca; una città anch'essa in agonia, torturata dalle mille astuzie di carnefici, umiliata nella sua dignità, passiva nella attesa di una dichiarazione di morte.

A Pristina la differenza è l'abbandono, l'accettazione di una spugna gettata sul ring da parte del mondo nel dununciare l'efferatezza di una sentenza, la soluzione finale.

Sola, blindata, incompresa, usata, nel suo forzato isolamento; la pulizia etnica appartiene al paradosso di una privacy non dichiarata ma accettata dalle politiche di sovranità. Nel trascolorare delle memorie il suono del campanello mi richiama, corro senza sapere chi possa essere, apro, sono i vicini, mi chiedono di poter telefonare a Drenica per avere notizia dei loro parenti. Sono due ragazze, di circa 22 o 24 anni, semplici nel loro imbarazzo. Cercano il contatto. La pazienza della ripetizione dei gesti per un numero telefonico nasconde il nervosismo angosciato di una risposta. Attendono, riprovano, incrociano i loro sguardi assorti dal dubbio, mi guardano chiedendomi pse, perché. Balbetto loro che la guerra è questo: divertirsi con le congiure del silenzio. Finalmente, dopo l'ennesimo tentativo, prendono la linea, parlano concitatamente. Il loro sguardo per un momento si rasserena, le tristi paure si allontanano quali nubi all'orizzonte al solo sentire le voci dei propri cari. Stanno bene, la città la stanno svuotando con i rastrellamenti, saccheggi e distruzioni sono la quotidianità, il cibo scarseggia e la paura non dà loro modo di fuggire, dopo tutto viviamo inshallah, per volontà di Dio.

Curiosamente, mi trovo a vivere la concitata esistenza degli assediati, dei prigionieri non dichiarati. Ci scambiamo sorrisi e sguardi di consolazione, ci domandiamo quale possa essere il nostro destino e al contempo l'istinto femminile osserva il disordine della camera dove lavoro e passo le notti.

All'unisono, si apprestano a pulirmi la stanza, riordinandola. E la cucina.

Mi imbarazza, cerco di dire loro che non importa, che lo posso fare anch'io. "Bugiardo", dico a me stesso. Non c'è cosa più meravigliosa di una donna che, nei momenti più tristi, si affaccendi per te, solo per dichiararti una solidarietà, una presenza quasi protettiva, rassicurante, silenziosa, dove il domestico rumoreggiare ti richiami a tempi felici. Mi chiedono quanti anni abbia e perché non sia ancora sposato, non è bene per un uomo essere senza famiglia e dei figli. Gli imbarazzi di domande e risposte scompaiono di fronte all'emergenza. Si solidarizza, pur se nella estraneità. Ci salutiamo. Ritornano nella casa prossima alla mia dove il resto della famiglia vive. Profughi da Drenica, vivono ormai da 4 mesi in questa casa messa a disposizione da un conoscente. I loro sei bambini sono ai miei occhi la cosa più cara. Le loro voci mattiniere hanno rallegrato quasi a miracolo i giorni trascorsi. Gli spari, le granate, unico rumore che rompeva il silenzio tombale della città, scomparivano di fronte all'incosciente gioco dei fanciulli.

Un giorno li vidi giocare dietro casa, in campo aperto dove la visuale, per i cecchini, era delle migliori. Nessun riparo, nessuna possibilità di mettersi in salvo. Poco distante dal muro di facciata della casa c'era la carcassa di un cane ucciso da una delle tante gragnole dell'offensiva serba alla periferia della città o forse da qualche cecchino posizionato nelle alture antistanti il nostro quartiere. Con la massima disinvoltura, i pupi trotterellavano avanti e indietro, in un gioco la cui fantasia mi era sconosciuta, incuranti di quella carcassa, di quel terrore che non risparmiava neanche gli animali. Gli spaventati richiami dei genitori per farli rientrare in casa non sortivano alcun effetto, la loro gioia comunque prevaricava qualsiasi logica. Mi guardavano divertiti, ironici, sfrontati nella loro dichiarazione di vita. Presi la macchina fotografica e scattai alcune foto col pensiero di una cara memoria da portare con me.

Squilla ancora il telefono. Rispondo. E' una delle tante corrispondenza con il mondo, che comunque cercavo di fare, resoconto di un'esecuzione in atto, denuncia di come l'intelligenza propagandistica serba approfittasse dei bomardamenti NATO per lavorare più alacremente nella pulizia etnica e nello svuotamento della città: gli attacchi ai quartieri in perfetta coincidenza con gli attacchi NATO, le case bruciate che come enormi falò dipingevano le notti di oscuramento. Mi appresto a passare l'ennesima notte, preparo la candela, la notte scende nella sua inesorabile complicità. Le case si serrano, le serrande si chiudono, come occhi, per la buona notte. I cani si preparano a spadroneggiare per le strade, spavaldi netturbini dell'abbandono. Non si dormirà, la notte sarà lunga, come per le altre, l'unico momento di quiete sarà verso le 3 di mattina. Accendo la candela solo quando non riesco a trovare qualcosa, per il resto mi orizzonto al buio quasi come un cieco. Aspetto l'inizio degli attacchi e raccolgo le idee sugli appunti presi durante il giorno e le mie perlustrazioni della città per i prossimi reportages che durante la notte dovrò fare.

Nelle pause tra una chiamata e l'altra, non posso fare a meno di rammemorare la simpatica vitalità di Velanja. Già! Il quartiere di Rugova, un futuribile presidente di una futurabile repubblica libera del Kosovo.

Tutti i giorni vedo la sua bianca casa, elegantemente rifinita, a tre piani, dalle facciate a intonacatura a graffiato e il suo padellone satellitare. Una casa appena ad un centinaio di metri dalla mia. I due figli sono ancora qui, ma nulla del padre.

Quale febbrile vivacità nel quartiere durante il giorno! Decine di studenti dai 18 anni in poi, la mattina verso le 7.30, si ritrovavano in un allegro consesso nella attesa di entrare in strette ed anguste aule ricavate da case private. Educazione, cultura, futuro? Tutti i giorni, da mesi ormai, scendendo in centro li incontravo chiassosi quanto mai, irriverenti come tutte le generazioni studentesche. Dalla finestra li vedevo dedicarsi scherzosamente all'ora sportiva per poi riconcentrarsi nelle aule. Chini su banchi anni sessanta dalla formica verde, li scorgevo dalle grandi finestre di aule, quattro metri per cinque, pigiati in 20 o più, stancamente assorti dalle lezioni. Al mio passaggio ci incontravamo con gli sguardi, fra il curioso e il gentilmente indispettito, testimone della loro quotidianità, scambiandoci un implicito buongiorno. Nonostante l'apparente normalità, la guerra era lì. Non c'è cosa più terribile di guerre non dichiarate dove solo la forza dei nervi aiuta a sopravvivere. Un sussulto inizia il carosello, sono circa le 8.30. La notte avvolge come un piumone la città, quasi a voler attutire e nascondere quello che qui si stava succedendo. Un'offensiva feroce era da poco iniziata da parte serba nella parte sud della città, a circa 5 km nel quartiere di Mantica situato alle spalle di Velanja dove mi trovavo. Si percepisce senza difficoltà l'avvicinarsi degli spari. E' chiaro che è in atto una serrata offensiva per sbaragliare le posizioni sulle colline, presidiate da soldati dell'ALK e dalla difesa civile e, al contempo, per finire di circondare, stringendoli in una morsa di ferro, i restanti quartieri sud di Pristina, eliminando così l'ultima possibilità di una via di fuga in direzione di Skopje. La trappola si sta sempre più chiudendo nell'inesorabile piano di soluzione finale. E' chiaro a tutti noi che è una questione di ore, prima che il destino si compia e da questo impietriti ci anestetizziamo in un'attesa infernale. Ecco da lì a poco, le 10.30 circa, iniziare i bombardamenti NATO. Un amaro sorriso ci disegna i volti, un irrisorio soffio di speranza dipinge un cuore stanco dalle tante attese e infingimenti sulle nostre aspettative. Che dire a me stesso, cauto ottimismo, ferma diplomaticità nel nascondermi la premonizione di quello che là, fuori dalla finestra ad angolo, come un film mi mostrava.

"Natenemir", buona notte Pristina, e con le dita spegnevo la luce di una candela, che quasi a faro, illuminava il gioco dei corvi. Inshallah.