indice anni
Cronologia del Partito Radicale -
1972

DOCUMENTI
Mozione approvata alla direzione nazionale gennaio
Gruppi Antimilitaristi febbraio
Sulla proposta del partito radicale per liste comuni alle elezioni del 7 maggio marzo
Documento sulle elezioni -  Direzione nazionale marzo
Per creare il partito di Marco Pannella marzo
Clerico-frontismo di M.Pannella aprile
Il processo a Roberto Cicciomessere giugno
Da "Diario di ricordi da Peschiera e dintorni" di R. Cicciomessere giugno
La nonviolenza della marcia Azione Nonviolenta agosto
dichiarazione di disobbedienza e di noncollaborazione civile per il riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza e per la liberazione di pietro valpreda settembre
Il metodo della nostra follia di M.Pannella novembre
Appello Internazionale
Natale a casa per Valpreda e gli obiettori  dicembre

MOZIONE APPROVATA ALLA DIREZIONE NAZIONALE

Chianciano, gennaio 1972

"La direzione Nazionale del Partito Radicale, riunita a Chianciano il 4-5-6 gennaio

RILEVATO che il progressivo aggravarsi della situazione di regime, da tempo in atto nello Stato, nelle istituzioni politiche, nella società, è stato confermato dall'elezione alla più alta magistratura della Repubblica di un Presidente di parte clericale, il quale già nel suo messaggio alle Camere ha mostrato, dietro l'immagine di un uomo al di sopra delle parti, la volontà di rappresentare in realtà soltanto la più arretrata cultura e civiltà politica del paese;

CONSIDERATI gli aspetti essenziali della vicenda delle elezioni presidenziali, che hanno confermato e reso ancor più evidenti caratteristiche comuni di sostanziale subalternanza alla strategia complessiva del mondo clericale, classista, corporativo, rappresentato dalla DC, da parte di tutti i partiti che dovrebbero rappresentare le istanze e le tradizioni laiche (dal PCI al PLI, dal PSI al PRI, dallo PSIUP al PSDI);

PRESO ATTO che tutti questi partiti hanno ancora ribadito in questi giorni la volontà di cedere al ricatto vaticano e clericale posto con la minaccia di un referendum popolare contro il divorzio per ottenere la conferma dei Patti Lateranensi e l'abrogazione della legge Fortuna, mediante la truffaldina e antidemocratica iniziativa di presentazione del progetto di legge Carrettoni Bozzi;

IMPEGNA il Partito Radicale, ad ogni suo livello, e tutti i militanti delle lotte per la conquista di nuovi, essenziali diritti civili in Italia, a mobilitarsi perché prenda corpo una vigorosa risposta popolare per una politica di alternativa a quella di abbandono, di dimissioni ideali, di subalternanza politica alla DC, proposta e attuata finora.

Il recente sondaggio in tema di divorzio o referendum dimostra in maniera inequivocabile che la grande maggioranza dei credenti e dei non-credenti si oppone alle pretese clericali, respinge le valutazioni prevalenti fra i vertici dei partiti tradizionali o parlamentari, considera la legge Fortuna-Baslini una legge adeguata, civile o giusta. Anche per questo il Partito Radicale deve oggi assicurare forza politica e organizzata dopo esserne stato ininterrottamente per anni interprete, alla volontà delle masse democratiche che chiedono un chiaro confronto politico con le forze clericali, classiste e corporative dell'attuale regime come condizione necessaria di scelta e di autentico progresso democratico.

La direzione del Partito Radicale ribadisce che, se la Corte Costituzionale lo riterrà legittimo, malgrado l'opposta convinzione del vasto movimento laico per i diritti civili formatosi nel paese, il referendum debba essere ormai affrontato e tenuto e respinge qualsiasi tentativo di evitarlo, anche quello - ora delineatosi più chiaramente - del ricorso alle elezioni anticipate.

Il Partito Radicale ha ormai il compito di assicurare, anche nel momento elettorale, una presenza laica e libertaria e di alternativa di sinistra al regime. La Direzione decide pertanto che il Partito debba subito impegnarsi per preparare la presentazione, per la prima volta dalla sua costituzione, nel dicembre 1955, di proprie liste alle prossime elezioni politiche.

E' in particolare nel momento elettorale, infatti, che appare in tutta la sua evidenza la confisca dei diritti democratici dei cittadini e la falsificazione del gioco democratico che viene oggi sistematicamente effettuata dai partiti del regime, aggravata dalla stessa proposta di un loro pubblico ed aperto finanziamento da parte dello Stato, realizzato comunque con il monopolio dell'uso dei mezzi pubblici di informazione.

Non è ulteriormente lecito e possibile affidare battaglie di alternativa al sistema e al regime alla sola gestione dei vertici burocratici e di apparati di partiti della sinistra, che vengono così palesemente meno ai loro doveri ed ai loro compiti, né del resto possono essere considerati valido e non velleitario punto di riferimento per uno sviluppo democratico e socialista i gruppi extra-parlamentari.

E' perciò che il PR indica anche nelle elezioni un momento di confronto con la realtà politica e con i problemi che lo sviluppo della democrazia comporta - prima fra tutti la concreta possibilità di sottoporre proposte ideali o politiche al giudizio dei cittadini e del suffragio popolare - cui dei laici e dei libertari non possono accettare d'essere ulteriormente sottratti.

La direzione invita tutti i gruppi ed i militanti del Partito a prepararsi quindi sin da ora alla presentazione di liste elettorali, in collaborazione con l'articolato movimento laico e dei diritti civili che esiste nel paese. La partecipazione alle elezioni deve essere considerata anche come uno degli efficaci strumenti per raggiungere e coinvolgere zone sempre più larghe di cittadini interessati allo sviluppo delle lotte antiautoritarie e alla loro autogestione e come occasione di rafforzamento e di crescita delle iniziative anticlericali e antimilitariste del Partito Radicale".

La Direzione, presi in esame gli impegni che emergono dalla mozione congressuale,

RIBADISCE che compito prioritario del Segretario Nazionale, del Tesoriere, della direzione stessa e di tutti i militanti è il raggiungimento a mille iscritti e di almeno 20 milioni di bilancio annuo;

RITIENE che ogni impegno di lotta del Partito debba essere anche momento o strumento della sua crescita organizzativa;

RITIENE inoltre che la attuale situazione organizzativa del Partito, grazie all'esistenza di gruppi organizzati, consenta oggi e comporti che alcune specifiche responsabilità di gestione e di organizzazione delle lotte del Partito siano affidate ad alcuni di questi gruppi.

ANTIMILITARISMO

La Direzione ha discusso in particolare gli impegni derivanti dallo sviluppo della lotta antimilitarista.
I momenti più impegnativi saranno nel 1972:
1) - la manifestazione di obiezione di coscienza che alcuni compagni antimilitaristi, fra cui l'ex segretario nazionale del Partito Radicale Roberto Cicciomessere, effettueranno nel prossimo mese di febbraio;
2) - l'organizzazione e l'effettuazione della VI marcia antimilitarista;
3) - l'organizzazione del IV Congresso antimilitarista di novembre.

Sul punto 1) la direzione ha ascoltato una relazione informativa di Roberto Cicciomessere ed ha deciso che l'obiezione di coscienza dell'ex Segretario Nazionale debba essere considerata non come iniziativa individuale, ma come momento essenziale di crescita dell'impiego antimilitarista del Partito e quale strumento indispensabile di pressione sulle forze politiche e sul Parlamento per influire sulla discussione e sulla approvazione della legge per il riconoscimento dell'o.d.c. secondo le indicazioni della mozione congressuale. Per questi motivi:
a) Roberto Cicciomessere ha annunciato che, accanto alla dichiarazione comune degli obiettori di coscienza, motiverà e qualificherà con una propria dichiarazione politica il rifiuto di prestare il sevizio militare;
b) la direzione ha deciso che l'atto di obiezione del compagno Cicciomessere debba essere accompagnato e sottolineato da una manifestazione organizzata dal Partito con la partecipazione e l'intervento di militanti di tutti i gruppi radicali.

Sul punto 2) la direzione ha deciso che la VI marcia antimilitarista si svolgerà quest'anno sul percorso Trieste-Aviano anziché sul percorso Milano-Vicenza. Il mutamento del percorso è motivato dalle seguenti considerazioni: a) il venir meno dei fattori di novità e di richiamo che avevano assicurato il successo della manifestazione nei luoghi toccati dalla marcia; b) il fatto che Vicenza non è più l'importante centro di installazioni e basi NATO che era fino a due anni fa; c) l'opportunità di portare la marcia nei luoghi tradizionali della retorica militarista e partriottarda, in zone di frontiera il cui sviluppo economico è limitato e impedito dall'esistenza di servitù militari.

Per quanto riguarda l'organizzazione delle attività del Partito relative alla preparazione della marcia, la direzione ha preso atto della disponibilità del gruppo di Trieste ad assumerne la responsabilità, in stretta collaborazione con il Segretario del Partito. Analogamente, per il VI Congresso antimilitarista di Torino, la direzione ha invitato il gruppo di Reggio Emilia a curarne la preparazione e l'organizzazione.

Essenziale è, nel 1972, anche in considerazione di queste importanti scadenze, realizzare e sviluppare rapporti di sempre più stretta collaborazione con i numerosi gruppi antimilitaristi esistenti, affinché gli obiettivi, gli strumenti e le occasioni di lotta possano divenire sempre più comuni in una prospettiva federativa. Accanto agli impegni assunti dal gruppo di Trieste e a quelli sollecitati dalla direzione al gruppo di Reggio Emilia, si è costituito a Roma un comitato composto da Marco Pannella, Emilia Mancuso, Liliana Ingargiola, Giosi Mancini e Cipriano Bartoletti.

PROCESSI POLITICI

La direzione, esaminati i numerosi processi politici che vedono imputati militanti radicali e in particolare Marco Pannella, e gli altri processi promossi dalle iniziative giudiziarie del Partito; decide di delegare al gruppo romano la gestione di questi processi; richiama in particolare l'attenzione di tutti i radicali sul prossimo processo che vedrà imputati all'Aquila il 25 gennaio i compagni Marco Pannella e Giuseppe Loteta, insieme all'ex vice-direttore responsabile dell'"Astrolabio", Mario Signorino, dei reati di oltraggio, calunnia e diffamazione aggravata per aver opportunamente denunciato i metodi seguiti e le tesi sostenute dal Pubblico Ministero Lojacono e dal Presidente del Tribunale Falco nella fase istruttoria, nel dibattimento e nella sentenza di primo grado del processo di cui è stato vittima Aldo Braibanti.

Tale processo assume un valore di attualità alla vigilia del processo Valpreda che sarà presto celebrato a Roma. Il giudice che dirigerà il processo contro l'anarchico Valpreda e gli altri imputati della strage di Milano è infatti quello stesso Presidente Falco che giudicò e condannò per plagio l'anarchico Braibanti. Il processo dell'Aquila contro Pannella e Loteta può e deve diventare una importante occasione di lotta del Partito, non solo per affermare e difendere la libertà di critica e di denuncia nei confronti dei comportamenti dei magistrati, che nell'espletamento del loro compito sono soggetti al vincolo della legge come tutti i cittadini, ma anche per mettere in luce ancora una volta i meccanismi e le modalità con cui avviene la selezione e la scelta dei magistrati nella assegnazione dei processi politici più importanti; la direzione invita pertanto tutti i gruppi radicali ad organizzare nelle rispettive città, concordando le date con il segretario del Partito, dibattiti sul processo Pannella-Loteta, che valgano a richiamare su di esso l'attenzione dell'opinione pubblica; prende atto della disponibilità già dichiarata per questo impegno dei gruppi di Roma, Milano, Trieste, Cagliari e Cuneo; decide di richiedere analogo impegno ad altre organizzazioni in quelle città dove esso non potrà essere assicurato dal Partito Radicale.

ORGANIZZAZIONE DEL PARTITO E STAMPA

Esaminando i problemi organizzativi del Partito, la direzione

RITIENE che il lavoro per la costituzione dei primi partiti regionali, secondo le indicazioni contenute nello Statuto, debba essere concentrato nelle regioni del Piemonte e del Lazio come le più vicine al raggiungimento dell'obiettivo statutario;

INVITA pertanto il Segretario del partito e i militanti di queste due regioni a coordinare i loro sforzi in vista della organizzazione di congressi o convegni regionali;

su suggerimento e richiesta di alcuni compagni INCARICA l'avv. Gianni Ozzo di preparare un documento di presentazione delle caratteristiche e degli obiettivi politici del Pr che sarà esaminato nella prossima riunione della direzione;

SOTTOLINEA inoltre come, per il raggiungimento degli obiettivi del Congresso, siano indispensabili adeguati strumenti di comunicazione e di stampa.

A questo proposito la direzione

CONSIDERA urgente la pubblicazione di un numero unico di "Notizie Radicali" a grande diffusione per rendere nota la mozione congressuale e gli impegni da essa derivanti;

ESPRIME il proprio apprezzamento per la realizzazione di un bollettino quindicinale, diffuso agli iscritti e ai sostenitori iscritti, che si è rivelato utile strumento di informazione interna;

RITIENE estremamente positivi i primi risultati conseguiti da "La Prova Radicale" ed auspica che essi possano essere consolidati e sviluppati;

PRENDE ATTO di una ipotesi di lavoro, prospettata da Marco Pannella riguardante la possibilità di una iniziativa editoriale da realizzare in comune con la LID e il Movimento Laico, per fornire il Partito Radicale e queste altre organizzazioni di strumenti periodici di informazione; una iniziativa che, rispettando le autonomie dei movimenti in essa impegnati, potrebbe fondarsi sull'utilizzazione di comuni strumenti di organizzazione e distribuzione;

AUSPICA che la possibilità della realizzazione di questa ipotesi di lavoro venga al più presto verificata.

La direzione ha infine discusso l'organizzazione dei propri lavori decidendo in linea di massima di riunirsi per quattro volte prima del Congresso, nei mesi di marzo, maggio, luglio e settembre, e prevedendo per ogni riunione possibilmente due giorni pieni di lavoro.

Clerico-frontismo

di Marco Pannella

SOMMARIO: In occasione della campagna per le elezioni regionali del 1971 Pannella ricorda di aver cercato di convincere radicali, divorzisti, ecc., ad una "campagna di astensione pubblica e motivata"; non furono "più di cinquanta" i compagni che bruciarono pubblicamente la scheda. Successivamente, in poco più di un anno, sui temi di interesse laico-radicale sono avvenuti fatti gravissimi [Pannella puntigliosamente li elenca in una interessante e ricca "lettura" storica, n.d.r.] che segnano un sostanziale arretramento delle riforme, e una ripresa revanchista del clericalismo contro ogni novità - anche ecclesiale - manifestatasi nel paese. DC, PCI, PSI, hanno "votato insieme" oltre il 75% delle leggi approvate nella Legislatura, ed ora propongono una stessa linea sul Concordato, sul divorzio e perfino sul come "far cadere le leggi fasciste" (cioè, "niente referendum abrogativo"). Da Malagodi a Valori, a queste elezioni tutti propongono la linea "Bozzi-Carettoni". A sua volta la DC ha favorito il PCI impedendo al "Manifesto" di presentarsi agli elettori e il PCI ha ringraziato chiudendo gli occhi sulla esclusione del MPL. Intanto, tramite la RaiTV, sul paese si è abbattuta un'ondata "antifemminsta e antidivorzista". A questo punto, Pannella si chiede e chiede se non sarebbe stato meglio aver bruciato le schede l'anno precedente e se non sia opportuno, da "laici", farlo oggi: i riformatori, i laici, i libertari devono ormai "far scoppiare lo scandalo" contro la "strage" di Costituzione e di diritto che viene compiuta. Come Mellini ha spiegato, "votare è un diritto", non un "obbligo"; del resto anche in Francia, Mitterrand è per l'astensione al referendum indetto da Pompidou: Il "non giocare con i bari!" vale anche in Francia, dove pure l'informazione pubblica è infinitamente più liberale che in Italia.
I radicali, anche correndo il rischio di doversi presentare, avevano "proposto liste comuni e accordo politico" al "Manifesto". L'accordo è stato rifiutato. In queste condizioni, si dovrà andare all'astensione dal voto: unica eccezione, l'appoggio dato ad Udine, "per la LID", a Fortuna, così come a G. Albani, Scalfari, Bonea, ecc., e a quanti altri aderiranno "alle richieste minime della Lega".

("SOCIALISMO '70" inverno 1972)

Meno di un anno fa, nel giugno 1971, in occasione delle elezioni regionali, cercammo di convincere degli amici e compagni radicali e della LID sulla opportunità di una campagna di astensione pubblica e motivata, come valido strumento di lotta contro l'ormai evidente linea neo-concordataria e interclassista, subalterna e priva di qualsiasi volontà di alternativa, dei vertici dei partiti laici e di sinistra nei confronti del regime.
Non furono più di cinquanta i compagni che bruciarono le loro schede nella manifestazione conclusiva della campagna, a piazza Navona. Vorrei oggi chiedere, a quanti furono allora convinti di aver, votando, meglio scelto, cosa resti della loro "concretezza", del loro realismo.
Essi hanno in maggioranza votato, presumibilmente, PSI, PCI, PSIUP; alcuni, sinistra liberale o repubblicano.
In poco più di un anno, sui temi che ci interessano, abbiamo avuto l'assenza di qualsiasi impegno per impedire la raccolta delle firme per il referendum abrogativo della legge Fortuna; la mozione Andreotti per la conferma del Concordato (che solo cinque parlamentari laici "non" hanno votato); l'abbandono della pregiudiziale che, a nome e per conto delle Leghe e del PR, Scalfari e altri sessanta parlamentari avevano tradotto in disegno di legge, contro la proponibilità stessa del referendum; l'attacco indiscriminato, nei partiti e fuori, alla LID, ai radicali, alle minoranze laiche, socialiste, comuniste, liberali; la lunga, truffaldina operazione Bozzi-Bufalini-Carettoni per evitare il referendum abrogando in sede parlamentare la legge Fortuna; il rifiuto (unanime) di contrapporre una candidatura "laica" a Fanfani, e poi a Leone, cui le sinistre ufficiali contrapponevano in realtà non De Martino o Nenni, ma Moro o Zaccagnini; l'accoglimento delle tesi del "partito della crisi" con lo scioglimento anticipato delle Camere, per evitare alla DC e alla Chiesa la sconfitta nel referendum, e la vittoriosa proposizione al paese d'un fronte laico alternativo al regime; l'accettazione dell'impostura costituzionale del monocolore Andreotti - gabinetto personale del nuovo Presidente - contro il governo legittimo di centrosinistra, che, solo, poteva condurre il Paese alle elezioni non avendo avuto la sfiducia dal parlamento, espressa invece al governo in carica; infine, la massiccia operazione di annientamento tentata contro i rari deputati laici dei vari partiti: contro Albani, Scalfari, Bonea, Gullo, Mussa Ivaldi, Brizioli, oltreché Fortuna - se vogliamo tacere della vergognosa sostanziale esclusione del "Manifesto" e del "Movimento Politico dei Lavoratori" dalla campagna elettorale, oltreché del Partito Radicale e di ogni eventuale nuova forza, mediante il sequestro dell'informazione pubblica, scritta e parlata, del regime.
Nel silenzio generale, sono state massacrate tutte le forze emergenti del dissenso radicale dei credenti, calando un velo di silenzio e di deformazione, di terrorismo ideologico e politico contro le prese di posizione sempre più politiche di Comunità come quelle dell'Isolotto o di Oregina, o delle centinaia operanti ovunque in Italia.

Posizioni come quelle di "Questitalia", persone come Wladimiro Dorigo sono state sottoposte, unanimemente, all'ostracismo. DC, PCI, PSI, non soddisfatti di avere, sotto i nostri occhi ormai ciechi o rassegnati, votato insieme oltre il 75% delle leggi approvate in questa legislatura, si sono trovati tutti d'accordo e ci propongono sostanzialmente una "stessa linea politica" sul Concordato, sul referendum, e perfino sul divorzio; non meno che sui metodi e gli strumenti da adoperare per far cadere le leggi fasciste. Revisione del Concordato, cioè "conferma"; niente referendum popolare ma superamento parlamentare della legge Fortuna; niente referendum abrogativo delle leggi fasciste.

Si potrebbe andare oltre nelle analogie, ma forse con qualche eccesso e facilità polemica. I gruppi extraparlamentari, per i compagni attualmente al vertice del PCI, non debbono ancora essere tutti deportati e confinati, e non bisogna confonderli (ancora) con i teppisti di Almirante: ma sono pur sempre "pidocchi" per Longo, provocatori e nemici per Pajetta; buon per noi che, per il momento, non sono ministri dell'interno né l'uno né l'altro.

Molte, ancora, le critiche che potremmo fare; tranne una: ormai da Malagodi, La Malfa, De Martino a Berlinguer e Valori, tutti si propongono con chiarezza, al corpo elettorale, sulla linea Bozzi-Carettoni, o Andreotti che dir si voglia. A questa chiarezza li abbiamo costretti, e sono giunti, con la nostra azione di Partito e di Leghe.

Su questa linea, sollecitano il suffragio; contro gli opposti estremismi clericale ed anticlericale, totalitario e libertario ("droga" anche questa da combattere senza riserve, per Berlinguer), militarista e antimilitarista, la classe dirigente che si è costituita in regime è saldamente unita e solidale. La DC ha evitato al PCI una vera, pericolosa concorrenza a sinistra, impedendo che "Il Manifesto" potesse, attraverso la TV, farsi ascoltare dagli elettori comunisti; il PCI ha reso il servizio, accettando il bavaglio per il MPL. Sono stati tutti d'accordo per fare l'unanimità di regime inclusovi il MSI, riconoscendo doppio tempo televisivo alle liste della Destra Nazionale di Almirante e Covelli.

Nessuno protesta e ha protestato per l'ondata di vero e proprio terrorismo antifemminista e antidivorzista che si sta abbattendo dalla RAI-TV sul paese, usando delle trasmissioni di massima popolarità come "Chiamate Roma 3131", sui temi dell'aborto e della famiglia, con una scandalosa protervia in passato esplicita nelle brevi, circoscritte emissioni di qualche padre Rotondi. Le Leghe, quella del divorzio, quella anticoncordataria, quelle di liberazione della donna o per l'obiezione di coscienza, non hanno più una sola possibilità di difendersene; e la stampa di regime, pubblica e "privata", indipendente e di partito, segue anch'essa, ora, questa consegna.

Cerco ansiosamente dunque, ma inutilmente, qualche traccia dei risultati del "realismo" dei nostri compagni sempre spauriti dinanzi alla dissacrazione della liturgia elettorale. Non ne trovo. Chiedo loro, oggi, con franchezza, di dirmi se in realtà essi non abbiano meritato, e noi con loro, quanto ho illustrato più sopra e, ben più, in là, il crescere della rivolta "a destra" contro "questo tipo" di democrazia, contro "questo tipo" di sinistra, contro questo modo d'essere "antifascisti", contro la testimonianza di cinismo e di corruzione, di incapacità e di squallore che la sinistra burocratica, filoclericale, rispettosa e "concreta" ha fornito e proposto degli ideali che abbiamo e dovremmo difendere in comune. Chiedo loro se davvero escludono oggi che se, quando lo suggerimmo (in occasione di elezioni regionali, cioè in una occasione di non primaria importanza elettorale e legislativa), avessimo bruciato in piazza o comunque respinto alcune migliaia di certificati elettorali, e mostrato così che non è possibile a gente di sinistra laica, libertaria, non violenta, continuare comunque a votare per dei partiti, nominalmente di sinistra e laica, ma impegnati in programmi e obiettivi contrari alle loro idee; se avessimo, dicevo, fornito "allora" questa prova, ci saremmo trovati "oggi" dinanzi a questa nuova richiesta, che non è già quella di firmare una cambiale "in bianco" al PCI o al PSI o al PSIUP, ma di firmarne una su cui è chiaramente scritto che ci impegniamo a sostenere, noi per primi, "tutte" le spese di una politica che riteniamo suicida e sbagliata?

Ma siamo dei "laici", o dei "chierici" di "chiese" più o meno partitiche; siamo gente che crede al dialogo, alle idee, ai comportamenti, o massa di fedeli e sudditi o, più esattamente, di servi che ringraziano il padrone, anche quando ne ricevono calci e fame?

Crediamo nella proponibilità del "gioco democratico", nella possibilità della sua concreta manifestazione come modo di confronto civile, o siamo degli ossessi del "gioco politico"?

Io comprendo, al limite, quei compagni della sinistra extraparlamentare che, convinti che la democrazia non possa essere altro che truffa e strumento di classe, mascheramento d'una violenza sostanziale che non lascia altra possibilità di risposta per il suo "uso" per meglio colpirla e eliminarla, comprendo questi compagni quando ritengono ingenuo e errato - da posizioni di sinistra rivoluzionaria - preoccuparsi di difendere la speranza democratica, la fiducia che sia possibile un confronto onestamente democratico, come unica alternativa allo scontro armato ed alla dittatura di una parte contro un'altra.

Ma che compagni - i quali credono con noi che invece la concreta ipotesi democratica è conquista "storica rivoluzionaria" pagata con decenni e decenni di lotte popolari dalle masse lavoratrici e che, non a caso, la destra "deve" cercare in continuazione di eluderla, truffarla, vanificarla, amministrarla, "farla propria" (nel senso letterale, ridurla a cosa propria) - non sentano lo scandalo, e l'urgenza di far scoppiare lo scandalo, contro la strage che di costituzione, istituzioni, metodi, doveri, meccanismi elementari democratici il regime ha fatto; che questi compagni rinuncino a costituirsi in minoranza dura e rigorosa di democratici radicali, di "ultras della democrazia", se volete, posso anche comprenderlo. Ma temo che questo stesso sforzo di comprensione, nei confronti di chi si astiene, non viene fatto o non viene fatto a sufficienza.

Mauro Mellini, nell'ultimo numero di "Notizie Radicali" con poche frasi ha fatto giustizia di tanti luoghi comuni che sembrano costituire un elemento sempre presente nelle posizioni contro l'astensione elettorale. Non starò a ripeterle. Ma, com'egli scrive, votare è un "diritto" e non un "obbligo": almeno dovunque hanno un qualche senso democratico e non plebiscitario. Husak, a Praga, ha certo percentuali "italiane" o russe nelle sue elezioni. Mentre in tutti i paesi in cui l'ipotesi democratica ed il momento del suffragio universale hanno una qualche credibilità e reale funzione, dalla Svezia all'Inghilterra, l'astensionismo è diffuso e libero; viene considerato come fenomeno fisiologico e non patologico della vita civile. Prova, e riprova, della maggiore o minore popolarità, del grado di consenso e di partecipazione, di adesione della "politica" ai reali problemi avvertiti dalle coscienze dei cittadini. Eppure son paesi in cui, nei momenti elettorali, quel tanto di potere che nelle società moderne ed industriali passa realmente attraverso Parlamento e Governo, è davvero in gioco. Laburisti chiedono voti per estromettere i conservatori per cinque anni, da ogni "stanza dei bottoni" istituzionale, legislativa, esecutiva, a volte anche giudiziaria; e viceversa. Mentre qui da noi, tutti chiedono a destra e a manca, voti per meglio collaborare - o condizionare nella collaborazione - con il partito di regime, della cui unità e della cui forza tutti, il PCI per primo, s'occupano e si preoccupano...

In condizioni diverse, il linciaggio dell'astensionismo è in corso anche in Francia. Un radicalsocialista oggi divenuto socialista autentico e radicale, Mitterrand, ha portato il Partito Socialista a pronunciarsi per l'astensione (e non solo per la scheda bianca) al referendum indetto da Pompidou con il pretesto dell'approvazione popolare all'allargamento dell'Europa dei Sei. Essi sostengono che il referendum è pretestuoso e, nel suo contenuto, truffaldino; perché con esso il regime cerca non già di lasciare al popolo una decisione (ormai presa ed irreversibile), ma di essere plebiscitato e di creare schieramenti artificiosi. La stessa posizione l'hanno assunta il PSU di Rocard, cui per tanti versi siamo o siamo stati molto vicini, e tutti i movimenti extraparlamentari di sinistra.

Qual è lo slogan del P.S.? "Non giocate con i bari". La democrazia per dei socialisti e dei rivoluzionari (non dico, con questo, che Mitterrand lo sia) è un gioco difficile, grave, prezioso o - davvero - diventa truffa e arma "contro" i democratici. Va quindi difesa e conquistata ogni giorno, non vissuta - e uccisa - come un'abitudine.

Eppure, la Francia gollista ha sempre mostrato un "liberalismo" maggiore - in tema elettorale e di rispetto dell'informazione e della propaganda - di quello che non solo la DC, Bernabei e i suoi servi pseudo-socialisti alla Paolicchi ed alla Manca, ma le commissioni parlamentari di controllo, cioè DC, PCI, PSI, PSIUP, PLI e MSI, non abbiano mostrato di avere in Italia. Lo ripetiamo (inutilmente?) da anni: De Gaulle e Barbus, Pompidou e Krivine hanno avuto lo stesso tempo "elettorale" alla TV francese; mentre la pluralità di reti radiofoniche ha sempre assicurato alle minoranze un diritto di partecipazione e di propaganda consistente.

Certo strana gente, come l'Unione dei comunisti, ha ugualmente deciso di "presentarsi" alle elezioni e lo ha fatto in quasi tutte le circoscrizioni elettorali. Cioè si sono "presentati" non alle elezioni (dove forse non avevano nulla da dire) ma a se stessi, con per specchio i manifesti comunali in cui saranno registrati tutti gli elenchi di candidati. Non contesto che, al loro livello, questo sia già un risultato, e rivoluzionario, ma non siamo l'Unione dei comunisti. C'è, invece, e c'è davvero, "Il Manifesto".

Abbiamo proposto liste comuni e accordo politico. Ci sono stati rifiutati l'uno e l'altro. Non me ne dolgo. Ritenevo e ritengo un errore, per una forza di vera "nuova" sinistra rivoluzionaria e libertaria, l'avallare questa prova elettorale come se fosse democratica e leale, e non truffaldina. Ritenevo e ritengo che "il Manifesto" si proponga - non voglia e non possa per ora proporsi altro - che la creazione di un nuovo Partito Comunista Italiano, più onesto, più militante, più intransigente, più pulito, più laico, anche, e tollerante; è un movimento leninista e giacobino, fortemente ideologizzato, teso a contendere al PCI la direzione dei "veri" comunisti.

E', per oggi, un partito di intellettuali e di studenti tesi a guadagnare meriti e titoli operai: ambizione e realtà che ritengo positive e fertili, oggi, in Italia; ma temo che con la pregiudiziale comunista e leninista resterà una forza di estrema minoranza all'interno stesso e degli studenti e degli operai e che, nell'ardua impresa di costituirsi in movimento organizzato e partitico, troppe diffidenze e ostilità antilibertarie e antilaiche già oggi presenti saranno potenziate e s'affermeranno al vertice.

Poteva non essere così. Può, teoricamente, accader altro. Per questo sono stato d'accordo che il PR proponesse un incontro politico, anche al prezzo di partecipare alle elezioni, in questa fase delicata non solo della vita nazionale ma dello sviluppo di questa formazione. E' andata com'è andata. "Per ora", non c'è che da prenderne atto. Solo compagni che già, nel loro intimo, o inconsapevolmente, danno per scontata la chiusura (e non il rilancio o una nuova "creazione") del Partito Radicale, avrebbero potuto chiedergli di qualificarsi come una forza politica subalterna a "Il Manifesto".

Noi siamo certi, non da oggi, che solo una posizione socialista libertaria, antimilitarista, anticlericale, sia in grado di costituire una alternativa storica al regime ed al sistema. Perché laici, siamo non violenti e democratici. Quel che speriamo possibile edificare come società, deve vivere oggi già nelle nostre lotte e nelle nostre organizzazioni. Sappiamo che la realtà politica è drammatica, e a volte tragica, come tutto quel che è vivo: il più grave errore, mi sembra, è quello di uccidere noi stessi, di soffocare in noi quel che sappiamo e crediamo.

Il regime vuole escluderci, e ci riesce, dalle sue competizioni ufficiali. Altri, con i quali ci troviamo a condividere giudizi e comportamenti, accetta questi ludi.

In queste condizioni mi sembra forse opportuno o doveroso di non consentire illusioni, slanci, evasioni - per chi condivide la speranza di creare in Italia una "nuova sinistra". Soprattutto, però, mi preme dire ai compagni che da ogni parte ci criticano che non mi hanno convinto. Che con i miei dubbi, con le mie contraddizioni, non ho né voglia né speranza di convincere loro. Che anche per questo, con umiltà, con coscienza delle mie contraddizioni, constatando che se "il sistema" non è forse riuscito del tutto a frantumarci o frantumarmi, riesce almeno a costringermi ad una difficile e dolorosa dissociazione (o, se volete, schizofrenia politica), non solo andrò a sostenere il voto nell'unico caso previsto e propagandato dal Partito (nel Friuli, per Loris Fortuna) ma - per la LID - lo farò a Milano per Scalfari, per Bonea a Lecce, per Albani, Basso, e quanti altri aderiranno alle richieste minime della Lega e me lo chiederanno.

Con maggior convinzione cercherò di colpire le squallide bandiere del clerico-frontismo dei Bozzi, delle Carettoni, dei Manca.

Poi, ormai in attesa che i tanti compagni "realisti" e "concreti", "concretamente" decidano anche che "concretezza" e "realismo" vogliono ch'essi continuino a far da gregari o da chierici d'altre chiese, pur se piagnoni e bestemmianti, piuttosto che liberamente e responsabilmente associarsi - almeno in un migliaio - nel Partito Radicale; in attesa - dicevo - della lezione successiva (che ormai, se ci sarà data, per mio conto sono ben deciso ad accettare), rifiuterò questa che ci si sta ancora impartendo e il 7 maggio m'asterrò, serenamente, dal voto.

Sulla proposta del partito radicale per liste comuni alle elezioni del 7 maggio

IL MANIFESTO - 18 marzo 1972

SOMMARIO: Si dà ragione del rifiuto opposto alla proposta radicale per un accordo elettorale. I motivi del rifiuto sono di due ordini: uno è di tipo "generale" (è mancato in questi anni il processo di aggregazione tra le forze "dell'area anticapitalistica") e di tipo "specifico" ("con il partito radicale...è mancato in passato ogni confronto di posizioni"). La battaglia elettorale del "Manifesto" è "profondamente unitaria" e si rivolge "a tutta l'area anticapitalistica e antiriformista". ("SOCIALISMO '70", gennaio 1972)

Abbiamo informato ieri i compagni e i lettori della proposta avanzata dal partito radicale per la formazione di liste elettorali comuni. Lo abbiamo fatto pubblicando ampi stralci del documento a suo tempo inviatoci dal partito radicale perché fosse chiaro lo spirito e le motivazioni politiche della sua proposta, e in particolare il riferimento a quelle molteplici esperienze di lotta per i diritti civili che impegna diversi gruppi e comunità di base. Pur apprezzando quelle motivazioni, che potranno favorire iniziative unitarie nel corso della campagna elettorale, e più in generale ci impegnano a una maggiore apertura del giornale su un ordine di problemi spesso trascurati, il "Manifesto" non ha ritenuto che esistessero le condizioni per la formazione di liste comuni. E ciò per ragioni generali e per ragioni specifiche.

Le ragioni generali sono quelle già esposte nel documento che abbiamo posto a base della nostra battaglia elettorale. Non è andato sufficientemente avanti, in questi anni, nel vivo delle lotte, quel processo di aggregazione tra forze diverse dell'area anticapitalista e antiriformista che pure resta l'obiettivo da raggiungere per rilanciare su basi adeguate il movimento di lotta e costruire una nuova forza politica rivoluzionaria. Una alleanza elettorale perciò, oltre a risultare impossibile di fatto tra tutte le forze di quest'area, avrebbe assunto inevitabilmente al di là delle intenzioni il carattere di un "cartello" tipicamente elettoralistico, falsando tutto il senso della battaglia. O peggio avrebbe assunto il carattere di una intesa tra gruppi contro altri.

Le ragioni specifiche riguardano poi il partito radicale, con il quale, in particolare, è mancato in passato ogni confronto di posizioni o esperienza comune di base, cioè ogni verifica pratica di quelle convergenze che pure esistono su diversi punti indicati dal suo documento, che possono favorire una condotta parallela della battaglia elettorale e un futuro lavoro, ma non bastano a rendere reciprocamente convincente una identificazione politica in liste comuni.

La nostra battaglia elettorale è profondamente unitaria per la piattaforma su cui si fonda, perché si propone di consentire una espressione, e quindi un passo avanti comune, a tutta l'area anticapitalistica e antiriformista, e anche per la composizione delle liste aperte - malgrado difficoltà rilevanti anche di ordine pratico - e ogni realtà di base significativa. Implica perciò, proprio per questa sua ispirazione realmente unitaria, una piena assunzione di responsabilità del nostro movimento al di fuori di ogni artificio, di ogni surrogato di un reale processo di unificazione politica.


GRUPPI ANTIMILITARISTI

(NOTIZIE RADICALI n. 151, 1 marzo 1972)

Roma, 19 febbraio - Nel corso di una conferenza stampa tenuta stamane e organizzata dalla segreteria di collegamento dei gruppi antimilitaristi, nove obiettori di coscienza, che hanno rifiutato di rispondere alla chiamata alle armi loro giunta in questi giorni, hanno presentato un documento comune in cui vengono illustrati i motivi politici e gli obiettivi della loro iniziativa.

I nove obiettori, ai quali potranno aggiungersi nei giorni seguenti altri compagni chiamati alle armi, sono:
Roberto Cicciomessere - radicale - 25 anni - studente - già segretario nazionale del P.R. - di Roma;
Alberto Cardin - nonviolento - 22 anni - studente - di Padova;
Valerio Minnella - del gruppo nonviolento bolognese - 21 anni - tecnico - alla seconda obiezione (già condannato alla prima a tre mesi di carcere);
Claudio Pozzi - della Comunità Shalom di Napoli - 21 anni - studente;
Alerino Peila - nonviolento - 23 anni - studente - di Torino - alla seconda obiezione (già condannato alla prima a quattro mesi);
Gianni Rosa - nonviolento - 20 anni - di Torino;
Adriano Scapin - del Gruppo Antimilitarista di Padova - 21 anni - studente;
Franco Suriano - anarchico - 22 anni - operaio - di Roma;
Alberto Trevisan - del gruppo antimilitarista di Padova - 24 anni - operaio - alla terza obiezione (condannato alle due precedenti obiezioni a complessivi 9 mesi e 20 giorni di carcere - licenziato dalla SIP dopo la seconda obiezione).

Stralciamo dalle dichiarazioni rilasciate:

Cicciomessere: Per la prima volta i gruppi antimilitaristi italiani hanno concordato una iniziativa comune che, superando la posizione di esclusivo appoggio delle obiezioni di coscienza individuali, intende promuovere e organizzare il rifiuto di massa della divisa, con motivazioni politiche, come concreta e attuale proposta di lotta alle strutture militari. Attraverso una serie di iniziative già programmate e in parte già messe in pratica, i gruppi antimilitaristi italiani si sono posti l'obiettivo di cento obiezioni collettive e organizzate per il '72. Sarà questa una risposta anche a quanti nella sinistra hanno praticamente combattuto l'obiezione di coscienza, apparentemente perché strumento di testimonianza di pochi, permettendo così il progressivo rafforzamento delle strutture militari e militariste e impedendo nel paese un serio dibattito sulle reali funzioni delle forze armate nell'ambito dello scontro di classe che da sempre le ha viste a sostegno degli interessi delle classi padronali.

Trevisan: Non solo gli obiettori di coscienza dicono no all'esercito: infatti le carceri militari (Peschiera, Forte Boccea, Gaeta, Cagliari, Palermo, Taranto) tengono rinchiusi centinaia di giovani che si rifiutano di appartenere alle istituzioni militari, e pur non essendo coscienti che la loro è essenzialmente una scelta politica, magari perché sprovvisti di adeguati mezzi culturali, esprimono il loro rifiuto non presentandosi alle armi, o disertando o opponendosi alla gerarchia militare. Moltissimi disertano anche 8 o 9 volte scontando parecchi anni di carcere, dimostrando così la loro indisponibilità ad una istituzione di violenza, di repressione e contro l'interesse del popolo.

Gardin: La mia azione intende essere una azione nonviolenta: il giorno preciso in cui dovrò presentarmi in caserma inizierò, in una zona depressa del Veneto, un lavoro di servizio civile che sarà nello stesso tempo: collaborazione di diverso tipo con la gente del posto e ricerca e sperimentazione di tecniche di difesa e lotta nonviolenta da sostituire ai metodi violenti, autoritari e militari. Perché la non violenza come la violenza per essere efficace e possibile richiede una accurata preparazione.

Riproduciamo qui di seguito integralmente la dichiarazione collettiva presentata dai nove obiettori di coscienza durante la conferenza stampa:

DICHIARAZIONE COLLETTIVA DI OBIEZIONE DI COSCIENZA

Ovunque, in ogni momento della vita sociale, si tenta d'imporre come valori fondamentali e pregiudiziali, nella famiglia, nella scuola, nella fabbrica, negli uffici, nella organizzazione del cosiddetto "tempo libero", "ordine e autorità".

GLI STRUMENTI DI CUI SI SERVE IL SISTEMA PER IMPORRE IL CONSENSO AL REGIME DI SFRUTTAMENTO

Per mantenere questo tipo di "ordine costituito" il potere si serve di una serie di strutture e strumenti che sono apertamente violenti e repressivi (polizia, magistratura, ricatto sul lavoro, ecc.) o che tendono a creare un consenso attraverso il condizionamento ideologico, e l'imposizione di modelli di comportamento funzionali alla logica del profitto (famiglia, scuola, chiesa, partiti, strumenti di informazione, esercito, ecc.).
Così strutture economiche e politiche che sono presentate come necessarie e permanenti per l'organizzazione sociale, ci vengono proposte e imposte come se fossero "al di sopra delle parti": sono invece utilizzate per la conservazione del sistema.

L'ESERCITO E' STRUMENTO FONDAMENTALE

Per imporre all'uomo questa "civiltà" l'esercito è strumento fondamentale. Infatti l'ipotesi di impiego dell'esercito italiano per la cosiddetta difesa dalle minacce esterne non è realistica per questi motivi:
1) la divisione del mondo in blocchi contrapposti e l'inserimento dell'Italia nella NATO fa sì che la difesa, ovvero la paternalistica protezione in funzione degli interessi delle grande potenze economiche, dei paesi coperti dall'alleanza militare sia affidata non già agli eserciti nazionali ma per intero alla macchina bellica della potenza guida, ovvero per l'Italia agli Stati Uniti;

NON SERVE PER LA DIFESA DELLA "PATRIA"

2) gli eserciti tradizionali, le forze armate italiane, non sono preparati ad affrontare una guerra moderna: l'evolversi della tecnologia militare con il conseguente aumento vertiginoso del costo per armamenti, l'esigenza delle grosse industrie belliche di produrre continuamente materiale sempre più moderno e di possedere mercati ai quali imporre il surplus della produzione consente solo alle potenze guida il mantenimento di un esercito adeguato alle esigenze della guerra moderna.

SERVE PER LA REPRESSIONE

Per questi motivi agli eserciti tradizionali è affidato, nell'ambito delle alleanze militari-politiche-economiche, il compito della conservazione dello status quo, dell'addestramento per un impiego in azioni di antiguerriglia: in questo senso l'esercito assolve compiti che è giusto definirli di polizia.

PREPARA AD OBBEDIRE AI PADRONI

In questo modo i giovani, tornati alla vita civile, abituati al signorsì della caserma continueranno ad ubbidire passivamente al "signor direttore", al "signor capoufficio", al "signor preside", al "monsignor vescovo", ecc. divenendo dei buoni servi del sistema.

Altro problema di grande portata sono le spese militari che nel corso di 5 anni hanno avuto un incremento di 581 miliardi di lire, arrivando al bilancio previsto per il 1972 di 1891 miliardi (circa il 15% del bilancio nazionale) al quale si dovrebbe aggiungere altre voci che non vi sono comprese, una delle quali riguarda il nostro contributo alla NATO, di cui si sa ben poco.

E' UN FURTO AI DANNI DEL POPOLO

Questa notevolissima somma di denaro, oltre ad essere improduttiva per le masse popolari, che d'altra parte la sostengono sulla loro pelle, e che invece hanno bisogno di opere e di servizi sociali non ancora assicurati, costituisce un'occasione di sicuri guadagni per ristretti gruppi capitalisti.

VENGONO FORNITE ARMI AI PAESI FASCISTI E COLONIALISTI

L'industria militare italiana è caratterizzata sopratutto dal legame tecnologico con l'industria statunitense, e dalla vendita di armamenti a paesi con regime fascista quali Portogallo, Sudafrica, Rhodesia, che se ne servono per stroncare i movimenti di liberazione delle colonie. Esiste pertanto una chiara convergenza di interessi economici e politici tra il governo (unico acquirente nazionale della produzione bellica) e il capitalismo sia internazionale che nazionale.
Se ogni esercito, per sua natura e funzione storica, non può che essere scuola di assassinio, di obbedienza, di missioni morali e civili, strumento di oppressione di una classe su una società, causa di morte, massacri, repressione, noi non possiamo accettare di farne parte, di avvallare con la nostra presenza i falsi valori, i miti che sostengono questa istituzione. In particolare non possiamo fornire alibi a coloro che da sempre affermano di volere la pace, ma preparano e sostengono eserciti sempre più micidiali e potenti.

IL METODO DI LOTTA NON VIOLENTO

L'obiezione di coscienza, impegnando gli individui in prima persona, diventa un metodo di lotta antialienante, che responsabilizza ed attiva ad una partecipazione attiva, indispensabile per la costruzione di una comunità autogestita. Siamo convinti infatti che la costruzione di una società diversa comporti l'impiego di metodi che siano omogenei al fine che ci proponiamo, cioè la liberazione dell'uomo dalle schiavitù. Il metodo del rifiuto, della noncollaborazione, della disobbedienza civile, è nell'attuale situazione politica, quella oggettivamente più efficace per combattere le strutture autoritarie.

L'UTOPIA RIFORMISTA DELLA "SINISTRA"

Ma in occasione di questa nostra scelta, di questa azione politica, che sempre più numerosi stiamo portando avanti e promuovendo, dobbiamo precisare altri problemi che coinvolgono specificatamente la situazione italiana, il nostro esercito, i nostri partiti, la nostra condizione di militanti. Le forze democratiche e popolari non fanno, da un ventennio, che ripetere vanamente d'essere favorevoli all'utopia di un esercito democratico e repubblicano, alla sua riforma, senza ottenere altro che l'evidente rafforzamento del suo carattere autoritario, delle tentazioni e delle espressioni militariste, della "degenerazione" antipopolare del suo operato. Ben presto, di fronte alla cecità dell'attuale classe dirigente "democratica" le stesse gerarchie militari o i partiti che in Parlamento esprimono l'ideologie militarista, forniranno proposte di miglioramento, di modernizzazione, anche "democratizzazione" delle forze armate perfettamente funzionali al ruolo che un esercito efficiente ha nella società.

LOTTA DI BASE PER UNA LEGGE CHE APRA NUOVI SPAZI DI INTERVENTO POLITICO

Non marginale è la volontà di imporre al Parlamento - che, ancora una volta sordo alle esigenze di una società civile, non ha acquisito neppure quelle leggi che la socialdemocrazia, in tutto il mondo, da tempo ha fatto proprie, - l'approvazione di una legge che effettivamente riconosca il diritto civile all'obiezione di coscienza. Il progetto che è stato approvato dal Senato e che solo la mobilitazione dei gruppi antimilitaristi ha impedito che venisse definitivamente acquisito dalla Camera, è una legge truffa, vergognosa per i partiti di sinistra che, con il loro silenzio, l'hanno sostanzialmente avallata, una legge che serve esclusivamente, per riconoscere e punire severamente il reato di obiezione di coscienza. L'obiettivo di una legge che riconosca per tutti e per ogni motivo l'obiezione di coscienza, che non preveda commissioni di accertamento, che sottragga alla giurisdizione militare l'obiettivo che compie il servizio civile, che sancisca la detrazione delle spese del servizio civile del bilancio della difesa, è quanto un antimilitarista, oggi, deve anche proporsi per l'acquisizione di strumenti che favoriscano la crescita del movimento e di nuovi spazi d'intervento politico. Questo primo obiettivo potrà naturalmente essere raggiunto non con patteggiamenti di vertice, ma con una lotta di base, autogestita, portata avanti con strumenti libertari.

ALTRE FORME DI LOTTA ALL'ESERCITO

Ma anche altri modi e altre forme devono competere alla lotta antimilitarista: la proposta che con il nostro rifiuto di oggi facciamo a tutti i giovani che sono costretti ad avallare l'esistenza dell'esercito, non può e non vuole fermarsi al solo appoggio di quanto stiano facendo e alla semplice testimonianza di una volontà politica.
Deve essere l'inizio di una mobilitazione popolare di sempre più numerosi compagni in tutte le forme attuabili contro una società che sempre più si sta militarizzando.

OBIEZIONE DI COSCIENZA DI MASSA COME PROPOSTA DI LOTTA ALLE STRUTTURE AUTORITARIE

Oggi siamo ancora in pochi, domani dobbiamo essere in molti ad obiettare all'esercito, a rifiutare il signorsì, per meglio combattere e rifiutare l'ordine e l'autorità che in ogni momento della vita i potenti vorrebbero imporci come valori, come riflessi condizionati per meglio negarci il diritto alla felicità, alla possibilità di costruire una società fondata sull'uomo e per l'uomo, senza sfruttati e sfruttatori.

DOCUMENTO SULLE ELEZIONI – Direzione nazionale – marzo 1972

Il Partito Radicale INDICA nella astensione dal voto alle prossime elezioni del 7 maggio l'unica risposta oggi possibile e necessaria, l'unica opposizione davvero efficace che una seria e consapevole minoranza di radicali e socialisti, democratici e libertari possa oggi esprimere e manifestare nei confronti di un regime che si chiude ad ogni possibilità di rinnovamento ed è privo di ogni reale alternativa politica. Nel rivolgere questo appello agli elettori il Partito Radicale

DENUNCIA il carattere di impostura e di truffa di queste elezioni, volute come un espediente per evitare e ritardare l'ormai necessario confronto con le forze clericali sul referendum abrogativo del divorzio, gestite da un governo illegale, privo di fiducia del Parlamento e controllato e diretto non dalle Camere elettive ma dagli organi della Democrazia Cristiana, manipolate attraverso una confisca dei mezzi di comunicazione di massa da parte dei partiti parlamentari che esclude ogni seria possibilità di concorso e di partecipazione per ogni diversa e nuova forza politica;

CONSIDERA questi fatti come gli ultimi episodi di una sistematica azione volta allo svuotamento e alla violazione della Costituzione Repubblicana e a piegare a fini di parte ``tutte'' le istituzioni democratiche;

RITIENE che, con la loro politica neoconcordataria con la ricerca dell'incontro e della collaborazione con le forze clericali, corporative e classiste di questo regime con la loro sfiducia nella maturità delle masse, con la rinuncia ad una effettiva lotta per l'affermazione dei diritti civili, i vertici dei partiti della sinistra parlamentare e tutte le forze parlamentari laiche si rendano ormai chiaramente corresponsabili che non ha precedenti nella storia della Repubblica.

Il partito Radicale avverte tutta la gravità e responsabilità di questa decisione e la difficoltà per molti compagni di accettarla e di comprenderla. Eppure essa va sostenuta respingendo con la fermezza le suggestioni e i timori che sorgono da una campagna elettorale condotta all'insegna del terrorismo, questa volta non più e non solo ideologico, e in cui da tutte le parti si fa appello più alla paura che al consenso dei cittadini.

Le classi dirigenti della sinistra chiedono oggi agli elettori di rafforzare la loro rappresentanza parlamentare per poter meglio condizionare, ma in una prospettiva di collaborazione, la Democrazia Cristiana e gli interessi che questa esprime.

Ma ciò che è in discussione oggi, ciò che si deve giudicare e su cui si deve esprimere non è la forza ``quantitativa'' della sinistra, che da venti anni aumenta in ogni elezione, ma la debolezza della sua politica e gli errori delle sue classi dirigenti. Rafforzare elettoralmente la sinistra oggi significa confortare del consenso popolare le scelte delle sue classi dirigenti, avallare gli errori che hanno portato alla situazione attuale, pregiudicare la efficacia e la forza delle lotte che si dovranno affrontare. Un rafforzamento elettorale e parlamentare della sinistra significa di conseguenza nella situazione attuale non un rafforzamento ma un indebolimento delle capacità di resistenza e di alternativa che si devono opporre al regime. Avendo il coraggio di negare il proprio consenso a chi propone una politica errata e avventurosa fino al suicidio è possibile sperare di ricostruire le basi di una intransigente opposizione democratica e socialista, di una alternativa unitaria di sinistra.

Per creare il partito
di Marco Pannella

Notizie Radicali - Marzo 1972 da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980", editrice Gammalibri, gennaio 1982

SOMMARIO: Il decimo congresso ordinario del partito radicale (tenutosi a Roma dal 31 ottobre al 2 novembre 1971) aveva stabilito l'obiettivo di almeno mille iscritti al partito come soglia minima per poterne assicurare l'esistenza e la funzionalità. Questa scadenza fu al centro dell'iniziativa radicale dell'anno successivo.
L'articolo di Pannella che segue, editoriale di un numero di "Notizie radicali" a stampa ad alta tiratura - uno dei mezzi principali di finaziamento e di organizzazione del partito -, motiva la necessità della scelta operata e la rapporta alla situazione politica generale.

Più che raddoppiati i militanti iscritti e sostenitori; oltre duemila abbonati raccolti col primo numero di La Prova Radicale; l'ormai evidente processo di identificazione fra PR e LID, la piena unità nelle lotte con il Movimento antimilitarista e con il Movimento di liberazione della donna; il delinearsi di forme dirette e organizzate di presenza radicale in regioni dove eravamo sin qui politicamente assenti, come il Piemonte e il Friuli-Venezia Giulia, ecco il bilancio che possiamo trarre dai mesi che vanno da dicembre a marzo.

Di questo ritmo non raggiungeremo i mille iscritti per il mese di ottobre che il Congresso ha stabilito formalmente essere la piattaforma politica al di sotto della quale non è possibile pensare al proseguirsi della attività del Partito radicale .

Gli avvenimenti confermano l'esattezza dell'analisi generale che il X Congresso del Partito ha compiuto. Mentre nel 1965, e ancora due anni or sono, era possibile immaginare che i partiti della sinistra avrebbero visto rafforzarsi, al proprio interno, forze e proposte di unità, di rinnovamento, che passassero attraverso grandi lotte civili, laiche e libertarie, per una alternativa al ventennale regime clericale, corporativo, classista della DC. questi partiti sono oggi mobilitati per espellere da qualsiasi posizione di rilievo chiunque, a qualsiasi livello, tenti di condurre anche una semplice battaglia di minoranza o di testimonianza in questa direzione .

Da Malagodi a Berlinguer, i leaders dei partiti che furono e sono laici, per tradizione e per aspirazione dell'immensa maggioranza degli iscritti e dei votanti, sono oggi ufficialmente protesi a far propria la linea neoconcordataria dell'art. 7 e ad amministrare, nel Paese e nei loro partiti, il potere di regime.

Da Fortuna a Scalfari, da Bonea a Gullo, da Albani a Mussa lvaldi, non v'è parlamentare della ristrettissima pattuglia che in vario modo ha espresso le posizioni delle leghe e dei movimenti laici animati dal nostro Partito, che non sia stato oggetto di un attacco accanito da parte degli apparati e del tentativo d'essere escluso dal Parlamento. Non v'è più spazio nemmeno nei giornali di partito, non solo alla TV e nei giornali del capitalismo di Stato o privato, per una qualsiasi informazione sulle attività crescenti, sul sostegno di base che si manifesta a ogni iniziativa anticlericale, antimilitarista, antiautoritaria; non c'è posto nelle direzioni dei partiti, nelle tribune politiche, nei dibattiti congressuali, nelle riviste e rivistine culturali, per un semplice dibattito.

Aumenta ogni giorno il numero dei processi politici per vilipendio dei corpi dello Stato, delle autorizzazioni concesse dall'esecutivo per procedere senza più ombra di vergogna per reati d'opinione, e L'Avanti, L'unità, ll Giorno seguono la stessa consegna del silenzio, fin quando lo scandalo non esplode, grazie alle forze extraparlamentari. L'esercito è sempre più fradicio produttore di fascismo e di vergogne, e sempre meno si ascolta chi obietta contro questo stato di cose; non si possono fare riforme, nemmeno per garantire un minimo di diritto civile alla salute, perché ovunque il potere clericale interviene a difendere i suoi lerci interessi; la modalità infantile tocca in Italia punte africane , com'è stato mostrato nel recente convegno del Partito radicale del Lazio, e giornali e ministri socialisti sono i primi a mobilitarsi per proteggere con il silenzio i Petrucci di tutta Italia e a tentare di soffocare le nostre campagne e le nostre lotte.

Di fronte a questa situazione, di chiusura totale di regime, prendiamo atto che al Partito radicale spetterebbero compiti e battaglie infinitamente maggiori e più difficili di quelle pur gravi, come quella sul divorzio, combattute negli anni Sessanta. Il "Partito laico e libertario" che ancora ieri sembrava attraversare tutte le organizzazioni della sinistre, tutti gli apparati del mondo laico, coincide sempre più con l'esile struttura del Partito radicale. La stessa possibilità di sopravvivenza di opposizioni e di alternative libertarie, autenticamente socialiste, internazionaliste, antimilitariste, anticlericali nei grandi partiti ufficiali, sembra legata all'esistenza di un forte Partito radicale .

In queste condizioni noi abbiamo innanzitutto il dovere della chiarezza e dell'onestà. Se, dinanzi alla realtà di un partito libertario che noi proponiamo innanzitutto come servizio a tutte le minoranze - politiche, sociali, di generazione, extraparlamentari; come struttura federata e federante di autonomi gruppi e movimenti; senza preclusioni, senza possibilità di sanzioni, senza vincoli giuridici, senza limitazione di libertà nemmeno tattica e operativa ed elettorale, noi non ci troveremo nelle prossime settimane, nei mesi che ci separano dall'autunno, almeno in mille, per decidere insieme come impostare le grandi lotte di liberazione e di alternativa che urgono, non vi sarà nel nostro Paese altro che lo scontro violento e disperato che ogni società autoritaria e illiberale richiede e produce. Se nemmeno mille militanti socialisti, gobettiani, libertari, nonviolenti si pronunciano (nell'unico modo concreto e responsabile) per la creazione di un nuovo, più forte Partito radicale contro l'obbligata alternativa del suo scioglimento, se questo non accadrà - come possiamo temere non accada - sarebbe follia, sarebbe una mancanza d'umiltà che dei laici non possono compiere senza smentirsi, il pensare che si possa andare avanti.

Se questo obiettivo fosse invece raggiunto - un obiettivo in apparenza risibile, d'una dimensione numericamente paragonabile a quella d'una sezione di quartiere della DC o del PCI - noi siamo invece certi di poter di nuovo, senza mentire, con serietà e sicurezza, come per obiettivi che nessuno aveva il coraggio nemmeno di considerare e che abbiamo invece raggiunto, far fronte al regime, ai suoi guardiani, ai suoi dignitari, ai suoi burocrati, e dar voce, la voce vincente dell'unità, ai milioni di compagni che sono i nostri compagni: comunisti, socialisti, democratici, gobettiani, credenti e noncredenti, contro i quali, prima ancora che contro di noi, marcia unita la classe politica, in tutte le sue componenti, che in questa legislatura, dietro il paravento di polemiche selvagge quanto astruse, s'è trovata riunita dal PCI alla DC, per votare il 78% delle leggi approvate da questa monca legislatura.

Cari amici e compagni, ancora una volta è da voi e con voi che sapremo se e come andare avanti, o - con voi - accettare il ruolo e il destino degli sconfitti .

Il processo a Roberto Cicciomessere

di Giuseppe Catalano (L'ESPRESSO, 11 giugno 1972)

"… Martedì 23 maggio, ore 9 e 30. In un'aula del tribunale militare di Torino inizia il processo contro Roberto Cicciomessere, 24 anni, membro della direzione del partito radicale, segretario della lega per l'obiezione di coscienza. L'aula è nuda, quadrata, i cinque giudici militari attendono dietro alti scranni di legno. Una fascia azzurra attraversa il grigio oliva delle divise. Cicciomessere è arrivato infagottato in una tuta di fatica, con le manette ai polsi, come prescrive il regolamento. Adesso siede con altri tre compagni obiettori tra un nugolo di carabinieri. Non ci sono panche per chi assiste; dietro il tavolo degli avvocati c'è una transenna e dietro la transenna la piccola folla del pubblico.

Il presidente della giuria ha le mostrine da generale e l'espressione impenetrabile. Parla lentamente e di rado. Il pubblico ministero, invece, si agita sulla sedia fin dalle prime battute, quando scopre che Cicciomessere è assistito da due avvocati e da un sostituto per ognuno di loro. "Ma cosa vuol fare, lei, con tutti questi avvocati", dice allargando le braccia, rivolto all'imputato. Il pubblico ministero sarà anche il primo ad irritarsi quando uno degli avvocati, De Luca, farà mettere a verbale la sua protesta perché all'ingresso del tribunale alcuni poliziotti in borghese controllavano i documenti e schedavano i nomi di chi entrava. "Lei scriva controlli, non schedature", ordina al cancelliere. L'avvocato gli fa osservare che secondo lui si tratta di schedature, che è questo che vuole sia messo a verbale, e che se il PM non è d'accordo può sempre far stendere nero su bianco la sua opposizione. "Qui si devono mettere a verbale solo le cose esatte", risponde il PM. Un altro degli avvocati della difesa, l'avvocato Canestrini, si alza allora a spiegare i diritti stabiliti dal codice: "L'udienza deve essere pubblica, e cioè libera, per legge. Se la gente viene schedata all'entrata, è chiaro che la pubblicità dell'udienza è messa in pericolo". Uno dei giudici a latere scatta: "Avvocato, qui la legge viene rispettata. Guardi alle sue spalle, lo vede anche lei che il pubblico c'è. Anzi, sa che facciamo adesso per tagliar corto? Li mettiamo in fila per tre, li contiamo tutti, poi facciamo mettere il numero a verbale...". Questa proposta di militarizzare seduta stante i presenti, non ha molto successo, il pubblico ride, in aula c'è un certo clamore.

Solo il presidente continua a conservare la stessa aria impassibile. Comincia il dibattito. La difesa illustra con una serie di argomentazioni giuridiche la sua prima eccezione. Il pm dà segni d'insofferenza: "Qui facciamo notte", si lascia sfuggire. "L'unico terreno in comune fra noi e voi", protesta De Luca, "è quello del codice di procedura penale. Se ci togliete anche questo su cosa mandiamo avanti il processo?". Il presidente è costretto ad uscire dalla sua immobilità: "Avvocato, le concedo cinque minuti di tempo, non di più per le sue istanze". "Presidente, le faccio osservare che questa limitazione mi viene imposta senza essere stata preceduta dai due richiami prescritti dal codice". Il presidente chiaramente è a disagio, il PM interviene bruscamente: "Avvocato, lei non è qui per insegnarci il codice, noi dobbiamo solo constatare se Cicciomessere ha compiuto o meno il reato che gli viene imputato". Ormai il dialogo fra la corte marziale e la difesa ricalca fedelmente le battute dei film di Krubrik.

CINQUE MINUTI PER LA DIFESA

Altra eccezione della difesa. Adesso è tutta la giuria che da segni d'insofferenza: "Avvocato, cinque minuti", ammonisce il presidente. Di questi cinque minuti la metà si perdono a ripetere al cancelliere, che è molto lento, le parole esatte da mettere a verbale. "Mi scusi avvocato, ma non so stenografare", dice il cancelliere. Quando il presidente gli toglie nuovamente la parola, De Luca grida: "Presidente è solo per non pregiudicare gli interessi dell'imputato e perché il codice non lo permette che non abbandono il mio posto, ma desidero sottolineare che in queste condizioni parlare di diritto alla difesa è ridicolo...".

Ora Cicciomessere viene chiamato a deporre davanti alla giuria. Non gli è concesso di sedersi e così resta in piedi, un metro sotto il banco del presidente. L'interrogatorio si svolge in modo sbrigativo. "Vorrei parlare dei motivi che mi hanno spinto alla obiezione", dice Cicciomessere. "Sono motivi che conosciamo", lo interrompe subito il presidente, "ha altro da aggiungere?". "Ma io devo ancora cominciare... ho il diritto di spiegare le ragioni della mia condotta".

E' UN DELINQUENTE ABITUALE. CONGEDIAMOLO

"Guardi, noi rispettiamo le sue convinzioni politiche, ma questo non è un comizio". "Non ho mai saputo di un comizio dove l'oratore arriva ammanettato". "Insomma Cicciomessere, se non c'è altro...". "Sì, vorrei parlare delle condizione dei carceri militari...". "Non è questa la sede per farlo". "Lei, presidente, non pensa che i due mesi già trascorsi nel carcere di Peschiera mi concedono il diritto a cinque minuti del suo tempo?". "Ha già avuto tutto il tempo necessario".

L'interrogatorio è finito, Cicciomessere ritorna sul banco degli imputati, la giuria si ritira in camera di consiglio. Sono passati quarantacinque minuti dall'inizio del processo. Ancora tre quarti d'ora e poi la giuria ritorna con la sentenza: tre mesi e tre giorni di carcere. E' il minimo della pena. Ma per Cicciomessere questa è ancora la prima condanna. Scontati i tre mesi, tornerà a case, sarà richiamato con il contingente successivo, e se obietterà di nuovo ci sarà un altro processo e un'altra condanna, questa volta più pesante. Fino a quando la detenzione non avrà superato la durata del servizio militare (un obiettore in media passa in carcere due anni e mezzo della sua vita) e allora, se nel frattempo l'obiettore non si è attirato altre denunce, se non ha risposto "scorrettamente" a un maresciallo di guardia, se non ha fischiato durante un'adunata, tutte cose che valgono altri mesi di reclusione, se tutto insomma fila liscio sarà congedato dalle autorità militari. Ma per congedarlo le autorità hanno bisogno di un "motivo esimente", come dice il codice, e quando si tratta di obiettori i motivi sono solo due: o viene classificato delinquente abituale oppure inguaribile psicopatico. In tutti e due i casi non potrà più fare un concorso pubblico, avrà difficoltà anche per trovare un impiego privato, per ottenere il passaporto, per strappare una licenza di qualsiasi genere.

Questo più o meno è ciò che succede quando si diventa obiettori. Ogni processo segue sempre lo stesso rituale, preciso come una benedizione papale: arresto, processo, condanna. …"

(Da: Addio alle armi RAPPORTO SUGLI OBIETTORI DI COSCIENZA IN ITALIA. QUANTI SONO COSA VOGLIONO, COME SONO ORGANIZZATI, CHE SORTE AVRANNO)


Da DIARIO DI RICORDI DA PESCHIERA E DINTORNI

di Roberto Cicciomessere

Cronaca del processo

"23 maggio - Arrivo in aula alle ore 8. Intravedo dal furgoncino i compagni del MAI di Torino e del P.R. e la celere in tenuta da combattimento. Sono incatenato con un testimone di Geova e tre delle Nuove. In aula ci sono molti compagni, anche da Roma. Liliana non c'è. Sta a letto con la polmonite. Pina mi abbraccia e bacia piangendo. Sono molto contento di rivedere tutti i compagni. C'è anche Jean-Claude, di "Amnesty International". Sono abbastanza nervoso e teso. Verso le 9 entra la corte. Si apre il dibattimento, e subito gli avvocati Canestrini, Mauro Mellini, De Luca, Todesco protestano: carabinieri e polizia schedano i compagni che entrano in aula. La corte però si rifiuta di intervenire: "Non ci compete - ripetono - noi siamo ospiti di una caserma, il servizio d'ordine non spetta a noi". "E le garanzie di pubblicità al processo?". "Non spetta a noi, le ripeto, avvocato". Il capitano che cura l'"ordine ", lo stesso che due mesi prima, quando ci siamo consegnati, ci ha minacciati di portarci a chilometri da Torino e di lasciarci lì, si agita incazzato. Todesco comincia a presentare le eccezioni di nullità e di incostituzionalità. La corte concede solo cinque minuti per ciascuna eccezione. E' un fatto inaudito. Todesco riesce a malapena ad enunciare l'argomento delle eccezioni.

Nonostante le minacce e le schedature, l'aula è gremita, adesso. Ci sono anche giornalisti, fatto eccezionale perché i cronisti giudiziari, i giornalisti, non seguono mai i processi militari, spesso non sanno nemmeno dove si trovino i tribunali (infatti qui non c'è nemmeno un tavolino per la stampa, prendono appunti sulle ginocchia). Un vecchio avvocato che deve difendere i detenuti delle Nuove, ed è evidente che campa con qualche processo militare, di quelli che durano qualche minuto, incomincia visibilmente a spazientirsi. Borbotta che al tribunale di Torino non si era mai vista una cosa simile. Vedo che Mauro, che gli siede vicino, sta per esplodere, ed ha voglia di prenderlo a calci.

La corte insiste ad impedire agli avvocati di portare avanti la loro linea difensiva, di spiegare le eccezioni. I giudici sono disorientati, riescono a cavarsela a malapena perché ci sono il giudice a latere e l'accusa che maneggiano i codici in continuazione. Gli avvocati esigono che siano messe a verbale precise dichiarazioni e proteste. Ma debbono fare fatica e insistere quasi su ogni parola, perché i giudici cavillano e cercano di eludere richieste precise. Scendono dai loro uffici, ad osservare quello che sta avvenendo, scritturali e sottufficiali del tribunale. Gli avvocati hanno deciso di interrompere, per protesta, la difesa, di non pronunciare le arringhe. La corte mi chiede se sono d'accordo, la mia risposta è evidentemente affermativa. E' inutile dare avalli superflui ad un tribunale già di per sé anticostituzionale, e che non rispetta nemmeno la "sua" legalità.

Il mio interrogatorio è molto breve. Mi ero preparato un discorsetto della durata di un minuto, per poter riassumere le motivazioni più importanti del mio rifiuto e denunciare le contraddizioni carcerarie. Sono stato persino troppo ottimista, dopo appena la prima frase vengo interrotto dal presidente. E' un generale, anziano, con baffetti bianchi e monocolo. E' entrato appoggiandosi ad un bastone, molto formale nel camminare, anche se evidentemente claudicante. Ascolta sempre il giudice alla sua sinistra, che sfoglia svelto il codice, prima di parlare. Gli altri giudici stanno invece sempre zitti, con le loro sciarpe azzurre traverso il petto, il berretto poggiato sul nudo e lungo bancone.

Il presidente mi interrompe dicendo: "Sappiamo che lei è un uomo di cultura, ma qui non si fa politica, non è un comizio". Sceglie parole che evidentemente ha avuto raramente modo di pronunciare, nei soliti processi che si svolgono qui dentro, si rende conto che c'è la stampa, c'è un pubblico. Rispondono: "Non ho mai visto un oratore andare ad un comizio con i ferri ai polsi, e accompagnato dai carabinieri!". Riesco a pronunciare qualche altra frase, qualche battuta. La corte si riunisce. L'attesa sarà lunga, durerà un'ora. Ma dopo dieci minuti chiama gli avvocati, tranne Canestrini che si allontana, escono dalla porta che conduce alla sala di riunione. Hanno capito che sono stati troppo prevaricatori, anche sul piano procedurale? Che cerchino di rattoppare la cosa, certo senza successo? Solo parecchio tempo dopo saprò invece che si tratta di un'usanza abituale in questo tribunale, offrire un caffè agli avvocati...

Riesco finalmente, nella lunga attesa, a parlare con i compagni delle cose che mi interessano. Marco mi fa una relazione dettagliata, di quanto è accaduto al partito: aumentano gli iscritti ma non in misura sufficiente; Valpreda si è incazzato con i dirigenti del Manifesto per il mancato accordo elettorale e perché non erano stati messi in lista gli obiettori detenuti; "Notizie Radicali" esce ora finalmente, a stampa, regolarmente, ogni dieci giorni, grazie ad una sottoscrizione straordinaria che copre i debiti più gravi.

"Ti daranno quattro o cinque mesi" mi dice Marco. Anche io lo penso, anche per i casini di Peschiera. La sentenza è invece di tre mesi e tre giorni. Facciamo i conti uscirò il 14 giugno. "Giusto in tempo per organizzare la VI Marcia antimilitarista nel Friuli". Marco assente contento, non so se per la mite sentenza o perché così potrà liberarsi di un altro impegno di lavoro. …"


Lettera di M. Pannella e risposta di G. Calogero
(rubrica Posta, PANORAMA, 3 agosto 1972)

Grazie, davvero, per averci dedicato l'articolo di "Panorama" 326. Per noi è un fatto inusitato. Il regime ha deciso che noi si sia un "partito inesistente": e la sua stampa s'adegua. Chi sa qualcosa, oltre gli arresti, i processi, i digiuni, l'obiezione di coscienza, il divorzio, l'anticlericalismo del partito radicale? Chi siamo, come siamo organizzati, quali sono i nostri programmi?
Non posso abusare, comunque, della tua attenzione e dello spazio di "Panorama": proseguiremo il dialogo, da te aperto, su "Notizie radicali" e "La prova radicale" (per chi interessi, il loro indirizzo è: presso P. radicale, via di Torre Argentina 18, Roma). Una sola osservazione, per ora.
Che cosa cambierebbe se ci chiamassimo "movimento"? Anche noi siamo mossi da un rispetto per le parole: contestiamo (una lotta semantica: perché no?) l'appropriazione esclusiva che si fa della parola "partito" da parte di "questi" "partiti", con "queste" strutture, con "questi" metodi. Questo ci sembra necessario, proprio per contribuire a salvare la speranza nei "partiti", e nella possibilità di esserlo onestamente e in modo nuovo. E poi, da noi, "movimento" significa, alla fine, qualcosa di subalterno o di marginale rispetto all'impegno politico "pieno". Qualcosa che richiede meno rigore, meno impegno, meno speranze: il che non è il nostro caso.
Grazie per l'augurio di raggiungere l'obiettivo di mille militanti iscritti, senza di che scioglieremo il partito radicale e smetteremo di far politica, almeno per ora in Italia.

Marco Pannella

"Mi chiedi che cosa cambierebbe se decideste di chiamarvi non più "partito radicale" ma "movimento radicale"? Nella sostanza, nulla (come tu stesso pensi) perché "movimento", e non "partito", siete già, in quanto non presentate candidati alle elezioni, eppure riuscite, in certi casi, a muovere l'opinione pubblica. Ma appunto perciò è opportuno adeguare il nome alla cosa, specialmente in questa nostra Italia tanto ammalata di "morbo di Pangloss" da cercare spesso, invece, di adeguare le cose ai nomi. Anche Lelio Basso, commentando sull'"Unità "del 23 luglio la vicenda del Psiup, consiglia a quelli tra loro che non hanno voluto confluire né nel Pci né nel Psi di sopravvivere non più come partito ma come movimento.

Comunque, quel che ovviamente più importa non è il nome, ma la cosa: e mentre sente da te una giusta critica della natura degli odierni partiti italiani, non so ancora se voi radicali siate disposti ad accettare tutto quanto è implicito nella prospettiva, da me avanzata, della essenziale istituzionalità tanto del bipartitismo quanto del potere di controllo costituzionale. Preferirei di gran lunga che, nel vostro futuro congresso, voi trascuraste di mutare il vostro nome, ma riconosceste la necessità di quella prospettiva. Su questo punto attendo con vivo interesse le discussioni che mi preannunci".

Guido Calogero

La nonviolenza della marcia

(AZIONE NONVIOLENTA, luglio/agosto 1972)

La marcia antimilitarista e nonviolenta da Trieste ad Aviano (150 km, circa, 10 giorni di ininterrotta manifestazione) "si è fatta", in tutte le sue tappe e secondo il programma di massima prestabilito. Nel clima e nelle condizioni in cui essa si è prodotta, è questo "semplice" dato di fatto che - prima ancora degli specifici elementi di successo registrati dalla marcia - balza in rilievo quale enorme aspetto "di valore politico" da ascrivere all'iniziativa.

A sottolineare stupiti e ammirati questo dato sono stati gli abitanti stessi dei luoghi attraversati dalla marcia. "Non avremmo mai creduto che una marcia del genere potesse riuscire a svolgersi in questa zona". "Se mai foste riusciti a muovere i primi passi da Trieste, eravamo convinti che la vostra marcia non sarebbe arrivata oltre la prima tappa, conclusa sulle camionette della polizia o in autolettiga".

A fondare questa convinzione c'erano ampie ragioni. C'era il particolare carattere nevralgico della zona: sia sotto il profilo patriottico - la terra del Friuli-Venezia Giulia, "intrisa del sangue glorioso dei caduti della prima guerra", "sacra alla memoria perenne della Patria", non ammetteva la profanazione di un discorso antimilitarista; sia sotto il profilo politico, che rendeva scottante quel discorso in una zona dove è acquartierato un buon terzo dell'esercito italiano e un notevole contingente di forze NATO. C'era inoltre, ragione forse ancor più inibente, la minacciosa mobilitazione fascista contro l'effettuazione della marcia, con innumeri manifesti volantini e fotografie di attacco e ingiuria ai marciatori, l'istigazione dei propri seguaci, della popolazione locale e della truppa a intervenire contro di essi, inviti espliciti alle autorità militari ad impedire la marcia anche con la forza, l'annuncio di una contromarcia da parte degli amici delle forze armate.

Il "miracolo" invece si è compiuto. Dobbiamo dare atto che un punto a favore ce lo hanno regalato in partenza gli stessi fascisti, con la sciocca mossa della richiesta al governo presentata di De Lorenzo e Birindelli perché la marcia venisse proibita. La risposta negativa del governo a tale assurda pretesa di metterlo allo scoperto (in un momento in cui aveva ancora tanto bisogno di continuare a lustrare la sua maschera di campione dell'ordine democratico) impedendo a priori il fondamentale diritto costituzionale alla libertà di espressione e manifestazione delle idee, era servita sia a dotare la marcia di un avallo ufficiale agli occhi dell'opinione pubblica, sia, ancor più importante, a fornire i marciatori di una copertura nei riguardi delle forze di polizia locali, trattenute da quell'avallo a ostacolare preventivamente la marcia con le abituali pretestuose immotivate ragioni di ordine pubblico.

L'ARMA DELLA NONVIOLENZA FATTORE PRIMARIO DI SUCCESSO

Come si è potuto compiere il "miracolo"? E' un giornale quale il "Corriere della Sera" che, pur in una descrizione addomesticata, si apre a fornirne la chiave data la enorme evidenza del fatto. In un suo ampio articolo del 5 agosto consuntivo della marcia, leggiamo: "La marcia aveva preso le mosse da Trieste, la sera del 25 luglio, sotto una gragnuola di uova marce, di pomodori e di patate. Le uova, oltretutto, avevano colpito in pieno il vice-questore e il capo della Mobile. Tre arresti, immediatamente effettuati, avevano dissuaso i gruppuscoli di estrema destra dal ricorrere nuovamente a tali proiettili. Uno straordinario e continuo servizio d'ordine, e "l'impegno nonviolento dei marciatori" (sottolineatura nostra - n.d.r.), hanno fatto il resto. Ragion per cui, a parte un tafferuglio, subito sedato, domenica 30 luglio a Udine, la marcia è giunta al termine senza gravi complicazioni".

Molto più che "a fare il resto", è indubbio per tutti che sono state propriamente l'impostazione e le tecniche nonviolente che si è riusciti ad assicurare in ogni momento delle svariate decine di ore di manifestazione, l'elemento preponderante, essenziale e decisivo di realizzazione della marcia.

MISEREVOLE NAUFRAGIO DELLA MOBILITAZIONE TEPPISTICA FASCISTA

Le provocazioni e gli attacchi dei fascisti non sono stati soltanto a Trieste, nella manifestazione serale di apertura della marcia. Essi vi si sono prodotti giorno dopo giorno, con ogni sforzo e accanimento, e favoriti dalla tolleranza, dalla compiacenza e dalla connivenza delle forze dell'ordine. Così hanno potuto ad ogni comizio-dibattito serale dei marciatori o in certi punti di transito del corteo, prodursi indisturbati a insultare, schiamazzare, minacciare, aggredire col lancio di uova e ortaggi. Soltanto che - ahimé per loro - si sono visti disinnescata la trappola della consueta infantile e suicida risposta della ritorsione: né rabbia dai marciatori, né insulti, né bastoni e contrattacchi. Urla e minacce venivano ricambiate con animo tranquillo e sorrisi, e con applausi il lancio degli omaggi alimentari (facendovi finanche onore, là dov'era possibile, mangiando i pomodori meno spiaccicati). Erano gli stessi marciatori che invitavano la polizia (seppure questa lo avesse voluto...) a non fermare i disturbatori e provocatori fascisti. E poi li si invitava al dialogo, a prendere la parola al nostro microfono: e questa era per essi la fine, annientati dalla incapacità di venire ad esprimere una qualsiasi idea, rimanendo così denudati per quello che erano, poveri diavoli attrezzati soltanto alla gazzarra e alla rissa, utili a chi li ispirava e manovrava proprio e soltanto in quanto intellettualmente nulli.

Cosicché, pur nella difficoltà del clima di tensione e nello sforzo costante perché non si sprigionasse la scintilla dello scontro, la stessa parata fascista faceva buon gioco alla marcia, ribaltandosi in uno stimolo di attenzione e in un aumento di credito per i marciatori da parte del pubblico, che nel confronto e nel contrasto ne trovava esaltato il comportamento pacifico e la seria vocazione democratica e dialogante. Privi in tal modo della repressione per atteggiarsi a vittime, negati del terreno loro congeniale dello scontro fisico che li avrebbe eccitati al ruolo di eroi, impediti nel gioco del tumulto di piazza che avrebbe autorizzato la polizia a infierire e stroncare la marcia, i fascisti sono stati ridotti alla impotenza e infine a quel ghetto di isolamento (erano oltre un centinaio a Trieste, poi sempre più calanti di numero) in cui si erano proposti di relegare i marciatori (forse anche immiseriti a rodersi e a beccarsi tra di loro per lo smacco e l'inettitudine plateali in cui erano stati ingabbiati da quegli inermi nonviolenti, "accozzaglia di invertiti, lesbiche e drogati", ai quali s'erano impegnati "a dare l'accoglienza che si meritano").

IL COMPORTAMENTO DELLE "FORZE DELL'ORDINE" - LA TENUTA CRESCENTE DELLA MARCIA FA ANCHE SORGERE CONTRASTI TRA CARABINIERI E P.S.

Una volta neutralizzato l'innesco della provocazione estremista capace di far degenerare la marcia nell'esplosione del tumulto di piazza, la polizia a sua volta, in tal modo esclusa dal suo terreno favorito, si è trovata a disagio. Superato il momento cruciale dell'inizio a Trieste, andando avanti la marcia contro ogni previsione e così raccogliendo un primo vistoso successo politico, le questure delle città successive hanno comunque continuato a lasciare spazio all'iniziativa provocatoria fascista, onde almeno riuscire ad accreditare la linea sussidiaria di tutori dell'ordine tra gli opposti estremismi, a giustificazione così dei massicci intimidatori schieramenti di forze e ogni sorta di intralci e divieti che contenessero in qualche modo la crescente affermazione della marcia.

Peraltro alla 5ª tappa di Udine, dopo la grande riuscita della precedente tappa di Palmanova dove anche centinaia di soldati avevano assistito al comizio-dibattito dei marciatori, le forze dei carabinieri (reparti speciali di essi erano stati scelti per il "servizio d'ordine" sulla marcia, al posto normale degli agenti di P.S.) hanno cercato di scavalcare la linea delle questure (sostanzialmente ineffettiva verso i marciatori, la cui tenuta nonviolenta riduceva inequivocabilmente a zero il gioco provocatorio fascista e lo confinava all'unico estremismo in campo), e di provocare direttamente lo schiacciamento della marcia. Il corteo, entrato ad Udine, era in passaggio sotto la sede del M.S.I. Dalle finestre dell'edificio, lancio furioso di uova e pomodori e patate: naturale arresto del corteo, e consueta risposta di sorrisi e applausi. Riavviatosi compostamente il corteo, un gruppetto di coda stentava a muoversi e rimaneva leggermente distaccato in sosta ancora sotto la sede fascista. Marco Pannella (ben conosciuto come uno dei "capi" della marcia) si riportava sul gruppo per sollecitarlo a riprendere il passo: nel contempo già stanno irrompendo i fascisti dalla loro sede, "hanno varco nel cordone dei carabinieri che vi stazionava", e si lanciano sul gruppetto. Finalmente il contatto fisico coi marciatori e il tafferuglio. Mentre alcuni di questi venivano malmenati, i carabinieri a tradimento e all'improvviso colpivano ripetutamente Pannella coi calci dei fucili, e con virulenza sulla testa (dovrà poi ricorrere alle cure di ospedale con quattro punti di sutura). Gronda il sangue, ma non c'è reazione dei marciatori. A questo istante sono gli stessi funzionari di P.S. che gridando intervengono sui carabinieri e li trattengono dal portare avanti il loro piano di pestaggio. E' questo intervento (ciò è importante sottolineare) un moto immediato e spontaneo: sono quei funzionari delle questure di Trieste, Gorizia e Udine che, avendo avuto da trascorrere giorni interi a contatto coi marciatori, discusso e familiarizzato con essi, finiscono col non saper più cooperare, e addirittura col contrastare, con la linea poliziesca del vertice, di repressione e di contenimento nei riguardi della marcia. E poco dopo in piazza, dinanzi a tutto lo stato maggiore delle forze dell'ordine, questore, vice-questori, commissari e funzionari sentono il bisogno di esprimere non soltanto "rammarico", ma "indignazione" e "nausea" per l'incidente trascorso.

Avviene qualcosa di più significativo ancora: il questore di Pordenone, sotto la cui giurisdizione cade la marcia dopo Udine, si fa assegnare un corpo speciale di P.S. e sottrae il personale controllo dei marciatori ai carabinieri, che resteranno da allora in seconda fila. E si susseguono screzi e scontri aperti fra funzionari di P.S. e ufficiali dei carabinieri; un primo immediato esempio è a Codroipo, la tappa successiva a quella di Udine. Al nostro avvicinarsi ad una caserma alle porte del paese, dinanzi alla quale avremmo dovuto transitare, erano stati fatti schierare all'esterno di essa alcuni plotoni di militari con i mitra spianati: si è verificato (rarissimo caso in questi decenni d'ordine democratico!) che la P.S. si sia comportata in modo chiaro e netto all'altezza delle sue funzioni istituzionali, costringendo gli ufficiali della caserma e quelli del servizio d'ordine dei carabinieri a fare rientrare all'istante i soldati armati. E quindi sino al termine della marcia, isolati i carabinieri sempre torvi e minacciosi, e a contatto invece con le forze di P.S. oramai portate ad evitare che sorgesse sulla marcia ogni possibile incidente (si è arrivati - altra condizione rara - ad avere un questore che prendesse la parola al nostro microfono, a dar conto da pari a pari e a giustificarsi di sue prese di posizione sotto contestazione), i marciatori hanno conquistato un ulteriore spazio per lo sviluppo della loro azione in un clima più sicuro e disteso.

LA GRANDE LEZIONE DELLA NONVIOLENZA SMUOVE ANCHE I PIU' SCETTICI

Senza dilungarsi oltre (potremmo aggiungere a queste note moltissimi altri episodi e riferimenti) ci pare sufficientemente dimostrato questo insegnamento fondamentale della marcia - la sua lezione veramente grande e più fertile di sviluppi: cioè la straordinaria capacità di azione - di difesa e di lotta - del metodo nonviolento. Anche i più scettici della validità di questo metodo, si sono piegati a riconoscere che gli antimilitaristi armati della forza della nonviolenza sono riusciti in questa marcia a far breccia là dove ogni altra anche più solida e dotata formazione politica, agendo nel modo tradizionale di replicare all'avversario sul suo terreno provocatorio e violento, non ce l'avrebbe fatta ad andare avanti. Perché questo secondo modo avrebbe portato più che mai a consegnarsi alla solita trappola della rissa sterile e dell'alibi alla repressione violenta di piazza; tarpandosi quindi le ali per l'effettivo obiettivo di lavoro politico che ci si è prefissati di realizzare: la conquista del proprio diritto all'azione pubblica, il contatto diretto con la gente, l'azione di propaganda e di agitazione, e infognandosi invece nel contrasto con l'avversario fasullo e strumentale al sistema del manipolo teppista o con l'avversario mediato costituito dagli organi di polizia.

Ma il successo della marcia, nel suo proposito particolare di sperimentazione e di diffusione del metodo nonviolento, va anche oltre l'importanza di aver superato l'ostacolo di tali subalterni "avversari", fascisti e polizia - disarmati e isolati i primi nel loro teppismo impotente, senza alcun pretesto la seconda per intervenire a stroncare col suo consueto abito repressivo. Per noi il successo, anche più significativo, va registrato al livello dei più prossimi, effettivi, interlocutori: primi tra questi, altri compagni di lotta politica che dal nostro punto di vista sono in ritardo circa l'acquisizione di adeguati metodi di azione, poi l'opinione pubblica in generale.

"LOTTA CONTINUA"

Alcuni esempi precisi circa i primi. Si sono accompagnati alla marcia, partecipi o fiancheggiatori, dei militanti di Lotta Continua. La loro iniziale posizione nei riguardi del carattere nonviolento della marcia, da essi non condiviso, pesò per i primi giorni, provocando anche momenti di tensione e di dissenso. Poi di giorno i giorno, crescendo l'esperienza formidabile della marcia, abbiamo visto i militanti di Lotta Continua interni alla marcia mutare sensibilmente la loro preconcetta posizione e arrivare a farsi essi stessi zelatori delle tecniche nonviolente. Quelli esterni, che per le tappe iniziali venivano a schierarsi in servizio d'ordine e di contrattacco a difesa dei marciatori contro i fascisti, si sono trovata smontata la loro smania nella rivelazione che non c'era migliore forma di difesa e di iniziativa della nostra prassi nonviolenta.

"IL MANIFESTO"

Così c'è da dire per i compagni del Manifesto. Il Manifesto come movimento non soltanto non aveva aderito alla marcia, ma il suo quotidiano aveva addirittura ospitato attacchi miserevoli alla linea nonviolenta. Pochissimi giorni dopo la conclusione della marcia, ripercossasi sul Manifesto in via diretta l'eco dell'iniziativa ("un diluvio di lettere" erano arrivate alla redazione del giornale), esso si è portato con conveniente intelligenza ad un recupero di approfondimento del confronto, dedicando una intera pagina all'argomento della nonviolenza e del valore della marcia premettendo due colonne redazionali ad una serie di lettere pro e contro. Per il Manifesto, "la stessa asprezza delle posizioni" dimostrava "l'esistenza di un nodo di questioni che i compagni sentono con immediatezza, sulle quali devono misurarsi, fare i conti". Così, a chi voleva chiuso il dibattito con gli antimilitaristi nonviolenti, "scaraventando" - come scrive la redazione - "nel recinto dei reietti i pacifisti", essa rispondeva di ritenere doveroso e utile invece dargli spazio, perché "il tema tocca qualcosa di molto profondo".

"L'EFFETTO SU CHI HA VISTO LA MARCIA E CHI VI HA PARTECIPATO"

E infine la ripercussione della marcia nonviolenta sulla popolazione in generale. Presso questa non c'è modo ovviamente di registrarne subito in modo tangibile la reazione; ma è indubbio che, come singole persone della zona attraversata dalla marcia sono state attratte a simpatizzare e solidarizzare con noi per il modo creativo di condurre la nostra iniziativa, così per la moltitudine di persone che l'hanno seguita o ne hanno sentito parlare c'è stato un tramite vivo e attuale di riflessione e di più attenta considerazione per questo singolare metodo della lotta nonviolenta. Senz'altro molte onde, non immediatamente misurabili, sono state mosse, capaci di toccare punti ampi e lontani.

Un'ultima notazione. Tra i partecipanti alla marcia - per la prima volta convocata sotto il segno esplicito del principio e del metodo della nonviolenza - non vi era unanimità a questo riguardo (la genuinità della partecipazione era soltanto affidata, senza nessuna scelta o controllo preventivi, alla implicita adesione quanto al dichiarato carattere nonviolento dell'iniziativa; gran parte dei marciatori non si erano neppure mai conosciuti prima di allora). Consapevoli di questo limite, i gruppi organizzatori della marcia, pur predisponendo uno scritto di principi, tecniche e raccomandazioni a cui i partecipanti avrebbero dovuto uniformarsi, lo avevano intitolato "non-regolamento della marcia", ben sapendo che il concetto di un "regolamento" che vincolasse rigidamente i partecipanti in fase preventiva non soltanto non avrebbe di fatto trovato una piena rispondenza pratica, ma sarebbe anche stato fonte di inutili e insolubili dissapori e contrasti. In pratica, i convinti della nonviolenza sul piano del principio erano tra i marciatori una esigua minoranza (si può dire neppure un 20%), e forse soltanto una metà coloro che in partenza accettavano in pieno le tecniche di condotta nonviolenta. Nonostante ciò, la cosa ha funzionato, nell'evidenza palmare per tutti, una volta sul campo e nella diretta sperimentazione, della bontà del metodo di disciplina nonviolenta. Ap3365

DICHIARAZIONE DI DISOBBEDIENZA E DI NONCOLLABORAZIONE CIVILE PER IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO ALL'OBIEZIONE DI COSCIENZA E PER LA LIBERAZIONE DI PIETRO VALPREDA.

Per ragioni di stato, di classe o di partito, i nostri governi difendono e usano - quanto meno assuefatti moralmente a questo obbrobrio - quell' ‘universo carcerario’ che poteva essere solo ricordo di secoli d'inciviltà ed è invece realtà della Repubblica.

Contro questa ignominia, dovere dei cittadini è quello di ribellarsi e di lottare adeguatamente, senza ricorso ad improponibili deleghe di responsabilità, alibi pretestuosi e disonesti quando siano in causa principi stessi del vivere civile e della civiltà democratica.

Incombono oggi, con particolare urgenza, due fatti, due esempi, due occasioni di eccezionale gravità. Non possiamo continuare a chiedere ai nostri occhi di non vedere, alle nostre coscienze di non giudicare, alla nostra moralità di non intervenire, alla nostra privacy di ritenersi non toccata e coinvolta. Significherebbe, con certezza, per la seconda volta nel giro di pochi decenni, consegnare definitivamente la giustizia, o la sua speranza, proprio nelle mani di chi ne fa strazio e di chi tenta o rischia di mutarla in pura e semplice, immonda violenza.

Prigionieri politici dell'esercito e della giustizia che gli è delegata, i nostri compagni e fratelli obiettori di coscienza sono rinchiusi, sempre più numerosi ed a lungo, nelle carceri militari. Ogni anno, secoli di reclusione e di sofferenze li colpiscono. Come un tempo altri uomini di vera e radicale Riforma che dovettero testimoniare con la vita e con il carcere per la libertà di coscienza e di religione contro il potere della Chiesa, così oggi contro il potere - che si vuole anch'esso sacro - dello Stato, gli obiettori pagano la loro fedeltà alla religione della libertà, della pace, della giustizia e della fraternità. La stessa barbarie li colpisce. La stessa pretesa di annientare le coscienze, incatenandone i fedeli, viene loro opposta: ma questo accade ora nel nostro stesso nome, e volontà, di popolo italiano. Con la nostra personale, quotidiana e multiforme collaborazione.

Prigionieri politici dello stato e della sua ingiustizia, Pietro Valpreda, Roberto Gargamelli, da tre anni e mezzo attendono e chiedono invano, dalla galera, di essere giudicati per i reati che sono stati loro imputati e dei quali, sempre più chiaramente la pubblica opinione li ritiene innocenti. Continua su di loro quella strage di istituzioni civili, di leggi e di civiltà - non meno che di esseri umani - che dal dicembre del 1969, dalla banca dell'Agricoltura e dalla Questura di Milano, si va perpetuando e accrescendo.

La stessa giustizia che li ha incarcerati pretende ora di non potere né giudicarli né liberarli. Poiché è nel nostro nome che i magistrati Occorsio e Cudillo li hanno catturati e mantenuti prigionieri, compete a noi rendere loro quei diritti e quella presunzione di innocenza che la Costituzione e la civiltà gli assegnano.

Non ci è possibile pensare di farlo direttamente, né di direttamente liberare gli obiettori di coscienza, innanzitutto a causa delle nostre convinzioni; ma pensiamo che anche coloro che fidano nell'uso della forza e della violenza rivoluzionaria contro quella dello Stato e delle maggioranze, non possano proporsela.

Opporremo quindi a queste situazioni la risposta radicale, pacifica, nonviolenta della noncollaborazione e della disobbedienza civile. Siamo infatti convinti che è nella stessa organizzazione della società moderna, a partire dalle sue più peculiari caratteristiche, che possano e debbano trovarsi le armi vincenti, popolari perché direttamente agibili dalle masse, atte ad essere usate da ogni donna ed ogni uomo, contro la violenza del potere e delle istituzioni, che è l'essenza stessa del fascismo.

Inizieremo questa lotta con il rifiuto di pagare d'ora in poi le imposte che eventualmente dovremo allo Stato, se non detratte della percentuale corrispondente al totale del bilancio riservato alla giustizia ed alla Difesa. Porteremo avanti questa forma di disobbedienza civile fino a quando il Parlamento non avrà approvato una legge che sancisca l'effettivo esercizio del diritto all'obiezione di coscienza, diritto previsto nella convenzione europea dei diritti dell'uomo ratificata dalle Camere sin dal 1965, emendando sostanzialmente, quindi, la legge repressiva e fascista votata dal Senato nella scorsa legislatura; e fino a quando la Giustizia che lo ha sequestrato non liberi Valpreda, in attesa del giudizio che inutilmente egli ed i suoi compagni hanno invocato.

PARTITO RADICALE Via di Torre Argentina, 18 ROMA 13 settembre 1972

L'iniziativa ha già raccolto numerose adesioni. Tra le primissime, quella di Ada Rossi, vedova di Ernesto Rossi, iscritta al partito radicale. Seguono, tra i radicali:

"avvocati": Mauro Mellini (presidente LID e LIAC), Lucia Severino, Ferdinando Landi, Giuseppe Ramadori, Franco De Cataldo, Luigi Biolochini, Ugo Tovo, Giovanni Ozzo
"professori universitari": Aloisio Rendi, Massimo Teodori, Lorenzo Strik Lievers, Piero Craveri, Gino Roghi, Giancarlo Lanciani, ed "insegnanti": Alma Sabatini, Angiolo Bandinelli, Emilia Mancuso, Ida Sacchetti
"medici": Ennio Boglino, Giancarlo Arnao, Domenco Baroncelli, Giuuseppe Teodori, Vincenzo Antolini
giornalisti": Marco Pannella, Federico Bugno, Gianfranco Spadaccia, Giuseppe Loteta
"professionisti": arch. Luigi Brandajs, arch. Giorgio Viale, Ugo Dessy, scrittore, Iberto Bavastro, commercialista, Corrado Parlagreco, funzionario, Marco Avitabile Leva, chimico, Giorgio Giovanzana, funzionario, Bice Cafiero, impiegata, Mario Savelli impiegato
"seguono le adesioni di non iscritti al partito radicale:
Elena Croce (scrittrice), Giorgio Benvenuto, segr. naz. UILM, Alberto Benzoni, dirigente di azienda, cons. comunale del PSI, Luigi Ferraioli, magistrato, Giancesare Falesca, giornalista, Callisto Cosulich, giornalista, Salvatore Rea, giornal., Vincenzo Micalizzi, giornal., Franco Colasanti, giornal., Marco Sassano, giornal., Barbara Spinelli, giornal., Piero Sanavio, giornal., Giuliano di Girolamo, giornal., Mariapia Losandro, giornal., Dal Col Giulia, insegnante, Bonato Bertilla, infermiera, Zaramella Riccardo, rappresentante. Ap 843


Il metodo della nostra follia

Marco Pannella (NOTIZIE RADICALI n. 174, 10 novembre 1972)

Non un giorno, non un compagno sono stati sottratti alla lotta per i diritti civili, per la libertà, per la liberazione dei compagni obiettori e dei compagni Valpreda, Gargamelli e Borghese, contro il regime.

Gli stessi giorni del Congresso sono riusciti ad essere pienamente validi sui due fronti: quello "interno", del dibattito sul Partito e quello della prosecuzione, senza una sosta o una distrazione pur quanto giustificate, dall'azione di liberazione in cui ci eravamo totalmente impegnati.

Diciamolo: è stato un Congresso dove una tensione da credenti ha tolto il suono mistificatore e retorico che ha acquisito il parlare di religione laica della libertà, con buona pace per l'elegante cinismo e il distacco mondano che testimonierebbe invece della "civiltà'' dei nostri bravi e potenti laici non anticlericali, non antiautoritari e soprattutto non militanti.

Così, con una coincidenza che non può non imporsi al nostro ricordo, esattamente a due anni di distanza da quel 1 dicembre 1970 in cui strappammo la legge istitutiva del divorzio, dopo digiuni e azioni dirette e una lunga, difficile, calcolatissima campagna politica, il Senato della Repubblica trasmetterà alla Camera dei Deputati una proposta di riconoscimento dell'obiezione di coscienza, che dovrebbe divenire legge di Stato, per gli impegni che verso di noi, e solo verso di noi, sono stati assunti, prima di Natale. Almeno sulla carta, lo Stato perderà il diritto di catturare come prigionieri i suoi eretici, di perseguitare legalmente coloro che obiettano per coscienza al potere.

E' l'ultima battaglia del "vecchio", buon partito radicale, quello degli anni sessanta; che deve morire, che è morto. Una battaglia vincente, ma solo grazie al nuovo che è nato per la mano forte e fraterna che gli hanno teso i compagni che sono accorsi per fondare il nuovo partito radicale, quello che a Torino ha iniziato la sua vita. E che l'altro, quello che abbiamo "rappresentato" in pochi, in meno di cento, per dieci anni, fosse l'ora di seppellirlo lo dimostra anche il fatto che, con le sue caratteristiche, con le sue strutture, non poteva non richiederci quella eccessiva, pericolosa, dolorosa anche, prova di forza che non solo con Alberto Gardin, ma anche con almeno un'altra decina di compagni che hanno digiunato oltre i venti giorni, abbiamo dovuto sostenere.

Nessun partito, nessuna causa, ripetiamolo, devono comportare tanto, per nessuno, altrimenti con la speranza libertaria, di radicale liberazione, non hanno nulla a vedere.

Al Congresso il ``progetto radicale'' è passato, come era prevedibile. Dunque, in Italia, nel 1972, milletrecento persone, una legione straniera, una corte di miracoli dove, con i compagni consiglieri comunali di Catania e Palermo, di Cosenza e Roma, di Milano e di Aosta vi sono Angelo Quattrocchi e Alma Sabatini, e liberali, socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani, extraparlamentari di ``Lotta Continua'', presti e carcerati, industriali (e già!) e soldati, magistrati e pregiudicati, plagiatori e omosessuali, operai e scrittori, nonviolenti e arrabbiati, quattordicenni e novantenni, stranieri e apolidi, qualche guardone per ciascuna delle infinite polizie del regime; milletrecento persone, dunque, e di tal fatta, un quarto a ``doppia tessera'', s'associano per lanciare una offensiva politica, a livello istituzionale, che comporta miliardi di spesa, decine di migliaia di militanti, la contrapposizione (quanto pericolosa e quanto spesso reazionaria!) fra paese legale e paese reale, un terremoto mai visto in clima di lotta democratica nonviolenta.

Un'ondata di almeno una decina di referendum popolari contemporanei che, per legge vigente, comporterebbero, tra l'altro il dissequestro dal regime di almeno duecento ore di programmi radiotelevisivi in un arco di 50 giorni!

E' certo che la classe dirigente, unanime, si mobiliterebbe immediatamente per impedire questo disegno che sarà certo subito considerato ``folle'', ``irresponsabile'', meritevole solo di sarcasmi e di ridicolo.

Toglier di mezzo, d'un solo colpo, concordato, leggi fasciste, leggi clericali, il quadro ed il supporto giuridico-costituzionale per il potere corporativo e di classe in Italia, il potere militare...

Una continuità, fra vecchio e nuovo Partito Radicale, c'è, dunque: in venti, di fronte al prestigio dei vecchi e nobili e rispettati radicali, dicemmo che il Partito Radicale non era morto, nel 1961, ed aveva una sua funzione da svolgere, irrimpiazzabile; in una ventina con Mauro Mellini decisero la costituzione della LID; solo, Fortuna presentò la legge per definizione inutile e menagramo; in quattro gatti eravamo con Gigi De Marchi per la pillola, e la libertà sessuale, o per l'obiezione di coscienza ``politica e collettiva''; a dar del pericoloso prevaricatore al successore di Mattei, Cefis, e all'intera staff dell'ENI la patente della corruzione e della commistione fra la peggiore politica e la peggiore economia; a denunciare ONMI e Petrucci...

C'è dunque del metodo nella nostra follia e anche bontà, felicità, chiarezza, forza nel nostro insieme. Non conosciamo gente cui il Partito Radicale abbia fatto del male, non fosse che per omissione; gente che sta un po' meglio, sì. Allora, è un buon bilancio, un buon auspicio, senza ideologie, senza certezze vaste e globali, senza concezioni del mondo, abbiamo di che andare avanti, e far la nostra parte, ``esser parte'' e partito.

A tutti, ai compagni, alle sorelle e fratelli, agli amici, ed in primo luogo ai compagni obiettori, a Pietro Valpreda, Roberto Gargamelli, Emilio Borghese, diciamo dunque, fin d'ora, ``Buon Natale!'', dopo aver gridato per due mesi, così proficuamente, ``Natale a casa, per gli obiettori e per Valpreda!''.

Questo, fino al nuovo anno, e per sempre per coloro che non sono iscritti o sostenitori del Partito o abbonati di Notizie Radicali, è l'ultimo numero di giornale che riceveranno.

A coloro che ritengono che il Partito Radicale debba ormai, nel 1973, ingaggiare le battaglie decise dal Congresso di Torino, aggiungiamo l'invito a mobilitarsi subito per arrivare ai duemila iscritti al più presto, nelle prossime settimane, e con la campagna di iscrizioni e di "sottoscrizioni" consentire un primo passo in quella direzione. Buon lavoro. Ap 1839


APPELLO INTERNAZIONALE

"Marco Pannella e Alberto Gardin digiunano da 30 giorni per ottenere che, dopo 25 anni, il Parlamento italiano preveda finalmente un limite di tempo entro il quale voterà sulle proposte di legge di obiezione di coscienza.

Non solo i secoli di carcere che ogni anno continuano a espiare i loro compagni obiettori, ma anche le stesse leggi danno loro ragione. La Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, infatti, ratificata dal Parlamento italiano, da oltre sette anni non può non essere considerata legge di Stato.

Essi non chiedono nulla sul merito della legge, come pure sarebbe comprensibile; non hanno posto termini ultimativi. La loro richiesta e la loro protesta nonviolenta sono esemplari e gravi ed è ora pressante il pericolo che si aggiunga al dramma dei loro compagni in carcere anche quello loro personale.

Ci uniamo incondizionatamente alle loro richieste; le facciamo nostre, fermamente e ci attendiamo che il Parlamento italiano risponda adeguatamente e tempestivamente.

Ma li invitiamo anche a desistere subito dal digiuno potendo ormai ritenere di aver raggiunto il loro obiettivo di dare definitivamente forza alla loro attesa ed alla loro speranza".

LE ADESIONI

Pietro Nenni; Ignazio Silone; Eugenio Montale; Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura; Günther Grass; François Jacob, premio Nobel per la medicina; Alfred Kastler, premio Nobel per la fisica; Jacques Paris de Bollardière; Jean Rostand, dell'Accademia di Francia; Louis Aragon; card. Bernhard Alfrink; card. Giacomo Lercaro.

Ernesto Balducci, teologo; Luigi Bettazzi, vescovo, presidente Pax Christi; Elena Croce, scrittrice; René Cruse, segr. M.I.R.; Jean Jacques De Felice, Presidente del movimento francese di azione giudiziaria - avvocato; Natalia Ginzburg, scrittrice; Daniel Mayer, Presidente della Lega dei Diritti dell'Uomo; Jean-Marie Muller, scrittore; Raymond Rageau, Presidente Un. Pacif. Francese; Michel Rocard, Segretario nazionale del P.S.U.; Henri Roser, Presidente ass. del Servizio Civile Internazionale; Mario Sbaffi, Presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche italiane; Altiero Spinelli della Comm. Es. CEE; Guido Stampacchia, Presidente Unione Matematica Italiana; P. Vermeylen, Ministro di Stato del Belgio; René Marchandise, Presidente. Mouv. Chrétien pour la Paix; Wolfgang Roth, Segretario nazionale Junge Sozialisten (SPD); Hermann Kesten, Presidente PEN Club tedesco; Wolfgang Abendroth. AP2027


NATALE A CASA PER VALPREDA E GLI OBIETTORI

(NOTIZIE RADICALI n. 174, 10 novembre 1972)

Dopo 38 giorni di digiuno, Gardin e Pannella hanno potuto considerare superati i motivi che li avevano indotto, insieme ad altre decine di compagni, ad intraprenderlo. La decisione è stata comunicata alla stampa mercoledì 8 novembre, dopo una serie di colloqui con il Presidente del Senato Fanfani, con il Presidente della Camera Pertini, con il Presidente della Commissione Difesa del Senato, Garavelli. "Natale a casa per Valpreda e gli obiettori" non è più soltanto uno slogan del Partito Radicale e del Movimento nonviolento. E' una reale possibilità che va ora difesa con energia e che non si deve permettere sia messa nuovamente in crisi.

Il digiuno collettivo era iniziato il 1° ottobre. Ad esso hanno partecipato oltre centocinquanta militanti, per complessivi 1300 giorni di digiuno. Oltre Pannella e a Gardin, che si sono esposti con grave rischio personale, almeno dieci di essi hanno superato i venti giorni.

L'obiettivo che i digiunatori si proponevano di raggiungere era la programmazione da parte dei due rami del Parlamento dei lavori parlamentari necessari per giungere al voto conclusivo sia dei progetti di legge di riforma dell'articolo 272 del codice di procedura penale da cui dipende la liberazione di Valpreda, Gargamelli e Borghese, sia della legge sulla obiezione di coscienza. Non si entrava nel merito della legge, né si chiedevano termini ultimativi. Non si chiedeva che il Parlamento approvi, ma soltanto che il Parlamento dibatta e voti, adottando quei sistemi di programmazione dei propri lavori che sono normalmente adottati per qualsiasi altro tipo di legge o leggina.

Dopo 38 giorni, questo obiettivo si può considerare raggiunto.

Per quanto riguarda l'obiezione di coscienza, il Presidente del Senato ha dichiarata a Pannella e Gardin, martedì 7 novembre, che la relativa legge avrebbe potuto essere trasmessa alla Camera dei Deputati, per la sua definitiva approvazione, entro il mese di novembre, se la Commissione Difesa del Senato avesse trasmesso in tempo all'Assemblea di Palazzo Madama il proprio parere di merito. Il giorno successivo, il Presidente della Commissione difesa del Senato, Garavelli, ha espresso la sua intenzione di imprimere ai lavori il massimo di celerità compatibile con i doveri e i diritti della Commissione stessa ed ha assicurato il suo impegno in questo senso. Pertanto la Commissione esaminerà ininterrottamente, con priorità assoluta e fino al termine del dibattito a partire dal 16 novembre, i progetti di legge relativi all'obiezione di coscienza.

A sua volta il Presidente della Camera, Sandro Pertini, nel corso di due colloqui, prima a Nizza il 4 novembre, e poi a Montecitorio il 7, ha dichiarato di poter sperare in una conclusione del dibattito entro Natale, nel caso in cui la Camera riceva entro la fine di novembre il progetto di legge approvato dal Senato.

Per quanto riguarda la liberazione di Valpreda, Gargamelli e Borghese - un obiettivo questo che, al contrario dell'altro, non è stato e non è affidato all'azione esclusiva del Partito Radicale e del Movimento nonviolento - Pannella e Gardin hanno potuto raccogliere nei loro colloqui elementi oggettivi sufficienti per poter acquisire la certezza che anche questo obiettivo è diventato una concreta attesa per e non oltre il Natale. Da quanto il Presidente Fanfani e la Segreteria generale del Senato hanno dichiarato sulla situazione procedurale e sui tempi connessi, da informazioni raccolte e da assicurazioni ricevute, ad ogni livello, anche su questo punto i motivi che avevano determinato il digiuno collettivo di protesta si sono potuti considerare superati.

Si è conclusa così positivamente una esemplare iniziativa nonviolenta, nella quale per lungo tempo i compagni più esposti nel digiuno collettivo hanno potuto contare quasi esclusivamente sul sostegno dei loro compagni radicali e nonviolenti e sull'interessamento fraterno di pochi parlamentari, nell'indifferenza quasi assoluta della grande stampa di informazione che, tranne qualche avara notizia, ha preferito ignorare l'iniziativa e le richieste di quanti vi partecipavano.

Determinante, in primo luogo è stata la mobilitazione di tutti i compagni, iscritti e simpatizzanti. Nel giro di due settimane sono state recapitate undicimila lettere alla Camera e al Senato, a diversi destinatari, e tremila telegrammi di altrettanti cittadini, in appoggio delle richieste del Partito Radicale e del Movimento nonviolento. Una solidarietà concreta e costante a queste lotte, moralmente e politicamente preziosa per i compagni, è stata assicurata dal movimento "Lotta Continua". Di segno opposto, purtroppo, è stato invece il comportamento del gruppo "Manifesto".

Continui e intensi sono stati i contatti e gli incontri con esponenti politici democratici e parlamentari. In particolare il sen. Terracini, l'On. Mario Lizzero del PCI, l'On. Ruggero Orlando e, spesso, l'On. Anderlini hanno fornito un importante contributo a sostegno delle lotte dei radicali e dei nonviolenti e degli obiettori. Prestigiose personalità italiane e straniere, facendo "proprie" le richieste dei digiunatori, hanno certamente aiutato a determinarne l'esito positivo: dai senatori a vita Pietro Nenni ad Eugenio Montale, a Ignazio Silone, dai cardinali Lercaro a Alfrink ai premi Nobel Kastler, Jacob e Heinrich Böll, da Aragon a Günther Grass, da Jean Rostand al generale De Bollardière (il generale più decorato di Francia), da mons. Bettazzi a Padre Balducci, da Elena Croce a Natalia Ginzburg a Michel Rocard, ad Altiero Spinelli e ai molti altri di cui riportiamo a parte i nomi e il messaggio rivolto al Parlamento. E' soltanto dopo questi messaggi, e durante il Congresso del Partito Radicale, che la stampa italiana, preceduta da quella straniera (ricordiamo gli articoli di "Le Monde", "Time", "La Croix", "Vorwärts", ha cominciato a mostrare qualche segno di interessamento e a dedicare all'argomento servizi, come quelli ampi e completi del "Giorno".

Un particolare ringraziamento il Partito Radicale rivolge ai Presidenti della Camera e del Senato.

Il Presidente Fanfani, nel corso di un colloquio durato circa venti minuti, ha fornito utilissime indicazioni e assicurato il suo vigile e alto interessamento.

Il Presidente Pertini ha ricevuto in due riprese, a Nizza e a Roma, Gardin e Pannella, e si è intrattenuto con essi complessivamente per circa tre ore. Trovandosi a Nizza per un brevissimo periodo di riposo, non appena venuto a conoscenza della richiesta di un colloquio, tenendo conto delle loro condizioni di salute, si dichiarava disposto a rientrare immediatamente a Genova per incontrarli. A Nizza, dove essi si sono recati, li ha accolti ricordando gli scioperi della fame che anch'egli fu costretto a fare nelle carceri del fascismo, episodi della sua vita di militante socialista e antifascista quando proprio nella cittadina francese, dove lavorava in esilio come muratore, era impegnato a lottare per la libertà e per i diritti fondamentali dei cittadini. Li ha inoltre ampiamente informati dei problemi, tecnici e non, che dovevano essere ancora studiati e risolti e - come essi chiedevano - consigliati.

Al termine del colloquio Pertini ha abbracciato Alberto Gardin, obiettore di coscienza, attualmente colpito per la seconda volta da mandato di cattura. Li ha anche informati del fatto che, se il Senato avesse terminato entro la fine di novembre il suo lavoro, sarebbe stato possibile sperare e operare perché la Camera, che pure non ha, come il Senato, nella precedente legislatura votato un progetto di legge sulla obiezione di coscienza, voti definitivamente la legge prima di Natale.

Se la "arroganza del potere" è oggi giustamente denunciata come una consuetudine e una realtà, il comportamento del Presidente Pertini ha certo rappresentato una recisa e preziosa eccezione. Ed è stato certo questo interessamento e queste opinioni, a confermare in un successivo colloquio a Montecitorio, tenendo conto del proverbiale e assoluto rispetto professato dal Presidente della Camera in ogni occasione per ogni autonomia ed esigenza connesse all'attività del Parlamento, a determinare Pannella e Gardin nella convinzione di poter considerare ormai sicura una rapida conclusione dell'iter parlamentare.

Ora la lotta diventa però più dura. Si tratta di impedire che, come è già accaduto nella scorsa legislatura, si approvi una legge che instauri e disciplini un reato di obiezione di coscienza anziché un diritto all'obiezione di coscienza. E si tratta di impedire che la convinzione di tutti i massimi vertici dello Stato, in gran parte del governo, della maggioranza degli stessi parlamentari clerico-democratici o clerico-fascisti - la convinzione cioè che la prigionia di Valpreda è uno scandalo ormai non più tollerabile - si traduca in ulteriori ritardi anziché in azioni immediate, come è stato garantito.