PENSIONI: TUTTI D'ACCORDO PER NON FAR NULLA
Il dibattito parlamentare sui minimi di pensione di Maria Teresa Di Lascia
SOMMARIO: Nonostante le promesse fatte e gli impegni presi da quasi un anno, alla resa dei conti, il governo ha preferito continuare a garantire le categorie più protette e numerose piuttosto che occuparsi dei seicento o settecentomila diseredati che sopravvivono con centocinquantamila lire al mese. Ancora una volta si rinuncia a fare chiarezza sulle logiche assistenziali e sul controllo della spesa pubblica. (NOTIZIE RADICALI N. 67, 25 marzo 1984)
Non un giornale, a parte una breve citazione del "Messaggero", ha riferito che il dibattito svoltosi alla camera in luglio sui minimi di pensione è stato provocato dalla mozione Cicciomessere, Fiori e Fortuna. Non un giornale ha scritto che l'oggetto della discussione parlamentare era la proposta che i radicali, in due anni di lotte e di iniziative politiche, hanno elaborato: assicurare il minimo vitale a cittadini ultrasessantacinquenni, privi di altro reddito, non solo come atto di giustizia sociale, ma come oggettivo censimento della giungla pensionistica e come strumento di separazione fra assistenza e previdenza. Queste richieste minime e facilmente praticabili sono state sepolte da un polverone di disinformazione, facendo magari credere, come il "Corriere della Sera", che si parlasse di aumenti generalizzati per tutti o quasi nove milioni di pensionati al minimo (e non solamente per quelli privi di altro reddito), sparando cifre di 2.000-2.500 miliardi, mentre il ministro De Michelis parlava della metà o ancora di meno. In questo contesto confuso è stata approvata parte della mozione comunista e gran parte della mozione di maggioranza. Tutti d'accordo, dunque: ma su che cosa? Su nulla. Infatti, la parte conclusiva del documento comunista "impegna il governo a far proprio, nel quadro della discussione e della definizione dell'ormai non più derogabile legge di riordino di tutta la materia pensionistica, l'orientamento ad elevare in maniera consistente le pensioni minime (istituzione di un minimo vitale) a favore dei soggetti che si trovino in uno stato di effettivo bisogno". I comunisti, in pratica, rinviano all'eternamente inderogabile riforma pensionistica la soluzione del problema. E se ciò non bastasse, la replica del ministro De Michelis ha fatto sparire ogni data, ogni impegno pregresso del governo a provvedere per via legislativa, rimandando tutto al prossimo anno. Un atto di ingiustizia, ma anche di grave miopia politica. Questo governo, che nel 1983 in sede di dichiarazioni programmatiche prometteva un provvedimento per l'adeguamento dei minimi "entro poche settimane", ha preferito alla resa dei conti continuare a garantire le categorie più protette e più numerose che sarebbero state messe in discussione dall'aumento dei minimi di pensione. Che cosa sono infatti 600 o 700 mila diseredati al confronto di 8-9 milioni di pensionati che possono dare il proprio appoggio elettorale? Di quale cinica inversione di tendenza, a spese di chi è costretto a sopravvivere con 150 mila lire al mese. Ma questa politica non paga se non il prezzo illusorio dell'immediato: ancora una volta, infatti, si è rinunciato a porre un rimedio alla sperequazione tra previdenza ed assistenza, si è rinunciato a tirare il filo di una logica non più assistenziale ma basta sulla certezza del diritto e sul controllo nella spesa pubblica. Così l'Inps, malgrado abbia il più grande computer d'Italia, continuerà a non sapere neanche il numero dei pensionati a cui eroga previdenza ed assistenza, in un miscuglio incredibile di situazioni in cui le prestazioni gravemente inadeguate si compongono con privilegi altrettanto scandalosi.