La nostra Europa

Crisi e conflitti armati: l’alibi del non-intervento.
Nei giorni convulsi successivi all’attentato di Madrid, mi è capitato spesso di pensare che questi continui attentati contro l’Occidente, la libertà e la democrazia hanno evidenziato pesanti contraddizioni nella comunità dei cosiddétti paesi liberi. Forse dovremmo tutti avere il coraggio di guardare in faccia queste contraddizioni, e di chiamarle con il loro nome.


Divisione dei paesi liberi.
L’11 settembre - e più ancora, la guerra in Iraq - hanno fatto emergere in maniera chiara che i “paesi liberi” e le loro classi dirigenti non si dividono solo sul piano dei mezzi, ma anche, purtroppo, sul piano dei fini. L’Occidente, e il ruolo che esso intende giocare sulla scena internazionale, appare come diviso fra interventismo militare e multilateralismo politico, fra il partito atlantico e il partito dell’Onu, fra il partito della guerra e quello della politica. Credo che questo quadro non sia del tutto veritiero.

L’Europa si distacca dall’amministrazione americana, ma non sa giocare un proprio ruolo.
L'Europa - parlo dell'Unione Europea, cioè delle istituzioni comuni, non dei singoli Stati - sembra capace e risoluta nel condannare errori e colpe degli alleati, e restìa nel nominare le vergogne dei propri nemici dichiarati e degli avversari. Ha scelto di giocare una partita diversa da quella che gioca l'America, con le armi dell'unilateralismo e dell’aggressività militare. Ma non è chiaro quale sia il “gioco” dell’Europa.
È facile capire che la fine della logica dei blocchi ha lasciato questo continente più esposto ai venti della storia: orfano non solo dei propri riferimenti, ma anche delle proprie consolidate paure, come l’impero comunista e il rischio nucleare. È però inaccettabile il fatto che l’Europa ora se ne stia ferma, e sappia solamente indicare agli altri cosa non fare.

La fragilità dei “paesi civili” rispetto alla violenza del fondamentalismo.
Abbiamo tentato di promuovere una soluzione che evitasse il conflitto in Medio Oriente con la campagna "Iraq libero per l'esilio di Saddam". Una formula simile a quella che la comunità internazionale ha attuato in Liberia. Avevamo previsto le immani difficoltà che avrebbe provocato l'apertura di uno scenario di guerra e la conseguente occupazione del Paese, anche se motivata da ragioni comprensibili, o addirittura generose. Il pericolo è la libanesizzazione dell’Iraq, oltre al rischio - denunciato da Marco Pannella - delle inevitabili conseguenze politiche, sociali ed economiche che gli Stati Uniti subirebbero al loro interno, affidando la propria politica estera agli apparati militari e di sicurezza.

Nessuno si è preoccupato di offrire un’alternativa democratica.
Resta comunque chiaro un fatto: assolutamente nessuno in questo continente, tranne forse Blair che ha cercato di temperare e “multilateralizzare” la strategia americana, si è preoccupato di offrire, sul piano dei mezzi, un'alternativa di

L’Europa del non-intervento.
L’Europa del non-intervento non offre soluzioni più politiche e meno militari di quelle dei cosiddétti falchi americani. Concede invece a se stessa, ancora una volta, la soluzione comoda e suicida del non-coinvolgimento. Autorevoli commentatori parlano di “Europa di Monaco”, quando le democrazie consentirono a Hitler di invadere la Cecoslovacchia in cambio di una illusoria promessa di “pace”. Mi sembra un giudizio tutt’altro che ingeneroso. E anche un riconoscimento di quanto noi radicali, perseveranti cassandre, abbiamo sostenuto con le stesse parole negli scorsi decenni, quando dicevamo “Monaco” per Vukovar e per Srebrenica nella ex- Yugoslavia, per Kabul in Afghanistan, Grozny in Cecenia e i Grandi Laghi in Africa. E oggi, l'Europa è silente di fronte ai massacri nel Darfur, in Sudan.

L’Europa di Monaco.
“interventismo democratico” internazionale.

Per una politica europea “proattiva”.
Dal 1989 e ancor oggi, se escludiamo la politica dell’allargamento a est, non c’è traccia di una politica europea “proattiva”. Una politica volta cioè alla promozione di un sistema di diritti, istituzioni, regole e libertà necessarie all’evoluzione pacifica e dignitosa dei Paesi in via di sviluppo politico.

La politica internazionale europea è ancora difensiva.
Nemmeno dopo l’11 settembre l’Europa ha accettato di riconoscere che le sue politiche di sicurezza imponevano una ridefinizione delle strategie internazionali, un ruolo politicamente più aggressivo, una linea di maggiore nettezza. In termini di politica internazionale, l’Europa è rimasta insomma difensiva, scarsamente reattiva, e per nulla proattiva.

Le classi dirigenti mancano di coraggio e volontà politica.
Per essere espliciti: questa Europa non può dare lezioni a nessuno. È noto che le classi dirigenti e politiche acquistano credibilità attraverso un operato chiaro e coerente, non denunciando delle semplici aspirazioni ad agire, o peggio, dichiarando ciò che non sono disposte a fare.

È ora che l’Europa scelga da che parte stare.
Questa Europa, con i suoi partiti e le sue classi dirigenti, non può più risparmiarsi la fatica politica di scegliere da che parte stare, con l’illusione che i problemi degli altri possano essere tenuti fuori dalla porta di casa. L’Europa necessaria oggi è drammaticamente assente.

Un’Europa unita solo nelle richieste.
L’Europa che c’è è solo quella che urla come un sol uomo «Yankees go home», «via da Baghdad». Un’Europa che non si pronuncia se non con il rituale appello al ruolo dell’Onu, fermo restando che a pagare, in termini di risorse, vite e rischio politico, deve comunque essere qualcun altro.
L'Europa che c'è è quella che giustamente condanna l'assassinio di Yassin e Rantissi, palesi violazioni della legalità internazionale, ma che dimentica nello stesso documento di deprecare il ricorso ai bambini kamikaze, uguale e ancor più vergognosa violazione della legalità internazionale.

Un’Europa che dimentica di deprecare il ricorso ai bambini Kamikaze. Un’Europa che continua ad ignorare
l’importanza di offrire a Israele l’ingresso nell’Unione.
L’Europa che c’è è quella che condanna di fatto Israele e Palestina all’isolamento di fronte alla rincorsa della violenza. L’Europa che non reagisce, che si limita a condannare con voce flebile e poco credibile. Perché è l’Europa che non sceglie da che parte stare, se con la democrazia israeliana o la satrapia di Arafat. Perché è l’Europa che finanzia le scuole palestinesi dove si incita all’odio verso Israele. Perché è l’Europa che sta ignorando la proposta di noi radicali di offrire subito a Israele (e magari alla Palestina democratica di domani) l’ingresso pieno nell’Unione Europea - voluto secondo i sondaggi dall'85% degli israeliani - come assunzione di responsabilità, e quindi come titolarità politica a intervenire in una crisi, fino a oggi, perenne. L’Europa che vede marcire ogni giorno le prospettive di convivenza pacifica fondata sui diritti umani e sul diritto: per i palestinesi, prima ancora che per gli israeliani.

Manca il coraggio delle riforme.

In molti hanno più volte sottolineato che la competizione europea non è più solo nei confronti degli Stati Uniti, ma anche dei nuovi giganti che si profilano sulla scena mondiale, Cina e India in primo luogo.

Il modello sociale europeo non può essere un totem.
Chi, in Europa e in Italia, giudica il “modello sociale europeo” una conquista definitiva e immutabile, mostra poca consapevolezza dei cambiamenti in atto. Il contesto dell’economia mondiale è infatti profondamente mutato. Non si possono più ignorare i miliardi di persone che partecipano alla produzione e al commercio dei beni e dei servizi della nostra vita quotidiana. Per questo dobbiamo avere il coraggio di riforme radicali.

Il futuro dell’Unione dipende dalla capacità di adattamento alle nuove realtà.
L’Europa che verrà, in particolare sotto il profilo istituzionale, è al centro delle attuali discussioni. Su questo punto, si giocherà buona parte del futuro dell’Unione Europea, della sua adeguatezza alle sfide epocali. Penso innanzi tutto, al ruolo diplomatico e militare sulla scena internazionale di cui l’Unione è perennemente alla ricerca. Mi capitò cinque anni fa, di proporre una “Unione Diplomatica e Militare” sulla falsariga di quella Monetaria. Mi sembra che quella proposta conservi una sua attualità di fronte alla totale inadeguatezza delle proposte di cosiddétta “nuova Costituzione Europea”.

Il segno conservatore della politica europea in campo economico e sociale.
Ma la mia preoccupazione - non voglio ancora dire il mio pessimismo - non deriva tanto, o solo, dall’incapacità di darci una nuova Governance europea, quanto dal segno profondamente conservatore che l’Europa spesso esprime: a partire dalla politica in campo economico e sociale. Non mancano le indicazioni, in gran parte univoche, degli analisti. Manca, drammaticamente, il coraggio e la volontà politica. O forse, la consapevolezza che con la nostra inerzia politica stiamo pregiudicando il futuro. Se il futuro che ci attende sarà quello di un lento declino (come molti paventano), dovremo incolpare noi stessi.

Facciamo tre esempi.
In Europa si discute animatamente del bilancio dell’Unione Europea: quello, per intenderci, gestito direttamente a Bruxelles. È un bilancio piccolo in valore percentuale, 1.17% del PIL europeo, ma rilevante in valore assoluto (circa 100 miliardi di euro). Bene, cioè, male. Tutto il dibattito si concentra sul dato quantitativo con molte richieste di aumentare le risorse. Il primo problema però, non è la quantità, ma la qualità della spesa. La discussione sul budget comunitario non mi appassiona e non mi appassionerà fintanto che la metà di questo bilancio sarà utilizzata per finanziare la PAC (Politica Agricola Comune): un sistema di sussidi e protezionismi agricoli costosissimo per i consumatori europei, che mortifica le speranze di affrancamento dalla povertà per centinaia di milioni di produttori dei paesi in via di sviluppo. E che costringe l’Unione Europea a mantenere una linea difensiva nei negoziati in sede di Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). La politica commerciale è una delle poche politiche pienamente comunitarie. Potrebbe essere una leva importante per la credibilità internazionale dell’Unione sul piano politico diplomatico. Invece, proprio a causa del protezionismo agricolo, è uno dei suoi tanti talloni d’Achille.
Che senso ha continuare a ripetere che ci siamo dati l'obiettivo di rendere l’economia Europea la più competitiva del mondo, se non riusciamo a dirottare sulla ricerca e l’innovazione nemmeno i fondi destinati alla protezione dei nostri produttori di zucchero dalla concorrenza di paesi poveri come il Mozambico?

1_Il bilancio europeo.
Si discute sulla “quantità” e non sulla “qualità” della spesa. No alla PAC. E cosa dire, della scelta di quasi tutti i Paesi di rinviare anche fino al 2011, la piena libertà di circolazione dei lavoratori divenuti cittadini europei lo scorso 1° maggio con l’allargamento? Non stride con il buon senso, prima ancora che con la razionalità economica e la lealtà di una Europa del diritto e della libertà, ipotizzare la fattispècie di “lavoratori comunitari clandestini”? Kofi Annan - lui, quello dell’ONU invocato continuamente dalla maggior parte dei nostri leader - nel suo recente intervento al Parlamento Europeo ha invitato l’Europa ad aprirsi all’immigrazione. Nel suo interesse, dell’Europa, prima ancora che per ragioni etiche o geopolitiche o di fratellanza umana. Giusto, e infatti ha riscosso scroscianti applausi. La risposta politica alla perorazione di Annan, però, è stata quella di chiudere la porta in faccia ai lavoratori polacchi, sloveni, ungheresi e via dicendo: non vorrei che magari qualcuno finisse per rimpiangere la mutua assistenza del Comecon, ai tempi dell'Unione Sovietica.

2_Porte chiuse per i nuovi cittadini europei.
L’Unione rinvia la libertà di circolazione dei lavoratori. Riflessione analoga va fatta per le reticenze e i ritardi con cui si sta affrontando la questione dell’ingresso nella Unione Europea della Turchia. Continuando a rimandare la data di partenza di un negoziato vero e proprio. Conosco le ragioni della prudenza, ma non possiamo perdere l’occasione storica per legare profondamente e stabilmente, un grande paese islamico come la Turchia all’Occidente democratico e liberale. È contraddittorio puntare all’eccellenza basata sulla conoscenza e, di fatto, chiudere le porte alle biotecnologie. Non ritorno qui sulla questione del perché, e in nome di che cosa, l’Europa e l’Italia scelgono di restare ai margini della competizione su OGM e biotecnologie umane (forse la Gran Bretagna, che ha fatto scelte diverse, salverà l’eccellenza europea in questi settori). Deve essere chiaro, però, che con questa scelta ci precludiamo un ruolo da protagonisti in uno dei campi ad oggi più promettenti del progresso scientifico e tecnologico: queste cose si pagano prima sul piano economico e poi anche su quello del rilievo politico. Quando i pazienti europei e italiani cureranno il diabete con terapie brevettate in Cina grazie alla ricerca sulle cellule staminali sarà un bene per i malati, ma sarà una perdita secca per l’industria europea. Può darsi che ciò non accada e che le promesse di queste tecnologie non verranno mantenute. Se invece ciò accadrà, non potremo che incolpare noi stessi e le scelte che consapevolmente si stanno compiendo in buona parte d’Europa.
Sono tre esempi, certo parziali, che danno però la misura della politica conservatrice dell’Europa di oggi. Auguriamoci che nella campagna elettorale si discuta di questo, uscendo almeno un poco dalla logica dello scontro tra opposte tifoserie.

3_La ricerca.
Si dice di puntare all’eccellenza tecnologica, ma si chiudono le porte alle biotecnologie. Un grande paese islamico come la Turchia con l’Occidente democratico e liberale.

La nostra Europa, quella che vogliamo, ancora non c’è.
Per questo abbiamo bisogno del vostro voto.

Il referendum per abolire la nuova Legge sulla procreazione assistita
Per non chiudere le porte al progresso scientifico, rinunciando a quelle tecnologie che in un futuro potrebbero curare milioni di persone colpite da diabete, cancro, Alzheimer e altre malattie, abbiamo promosso con l’Associazione Luca Coscioni un referendum per abolire la nuova Legge sulla procreazione assistita. Questa legge, infatti, da una parte vieta alle donne il ricorso alle più moderne tecnologie per la procreazione assistita, dall’altra vieta ai ricercatori italiani l’utilizzo di cellule staminali embrionali (provenienti dagli embrioni non utilizzati per la fecondazione) per le loro ricerche.
Vi invito caldamente ad andare a firmare nelle segreterie comunali della vostra città o paese.

Emma Bonino