SE VIENNA DICE NO AL DALAI LAMA
di Maria Teresa Di Lascia, 7 Lug 1993
SOMMARIO: Il diritto alla parola negato al rappresentante tibetano e l'assenza di ogni riferimento all'abolizione della pena di morte, nel documento finale della Conferenza come in quello delle Ong, segnano i limiti della riunione viennese. A rimanere deluso non è solo l'Onu dei popoli, ma anche il Parlamento europeo, da tempo all'avanguardia su questi temi (CAMPAGNA PARLAMENTARE MONDIALE PER L'ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE ENTRO IL 2000 - Partito Radicale/Lega Internazionale per l'abolizione della pena di morte entro il 2000)
"Vorrei dire, nella forma più solenne, che i diritti dell'uomo non sono
il più piccolo denominatore comune a tutte le nazioni, ma - al contrario - l'irriducibile
umano per il quale possiamo affermare di appartenere a un'unica comunità umana".
Con queste parole, il Segretario delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali ha
aperto i lavori della Conferenza di Vienna sui Diritti umani, quasi volesse
subito mettere un argine alle molte nubi che già si addensano sul cielo della
Conferenza: la prima dopo 25 anni da quella di Teheran. E' perciò, egli prosegue,
che i diritti umani sono universali e non internazionali: l'universalità non
si decreta, essa non è l'espressione della dominazione ideologica d'un gruppo
di Stati sul resto del mondo! Così dicendo, chiarisce il Segretario generale,
non intende indicare nessun membro della Comunità internazionale, benché intenda
sottolineare che i diritti dell'uomo sono, nel loro enunciato, anche l'espressione
di un rapporto di forza. Essi sono intimamente legati al modo in cui gli Stati
governano i loro popoli, e cioè al carattere più o meno democratico del loro
regime politico. Nell'impossibilità di intervenire in forma diversa, la relazione
è tutta di metodo: una premessa puntigliosa a quelli che sono i grandi problemi
posti da paesi, e da potenze economiche, che si affacciano per la prima volta
nel contesto delle Nazioni Unite. L'accusa a cui bisogna rispondere è grande,
forse la stessa che pose molti anni fa l'Africa: i diritti umani di cui abbiamo
fino ad oggi parlato sono davvero universali, o sono il prodotto della nostra
cultura, della nostra economia e del nostro modello di Stato? A porre questa
domanda è la Cina, che siede al tavolo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite e che ha esercitato il diritto di veto riservato alle maggiori potenze
economiche, escludendo il Tibet dalla Conferenza di Vienna. Save Tibet A raccontarci
ogni cosa è il responsabile degli Affari internazionali del Dalai Lama, Tashi
Wangdi, che incontriamo in una stanzetta dell'Austria Center. A rendere possibile
l'appuntamento è Pietro Verni, responsabile dell'associazione Italia-Tibet,
che lo combina per noi da Roma. Il Dalai Lama, ci informa Tashi Wangdi, incontrerà
la stampa all'Hotel Intercontinental; a nostra volta gli diciamo che abbiamo
in mente di fare una manifestazione all'apertura dei lavori della Conferenza
mondiale. Non sappiamo ancora se riusciremo ad entrare nella grande sala dei
Governi, e neanche se vi saranno ammesse le Ong e le altre organizzazioni presenti:
di sicuro sappiamo che siamo indignati e che l'esclusione del Dalai Lama ci
appare come un tristissimo annuncio: quasi la prova del fallimento della Conferenza.
Se riusciremo ad entrare, nascondendo addosso a ciascuno di noi una lettera
dell'alfabeto, comporremo la scritta: Free Tibet. No, dice Tashi Wangdi, non
si tratta più di ottenere l'indipendenza del Tibet dalla Cina: a questo si è
già rinunciato. Si tratta ormai di salvare il tetto del mondo dalla scomparsa
definitiva; dallo sterminio culturale e fisico. La parola d'ordine adesso è:
Save Tibet!
All'incontro con i giornalisti riusciamo a guadagnare la sala solo con l'invito
di Tashi Wangdi, e finalmente vediamo il Dalai Lama. Qualcuno sta male: succede
molte volte. Sembra che irradi un'energia insostenibile per il nostro modo di
vivere.
Ride molto il Dalai Lama, e risponde alle domande dei giornalisti con un tono
leggero, come se non prendesse nulla sul serio. Poi qualcuno gli chiede cosa
possono fare gli occidentali per il Tibet, e egli risponde che in Cina ci sono
quasi un miliardo e mezzo di giovani che crescono nel consumismo e nella cultura
delle armi. Essi non hanno alcuna conoscenza del sentimento religioso, né della
nonviolenza. L'unico a poterla insegnare è lui: ma stanno sterminando la sua
razza e i suoi monasteri. Cosa accadrà quando l'ultimo monaco sarà stato ammazzato?
Cosa succederà quando l'ultima farfalla scomparirà dalla faccia della terra?
Tibetani anche noi Riusciamo a entrare nella sala della Conferenza dei Governi
facendo il gioco delle tre carte. Possono entrare solo 56 Ong: noi non siamo
fra queste. Tuttavia, la mattina ci alziamo prestissimo e siamo fra i primi
a giungere all'Austria Center: abbiamo pensato che potrebbero adottare il criterio
del chi primo arriva... In effetti è così, benché gli organizzatori stiano ancora
discutendo i criteri di assegnazione degli accrediti. Ci sguinzagliamo in file
diverse, pronti a cogliere tutte le opportunità. Lucio Berté ha trascorso la
notte sveglio e ha preparato nove lettere di grandezza 70x100. Abbiamo anche
un simbolo del Partito radicale di buona grandezza e una bandierina che ci è
rimasta dalla manifestazione con la sedia elettrica. Dalla fila degli accrediti,
tornano tre persone con sette biglietti: hanno fatto la fila due volte, e uno
è stato più abile degli altri. Ma siamo dieci a dovere entrare, e i biglietti
non bastano. Sale un primo gruppo di sette, per verificare le condizioni di
controllo: se dovesse andare male entreranno solo loro. Ma pare che alla Conferenza
dei diritti umani nessuno si aspetti astuzie; dunque, uno torna indietro con
i biglietti e fa salire gli altri. Quando apriamo le nostre lettere una a fianco
all'altra, avendo per appoggio il lato esterno dei tavoli, non vediamo più nulla
perché siamo nascosti dai nostri manifesti. Abbiamo l'impressione che non accada
nulla, che nessuno ci stia guardando, e che quelli che stanno seduti dietro
di noi stiano cominciando ad arrabbiarsi perché non vedono più il Presidente
austriaco mentre legge il discorso di apertura. Che delusione! Resistiamo per
alcuni minuti, eppoi ci sediamo, ripiegando mestamente le nostre lettere. Dopo
qualche minuto arriva un responsabile della polizia: sanno già tutto, siamo
stati fotografati da molte agenzie internazionali. Ci dicono algidi che se facciamo
un altro gesto saranno costretti a farci abbandonare l'aula. Ci impegnamo a
non fare più nulla. Nel pomeriggio, alla stazione, mentre stiamo per tornare
a Roma, compriamo il Kurier austriaco, e c'è la nostra foto. In tutte le didascalie
dove apparirà, compreso Il corriere della sera in Italia, c'è scritto che si
tratta di manifestanti tibetani. Ne siamo felici.