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Cronologia del Partito Radicale -
1976

DOCUMENTI
La LOC è un movimento antimilitarista, non la corporazione degli obiettori 
di Roberto Cicciomessere NR 221, 12 dicembre 1975
I fascisti scelgono il processo fascista NR1, 24 gennaio 1976
Il saluto del PR al 40° Congresso del Partito Socialista NR4 3 marzo 1976
Liste radicali alle elezioni  di Marco Pannella STAMPA SERA, 12 aprile 1976
Il segreto che Pannella ha svelato agli italiani  di Umberto Eco CORRIERE DELLA SERA, 5 maggio 1976
PR: LISTE AUTONOME NR10, 17 maggio 1976
Quattro radicali in parlamento  da ‘La sfida radicale’ di F.Morabito - SugarCo 77 - cap.27
O vincere o morire di Marco Pannella - LA PROVA RADICALE, luglio/agosto 1976
MA L'ANTIMILITARISMO NON VA IN SOFFITTA di Rosa Filippini - La Prova radicale - giugno 76
Relazione del tesoriere Paolo Vigevano al XVI Congresso del Partito radicale
XVI CONGRESSO PR - Roma, 16, 17 e 18 luglio 1976
"Disordinarsi" per crescere di Gianfranco Spadaccia  NR17, 26 luglio 1976
La MARCIA INTERNAZIONALE DEGLI ANTIMILITARISTI NONVIOLENTI
di Roberto Cicciomessere PROVA RADICALE, ottobre 1976
QUELL'ESARCHIA E' EXTRAPARLAMENTARE di Marco Pannella PROVA RADICALE, luglio/agosto 1976
L'assegnazione degli scranni nell'aula della Camera Conferenza stampa del gruppo radicale 9.10.1976
INDICE COMPLETO DEI DOCUMENTI E ARTICOLI SULLA QUESTIONE DELL'ASSEGNAZIONE DEI POSTI IN AULA NELLA VII LEGISLATURA
L'imbroglio - IL TRATTATO DI OSIMO CON LA JUGOSLAVIA HA UN RISVOLTO  CRIMINOSO: IL PROTOCOLLO ECONOMICO di Giulio Ercolessi, PROVA RADICALE, dicembre 1976
LEGENDA TITOLI
rosso = transnazionale blu = nazionale   verde = congressi o riunioni del PR

LA LOC è un movimento antimilarista, non la corporazione degli obiettori

di Roberto Cicciomessere NR 221, 12 dicembre 1975

Dovrà essere un momento di profondo chiarimento e di precise scelte. Tutti i compagni obiettori, antimilitaristi non-violenti, radicali hanno quindi il diritto-dovere di partecipare al 4° congresso nazionale della LOC che si svolgerà il 4, 5 e 6 gennaio a Milano.
Dopo tre anni di applicazione della legge "per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza" dobbiamo fare il punto sul significato del rifiuto della divisa nell'attuale situazione e sviluppo degli eserciti ed in presenza dei nuovi contributi teorici sull'antimilitarismo e soprattutto fare chiarezza fra le posizioni di chi sempre più ritiene di dover privilegiare il momento del servizio civile a quello del NO al modello organizzativo militare e coloro che ritengono urgente e prioritario recuperare il contenuto originale e storico della nostra testimonianza politica.

Credo infatti che proprio oggi, in presenza di nuovi e non previsti contributi alla lotta contro l'organizzazione militare da parte del personale permanente delle FF.AA e di profonde modificazioni "strutturali" degli eserciti nazionali, la proposta complessiva dell'obiettore di coscienza abbia, unica, la possibilità di rappresentare con chiarezza una insostituibile posizione politica per noi irrinunciabile.
Devo confessare che anche io ho avuto la tentazione, nel momento in cui sono stato più coinvolto nella crescita del movimento dei sottufficiali ed ufficiali democratici, di credere praticabile anche una via antimilitarista che nascesse dalle contraddizioni interne dell'istituzione. E con questo non voglio certo rinnegare l'enorme contributo che hanno dato e potranno dare questi movimenti di militari nella denuncia sempre più puntuale dei meccanismi autoritari ed antipopolari dell'istituzione militare e soprattutto nella demistificazione di analisi semplicistiche e manichee, purtroppo ancora proprie di alcuni movimenti anarchici, che ponevano tutto il male nell'esercito e nei suoi componenti visti come individui incapaci di contraddizioni e di denuncia delle stesse. Questo nuovi "compagni di strada" ci costringono cioè ad analisi meno generiche, più difficili ma anche più rispondenti alle reali funzioni dell'esercito moderno che non può più essere identificato, per inadeguatezza di analisi, a quello piemontese o della I guerra mondiale.

Ho creduto cioè, per un momento, che a partire dalla esplosione interna della contraddizione fra società civile ed organizzazione autoritaria delle FF.AA, dalla presa di coscienza dei disagi profondi del personale permanente dell'esercito che sono determinati soprattutto da crisi d'identità, da crisi del ruolo individuale e collettivo dei militari, dovesse necessariamente e meccanicamente scoppiare il rifiuto dell'istituzione.
Credevo in modo deterministico che quando i militari sinceramente democratici si fossero posti il problema del loro stato, non solo in termini negativi (no alla limitazione delle libertà civili nell'esercito, no al divieto di discussione e dibattito sulla strategia militare e politica delle FF.AA., non alla funzione antipopolare...) ma avessero iniziato a discutere, anche solo in termini militari, del possibile ruolo dell'esercito, sarebbero arrivati necessariamente alla conclusione che non è possibile una difesa armata (tradizionale o nucleare) del paese e che altra soluzione non esiste al di fuori della conversione delle strutture militari in strutture civili e nella difesa popolare (non-violenta o meno) del paese.

Ed in effetti ciò è avvenuto in alcune avanguardie del movimento, ma al momento di trarre le necessarie conclusioni si è opposta la quasi infinita capacità del "sistema" di recuperare a proprio vantaggio le stesse proprie contraddizioni (ristrutturazione delle FF.AA. e aumento delle spese per armamenti; forme di rappresentanza e partecipazione dei militari all'interno delle caserme), le tentazioni verso modelli portoghesi o terzomondistici (grazie anche al "contributo" dei compagni della "sinistra rivoluzionaria"), ed in definitiva l'impossibilità culturale e storica di concepire anche solo teoricamente l'abolizione degli eserciti.

Ecco, allora ho capito ancora più profondamente che il significato maggiore dell'obiettore di coscienza non risiede nella controproposta perbenistica del servizio civile alla comunità, neanche nella generica proposizione umanitaria e pacifista, ma nella concreta demolizione del mito, del simbolo dell'esercito e della sua necessaria esistenza.
Il simbolo dell'esercito, con i suoi accessori culturali e mitici come "se vuoi la pace prepara la guerra", "disarmo sì, ma multilaterale", "esiste da sempre", "se aggredissero tua madre, tua sorella non reagiresti con la violenza", non è un elemento astratto, sovrastrutturale della dialettica politica. E' contenuto strutturale e quindi storico di un sistema politico. E trova la sua più precisa espressione reale nella forza di imporsi come modello organizzativo, di comportamento collettivo in tutta la società, nell'istituzione militare come nel processo produttivo, nella gestione del tempo libero come nei comportamenti associativi ed interpersonali.
Non è un caso che oggi il confronto più duro e decisivo si combatta proprio fra chi, da posizioni di "destra" o di "sinistra" tenta d'imporre o recuperare i meccanismi gerarchici, autoritari, o gli alibi strutturalistici (prima risolviamo i problemi economici poi pensiamo ai diritti civili; prima puntelliamo la crisi di sistema e regime con compromessi più o meno storici e poi pensiamo all'attuazione delle libertà costituzionali) e chi invece crede ed opera non solo per il possesso pubblico dei mezzi di produzione ma anche e soprattutto per la modifica dei meccanismi illiberali di produzione.

L'obiettore di coscienza, esprime, nell'unica forma intellegibile e con mezzi omogenei all'obiettivo, una proposta politica e culturale radicalmente alternativa a tutti gli eserciti.
Senza il coraggio di sostenere con chiarezza questa posizione nessuno sbocco politico ed ideale positivo potrà essere proposto alla lotta all'interno dell'istituzione militare, al crescente disagio del paese sempre più tartassato per finanziare costosi quanto inutili giocattoli mortali per i generali, per la classe politica ed economica che ancora una volta, anche se indirettamente, li utilizzerà per il controllo politico e militare della società.
Ritornando ai problemi del congresso della LOC, mi sembra chiaro che voler trovare giustificazioni ed alibi all'obiezione di coscienza nel servizio civile è quanto di più sbagliato e riduttivo potremmo fare. L'obiezione di coscienza si "giustifica" da sé anche a prescindere dall'utilità o meno del servizio civile. Dobbiamo anche dire chiaramente che chi ritiene di dover condizionare l'obiezione di coscienza al servizio civile ovvero ritiene la dichiarazione del No agli eserciti marginali rispetto al lavoro politico del servizio alternativo non è un antimilitarista non-violento.

Ed a questa affermazione possiamo forse capire uno dei maggiori errori della LOC; aver voluto o dovuto rappresentare tutti gli obiettori e non solo quelli che si identificavano, non solo a parole ma nel comportamento, ai principi costitutori di questa organizzazione politica.
Il resto è secondario. Necessariamente la LOC si è infatti trasformata in organizzazione corporativa degli obiettori in servizio civile, in ufficio di collocamento, in organizzazione sindacale dove si parla quasi esclusivamente di questioni normative ed economiche attinenti alla condizione di volontario civile e solo marginalmente dello specifico della nostra lotta: l'antimilitarismo.
E' secondario anche recriminare gli incredibili compromessi con l'istituzione militare a cui siamo arrivati nella gestione del servizio civile proprio per mancanza di tensione antimilitarista e l'incredibile disinteresse dei più alle lotte degli obiettori totali che non a caso ricoprono la responsabilità di presidenza nella nostra organizzazione proprio perché testimoniano con chiarezza che l'obiezione di coscienza di sostanzia solo nei modi e nelle forme con cui si testimonia e si comunica il No all'esercito e che quindi il "resto", cioè il servizio civile, o è gestito in funzione di questa proposta o è "altro", anche se legittimo e con un preciso valore sociale.

E' secondario anche fotografare una situazione di servizio civile divenuto solo per pochi serio impegno di pratica sociale e per molti interminabile ed alienante periodo di attesa del congedo, riproponendosi cioè negli stessi termini del servizio militare.
In questo congresso bisogna avere il coraggio di scelte chiare.
Dovremo verificare se è possibile ricostituire una segreteria collegiale omogenea ai contenuti prima espressi e quindi capace di proporre e gestire lotte antimilitariste e nel contempo dare struttura organizzativa autonoma, anche se parallela, per la gestione del servizio civile, oppure se ciò non è possibile ritenendo sia gli uni che gli altri di dover rappresentare tutti e tutto.

Sicuramente non potremo accettare l'attuale paralizzante condizione di continuo scontro politico ad ogni livello che ha impedito sia una forte gestione della lotta antimilitarista che, per coloro che credono nel significato autonomo del servizio civile, l'elaborazione di un preciso progetto di intervento nel sociale con le alleanze quindi necessarie per questo scopo.
Non è infatti più concepibile che in una organizzazione come la LOC che si definisce antimilitarista e nonviolenta possano coesistere, proprio a partire dal lavoro nel sociale dove ad ognuno compete una propria posizione politica sulle quali istituzionalmente la LOC non può interferire, espressioni politiche dell'antimilitarismo inconciliabili. Credo che la soluzione stia solo nell'attuazione di una formula più volte affermata ma sempre rimasta alle parole e non nei fatti: la LOC rappresenta solo gli obiettori di coscienza antimilitaristici nonviolenti che intendono, anche nel servizio civile, privilegiare questo contenuto di lotta; la LOC fornisce del resto a tutti gli obiettori, senza distinzione, i servizi necessari per una gestione del servizio civile che garantisca il principio dell'autodeterminazione e dell'autogestione democratica.
Ognuno di noi deve perciò assumersi nel congresso i conseguenti comportamenti.


I fascisti scelgono il processo fascista

NR1, 24 gennaio 1976

SOMMARIO: I motivi che hanno indotto gli avvocati radicali Mellini e De Cataldo prima ad accettare e in seguito a rifiutare la difesa degli imputati di Avanguardia Nazionale. Hanno accettato innanzitutto perchè tali imputati non hanno commesso atti di violenza, ma soltanto reati politici ed ideologici e in secondo luogo perché intedevano fare un processo radicale, libertario e antifascista. Hanno successivamente rifiutato la difesa poichè gli imputati non hanno accettato di avvalersi di un processo di tal genere e, quindi, del diritto di sollevare questioni preliminari ed eccezioni di incostituzionalità; hanno scelto, cioè, un processo fascista.

Roma, 13 gennaio - NR

Un appello ai 62 imputati di Avanguardia Nazionale è stato rivolto da Marco Pannella, nel corso di una conferenza-stampa tenuta presso la sede del Partito Radicale, perché, dissociandosi dalla linea difensiva scelta dalla loro organizzazione designino come loro difensori avvocati radicali. "Ci impegniamo a difenderli - ha detto Pannella - anche contro eventuali ritorsioni e rappresaglie che potrebbero avvenire in carcere".
"Al momento dell'apertura del processo i nostri avvocati saranno a portata della loro designazione".

La conferenza-stampa era stata convocata per spiegare i motivi che avevano indotto gli avvocati Franco De Cataldo e Mauro Mellini ad assumere la difesa di alcuni imputati del processo per ricostituzione del Partito Fascista intentato a 62 pretesi appartenenti alla organizzazione Avanguardia Nazionale. I due avvocati hanno invece comunicato che rinunciano ad assumere la difesa in questo processo, essendo venuta meno una delle condizioni che essi avevano posto: gli imputati di A.N. hanno infatti rinunciato ad avvalersi del diritto di sollevare, in apertura del processo, questioni preliminari ed eccezioni di incostituzionalità.
"Lo scontro, a questo punto, è chiaro - ha detto Pannella - ed è lo scontro tra noi e A.N.". Pannella ha spiegato i motivi per i quali il Partito Radicale e la Lega 13 Maggio avevano accettato di sostenere la difesa con Mellini e De Cataldo e con altri avvocati radicali e libertari, in questo processo. "Lo stato rivendica il diritto di giudicare in modo fascista. E può giudicare in modo fascista grazie alla legge Reale, che è in realtà una legge di attuazione del Codice Rocco. E' un diritto che contestiamo a chiunque, soprattutto se si pretende di esercitarlo in nome della Costituzione e dell'antifascismo". Pannella ha detto che esistono in Italia centinaia di fascisti che si sono comportati come sicari del regime e che sono corresponsabili di attentati terroristici, di stragi e di provocazioni. "Non si procede contro di loro per queste responsabilità. Si preferisce intentare processi politici e ideologici che elevano questi sicari e questi complici al rango di "vittime" del regime". "Siamo stati attaccati dall'intero schieramento politico per la nostra scelta: dall'estrema sinistra extra-parlamentare fino ai segretari di sezione del PRI, cioè ai segretari di sezione del partito degli onorevoli Mammì e Reale. Ora il cerchio si chiude: gli imputati di A.N. rinunciano a condurre la battaglia preliminare, giuridica e politica, contro il Codice Rocco, la legge Scelba e la legge Reale. Difendono questo processo che assegna loro il ruolo di "vittime" e, come vittime sono conviventi con il regime che li processa. E difendono la loro legalità, che si esprime in quelle tre leggi, a causa delle quali sono in carcere e sono imputati".
Alla conferenza stampa sono intervenuti anche gli avv. De Cataldo e Mellini e il segretario del PR, Spadaccia.
De Cataldo ha detto che gli era stato offerto di assumere la difesa da altri avvocati, mentre Mellini era stato nominato difensore da uno degli imputati, un giovane milanese, Stefano Trentin. "Quando ho saputo della rinuncia alla battaglia preliminare ho detto al mio difeso che subordinavo la difesa alla possibilità di condurre la battaglia processuale senza limiti di mandato".

Gli avvocati avevano nei giorni scorsi posto come pregiudiziale alla difesa i seguenti tre punti:
a) che venissero designati almeno 10 difensori (sugli oltre 130 cui gli imputati avrebbero teoricamente diritto) radicali o della Lega 13 Maggio.
b) che essi fossero assolutamente liberi di condurre la difesa secondo le loro convinzioni giuridiche e civili, contestando quindi, sin nella fase preliminare, la costituzionalità delle leggi fasciste, democristiane e repubblicane in base alle quali si era giunti al processo.
c) che non vi fosse costituzione di un unico collegio dei difensori.

I due avvocati hanno dato alcune informazioni tecniche e processuali ai giornalisti, chiarendo che nel processo ai A.N. non è contestato agli imputati alcun atto di violenza ma solo reati politici ed ideologici.
Gianfranco Spadaccia ha detto che nonostante gli attacchi concentrici che gli sono stati rivolti, la Segreteria del Partito Radicale non ha avuto esitazioni a sostenere i due avvocati: "Siamo abituati - ha detto - a dover affrontare le battaglie più significative in condizioni iniziali di isolamento.
C'è sempre però un momento della verità che fa giustizia degli attacchi che ci vengono riservati. Non c'è stato bisogno di attendere il processo. Il momento della verità è venuto prima con il rifiuto degli imputati di accettare una difesa libertaria, con dei libertari al banco della difesa, quel processo sarebbe stato non un processo fascista, ma un processo radicale, libertario, antifascista".


Il saluto del PR al 40° Congresso del Partito Socialista

NR4 3 marzo 1976

Compagni del PSI, il Partito Radicale rivolge al Vostro Congresso un caldo e fraterno saluto. E' un congresso importante che si svolge in un momento cruciale, forse decisivo, della storia della nostra Repubblica democratica. Dai vostri lavori, dalle vostre decisioni di questi giorni non si attendono né l'indicazione di una nuova formula di governo, né scelte tattiche contingenti. E' in gioco la possibilità stessa di dare corpo alle speranze di alternativa e di rinnovamento della classe operaia e di masse crescenti di cittadini, delle masse femminili che hanno iniziato la loro lotta di liberazione, delle generazioni più giovani, dei nuovi ceti tecnici, dei ceti emarginati che lottano per la propria emancipazione, di quei settori produttivi della media e piccola borghesia che rifiutano ormai di identificare i loro destini con quelli di un regime corporativo e classista, clientelare e ingiusto, parassitario e corruttore.

La realizzazione di queste speranze è in gran parte affidata alla possibilità di una forza socialista e libertaria che torni ad avere un ruolo determinante nella sinistra italiana, nella costruzione della sua unità, nelle sue scelte politiche, nei suoi programmi di governo. Ne esistono probabilmente le condizioni e l'opportunità. Potrete coglierle se saprete uscire dal ruolo di forza intermedia, secondaria, condizionata, che sembrano assegnarvi gli attuali equilibri politici e la vostra attuale consistenza elettorale.
Le scelte politiche del Partito Comunista italiano, di cui il discorso del compagno Berlinguer al congresso del PCUS è solo la più recente testimonianza, costituiscono ormai un grande patrimonio unitario dell'itera sinistra italiana, creano le premesse di un superamento definitivo di divisioni ideologiche che hanno per decenni indebolito e paralizzato il movimento operaio e socialista. Ma la traduzione strategica di queste scelte non può non essere condizionata dalla storia del PCI, dai processi di maturazione della sua politica, dai rapporti internazionali. Mai come in questo momento è necessaria, accanto al PCI, una grande forza socialista e libertaria.

La candidatura comunista al governo del paese ha aperto un dibattito falso e vergognoso sulle garanzie di democrazia che la sinistra dovrebbe fornire e che dovrebbero accompagnare la diretta assunzione di responsabilità di governo da parte del PCI. Le stesse forze che per trenta anni hanno impedito l'attuazione della costituzione, che hanno contrastato qualsiasi politica dei diritti civili, che hanno fatto strage non solo di legalità e istituzioni ma, dal 1969 al 1974, in una ininterrotta strategia della tensione, anche di vite umane, hanno la pretesa di porre condizioni e di proporsi addirittura come garanti della continuità dello Stato democratico. Non chiedono in realtà garanzie di libertà ma garanzie concordatarie e di potere. E' un disegno pericolose cinico che deve essere denunciato, contrastato, battuto, ma che può affermarsi ed imporsi senza una chiara risposta democratica di classe, socialista e libertaria.

Questa risposta spetta in primo luogo ai socialisti e ai libertari. Si presenta oggi alla sinistra italiana l'occasione storica, che già nel 1947 Piero Calamandrei indicava come prioritaria, di completare il disegno costituzionale, di realizzare uno stato davvero democratico, di spazzare via le bardature fasciste, autoritarie, clericali, militariste e corporative che caratterizzano il nostro ordinamento giuridico, sopravvissute al fascismo, mantenute, consolidate o create ex novo dalla Democrazia Cristiana. Questa è l'unica garanzia che la sinistra deve fornire e la deve fornire non ai propri avversari, non ai padroni di ieri e di oggi, che sperano di rimanere tali anche domani, ma al paese e alla classe. Non esiste contrapposizione fra politica delle libertà e dei diritti civili e politica di riforme economiche e sociali: la prima è condizione delle seconde. La grande scelta di fronte alla quale ci troviamo è fra l'illusione di poter edificare il socialismo con metodi autoritari e la sfida di costruire il socialismo ampliando la sfera della libertà del controllo, della partecipazione delle masse e dei cittadini: fra un socialismo burocratico, autoritario, necessariamente repressivo, e un socialismo libertario autogestionario.
Non a caso è contro di voi socialisti e contro noi radicali che oggi si indirizza la polemica di gran parte della stampa del regime. Non a caso la politica dei diritti civili è considerata come pericolosa, e si tenta di abrogarla o di svuotarla, soffocando o isolando le minoranze che ne sono state fino ad oggi le principali protagoniste.
Errori anche gravi, i condizionamenti cui siete stati sottoposti, le conseguenze negative derivate da anni di partecipazione subalterna al potere non hanno offuscato le vostre gloriose tradizioni di lotta. La vostra politica degli ultimi anni ha creato le premesse di una ripresa socialista e ha riparato ai guasti dell'unificazione socialdemocratica. Abbiamo perciò fiducia che il vostro congresso saprà far fronte alle grandi responsabilità che l'attuale situazione politica vi assegna dando un nuovo decisivo impulso al processo di rinnovamento e di rafforzamento del socialismo italiano.
E' con questo spirito che vi preghiamo di accogliere il contributo delle nostre proposte di iniziativa comune, dalle quali noi ci auguriamo possa derivare una sempre più stretta collaborazione e integrazione dei socialisti e dei radicali.

"La Segreteria nazionale del Partito Radicale"

Le nostre proposte
"Il congresso radicale del novembre scorso ha rivolto al Partito Socialista italiano due proposte:

1) l'apertura di un dibattito, capace di coinvolgere tutte le forze politiche disponibili ma soprattutto le forze sociali che si sono espresse nel paese attraverso nuovi istituti di democrazia diretta nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, come nei nuovi movimenti di liberazione, per un programma di governo di legislatura, di riforme economiche, sociali e istituzionali, che possa costituire l'elemento di confronto con il PCI per un programma comune delle sinistre;
2) la raccolta insieme ai radicali di un milione di firme intorno ad alcuni progetti di iniziativa popolare per l'attuazione della Costituzione, per la trasformazione democratica dello Stato, per la affermazione delle libertà e dei diritti civili.

Su questo numero del giornale riportiamo un'ampia sintesi delle proposte di legge, elaborate dal Partito Radicale in collaborazione con gli altri movimenti dei diritti civili, con il Movimento per la liberazione della donna, con numerosi giuristi democratici.

Queste proposte, anche se non rispondono a criteri di sistematicità e omnicompensività, hanno assunto le caratteristiche di una vera e propria "carta delle libertà e dei diritti civili", come hanno voluto definirla i compagni Giuseppe Caputo e Stefano Rodotà che hanno dato un importante contributo alla loro compilazione e formulazione. Esse costituiscono anche il primo contributo dei radicali a un progetto socialista di legislatura.
Sulla base di queste proposte il Partito Radicale ha dichiarato nel suo congresso la propria disponibilità ad una più stretta collaborazione con il Partito Socialista, anche nelle forme di un rapporto federativo.


Liste radicali alle elezioni

di Marco Pannella STAMPA SERA, 12 aprile 1976

A vent'anni esatti dalla sua costituzione, il partito radicale ha deciso di presentarsi da solo, con proprie liste sia per la Camera che per il Senato, alle ormai prossime elezioni legislative. Pur non essendo più iscritto da più di tre anni a questo partito (ed essendolo, da qualche mese, al PSI) approvo questa decisione, che ritengo necessaria e doverosa verso la stessa vita democratica del Paese.

Dobbiamo dirci con franchezza che nei confronti dei radicali il potere repubblicano agisce in modo fascista: che attraverso questa discriminazione è la vita civile di tutti che è minacciata. Come? Vediamo. La Corte Costituzionale ha detto chiaro e tondo, con energia, che il monopolio pubblico dell'informazione radiotelevisiva si giustifica solamente nella misura in cui assolve al compito democratico di servire i diritti dei cittadini. La Suprema Corte si è pronunciata in tal senso proprio dopo durissime battaglie radicali su questo tema.

Ancora di recente, con una sua ordinanza, la magistratura romana ha riconosciuto al partito radicale un "diritto soggettivo assoluto", pari a quello degli altri partiti "ufficiali" del regime, di accesso e di presenza nell'informazione radiotelevisiva. Ebbene, ancora nei giorni scorsi, all'unanimità, la commissione parlamentare di intervento e di vigilanza sulla Rai-tv, pianificando "tribune politiche" e "conferenze stampa" dei partiti fino a giugno (indirettamente quindi anche dibattiti e criteri del'informazione dei giornali e notiziari audiovisivi) ne ha escluso di nuovo il partito radicale.
Cos'è, questa, se non violenza, se non sequestro di diritti costituzionali e di democrazia? Come definire l'operato dei partiti "ufficiali" se non come un "racket" compiuto da forze politiche?
A comportarsi in tal modo sono gli stessi partiti che vengono finanziati ormai anche dal danaro pubblico tratto dalle tasche di ogni contribuente, in base ad una legge che obbliga così, ad esempio, il radicale a sovvenzionare con il proprio lavoro l'attività di soppressione violenta dei propri diritti.

E non basta. Il regime partitico ufficiale si fonda, com'è ormai noto, oltre che sulla rapina legale del danaro pubblico, anche sul peculato, sulla corruzione, sui fondi neri di tutte le baronie economiche pubbliche e private, nazionali ed internazionali. Esso mantiene ancora in vita leggi che hanno consentito alla magistratura di condannare penalmente esponenti radicali colpevoli di ricorrere all'autofinanziamento pubblico e volontario, delle proprie attività: i radicali sono così dei delinquenti condannati per "colletta pubblica", fastidi di mendicanti e straccioni da marciapiede. Non vogliono "rubare". Non devono vivere.

Intanto, valanghe di processi e condanne per reati di opinione, arresti e carcere per le disobbedienze civili che il solo partito non violento d'Italia ha compito durante le lotte di liberazione sociale in questi dieci anni: da quella per il divorzio, a quella per l'obiezione di coscienza, per l'educazione demografica, per la libertà sessuale, per i diritti delle minoranze, per l'aborto.
E' proprio vero, dunque, che per i radicali vi sia una differenza sostanziale fra il fascismo degli Anni Trenta e questa Repubblica?
Oltretutto quel regime, almeno, applicava e rispettava la propria violenta legalità. Questo di oggi viola la propria, fa strage - prima ancora che di gente - di istituzioni e di diritto.

E' dunque ormai evidente che da vent'anni dura, ininterrotto, un tentativo violento di soffocamento e di assassinio politico di questa minoranza, di tanta maggior violenza quanto più essa si è rivelata a tutti, ormai, potente e popolare. Il tentativo, forse, stava o sta per riuscire. I radicali hanno ora raccolto la sfida, da intransigenti della democrazia quali sono.
Per questo, nei prossimi giorni, quando i radicali daranno il loro assalto non violento e durissimo perché sia reso al Paese il diritto - dovere di conoscerli per giudicarli mi auguro che i democratici sappiano schierarsi con loro. Altrimenti il partito radicale riconoscerà d'esser battuto, come lo furono gli Ernesto Rossi o gli altri radicali dal fascismo. E rifiuterà d'esser l'alibi libertario e laico di un regime violento e antidemocratico: quando il gioco democratico è truccato, almeno non ci si siede allo stesso tavolo dei bari.


Il segreto che Pannella ha svelato agli italiani

L'importanza di conquistare uno spazio in televisione

di Umberto Eco CORRIERE DELLA SERA, 5 maggio 1976

Mentre scrivo, Marco Pannella ha vinto - anche se non del tutto - la sua battaglia per apparire sui teleschermi. Ma a questo punto ci si può riproporre a nervi più distesi la domanda che Parise ha posto su queste colonne, se l'accesso alla televisione valesse il rischio della vita, se occorreva pagare tanto per qualcosa che altri hanno avuto per vent'anni senza pagare (che dico?, traendone dell'utile) e che a conti fatti vale assai poco.

A porre la questione in termini di sociologia delle comunicazioni, ancora dieci anni fa si riteneva che la televisione fosse uno strumento di persuasione che occorreva possedere ad ogni costo. La scuola di Francoforte ci aveva insegnato che i mezzi di massa erano i veri strumenti del Dominio. Ma le esperienze concrete dell'ultimo decennio hanno cambiato le carte in tavola. La DC ha posseduto la televisione per due decenni, a sentire i profeti apocalittici dei "mass media" vent'anni di televisione avrebbero dovuto produrre una generazione del consenso, capelli corti, casa e famiglia, legge e ordine. E invece Bernabei e Pippo Baudo, Willy De Luca e Mike Bongiorno, Andreotti che scopriva il monumento e Abby Lane che scopriva le gambe, Rumor Mariano e padre Mariano, Fanfani e Corrado impegnati entrambi a pubblicizzare la loro corrida, hanno prodotto i ragazzi del sessantotto, le femministe abortiste del settanta, il 13 maggio del settantaquattro e il 15 giugno del settantacinque. E quindi Henry Kissinger sa con chi deve prendersela.

Perché è successo questo? Perché Bernabei e Mike Bongiorno non sapevano il loro mestiere? No, specie il secondo. E' che un mezzo di massa non diffonde messaggi nel vuoto, li diffonde in mezzo ad altri messaggi e li fa arrivare nel vivo delle situazioni concrete. Gridare "allegria!" a un disoccupato produce strani e dialettici effetti. In termini più precisi, i messaggi dei mezzi di massa interagiscono con le circostanze sociali e vengono letti alla luce di molti messaggi alternativi. Non ultimo elemento è il fatto che nulla è più corrosivo della propaganda politica in televisione, nei modi almeno di "tribuna politica". Una indagine semiologica fatta qualche anno fa da Paolo Fabbri aveva mostrato che ogni uomo politico (di qualsiasi partito) messo davanti al teleschermo, non avendo più a che fare col pubblico riconoscibile e caratterizzato del comizio in piazza, presumendo giustamente di doversi rivolgere alla "media" dei cittadini, livellava le punte dei propri discorsi sulla media. Se era di destra correggeva il tiro a sinistra, se era di sinistra correggeva il tiro a destra, e il risultato finale era che tutti i discorsi erano di centro. Rari i casi di personaggio che supplisse a questo fatale assestamento degli argomenti con una presenza che in qualche modo "bucasse" lo schermo: per quel che ricordo citerei Pajetta. E forse Almirante, che si spostava talmente e con tanta improntitudine dall'immagine attesa dal pubblico, che qualche effetto lo faceva.
Se questi sono i fatti, se la Tv non è quel mezzo "potente" che tutti credevamo, se è vecchio principio della massmediologia che i messaggi si livellavano sempre sulla media, allora perché lottare per andare in Tv?

Direi che tutti questi interrogativi sono validi se si affronta la questione dal punto di vista della comunicazione così come la si concepiva. Ma il caso Pannella ci obbliga a spostare il fuoco del discorso, perché "Pannella è stato anzitutto in Italia una persona che ha cambiato il modo di concepire i mezzi di comunicazione di massa".

Se andiamo a rivederci i vari episodi della vita pubblica di Pannella (che qui viene assunto ad emblema del gruppo radicale in toto) si deve riconoscere che, indipendentemente dalla valutazione che si possa o si voglia dare delle posizioni ideologiche dell'uomo, Pannella ha anzitutto rivoluzionato i mezzi di comunicazione nel nostro Paese. Ogni iniziativa di Pannella consiste sempre in una operazione compiuta in un ambiente magari ridotto ma eseguita in modo tale da mettere in questione tutte le nostre aspettative; così da obbligare i mezzi di massa a parlarne. I radicali si lamentano che le loro iniziative hanno subito e che subiscono il boicottaggio dei mezzi di informazione, e probabilmente hanno ragione, commisurando gli effetti all'energia che hanno speso, ma sta di fatto che quel poco dei loro interventi che ha infranto la barriera del silenzio ha ribaltato il nostro modo di vedere le cose su molti problemi. Occupare l'Altare della Patria portando corone ai caduti visti come vittime e non come eroi, organizzare manifestazioni sul marciapiede e non in mezzo la strada per non disturbare il traffico, fumare droga dopo aver avvertito la polizia e non di nascosto (esigendo l'arresto), digiunare per acquisire un un diritto alla parola riconoscimento della Costituzione, tutte queste ed altre azioni hanno due caratteristiche. Anzitutto, si pongono "dentro" le istituzioni e rivendicano il rispetto delle istituzioni, ma mettono le istituzioni in crisi, perché ci si accorge che a rispettarle a fondo sorge una situazione insostenibile. E questo è un punto su cui Pannella è sempre stato molto esplicito, paradossalmente amplificando il suo legalitarismo. In secondo luogo obbligano la stampa e l'opinione pubblica a rendersi conto che le istituzioni sono in difetto e che là dove pareva esserci ordine e osservanza c'era invece prevaricazione, complicità e silenzio. In fine la comunicazione attuata dai gesti di Pannella riguarda sempre circostanze concrete ma si attua non "parlando" sulle circostanze, bensì "creando" delle circostanze di cui altri saranno obbligati a parlare.
Naturalmente messaggi di questo genere sono già in partenza messaggi alternativi che impongono di rileggere in una luce di diffidenza i messaggi ufficiali. Ciò che più conta è però che i messaggi di Pannella non sono mai oggetto, bensi un "processo".

Nel caso che stiamo discutendo, Pannella non vincerà perché andrà in televisione. Ha già vinto nel momento in cui ha mostrato a proprio rischio e pericolo "che" si ha diritto di andare in televisione, "come" bisogna lottare per ottenere questo diritto (dimostrando nell'ambito dei propri principi non violenti che si può vincere senza fare male agli altri, ovvero senza far male a degli innocenti) e spiegando ad ogni passo della propria azione "perché". Che ora Pannella abbia sei ore al giorno di televisione, o nessuna è irrilevante (non per lui, e non in pratica, ma in linea teorica): perché Pannella ha già detto all'opinione pubblica italiana, nelle fasi del processo per accedere alla Tv, più di quanto non dirà sui teleschermi. Anzi, più il potere gli ritardava l'accesso agli schermi, più Pannella stava parlando "a tutti" con effetti irreversibili.

Certo ci è bastato vedere Pannella a TG2 la settimana scorsa per capire che anche sullo schermo egli "buca" il video, proprio perché non dice quello che il pubblico ormai si attenderebbe da un uomo politico. Lasciandoci pensare che è possibile, oltre a un uso nuovo dei mezzi fuori del video, un uso diverso del video. Ma questo, insisto, non è la cosa più importante. Pannella in questo mese ha insegnato a molti italiani non come si possa fare buon uso dei mezzi che la libertà eventualmente ci consente di usare, ma come si fa a diventare liberi, e soprattutto a meritarselo.


PR: LISTE AUTONOME

NR10, 17 maggio 1976

Il 20 giugno, 40 milioni di italiani chiamati a rinnovare la Camera, il Senato, le amministrazioni locali, comunali, provinciali e regionali, troveranno sulla scheda il simbolo col pugno e la rosa del Partito Radicale. E' la prima volta in quindici anni. Si deciderà in quella data se il PR dovrà continuare a vivere come partito che lotta oltre che nel paese, anche in Parlamento oppure se dovrà scomparire.
E' dal 1974 che la mozione congressuale indica la prova elettorale come necessaria e indispensabile; la mozione approvata a Firenze il 4 novembre 1975 impegnava il partito "confermando il mandato del precedente Congresso" "a stabilire i tempi, i criteri, e le modalità della preparazione di liste radicali per le circoscrizioni della Camera e i collegi del Senato". E' quanto è stato fatto: su questo numero di NR diamo l'elenco dei candidati nelle 32 circoscrizioni e nei 230 collegi che la mattina del 16 maggio è stato depositato presso gli uffici elettorali.

Liste autonome, dunque, in tutta Italia. A questa presentazione si è giunti dopo che la Direzione del PSI si è assunta la responsabilità di rifiutare sia un accordo politico generale con il Partito Radicale, fondato sulla scelta abrogazionista del Concordato e il rifiuto delle tesi "revisioniste", l'impegno comune per la raccolta, nella primavera del '77 delle firme necessarie per indire il referendum. Per l'attuazione della Costituzione, un impegno preciso per garanzie legislative delle minoranze etniche e sociali, sia un accordo parziale per le liste unitarie al Senato e alle amministrative.
Rifugiandosi in una mozione ambigua che dichiarava la disponibilità ad un accordo elettorale generale che altro non era che un espediente tattico per rifiutare le proposte radicali senza opporre espliciti rifiuti, il gruppo dirigente del PSI (va notato che all'interno della direzione il compagno Loris Fortuna e Giacomo Mancino e la sua corrente) si sono sempre opposti alle fughe della maggioranza ricercando l'unità dei socialisti del PSI e del PR), in primo luogo il suo segretario politico Francesco De Martino, ha dichiarato la sua sostanziale incapacità di rinnovamento, ha dimostrato di non aver capito che il rafforzamento elettorale della componente socialista in Italia passa necessariamente attraverso l'assunzione di nuovi modi di far politica, diversi da quelli ormai logorati alla debilitante esperienza di governo di questi 14 anni. Il gruppo dirigente del PSI ha dimostrato il vuoto politico dietro alla scelta dell'"alternativa socialista" fatta dal 40° congresso, ha mostrato come sia ancora legato a schemi fondati sulla divisione dei posti di potere tra le varie correnti, ha mostrato infine, che è impossibile, finora, per molti socialisti libertari riconoscersi nelle strutture del Partito Socialista Italiano.

E' questo un giudizio severo, ma politico; siamo consapevoli dei rischi cui andiamo incontro, del fatto che in due giorni di elezioni si giocano venti anni di patrimonio di lotte. Ma se ora siamo in lizza, chiediamo di essere giudicati dai cittadini non è per ripicca o per formale ossequio alla mozione congressuale: è perché siamo coscienti che non è più possibile impedire al grande movimento per i diritti civili di esprimersi anche attraverso il voto, è perché non accettiamo il ricatto dell'"unità" che si fonda sulla scomparsa, sul dissolvimento della nostra identità, delle nostre speranze, e perché, e questo lo ha ampiamente illustrato la mozione del recente Consiglio Federativo, senza una forza radicale in Parlamento, che estenda i suoi metodi e la sua prassi in questa sede, l'istituto parlamentare subirà ancora e maggiori degenerazioni corporative di quelle che abbiamo visto in questa legislatura con il finanziamento pubblico dei partiti, l'uso fascista della Rai-Tv, l'insabbiamento degli scandali di regime.

Un giudizio ancora più severo va dato sul comportamento del PDUP e di Avanguardia Operaia che, motivandolo con pretestuose purezze ideologiche che hanno dimostrato di non esistere quando hanno dovuto accettare l'accordo con Lotta Continua, ha respinto l'accordo tecnico-elettorale il quale attraverso liste comuni in sole due circoscrizioni, avrebbe permesso con certezza quasi matematica il raggiungimento del quoziente per conquistare un gruppo parlamentare.
Partiamo soli, quindi, ma con la speranza di proseguire uniti. Ma sarà, non ce lo nascondiamo, una battaglia durissima; del nuovo, drammatico, forse tragico digiuno, parliamo altrove su questo giornale, ma è chiaro che senza l'accesso radiotelevisivo la presenza radicale si tradurrebbe in un avallo delle regole da bari che il sindacato dei partiti di regime ha imposto a queste elezioni. Ma se riusciremo a superare anche questo scoglio non è possibile affidarli, con incoscienza e presunzione, il (... ...) presenza televisiva di alcuni compagni per quanto grande sia il loro prestigio. La riuscita dipende da tutti noi, di tutti gli iscritti, sostenitori e simpatizzanti; dalla capacità di convincere noi stessi ed i nostri amici e compagni, di operare una capillare campagna elettorale, di partecipare alla sempre più urgente attività di militanza, di contribuire economicamente, oltre le proprie possibilità, alla disastrata situazione finanziaria del partito.
E' da questi gesti concreti che dipende se il 20 giugno sarà una vittoria in linea con quelle del 13 maggio e del 15 giugno, oppure segnerà la fine di speranze ventennali e la continuazione del regime e dei suoi metodi.


Quattro radicali in parlamento

Da ‘La sfida radicale’ di F.Morabito - SugarCo 77 - cap.27

"… Le elezioni, nel loro complesso, segnano un recupero della DC nei confronti dei risultati delle amministrative del 15 giugno, e una ulteriore avanzata del PCI; i due partiti ottengono insieme più del 73% dei voti, provocando una flessione più o meno grave degli altri partiti; solo i repubblicani riescono a riconfermare le loro posizioni. Grave la flessione del PLI e quella del PSDI, perdite anche per il MSI. Per i socialisti, invece, le perdite riguardano le regionali: ma rappresentano comunque uno smacco per le speranze del PSI, che era stato il promotore della crisi.

Le percentuali e i seggi alla Camera sono: DC 38,7% (262 seggi, ne perde 5); PCI 34,4% (228, li aumenta di 49); PSI 9,6% (57 seggi, ne perde 4); PSDI 3,4% (15 seggi, ne perde 14); PRI 3,1% (14 seggi, uno in meno); PLI 1,3% (solo 5 seggi, ne aveva 20); MSI-DN 6,1% (35 seggi, ne perde 21); PPST 0,5% (mantiene i tre seggi che aveva); Democrazia Proletaria 1,5% (6 seggi, non era rappresentata alla Camera). Degli altri 5 seggi assegnati uno è di una coalizione di sinistra, gli altri 4, come abbiamo visto, dei radicali. Come si vede, le elezioni si sono rivelate una grande vittoria del partito comunista, che ottiene risultati molto positivi anche al Senato, con l'aumento di 22 seggi. La DC mantiene quelli che aveva in precedenza. Si registrano perdite per i socialisti, per il MSI-DN, per i socialdemocratici, per il PLI. I repubblicani migliorano di un seggio, e il PPST conserva i due che aveva. Anche qui la radicalizzazione dei voti su due blocchi DC e PCI è evidente.

Durante la notte d'attesa i radicali ebbero momenti di speranza e di sfiducia. Durante la notte, presi da momentaneo sconforto per il timore di non ottenere neanche un posto al Parlamento, i dirigenti radicali avevano deciso di effettuare un congresso straordinario del partito per il suo scioglimento. Alle sette e mezzo però la radio radicale, che aveva allestito degli impianti di amplificazione nella piazza, annunciava l'elezione di quattro deputati, la presenza di "un peperoncino rosso nel cuore della sinistra". Il "quorum" era stato raggiunto nella circoscrizione di Roma-Viterbo-Latina-Frosinone con 57.935 voti: solo circa trecentocinquanta più del necessario. La percentuale nella circoscrizione fu dell'1,8%. E' da notare che a Roma città i radicali ottennero per la Camera il 2,5% con 47.952 suffragi, mentre per il comune e per la provincia, per le quali si era votato contemporaneamente, le percentuali furono rispettivamente dell'1,9% e del 2,3% (37.456 e 43.197 voti). Questo indica che probabilmente molti elettori votarono radicale solo per aiutarli a raggiungere il quoziente, e non perché effettivamente radicali. Si tratta di un dato che si può interpretare positivamente e negativamente. Negativamente, perché fa supporre che i radicali fossero meno di quanti sarebbero risultati essere il 20 giugno; positivamente, perché può essere interpretato come un'attestazione di simpatia e consenso al di là delle specifiche convinzioni politiche. Gianfranco Spadaccia, segretario del partito, in una dichiarazione pubblicata sul " Corriere della Sera" affermava: "In soli tre mesi ci siamo conquistati la fiducia di un elettorato che non ci conosceva. Dobbiamo questi risultati soprattutto alla nostra credibilità. Siamo l'unica forza politica che ha fatto sempre quello che aveva promesso di fare, il che È raro, in un paese dove i governi non governano e le opposizioni non fanno l'opposizione. E poi la gente ha capito che quello che La Malfa chiama il nostro utopismo, si lega a esigenze profonde e sentite di cambiare la qualità della vita. La Malfa è ridicolo, quando pensa di cambiare i consumi dei cittadini senza cambiare i valori, le aspirazioni, i rapporti collettivi e individuali sui quali è fondata la nostra convivenza".

In un comunicato emesso in seguito al risultato elettorale, il PR commentava così la propria affermazione: "Il partito radicale si era proposto di portare in Parlamento una testa di ponte del movimento per i diritti civili che si era affermato nel paese. Questo obiettivo, che da tutte le parti era stato considerato assurdo e folle, è stato conseguito nonostante l'indegno comportamento di censura della quasi totalità della stampa italiana nei confronti delle liste radicali".

Un altro comunicato veniva divulgato dal Movimento di liberazione della donna:
" La presenza delle candidate radicali nella campagna elettorale è stata l'unica garanzia e l'unica alternativa offerta alle donne (...) le donne vogliono cambiare: non è la volontà che manca, ma un preciso discorso politico da parte della sinistra".

Il FUORI!, in un comunicato emesso dopo le elezioni, definì la vittoria radicale " un momento storico per il movimento di liberazione omosessuale in Italia (...) tutte le battaglie, socialiste laiche e libertarie, da sempre combattute per le strade e sui marciapiedi esploderanno anche in Parlamento".
L'" Osservatore romano" commentò che la presenza in Parlamento dei radicali, come di Democrazia proletaria, " non potranno non condizionare in maniera negativa la vita politica del Parlamento italiano".

Emma Bonino, in un'intervista pubblicata su " Repubblica", avvertiva che il movimento femminile avrebbe dovuto assolvere una funzione autonoma nel Parlamento: " Non ci sentiamo, neppure all'interno del partito radicale, di delegare qualcuno, Spadaccia, Pannella, sui nostri problemi. Il femminismo lo facciamo noi, guai se ci appoggiassimo al partito".

Ma dove e da chi il PR aveva attinto i propri voti? Così Pannella a un giornalista de " il Giornale nuovo":
" Più del sessanta per cento del nostro elettorato è nel Nord. Se vogliamo fare il discorso da destra, gobettiano, dice il vecchio liberale, è nella ‘struttura industriale’ che troviamo il sentire e il pensare radicale. La borghesia non c'entra: la borghesia radicale sta col ‘Manifesto’, gli intellettuali di sinistra stanno col PCI e coi demoproletari, gli altri stanno con la liberaldemocrazia (...). A Roma abbiamo intervistato. centinaia di nostri elettori: il 60% proviene dal PCI, il 20% dai socialisti e dai laici, il rimanente 20% dal MSI e dalla DC".

Nella stessa intervista, Pannella sosteneva essere un errore contestare ai radicali di muoversi nell'area della sinistra: " Il liberalismo è sempre ``terzo stato''. Oggi il terzo stato è il proletariato. Dobbiamo lottare nel proletariato per toglierlo all'egemonia comunista. I comunisti sono i giacobini, noi non lo siamo".
La sera del 23 giugno la televisione manda in onda, nell'ambito della rubrica " Tribuna politica", una trasmissione di commento ai risultati delle elezioni, alla quale partecipa, in rappresentanza del partito radicale, lo stesso Pannella. La domanda-tema della trasmissione è che cosa i partiti pensano che si possa fare per dare al più presto un governo al paese, nella nuova situazione parlamentare. Pannella risponde:
" Per quello che ci riguarda riteniamo che questo Parlamento sia molto brutto. E' in realtà il Parlamento del colpo di coda e del canto del cigno della vecchia classe dirigente. Sono riusciti, in fondo, a far sì che il Parlamento del 1976 rappresenti n‚ più n‚ meno che l'Italia degli ultimi trent'anni: il monopolio dell'apparente governo alla DC, il monopolio dell'apparente opposizione al partito comunista. (...) Noi non siamo molto ottimisti, ma sappiamo anche che i governi non governano in Italia. Governano le baronie economiche, governa il SID, governa il sindacato, governa il partito comunista. Ma dei veri governi, quelli capaci di riforme, di dare un volto e una struttura nuova al paese, certo non nasceranno da questo Parlamento. Ma da questo Parlamento dobbiamo cercare di tirar fuori il meglio possibile. (...) Cosa faremo? Noi abbiamo gettato una testa di ponte in questo Parlamento, per il grande movimento dei diritti civili che rappresentiamo. O una testa d'ariete. Useremo i referendum, statene tranquilli. Useremo il Paese, perché siamo il Paese, siamo la gente. E lo useremo per battaglie della libertà. Cominceremo con l'aborto, dove c'è una maggioranza abortista e vedremo se si ricominceranno a sinistra le vecchie storie. Continueremo con l'applicazione della Costituzione: dopo trent'anni, colloqui su questo argomento non se ne faranno. E se si faranno colloqui, arriveremo ben presto, poi, fra due anni, fra due primavere, a dei referendum come quello del 13 maggio; il colloquio coi clericali, il colloquio con un certo tipo di capitalismo, non si faranno. L'unica linea possibile in Italia è quella dell'alternativa laica, libertaria e socialista e anche liberale. E questa passa attraverso una maggioranza che ancora non è possibile in Parlamento, ma passa attraverso le grandi lotte di massa, passa attraverso quell'anticipazione di volto della sinistra che noi dobbiamo ai quattrocentomila elettori che hanno avuto il coraggio e la chiarezza di darci il loro voto in queste condizioni".
Pannella, che tra i radicali è risultato il più votato, e che per la Camera, nella circoscrizione comprendente Roma, ha ottenuto 21.679 preferenze - precedendo largamente la Bonino (12.531) - rende noto nei giorni immediatamente successivi all'esito elettorale, il proposito che i quattro radicali eletti lascino a metà legislatura il loro posto ad altri radicali.

Per quanto riguarda il finanziamento pubblico dei partiti, il PR decide di rinunciarci, e di accettare soltanto il sovvenzionamento stabilito dalla legge per la campagna elettorale.
In un intervento pubblicato dal "Corriere della Sera", il segretario del PR Spadaccia chiarisce quali saranno le prime iniziative parlamentari dei radicali eletti. "Chiederemo subito l'approvazione della legge sull'aborto - dice Spadaccia. - E subito dovremo affrontare il problema del finanziamento pubblico dei partiti. Il finanziamento elettorale ci sembra giusto e lo accetteremo. Dobbiamo pagare novanta milioni di debiti, fra l'altro. Ma contro il finanziamento dei partiti continueremo a batterci. E prenderemo una serie di iniziative sui diritti civili: sindacato di polizia, diritti dei militari, emendamenti alla legge sulla droga. Ci batteremo a fondo perché il Parlamento incominci a funzionare".
I quattro radicali eletti si dimettono formalmente dal partito; gli eletti nelle liste radicali, come previsto dallo statuto, " non sono vincolati da mandati né da alcuna disciplina… ".


O vincere o morire

di Marco Pannella - LA PROVA RADICALE, luglio/agosto 1976

Mancano dieci giorni alle votazioni. Scopriamo casualmente che, se ce la facessimo, avremmo diritto a più di 200 milioni di rimborsi di spese elettorali. Ne parliamo con Gianfranco e Paolo. Conoscono le mie previsioni. E' più che probabile che non ce la facciamo. Se si votasse l'indomani, i voti probabilmente ci sarebbero, ma è già cominciato il prevedibile gioco di massacro. Non ci restano che sei minuti di Televisione. Non abbiamo una lira per pubblicità sui giornali, per qualche manifesto, per qualsiasi altra iniziativa. Ci spostiamo per i comizi arrangiandoci di tasca nostra, facendo debiti personali. Intanto, finiti i digiuni, gli scontri con il PCI per le liste, il silenzio è calato; non una parola è detta o scritta sui nostri obiettivi politici, sugli argomenti che svolgiamo, sui progetti generali.

I segni che abbiamo trasmesso alla Rai-Tv, saranno cancellati dal bombardamento congiunto della censura e della mistificazione. Se solamente riuscissimo a fare un solo annuncio di mezza pagina il venerdì prima del voto su tutti i quotidiani! Certo, non raggiungeremmo che un decimo dell'elettorato: ma sicuramente basterebbe a consentirci di trattenere il necessario, il sufficiente. Dieci giorni prima avevo ordinato un sondaggio demoscopico su Milano città. I risultati che arrivano sei giorni prima delle votazioni sono una conferma: abbiamo il 2 per cento di elettori, proiettando questa percentuale sull'intera circoscrizione dovremmo farcela ad avere più dell'1,6 per cento necessario per il quoziente. Ma se perdiamo anche solo qualche voto già adesso abbiam chiuso. E c'è ancora quasi una settimana prima del voto.

La situazione è tragicomica. Se avessimo il danaro, anche in parte, che per legge dovremmo avere rimborsato entro un mese dalle votazioni, è matematico, a nostro avviso, che ce la facciamo. Basterebbe un prestito, anche a strozzo. Non riusciamo ad averlo e siamo praticamente sicuri di essere sconfitti. In poche ore ci rivolgiamo da tutte le parti, davvero tutte quelle immaginabili, con angoscia crescente, mentre continuiamo i comizi in tutta Italia, con gli aerei in sciopero, i treni in ritardo, i compagni ormai scoppiati.
Si viaggia in macchina di notte, tenersi in contatto con il telefono e la teleselezione è un'impresa allucinante. Intanto attorno l'entusiasmo, il sostegno sembrano moltiplicarsi. Non ci credono: è per esorcismo - pensano - che continuiamo ad ammonire: stiamo per essere battuti. Così si aggiunge l'altro pericolo: non si voterà sia per paura di disperdere voti, sia perché "tanto ormai, ce la fanno".

Dalla Sicilia a Milano ho cercato di capire, dopo trent'anni che faccio politica, come è possibile trovare non tanto un "finanziamento" quanto un prestito di venti giorni. Siamo disposti a tutto, a esporci personalmente. Sembra aprirsi uno spiraglio.
A Milano un gruppo di ex-giovani industriali progressisti, un paio "radicali" scalfariani, si sono fatti vivi, dopo quasi vent'anni di sprezzante e totale silenzio. Da loro nemmeno diecimila lire, in tanti anni, per le lotte per i diritti civili. Ma trovano d'un tratto, che siamo poco gentili con Scalfari.
Portano allora alla sede lombarda un milione in contanti. Glielo restituiamo (Paolo rischia l'infarto) con un telegramma: "tenetelo per la quindicesima del maggiordomo o per la mancia ai vostri servi".

Penso allora ad un tentativo che, comunque vada, valutiamo come politicamente redditizio. Cerco di sapere dov'è Gianni Agnelli. In Spagna, mi dicono. Non ho passaporto: non me lo rinnovano da anni. Devono temere che anch'io, come Saccucci, possa rifugiarmi all'estero. Pazienza per trent'anni di moralismo: telefono a Cossiga chiedendogli se può farmi avere un qualcosa, un lasciapassare, un rinnovo per 24 ore. E' gentilissimo. Il Questore di Roma mi telefona assicurandomi un rinnovo per qualche giorno, in attesa che sia possibile far meglio. Gli aerei partiranno? Anni fa la polizia spagnola non mi lasciò entrare. Ora? Ma finalmente apprendo che Agnelli è tornato a Torino. Sono le 7 di sera. Mi dice che fra due giorni sarà a Roma, e possiamo vederci in questa occasione. Devo dirgli che ho poche ore per sottoporgli un problema: se non può non fa nulla. Ma dovrei vederlo al massimo questa notte. Alle 11,30 di domattina devo essere a Palermo. Non so se troverò un aereo ma proverei ad andare subito a Fiumicino. Lì ci sono dei compagni che mi aiutano, che non conoscevo fino a ieri. Riesco a partire per Genova e non per Torino. L'avvocato, gentile, mi aveva quindi inutilmente mandato a prendere all'aeroporto di Caselle.
Arrivo a casa sua verso mezzanotte. Il programma era di trattenermici mezz'ora al massimo. L'avvocato è andato a letto ma nell'ipotesi ch'io arrivassi sono suo ospite per la notte. Così ci vediamo all'alba. Gli spiego la faccenda: prestito di venti giorni, fideiussione in una banca, avvallo di una cambiale, che so io? E' imbarazzato. Si consulta al telefono. Capisco con chi e comincio a divertirmi: l'avvocato sa benissimo che sarà sconsigliato. "Certo - mi dice - bisognerebbe trovare qualcuno disposto a "puntare" su di voi; sportivamente, non dico altro. Sa che forse a Roma potrebbe farlo..."
"No, avvocato, lo chiedo a lei, e vi sono poche ore, anzi un quarto d'ora, perché se no perdo l'aereo".
"Vede, io dovrei far risultare l'operazione o sulla contabilità dell'azienda o su quella... Se si venisse a sapere, anche per lei...". A proposito, avvocato, dimenticavo appunto di dirle che per noi, se la cosa si fa, non può che essere pubblica. Quindi non si preoccupi. Non è mica la storia dei quattrocento milioni a Sogno, con i suoi golpe.
A questo punto anche l'imbarazzo va via. "Mi spiace, non posso proprio". Certo, avvocato.

A mezzogiorno sono a Palermo, alle cinque a Messina, alle nove a Catania, alle tre del mattino di nuovo a Palermo, dove troviamo un albergo alle cinque, ed alle sei e mezzo si dovrebbe partire per Milano, dove si arriva alle dodici, per registrare l'ultimo appello regionale, parlare alle cinque a Pavia, alle sette a Lodi, poi a Monza... Non ho nemmeno il tempo di dire a Roma che tutte è stato inutile. Paolo lo capisce e con i dieci milioni cerca di fare qualche piccolo annuncio. Di tutta la stampa italiana accettano "Il Messaggero" per intervento (bontà sua!) della proprietà, e "Il Tempo". Intanto Berlinguer ci ha aggredito nella sua conferenza-stampa alla televisione. Siamo dei mentitori e degli esibizionisti. "Paese Sera" compie la sua opera di "killer" di Cefis, Agnelli, del "partito". Fino all'editoriale che ri-pubblichiamo qui accanto: tanto non possiamo rispondere. Arrigo Benedetti firma queste raffiche a pallettoni, da mafiosi: le firma, per l'esattezza per poter essere a qualsiasi costo, ancora, "direttore". Il PCI s'era accorto prima di noi che davvero a centinaia di migliaia di compagni comunisti stavano per votare a nostro favore.

Gli ultimi comizi sono "trionfali". A Milano piazza Duomo è gremita fino a mezzanotte da gente commossa, entusiasta. Dico loro: non ce la faremo. Spiego perché. Non ci credono. E' impossibile: nessuno ha riempito così la piazza, e qui non c'è più curiosità. Un mese di campagna l'ha soddisfatta. Qui ci sono elettori, ed elettori decisi. I risultati mi hanno dato ragione: a Milano non ce l'abbiamo fatta. Torno a Roma. Non resta, ora, che sedermi per 19 ore, o più, di seguito a Radio Radicale. Per la prima volta da mesi, dopo i digiuni, i comizi, le riunioni, le notti insonni e i giorni quasi allucinanti anche se le une e gli altri così pieni di vita, di amore, di dialogo, di battaglie vinte, mi offro una passeggiata. Vado a piedi, dal partito alla Radio, a Monteverde Vecchio. Attraverso piazza Navona, via Giulia, il Tevere, dirotto un pochino fino a Regina Coeli poi su per via Garibaldi, Porta San Pancrazio. E' un tramonto terso, caldo, appena primaverile. In tanti mi fermano, mi dicono "andrà bene".

Poi quelle incredibili trenta ore di dialogo senza sosta, dalla radio, ai telefoni, quella marea di amicizia, di comprensione, di crescita comune, di nuovi e vecchi compagni, di notti insonni di famiglie intere, riunite dopo chissà quanto, di voci dai letti, di emozionata fiducia e scoperta di sé, prima ancora che degli altri, e le voci dei ciechi, dei ciechi d'ogni sorta, che sempre, tutti, siamo e non sappiamo d'essere. Non ce l'abbiamo fatta, compagni, amici, ma abbiamo ancora mezza notte, davanti, e un rimasuglio d'alba, e ancora un'ora.

Continuiamo così: comunque, a questo punto, ci sarà andata bene, anche se il partito sarà finito, il partito appena scoperto, sentito, amato.
Invece, perché abbiamo insieme saputo vedere, vedere con coraggio, cioè con chiarezza, perché abbiamo saputo non mentire, non mentirci; perché fino all'ultimo non abbiamo abbandonato la speranza riconquistata nell'importanza di ciascuno di noi, forse solamente all'una o alle due di lunedì 21 giugno ce l'abbiamo poi fatta.
Grazie a trecento di noi, trecento su quaranta milioni; per trecento crocette di matita, meno di quelle che si fanno per una "battaglia navale", abbiamo salvato quattrocentomila voti, speranze. Non abbiamo consentito che si disperdesse un solo voto. Siamo stati felici e torneremo altre volte ad esserlo insieme a tanti altri, felici e più liberi. Mica male, no? "avvocato" Agnelli.


MA L'ANTIMILITARISMO NON VA IN SOFFITTA

di Rosa Filippini PROVA RADICALE, giugno 1976

SOMMARIO: Rosa Filippini lamenta il rischio che la Lega degli obiettori di coscienza perda il carattere antimilitarista delle origini, constatando anche che a tre anni dall'approvazione della legge in materia non vi è stata una crescita quantitativa di coloro che hanno scelto il servizio civile. A suo giudizio, l'iniziativa del movimento è stata frenata dal fatto che la Lega, per supplire alle carenze del Ministero della difesa, abbia dovuto addossarsi l'intera organizzazione del citato servizio; si è finito così per identificare le finalità di questo con quelle della Lega. Gli obiettori organizzati nei coordinamenti regionali attribuiscono la responsabilità della crisi alla "linea radicale", rimproverata di svolgere una politica teatrale e fine a se stessa, distaccata dagli interessi delle masse, senza però proporre alternative valide. La spaccatura è stata ricomposta dall'intervento di Pannella, presidente della LOC: esistono quindi le basi per una ripresa del movimento.

"C'è un ente, compagni, con cui dobbiamo sbrigarci a prendere contatto per "farne scoppiare le contraddizioni", per "deistituzionalizzarlo". Questo ente si chiama esercito, "assiste" circa 300 mila ragazzi l'anno, ne incarcera altri 6 mila e non sappiamo quanti ne rende pazzi. Prende i soldi dalle nostre tasche, è un ente inutile, ma ancora nessuno si è proposto di abolirlo. Nemmeno in questo congresso se n'è parlato". Al terzo congresso della Lega degli obiettori di coscienza (1-2 maggio) parla Dalmazio Bertulessi, 22 anni, metalmeccanico, appena uscito dal lager di Gaeta, dopo avervi scontato 16 mesi per il rifiuto del servizio militare e del servizio civile. Non ha torto: in questo congresso, a cui hanno partecipato circa 200 obiettori in servizio civile o in attesa di partenza, di antimilitarismo di è parlato solo come al congresso della DC si parla della Resistenza. Si nomina continuamente, ma non si sa cosa sia, è presente in tutti i discorsi, ma solo in quelli. L'attività del movimento si limita in questo momento agli interessi immediati dei giovani in età di leva che hanno scelto il servizio civile.

Il pericolo di un'involuzione corporativa è esistente. Alle proposte dei vecchi dirigenti radicali nonviolenti le risposte dei nuovi obiettori appaiono deludenti: "Le marce antimilitariste? Come si fa a partecipare? Ci sono gli orari di lavoro, i vecchietti da assistere, il distretto che non concede la licenza, il direttore dell'ente che ci denuncia ai carabinieri...". "Per far passare una nuova legge prenderemo contatto con l'ente Regione... chiederemo ai consigli comunali di far pressione sulla commissione parlamentare... fra due o tre anni di vedrà...". Nel frattempo la mancanza di iniziative politiche, l'indebolimento del carattere antimilitarista nonviolento del movimento hanno già prodotto effetto negativi: a tre anni dall'approvazione della legge non c'è stato neanche una crescita quantitativa, gli obiettori che hanno svolto, stanno svolgendo o hanno richiesto di svolgere il servizio civile non hanno superato il migliaio. Né basta la maggiore durata nel servizio per giustificare la preferenza che i giovani di leva continuano a dare al servizio militare.
Nei primi due ani di vita il movimento, con una forte caratterizzazione antimilitarista, e malgrado i pochi militanti, aveva realizzato una serie di conquiste che rendevano l'obiezione di coscienza un'alternativa credibile in concreto, molto più che negli altri paesi europei.
Ma a quel punto, per supplire alle carenze del ministero della difesa, la lega ha dovuto addossarsi l'intera organizzazione del servizio civile: reperire gli enti disposti a utilizzare gli obiettori, organizzare i corsi di formazione e i successivi distaccamenti. Questa prova di forza e di responsabilità si è trasformata ben presto in un carico organizzativo eccessivo che ha frenato l'iniziativa e la forza contrattuale del movimento. Tutti i giovani alle prese con i problemi di destinazione, per il solo fatto di aver presentato domanda di servizio civile ritengono di farne parte. Alcuni, forse scambiandolo per un ufficio distaccato del ministero della difesa, scrivono alla sede centrale lamentando i ritardi nell'accoglimento delle domande o del disbrigo delle pratiche burocratiche.

A questo punto, trasformata la sede centrale in un ufficio di collocamento, le sedi periferiche sono praticamente morte, e gli unici centri di attività rimangono i collettivi di obiettori in servizi presso i vari enti, organizzati in coordinamenti regionali. Ma proprio questi compagni, pressati dai problemi che affrontano ogni giorno nelle realtà in cui operano, hanno finito per identificare le finalità del servizio civile con quelle del movimento. Rifiutano perciò ogni iniziativa politica di disobbedienza civile che possa mettere il ministero della difesa di fronte all'alternativa: consentire finalmente un servizio civile autodeterminato e autogestito, o prendersi la responsabilità di rispedire tutti in galera come prima dell'approvazione della legge.
La paura è di affossare il servizio civile com'è per cui propongono di cercare invece "le alleanze con le forze democratiche", e finiscono in pratica con l'accettare la dipendenza dal ministero della difesa, né più né meno che i militari di leva.
Ridotti così gli interessi al solo servizio civile, sono scomparse dai congressi tutte quelle componenti, un tempo assai vive, che sono interessate all'antimilitarismo nonviolento, ma non hanno problemi di leva.

Alle critiche, gli obiettori organizzati nei coordinamenti rispondono addossando la responsabilità della crisi a quella che definiscono la "linea radicale" e che in realtà è la stessa linea dei dirigenti storici nonviolenti del movimento come Pinna, Soccio, Fiorelli, che non sono mai stati iscritti al Partito Radicale. Afflitti da complessi d'inferiorità nei confronti della "sinistra di classe", rimproverano ai radicali di voler strumentalizzare il movimento per una politica di élite fatta di azioni teatrali, provocatorie, fine a se stesse. Insomma, una politica distaccata dagli interessi delle masse, dalle lotte operaie; in una parola, borghese.
Ma quanto a proposte alternative, niente: tranne la stanca riproposizione d'iniziative per far approvare una legge migliore sul servizio civile (da notare che la legge era stata elaborata da esponenti radicali negli scorsi anni, e avrebbe potuto essere già approvata, ma allora, era ritenuto da questi stessi compagni, un problema marginale).
Un intervento di Pannella, presidente della LOC, al suo sesto giorno di digiuno integrale, il 1° maggio, ha contribuito a calmare gli animi e a trovare un'intesa. Si è votato così una mozione unitaria, subito definita il "compromesso storico" degli obiettori, che consentirà la crescita di entrambe le componenti. Una spaccatura avrebbe causato la morte del movimento.
Esistono quindi le basi per una ripresa della Loc: ma questo dipenderà ormai dalla capacità politica della nuova segreteria, che è formata tutta da obiettori in servizio civile.


Relazione del tesoriere Paolo Vigevano al XVI Congresso del PR

Roma, 16, 17 e 18 luglio 1976

Caratteristica del Partito Radicale è stata in questi anni la pratica del più rigoroso autofinanziamento. Abbiamo affrontato queste elezioni in condizioni difficili e quasi disperate. Lo erano, sì le condizioni politiche generali. Ma lo erano a maggior ragione le condizioni economiche e finanziarie del partito che partiva con un deficit di venti milioni, senza nessuna prospettiva di finanziamento che non fosse quella dei propri iscritti e simpatizzanti. Oggi possiamo dire che abbiamo superato questa prova grazie allo sforzo dei vecchi e dei nuovi radicali, con l'autogestione libertaria della campagna elettorale.
E l'abbiamo superata mantenendo intatta questa connotazione fondamentale per un partito libertario. La nostra campagna elettorale l'hanno pagata gli iscritti al partito, i sostenitori non iscritti i simpatizzanti, gli elettori. Ringrazio perciò, i seimila militanti e potevano essere di più, che negli ultimi due mesi hanno consentito di affrontare e di superare la campagna elettorale. In due mesi seimila persone hanno mandato il Loro contributo al Partito radicale.

Hanno garantito spese per circa ottanta milioni, che abbiamo sostenuto a livello centrale. Sono stati senz'altro più di 6.000 perché molte sedi non ci hanno ancora mandato gli elenchi dei nuovi iscritti e dei sostenitori. Potevano essere molti di più se avessimo potuto utilizzare la televisione come hanno fatto i partiti che erano già rappresentati in Parlamento, se avessimo potuto impegnare subito tutte le nostre forze nella campagna elettorale anziché essere costretti noi soli con Lotta Continua, a raccogliere le firme per la presentazione delle liste elettorali. Sarebbero stati di più se avessimo potuto attuare una campagna elettorale più ricca, se avessimo avuto a disposizione il finanziamento pubblico, la partecipazione in imprese, l'utilizzazione di fondi più o meno neri come gli altri partiti.
Ma ormai questo è un dato storico del partito radicale, che riesce a vivere proprio perché accetta sempre di passare attraverso queste prove rifiutando soluzioni facili ma che alla fine risulterebbero perdenti e letali.

Oltre ai seimila sostenitori mi pare doveroso ringraziare i nostri fornitori che se da una parte hanno accettato un rischio, testimoniano anche il credito non solo politico, ma di corretta gestione finanziaria che il partito radicale ha saputo acquistare grazie all'opera di Peppino Ramadori, Walter Baldassarri e gli altri tesorieri che mi hanno preceduto.
Nel bilancio una delle voci di spesa più rilevanti è quella di pubblicità a pagamento sui quotidiani.
E' una spesa che abbiamo dovuto affrontare per vincere sin dai primi giorni del digiuno di Marco, Gianfranco, Emma e degli altri 100 compagni radicali il silenzio che la stampa, i mezzi di comunicazione di massa avevano fatto calare sull'iniziativa del partito radicale. Solo la vittoria temporanea della lotta per l'informazione ha consentito ai cittadini di conoscere e di sostenere con i loro contributi la campagna elettorale del Partito.

Negli ultimi giorni della campagna elettorale avevamo bisogno di pubblicare su tutti i giornali una pubblicità elettorale che ci consentisse di guadagnare quegli ultimi sette-ottomila voti che ci avrebbero portati almeno due deputati in più.
Avevamo bisogno di quasi cento milioni. D'accordo con Marco e Gianfranco ci siamo messi a cercare un prestito che ci consentisse di affrontare quest'ultima decisiva spesa. Ci siamo rivolti ai rappresentanti di quel capitalismo illuminato, che nonostante le professioni di radicalismo erano riusciti a far sgusciare dai propri bilanci i milioni per le campagne elettorali di candidati democristiani o repubblicani. Abbiamo ricevuto solo una serie di no.
Abbiamo così rinunciato al nostro progetto e abbiamo ripiegato su un piano ridotto interamente pagato dai contributi dei nostri iscritti e simpatizzanti che si sono sottoposti ad un ultimo sforzo.
Ciononostante il 20 Giugno Paese Sera usciva con allusioni pesanti sulle nostre fonti di finanziamento. Saranno stati soldi della CIA... La nostra CIA sono seimila cittadini che hanno capito che la lotta politica va pagata da coloro che hanno interesse e voglia di lottare.

A questo punto, nel momento in cui il partito è cresciuto, che è passato in due mesi da 130 a 240 tra sedi e recapiti associativi, nel momento in cui migliaia di nuovi simpatizzanti ci conoscono e si avvicinano al partito, dobbiamo renderci conto che o si continua così come in passato o si muore come partito.
Dobbiamo perciò conservare la quota annua d'iscrizione al partito a 15.000 lire, certamente la più alta tra tutti i partiti. Perché l'iscrizione al partito radicale è il primo atto di militanza, di impegno politico e di partecipazione al finanziamento e all'attività del partito.
Dobbiamo rilanciare la campagna di autotassazione di tutti gli iscritti e dei simpatizzanti.
Dobbiamo essere in grado di rinunciare ai miliardi del finanziamento pubblico, che comunque rifiuteremo perché non solo in un partito come il nostro, ma in un qualsiasi altro partito accettare il finanziamento pubblico equivale ad accettare la nazionalizzazione del partito. La fisionomia del partito radicale ne sarebbe stravolta, non resisteremmo alla tentazione del funzionariato, ai viaggi pagati, rinunceremmo a cercare i mezzi di autofinanziamento anche per le piccole cose.
Di fatto i rimborsi che vengono dati ai compagni che lavorano anche a tempo pieno, sono appena sufficienti a sostenere le spese vive e non costituiscono certo un presupposto per qualsiasi forma di funzionariato. Il problema sarà semmai quello di coprire una serie di servizi come la contabilità e il tesseramento che richiedono collaborazioni professionali e come tali sarà forse il caso di affidarli a collaboratori esterni.

Il nostro no al finanziamento pubblico deriva da questo rifiuto di principio che trova una conferma immediata se esaminiamo quali sarebbero gli effetti nel nostro partito.
L'alternativa che ci può venire proposta è quella di non utilizzare il finanziamento pubblico per fini di partito, continuando a risolvere con l'autofinanziamento le spese di gestione e di investimento politico destinando ad investimento politico non strettamente di partito la quota di finanziamento pubblico che ci spetterebbe.
Non mancherebbero certo in questa seconda soluzione le ipotesi di impiego. Alcune ne sono state proposte, come quella di Radio Radicale e di alcuni ascoltatori e simpatizzanti di finanziare una rete di radio e di televisioni libere, o di una stampa di impostazione radicale, ma indipendente dal partito suscettibile di auto-finanziamento dopo le spese di avvio che graverebbero interamente sul bilancio del partito fino all'ipotesi di impiegare di volta in volta i fondi per scopi di interesse sociale.Non è una soluzione nuova, il PCI l'ha già realizzata investendo i fondi in spese aggiuntive e non in spese ordinarie.
A questa soluzione si possono fare diverse obiezioni; prima di tutte che anche per queste iniziative devono valere gli stessi argomenti che per il finanziamento dei partiti, cioè devono essere anche queste iniziative politiche autofinanziate. La seconda obiezione è che anche se il partito investe questi fondi in maniera diversa, il meccanismo legislativo continuerebbe a operare per gli altri partiti.

L'unica soluzione che possiamo adottare e che propongo in sede congressuale è quella di rifiutare semplicemente il finanziamento pubblico, di farne richiesta e di congelarlo su di un conto corrente a firma di quattro garanti ed evitare così che in base alla legge sul finanziamento pubblico venga ripartito tra gli altri partiti, utilizzando semmai le somme necessarie a garantire la contabilità che la legge sul finanziamento pubblico richiede.

Quello che invece chiedo è che il congresso impegni il partito allo studio di una legge che garantisca il finanziamento dell'attività di partito, di sedi, di tipografie, di ambienti dove tutti possano svolgere le iniziative politiche di base. Per questo propongo fin da ora che si individuino gli edifici pubblici non utilizzati da chiedere alle amministrazioni locali dove possono svolgersi attività politiche aperte a tutti i partiti. Come primo atto di disobbedienza civile, dove questi edifici non vengono concessi, propongo che vengano occupati e adibiti a sedi aperte a tutte le iniziative politiche militanti di base.
Dobbiamo riportare l'attività politica alla portata di tutti i cittadini. Dobbiamo evitare l'illusione che l'alternativa si possa costruire continuando a considerare i partiti come isole nella società. La nostra forza è stata quella di esserci sempre proiettati verso l'esterno, e di non essersi mai chiusi all'interno del nostro partito, questa è una delle condizioni generali della democrazia nel paese.
Parliamo in questo congresso di una crisi nell'area socialista, ma non si individuano le ragioni di questi errori se ci si limita ad analizzare gli errori di impostazione della strategia generale o la mancanza di una linea alternativa. Senza scendere all'esame dettagliato delle strutture del partito socialista, la sua mancanza di una alternativa è in queste strutture e nei metodi e nei modi di essere di questa organizzazione socialista prima che nella linea politica.
Il partito che diventa tributario del potere, dei finanziamenti prima occulti e poi pubblici del potere è un partito che perde il suo radicamento di classe e che da forza di classe all'interno delle istituzioni rischia di diventare un cuneo del regime all'interno della classe.
Il nostro dissenso non riguarda solo il Partito Socialista di oggi, ma la storia della sinistra in Italia è costellata di esempi simili. Basta pensare al PSIUP che nacque come speranza del rinnovamento socialista nel 1964 contro il centro sinistra e si dette subito, contraddicendo questa speranza, strutture elefantiache e burocratiche che presto ne uccisero ogni autonomia.
Più recentemente abbiamo appreso che prendeva i soldi dalla Esso e dalla Gulf come un qualsiasi partito di regime. Li prendeva anche dall'URSS e questo spiega il suo atteggiamento al tempo dei fatti di Cecoslovacchia. E' un esempio ammonitore per noi e per tutte le forze della sinistra.

Abbiamo invece deciso di accettare il rimborso delle spese elettorali. Si tratta anche questa di una legge sostanzialmente sbagliata, in quanto prevede che il rimborso venga assegnato soltanto ai partiti che abbiano raggiunto il 2% dei voti o un quorum e almeno 300.000 voti. Sono limiti estremamente restrittivi, studiati in funzione del Partito Repubblicano ai tempi dell'approvazione della legge. Tuttavia il principio del rimborso elettorale è sostanzialmente giusto in quanto tende a ridurre le spese elettorali e a moralizzare la campagna elettorale. E' una legge che va cambiata, che non ha senso da sola se non c'è la possibilità di fatto da parte di tutti i partiti, anche quelli non rappresentati in Parlamento, di accedere alla televisione e di disporre dei canali di informazione di massa alla pari con tutti gli altri partiti.
Quando accanto al bilancio della gestione della sede nazionale avremo anche i bilanci di tutte le associazioni e di tutti i partiti regionali, vedremo che la spesa globale sarà molto vicina alla cifra prevista dal rimborso elettorale. Tuttavia il rimborso elettorale verrà utilizzato per coprire parte dei debiti contratti nel corso della campagna elettorale, per la parte restante dovrà essere investito interamente nelle iniziative politiche sulle quali questo congresso straordinario e quello ordinario di novembre impegnerà il partito.

Si pone ora il problema del funzionamento delle strutture di partito, della stampa, della comunicazione con gli iscritti e simpatizzanti e con l'esterno. La stampa di partito deve continuare come in passato come organo di comunicazione interna il più snello e il più essenziale possibile. A questo scopo il collettivo stampa che è sorto intorno alla Agenzia Notizie Radicali ha messo in cantiere e pubblicherà fino dalla prossima settimana un bollettino decadale indirizzato a tutti gli iscritti e simpatizzanti. Per quanto riguarda l'informazione rivolta all'esterno dovremo continuare a lottare per conquistare spazio sulla stampa quotidiana e sulla RAI. L'esempio di Democrazia Popolare con i suoi tre quotidiani e il suo rifiuto di utilizzare la "Stampa borghese" ci conferma nella giustezza delle nostre scelte fatte in proposito. Per questo dovremo potenziare l'Agenzia Notizie Radicali e porre le condizioni perché tutti i partiti regionali e le associazioni locali ne avviino di nuove.
L'informazione più completa su tutta la tematica radicale resta affidata al mensile "Prova Radicale" che sotto la direzione di Mario Signorino ha la funzione di colmare il vuoto d'informazione che di mese in mese si accumula sulle iniziative del Partito Radicale.


"Disordinarsi" per crescere di Gianfranco Spadaccia

NR17, 26 luglio 1976

L'invito di Marco Pannella a disorganizzarsi è stato motivo di ironia all'esterno del 16° Congresso radicale, in alcuni commenti della stampa, e di protesta all'interno per una parte dei congressisti.
I commentari vi hanno voluto vedere una delle affermazioni paradossali del "personaggio" Pannella. Una parte dei congressisti ha creduto di potervi vedere chi sa quale machiavellico progetto di potere del gruppo dirigente o di un preteso "vertice" che invita il partito a disorganizzarsi per organizzare meglio se stesso contro il partito.
Il problema di "disordine" del partito, e non di disorganizzarlo, è invece un impegno che non deve essere casuale e spontaneistico, ma collettivo e programmato secondo una logica che tende a scoprire e valorizzare, ed attuare, tutte le potenzialità federative, libertarie e autogestionarie, presenti nel nostro statuto. Non a caso Pannella ha parlato di "disorganizzarsi scientificamente".

Come già l'anno scorso la raccolta delle firme per il referendum sull'aborto, quest'anno la campagna elettorale ha costituito per il partito un moltiplicatore della sua organizzazione e del suo rafforzamento. Nel giro di due anni è passato da meno di 40 realtà associative a circa 300, in altrettante città e paesi. Prima delle elezioni i partiti regionali, che sono la struttura portante del nostro statuto, non esistevano e li dove esistevano rappresentavano quasi dovunque soltanto labili strutture di coordinamento, affidate alla associazione più forte fra quelle operanti nella regione. Nelle grandi città, soprattutto a Roma, si passa dalla dimensione delle centinaia, alla dimensione delle migliaia di militanti: deve perciò mutare anche la presenza dell'organizzazione radicale.

Di fronte a questa situazione di crescita del partito, il pericolo da cui bisogna guardarsi e che occorre evitare, è quello della chiusura, di ogni forma di chiusura: la tendenza di ciò che preesisteva prima del momento elettorale a chiudersi rispetto al nuovo; la tendenza ad impostare nel partito forme di organizzazione ed esperienze sulle quali altre forze politiche hanno consumato il loro fallimento; la ricerca di qualificazioni ideologiche di tipo solo proclamatorio; la richiesta al partito, che deve essere il momento di aggregazione federativa su un minimo comune denominatore sul quale si riconoscono tutti i radicali, di farsi carico di impegni e di iniziative che possono essere vitali solo se nascono non dall'alto, ma autonomamente da specifiche esperienze associative.

Le numerose iniziative che sono state prese durante e dopo le elezioni (dal fronte radicale invalidi a quelle per la scuola, delle associazioni di quartiere di Roma, alle nuove iniziative per i detenuti al progetto di convegno dei credenti anticoncordatari) dimostrano che il partito si muove già in questa direzione, che è la direzione giusta: di chi si apre all'esterno e non si chiude in esperienze cristallizzatrici e riduttive.
Il congresso straordinario è stato certamente caotico e confuso, in parte perché affrettatamente preparato e mal preparato, in parte perché rifletteva una realtà nuova e probabilmente non omogenea. Ma è stato bene farlo. Esso ha delineato alcune scadenze di lavoro comune, di qui a novembre, attraverso le quali deve passere questo impegno di riflessione sulla crescita del Partito.


La MARCIA INTERNAZIONALE DEGLI ANTIMILITARISTI NONVIOLENTI

di Roberto Cicciomessere PROVA RADICALE, ottobre 1976

CONTROCORRENTE IN ITALIA, LONTANA DAL PACIFISMO PASSIVO DEI NONVIOLENTI EUROPEI, L'INIZIATIVA ANTIMILITARISTA DEI RADICALI HA ACQUISTATO IN DIECI ANNI PESO INTERNAZIONALE, QUEST'ANNO LA MARCIA HA TOCCATO IL FRIULI, LA FRANCIA E LA SARDEGNA. ECCONE LA STORIA.

28 LUGLIO/1 AGOSTO: FRIULI
REDIPUGLIA/GORIZIA/CORMONS/PALMANOVA/UDINE/PESCHIERA
4 AGOSTO/10 AGOSTO: FRANCIA
METZ/GRAVELOTTE/JARNY/ETAIN/DOUAMONT/CHARNY/VERDUN
13 AGOSTO/19 AGOSTO: SARDEGNA
CAGLIARI/DECIMOMANNU/ORGOSOLO/OLBIA/ARZACHENA/PALAU/LA MADDALENA

28 luglio

Al sacrario di Redipuglia circa 250 poliziotti e carabinieri attendono la partenza della prima marcia internazionale in Europa degli antimilitaristi nonviolenti, i marciatori sono 80. Un elicottero dei carabinieri controlla dall'alto i manifestanti. Adele Faccio deposita, con altri compagni, la corona d'alloro al monumento al milite ignoto: è senza il nastro con l'intestazione della marcia, in seguito al divieto della polizia. La scena si ripete nel cimitero austro-ungarico.
"La scarsa partecipazione dei marciatori si spiega con l'opinione diffusa che la marcia nel Friuli di quest'anno sia l'inutile ripetizione di un'iniziativa politicamente conclusa nelle tre edizioni del '72, '73, '75 con la denuncia delle servitù militari e la sconfitta degli ambienti militaristi che avevano tentato di impedirne lo svolgimento. Ma lo sproporzionato impiego delle forze di polizia, l'intervento nei giorni successivi nel Friuli del ministro della difesa Lattanzio, che ha annunciato provvedimenti e progetti di legge governativi per limitare il peso delle servitù militari indica che, anche a prescindere dalla scarsa convinzione ed entusiasmo dei marciatori, la pur minima (ma sicuramente unica, fra le forze politiche italiane) sollecitazione della marcia su problemi profondamente sentiti dalla popolazione civile e militare, specie dopo il terremoto, assume ancora una volta un peso rilevante.
Il limite dell'iniziativa dev'essere ricercato nella carenza d'intervento politico sui problemi delle servitù militari da parte delle organizzazioni locali dei partiti, e nella scarsa capacità della marcia di sollecitarlo. Non si sottraggono a questa critica neppure il partito radicale del Friuli e quello di Trieste, che con motivazioni incredibili, nonostante le affermazioni elettorali, hanno disertato la marcia. In questi anni non ha ritenuto di gestire una volta le occasioni di lotta che le precedenti edizioni avevano creato e preparato nella regione".

29 luglio
Immediatamente dopo Lucinico i marciatori decidono una deviazione - cento metri - per una breve manifestazione davanti a una caserma. Fra la sorpresa di tutti scatta il blocco della polizia. Tutti gli uomini si schierano per impedire la deviazione. Sono le ore 15: il commissario Pisani non riesce a spiegare le motivazioni del divieto, e in effetti neanche lui le conosce: ha ricevuto telefonicamente l'ordine della questura di Gorizia. Sopraggiunge il vicequestore di Gorizia che conferma, sempre senza motivazioni, il divieto. I vecchi funzionari di polizia che hanno assistito negli anni scorsi a decine di pacifiche manifestazioni davanti alle caserme della regione si mostrano in difficoltà ed evitano i contatti con i marciatori. Centinaia di carabinieri armati fronteggiano, sotto il sole, non più di 80 marciatori. Il blocco militare e le decisioni del questore sono ridicolizzate più volte dai marciatori che forzano i blocchi, raggiungono molte volte la caserma attraverso i campi. Alcuni compagni con macchine munite di amplificatori prendono di sorpresa la polizia e dopo aver raggiunto attraverso una strada di campagna la caserma, chiusi nelle macchine, parlano ai soldati per un'ora davanti ai commissari incazzati e impotenti.
La tensione cresce, così come il malumore di carabinieri e poliziotti costretti a ridicoli inseguimenti nei campi oppure a stare in piedi per molte ore con tutta la bordatura di manganelli, caschi e fucili.

L'assemblea dei marciatori, pur rilevando l'inconsistenza dell'obiettivo militare così strenuamente e inutilmente difeso dalla polizia, decide di sostare a Lucinico fino allo sblocco totale. Subire il divieto potrebbe pregiudicare la possibilità di superare gli altri, che potrebbero essere opposti nelle tappe successive su obiettivi politici più rilevanti. I marciatori, pur votando all'unanimità la prosecuzione dell'azione di forza con il questore, si dichiarano disposti a rinunciare se la richiesta verrà direttamente da carabinieri e poliziotti non graduati, sottoposti così inutilmente a grossi disagi.
La risposta dei dirigenti dell'ufficio politico e degli ufficiali dei carabinieri è il divieto, immediatamente impartito alla truppa, di parlare con i manifestanti. Alle 11 di sera il commissario Pisani mi annuncia, raggiante, regalandomi una rosa, che alle 24 precise sarà consentito alla marcia di proseguire passando davanti alla caserma. Marciatori, poliziotti, funzionari sono tutti visibilmente soddisfatti per la soluzione dell'impuntatura, che ha costretto tutti da 8 ore a questa sfibrante sosta. Ci prepariamo a proseguire per Cormons dove, nel frattempo, alcuni compagni avevano comunque tenuto la manifestazione prevista, denunciando davanti a centinaia di soldati e di cittadini l'incredibile abuso.
Alle 24 precise arriva il vicequestore: smentisce il commissario Pisani e ci comunica che il divieto permane. Giustifica questa decisione sostenendo che i marciatori avevano gridato "vittoria" alla precedente comunicazione e questo ledeva l'onore della polizia.
La credibilità e la dignità del commissario e dei funzionari che avevano condotto le trattative è nella merda: in un comizio, improvvisato davanti a molte centinaia di persone, fra cui il sindaco di Cormons, sopraggiunto in seguito ai comunicati radio, gli oratori chiedono pubblicamente a Pisani e agli altri funzionari di dimettersi per tutelare la propria dignità e funzione. Il vicequestore, pubblicamente ricoperto di insulti per il suo comportamento imbecille, minaccia denunce e arresti prendendo perfino la parola al microfono. Ma decide che è più conveniente andarsene. Il commissario Pisani e gli altri funzionari erano già spariti. Dormiamo tutti, con i sacchi a pelo, davanti ai cordoni dei carabinieri.

29 luglio
Alle ore 15 esattamente dopo 12 ore di blocco, forze di polizia e carabinieri svaniscono in pochi minuti su camion militari. Davanti alla caserma è il vuoto. I pochi funzionari rimasti, non sono in grado di dare una spiegazione. Manifestiamo brevemente davanti alla caserma e proseguiamo alla volta di Palmanova.
"Non siamo riusciti a spiegare il divieto della polizia e l'improvvisa rinuncia al blocco se non come una prova di forza fallita per impedire nella tappe successive il nostro pieno diritto di manifestare anche davanti agli insediamenti militari. Infatti, subito dopo abbiamo fatto un'altra deviazione per raggiungere una caserma dove abbiamo tranquillamente manifestato, senza alcun intervento della polizia. Ancora una volta la pratica nonviolenta e anche la pazienza di resistere un minuto in più dell'avversario si sono dimostrate vincenti, esasperando le contraddizioni delle forze di polizia.
Non posso non ricordare un lungo colloquio con un maresciallo dei carabinieri in borghese che mi ha parlato, visibilmente in crisi, della situazione di disagio esistente nell'arma e dell'assurdità dell'impiego di tante forze per una manifestazione nonviolenta, mentre nessun impegno viene assunto per combattere i centri di attività criminale".

1 agosto
Per la prima volta dopo molti anni i marciatori possono manifestare liberamente sotto il carcere militare di Peschiera: niente blocchi di migliaia di celerini, niente cariche e pestaggi. Tutte le motivazioni che negli anni scorsi avevano giustificato il divieto di manifestazione a Peschiera sono svanite: improvvisamente.
Tre anni di lotte, occupazioni, denunce sono stati necessari per raggiungere questo obiettivo. Finalmente possiamo parlare per ore ai detenuti militari rinchiusi nel lager del maggiore Nestorini, del maresciallo Doni e degli altri carcerieri che molti marciatori hanno avuto la sfortuna di conoscere personalmente.
C'è un po' di emozione. La tensione cresce quando i manifestanti creano con il proprio corpo un corridoio fino all'entrata del carcere: lo percorre l'obiettore totale Beppe Frusca, consegnandosi ai carabinieri che stazionano davanti alla porta. E' presente anche un giudice militare che rifiuta di arrestare Beppe, nonostante dovesse presentarsi al CAR di Alessandria da più di un mese, con la scusa che l'ordine di cattura non è stato ancora firmato.
Come molti anni fa i detenuti militari rispondono alla manifestazione con lo slogan e lanciando foglietti dalle finestre del carcere con appelli e denunce.

Spadaccia, parlando a Peschiera, ha gettato molta acqua sull'entusiasmo dei partecipanti alla manifestazione. Da troppi anni - ha detto - ripetiamo davanti a questo carcere slogan sull'eliminazione dei carceri militari, sull'abrogazione della giustizia militare. Ma questo obiettivo sembra sempre più lontano e irraggiungibile. Che fare quindi, per non rassegnarsi a ripetere stancamente slogan che non trovano pratica affermazione nella lotta?
E' la domanda che molti si sono fatti nel corso di questa prima parte della marcia.
Negli anni passati queste iniziative hanno rappresentato una grossa occasione di pubblicizzazione delle lotte gestite nel corso dell'anno. La maggioranza dei partecipanti aveva contribuito con la propria obiezione, con i processi, il carcere, le lotte nelle proprie città alla denuncia, per la prima volta in Italia, del meccanismo repressivo della giustizia militare; aveva fatto conoscere a milioni di cittadini l'ingiustizia delle condanne militari e del lager di Peschiera e di Gaeta; aveva partecipato alla dura battaglia per la conquista del diritto all'obiezione di coscienza.
Da alcuni anni invece, con la integrazione ormai completa del movimento degli obiettori di coscienza rassegnati a vivere gli spazi di privilegio che la legge fornisce, con il parziale fallimento delle battaglie per l'abrogazione dei codici militari che dovevano rappresentare la corretta continuazione delle precedenti marce e altre simili manifestazioni rischiano di testimoniare solo una impotente volontà di lotta antimilitarista. Né possono essere assunti come alibi la totale opposizione delle forze democratiche di sinistra a queste battaglie o gli errori dei movimenti dei militari "democratici", così poco attenti ai problemi di effettiva democratizzazione delle FF.AA. La possibilità di realizzare nel prossimo anno marce antimilitaristiche che non siano liturgica ripetizione di gesti risiede quindi nell'impegno di radicali, nonviolenti, obiettori, antimilitaristi nelle concrete lotte contro la struttura militare. Dovrebbero pur essere facilitate, o potenziate, dalla nostra presenza in Parlamento.
E' inutile quindi disquisire su possibili migliori forme organizzative delle marce: se i marciatori saranno stati protagonisti, in prima persona, di lotte per l'abrogazione delle leggi militari, con obiettori non rassegnati alla legge e capaci di conquistare, anche con il carcere ed i processi, maggiori spazi di intervento per un'obiezione non più "d'élite" ma di massa, con militanti che hanno fornito concreto sbocco istituzionale alle agitazioni dei militari o poliziotti democratici, queste iniziative potranno rappresentare occasioni non frustranti per utilizzare molti giorni di convivenza, per costruire e confrontare precise proposte politiche.
La risposta alla domanda ricorrente sulla opportunità di organizzare il prossimo anno la marcia in Friuli o altrove non può essere fornita da riunioni organizzative; dalla pratica antimilitarista dei prossimi mesi.

4 agosto
Il "campus univesitaire" di Metz è completamente occupato da più di seicento marciatori arrivati dalle altre città francesi, dalla Germania, Olanda, Danimarca, Inghilterra, Stati Uniti, Belgio, Spagna. I circa cento partecipanti italiani sono piacevolmente stupiti dalla perfetta organizzazione dei compagni francesi che hanno provveduto a tutte le esigenze della marcia: cucine da campo, "roulotte" per le informazioni, traduzione in tutte le lingue delle comunicazioni, almeno un centinaio di compagni addetti ai vari servizi.
Qualche problema sorge alla scoperta che tutti i partecipanti hanno portato, diversamente dagli italiani che non ne erano stati informati, tende per dormire.
L'attesa di questa marcia era grande in Francia anche perché era la prima volta che veniva organizzato qualcosa di simile e fino alle ultime riunioni di giugno sembravano insuperabili i problemi organizzativi e politici. Subito dopo la riunione dell'agosto del 1975 con Marco Pannella, Jean Fabre, Rolando Parachini ed io, nella quale era stato deciso di organizzare le tre marce nel Friuli, in Francia, ed in Sardegna, erano infatti sorte difficoltà notevoli: opposizione alla marcia antimilitarista da parte del MAN, cioè dal più forte organismo dei nonviolenti francesi, ed inconsistenza organizzativa e politica dei gruppi che facevano capo alla WRI e l'ICI. L'inesistenza in Francia di qualcosa che assomigliasse al partito radicale con la sua unità e agilità organizzativa ci aveva convinti, in molte occasioni e riunioni, della quasi impossibilità di organizzare un'iniziativa così impegnativa come la marcia su Verdun. I fatti ci danno torto?
Subito la polizia francese, impedisce ai marciatori di passare davanti al carcere militare di Metz. L'atteggiamento degli organizzatori e del servizio d'ordine che subiscono senza alcuna reazione il divieto e anzi impongono ai partecipanti un poco giustificato silenzio crea i primi malumori nel gruppo italiano, abituato ad altri atteggiamenti con le forze dell'ordine. A Metz il comizio si svolge in un angolo buio ed isolato della Place de la Republique, senza minima partecipazione degli abitanti.

5 agosto
Il gruppo italiano sostiene che occorre scandire slogan durante la marcia; poi impone, contro la riluttanza degli organizzatori, una sosta davanti a una caserma alla periferia di Metz.
A Gravelotte, dove sono previsti una sosta e un comizio, non ci sono che quattro case, forse un centinaio di abitanti. Come a Metz il comizio si svolge fra marciatori. Un intervento presso le autorità francesi, ancora una volta gestito in contrasto con gli organizzatori francesi, consente il reperimento di una stalla, dove i marciatori italiani possono dormire.

6 agosto
Gli italiani, ancora una volta: intervengono ora per impedire che il comizio si svolga a Puxe, cioè in un villaggio di poche case, e convincono i marciatori a tenere la manifestazione nella piazza centrale di Jarny. Adesso, apertamente, i marciatori italiani vengono definiti dal gruppo organizzatore come provocatori. Nelle assemblee della mattina è praticamente impossibile discutere e decidere sui problemi organizzativi e politici, a causa della lentezza delle traduzioni e il rifiuto degli organizzatori di delegare all'assemblea le decisioni e la discussione di tutti im problemi che nascono.

7 agosto
La rottura con il gruppo italiano si aggrava, quando ancora una volta convinciamo i marciatori a non tenere come a Metz, il comizio in una piazza alla periferia di Etain, ma nella piazza centrale. La polizia francese, anche in conseguenza dei dissensi ormai pubblici fra il gruppo dei coordinatori e quello italiano approfitta della situazione e vieta la manifestazione in questa piazza, minacciando l'intervento violento dei CSR, sopraggiunti per la prima volta con i camion.

8 agosto
La polizia francese blocca in forza la marcia poco, prima dell'ossario di Duoamont, e ordina una deviazione. Ancora una volta non riusciamo a convincere gli organizzatori francesi della necessità di mettere in atto forme di contrattazione e di azioni nonviolente con le autorità francesi. Decidono e impongono, dopo circa 20 minuti di sosta, la rassegnata accettazione degli ordini. Spontaneamente e senza alcun preventivo accordo gruppi di francesi, olandesi, tedeschi si fermano insieme agli italiani davanti al blocco della polizia. La maggioranza dei marciatori invece prosegue per Charny. E' la rottura della marcia ma anche la dimostrazione che i cosiddetti "provocatori" che contestano la gestione verticistica e ultramoderna non sono solo gli italiani.
Insomma, la marcia è conclusa qui a Douamont, anche se per altri due giorni vengono gestite (abbastanza stancamente) manifestazioni a Verdun. Anche l'atteso momento di dibattito e chiarificazione interna previsto per la conclusione non si realizza: gli organizzatori rimandano questo momento fino alla sera del dieci agosto, quando la quasi totalità dei marciatori parte per le rispettive città.
Sarebbe ingiusto e superficiale, a questo punto, dare un giudizio complessivamente negativo della marcia: in una situazione di difficoltà estrema, con l'opposizione del MAN, l'isolamento assoluto dai partiti francesi, totalmente assenti anche a livello di dirigenti di base, la razione isterica degli ambienti militaristi francesi che considerano il solo avvicinarsi a Douamont un insulto alla gloriosa tradizione patriottica, il solo fatto di aver organizzato e portato a termine la marcia costituisce una vittoria difficilmente contestabile.
La stessa possibilità di organizzare nel futuro altre iniziative del genere dipendeva dalla esperienza di quest'anno. Ma un altro obiettivo è stato raggiunto: la marcia ha rappresentato la prima vera occasione di lotta e confronto antimilitarista internazionale. Anche i dissensi che sono esplosi duramente sono stati elemento di crescita: non hanno opposto, come qualcuno forse avrebbe voluto, due gruppi nazionali ma militanti di diversi paesi su due concezioni diverse dell'antimilitarismo e della gestione delle tecniche nonviolente.
E questo risultato non sarebbe stato possibile con la pratica degli incontri internazionali che fino ad oggi costituiva l'unica occasione di confronto politico internazionalista. Solo la prassi, il confronto nell'azione può fornire insomma elementi di riflessione per la costruzione di un movimento unitario di lotta, in Europa, contro il militarismo.
Diciamolo bruscamente: in Francia si pongono oggi gli stessi problemi che in questo settore si ponevano molti anni fa in Italia: non può esserci organizzazione e lotta antimilitarista se nel contempo non vengono eliminati gli equivoci pacifisti, vagamente cristiani e umanitari di gruppi che da una parte credono sia possibile esorcizzare il "male militare" con la semplice testimonianza verbale di altissimi principi di amore e pace universali e dall'altra, nelle azioni quotidiane scambiano, in buona o cattiva fede, la passività agli ordini e alle istituzioni violente come comportamento pacifico e non violento.
In Italia il partito radicale si è affermato come organica e libertaria espressione dell'antimilitarismo, rigorosa teoria di lotta al modello organizzativo militare la sua maggiore espressione organizzativa e politica ed ha fatto della pratica nonviolenta uno strumento non di passività ma di affermazione di obiettivi di classe. Ha dimenticato e spesso emarginato organizzazioni "pacifiste" come Pax Christi, MIR, Consiglio Mondiale della Pace, Terzomondisti e boy scuots di ogni specie che sotto l'etichetta pacifista - consapevolmente o meno - coprivano le assai poco pacifiste e antimilitariste organizzazioni politiche e clericali italiane. In Francia il movimento deve realizzare lo stesso processo di emancipazione. Per questo dobbiamo essere impegnati tutti nei prossimi mesi e nelle prossime occasioni di lotta internazionalista.

13 agosto
Duemila cagliaritani partecipano alla manifestazione che si svolge nei giardini pubblici. Il "Living Theatre" monopolizza l'attenzione dei partecipanti fino a notte tarda.

14 agosto
Debole opposizione della polizia alla manifestazione davanti all'aeroporto militare di Decimomannu. Il Living improvvisa davanti ai cancelli una azione teatrale di denuncia della pretesa capacità difensiva della violenza armata: praticamente c'è tutto il paese alla manifestazione concerto. Si apre il dibattito con una popolazione che non mostra di scandalizzarsi eccessivamente, neanche per gli interventi del Fuori di Cremona.

15 agosto
Le difficoltà previste a Orgosolo, dove ci veniva annunciata una popolazione ostile a causa della coincidenza con la festa paesana non trovano conferma.
Migliaia di cittadini e turisti partecipano al corteo nella città e alla manifestazione nel campo sportivo. Porta il saluto dell'amministrazione comunale il vicesindaco socialista. Dissensi verbali esplodono fra i marciatori a causa degli slogan contraddittori lanciati nel corteo: "esercito rosso", "brigate rosse", "armi al proletariato" etc. contrapposti agli slogans antimilaristi e nonviolenti della maggioranza dei partecipanti.

17 agosto
Solo 40 marciano nella tappa Olbia-Arzachena, circa 26 Km con sfiancanti salite e discese. Solo pochi, quindi, all'assemblea dove si decide l'occupazione del comune di Arzachena per ottenere un locale per dormire. Il sindaco di Arzachena è infatti l'unico che in Sardegna ci ha negato l'ospitalità. Circa duecento sono invece i partecipanti alla marcia che raggiungono con pochi mezzi Arzachena. Nel corso della manifestazione che si svolge proprio a ridosso del municipio Mauro Mellini annuncia il successo dell'occupazione e la concessione da parte del Sindaco di alcuni locali coperti per la notte.
La scarsa partecipazione dei marciatori ai momenti costitutivi delle marce, cioè ai cortei di spostamento fra una città e l'altra e le assemblee, e dall'altra la grossa presenza degli abitanti dei paesi attraversati alle manifestazioni sono gli elementi caratteristici, e contraddittori, di questa prima iniziativa in Sardegna. Il primo è solo in parte spiegabile con la situazione e spontaneismo dei gruppi locali e in generale la carenza di iniziative politiche unificanti della sinistra. I Marciatori sardi ben poco si identificavano nelle tematiche della marcia ritenendo di poter utilizzare le manifestazioni solo per esprimere, fra l'altro con poca chiarezza e unità, posizioni vagamente anarchiche o meccanicamente riportate dalle BR o comitati autonomi. Il secondo elemento esprime invece una grossa disponibilità dei sardi alla partecipazione a momenti non tradizionali di vita politica e un preciso radicamento delle posizioni antimilitariste e libertarie in generale nelle tradizioni culturali e politiche dell'isola.
Che la marcia quindi debba nel futuro essere preparata da un lavoro politico continuativo nell'isola e da un dibattito con tutte le componenti esistenti sembra banale ma non per questo non merita considerazione che il partito radicale in Sardegna deve far pulizia, senza paura di isolamento o complessi d'inferiorità, degli equivoci ribellistici o gruppettari o falsamente autonomistici presenti in molte miniorganizzazioni che godono di ingiustificato credito politico.

19 agosto
Ore 16. L'ultimo corteo sta per concludersi davanti al molo di La Maddalena, prima della manifestazione di chiusura della marcia, in Piazza Umberto Primo. Mentre la maggioranza dei marciatori canta canzoni sarde, un piccolo gruppo inizia ad alzare un muretto sulla strada che porta all'imbarco del comando americano. Il muretto simbolico doveva essere costruito nell'ingresso del comando americano ma ciò è stato reso impossibile dalla presenza di soldati americani, proprio sul cancello.
Mentre stiamo appoggiando fila di mattoni la, polizia improvvisamente si accorge del muretto. La reazione dei vicequestori presenti è isterica: partono cariche brutali e assolutamente ingiustificate. Paolo Buzzanca viene scaraventato nel mare che in quel punto è alto solo pochi centimetri, molti marciatori e turisti di passaggio duramente colpiti con i manganelli. Riusciamo a convincere la maggioranza a non alzarsi. Marco Pannella impone al vicequestore la sospensione della carica e dell'ordine di scioglimento.
Si ricompone il corteo che si sposta senza altri incidenti in Piazza Umberto I, a duecento metri. Centinaia di persone hanno osservato dal molo vicino e contestato con grida la carica poliziesca. Solo a tarda sera il primario dell'ospedale di La Maddalena scioglie la riserva e ci comunica che Paolo Buzzanca e gli altri sei feriti non hanno subito fratture. Il "Living Theatre" non può svolgere la prevista azione teatrale in seguito al sequestro da parte della polizia delle catene, utilizzate per la scena della tortura.

Una sola possibile giustificazione ai fatti di La Maddalena: la carica della polizia non è scattata incidentalmente sul molo ma è stata voluta dal questore di Sassari Vorìa (ben conosciuto per il suo comportamento fascista a Torino e resosi famoso con l'arresto di Dario Fo) su precisa pressione delle autorità americane. L'indicazione politica generale del ministro degli Interni Cossiga, che trascorreva le vacanze proprio in quei giorni a La Maddalena in una villa del villaggio Piras, era di non provocare disordini con i marciatori e di consentire liberalmente le manifestazioni. Ma mentre le questure di Cagliari e Nuoro si sono allineate, mostrandosi nei nostri confronti di una cortesia abbastanza rara, la questura di Sassari (ovvero Vorìa), ha mostrato fin dal primo giorno in cui siamo entrati nella sua giurisdizione di digerire poco queste indicazioni politiche. Solo il nostro auto controllo ha impedito incidenti con la polizia che ad Olbia, Arzachena, Palau si rifiutava perfino di controllare il traffico lanciandosi senza la normale scorta, probabilmente nella speranza di qualche incidente o provocazione.
L'incendio delle automobili americane a La Maddalena, Palau e S. Teresa di Gallura, proprio nei giorni in cui la marcia arrivava nella provincia, può non rientrare in un disegno di provocazione.
L'unica ipotesi dunque è che il comando americano ha prevalso su Cossiga, e Vorìa ha in definitiva deciso che il padrone americano dà maggiori garanzie di stabilità e di effettivo potere di un ministro italiano.

20 agosto
Tutti i giornali sardi ("L'unione sarda, Tuttoquotidiano, La nuova Sardegna") condannano l'intervento della polizia. Ciò provoca non poco sconcerto fra i commercianti fascisti di La Maddalena, che assediano il sindaco democristiano chiedendo un manifesto di condanna dei marciatori.
Alle 16, nella Piazza Rossa, si riuniscono cittadini e turisti di La Maddalena per firmare la denuncia contro la polizia per tentato omicidio e furto (si era rifiutata di restituire a una giornalista francese la macchina fotografica). Il vicesindaco di La Maddalena, Enriquez Agnoletti, il vicesindaco di Sassuolo, sono fra i primi firmatari. Nella Piazza Rossa centinaia di persone commentano gli episodi di ieri e leggono attenti il grande tatzebao del Psi che denuncia l'aggressione subita dai marciatori.


QUELL'ESARCHIA E' EXTRAPARLAMENTARE

di Marco Pannella PROVA RADICALE, luglio/agosto 1976

SOMMARIO: Marco Pannella definisce "esarchia extraparlamentare" la maggioranza composta da DC, PLI, PSDI, PRI, PSI e PCI, rilevando come, anche prima che la Camera dei deputati fosse insediata, tali partiti abbiano provveduto alla lottizzazione delle responsabilità e delle funzioni parlamentari. La stessa interpretazione del regolamento della Camera ha praticamente impedito che nei verbali restasse traccia di almeno un dubbio sulla liceità degli accordi che hanno portato alla citata lottizzazione.

Ben prima di quanto non sperassimo (e anche, d'altra parte, temessimo) è già in atto in Parlamento uno scontro fra il nostro gruppo, le maggioranze che lo governano, le minoranze che ne vivono passivamente le vicende. E' purtroppo uno scontro circoscritto alla Camera: l'assenza di forze a sinistra del PCI (di cui porta intera la responsabilità il gruppo dirigente di Democrazia Proletaria) lascia mano libera alle pratiche correnti nel Senato.
Non pensavamo di dover subito difendere con la nostra dignità e i nostri diritti quelli del Parlamento. Ma quando i partiti della nuova esarchia (DC-PLI-PSDI-PRI-PSI-PCI) extra-parlamentare, riuniti nella sede del gruppo DC, prima ancora che la Camera fosse insediata, non solo procedettero alla più sfacciata lottizzazione delle responsabilità e delle funzioni parlamentari, ma giunsero a comunicarne i termini alla opinione pubblica, attraverso la RAI-TV e la stampa, già non avevamo più altra scelta che la protesta e la lotta.

Non erano ancora giunti i telegrammi agli eletti dalle prefetture e già i deputati si vedevano così ordinati i comportamenti e i voti. Senza un minimo di verecondia li si indicava all'opinione pubblica come dei "deputati-squillo", tutti senza eccezione. Che bisogno c'era di convocarci? Che bisogno c'è del Parlamento? Una ventina di Signori, di potenti del Palazzo e di loro clienti decidono tutto fra loro. Al Gran Consiglio del Partito Nazionale Fascista, che decideva (non sempre, riconosciamolo) cosa si dovesse fare o non fare nella Camera di allora (detta dei Fasci e delle Corporazioni), s'è ora sostituito il Gran Consiglio di sei correnti partitiche che assieme, unite in una sorta di monopartitismo imperfetto, dettano ormai temi, svolgimenti, ore di lavoro e di ricreazione, l'ordine dei gesti come in una catena di montaggio, d'un migliaio di parlamentari-bidone? Avremmo voluto che il Parlamento stesso fosse investito di un dibattito su questo fatto che in modo così clamoroso ne condizionava la vita, ne dettava i comportamenti, ne inquinava vistosamente i processi formativi di volontà e di leggi.

A questo punto ci siamo accorti che non solamente i regolamenti parlamentari, ma ancor più la loro interpretazione, era omogenea alla situazione che intendevamo e intendiamo denunciare e superare. Non è praticamente consentito, per prassi, al deputato di intervenire, non foss'altro che per notazioni procedurali, per richiami al regolamento, proprio nei momenti in cui questi possono rivelarsi più necessari e utili. Si è giunti a sostenere - e reiteratamente - che in alcuni momenti (oltre a quelli nei quali si sta procedendo a una votazione) sia possibile al Presidente negare a un parlamentare anche di chiedere la parola e di motivare la sua richiesta, magari per vedersela poi negare o togliere.
Si sono così difesi gli accordi extraparlamentari dei sei partiti fino all'ultimo millimetro di attuazione, tentando di impedire che nei verbali stessi della Camera restasse traccia non dico di una protesta ma di un dubbio sulla loro liceità o correttezza.
Si è andati avanti "interpretando" il regolamento, che letteralmente prescrive che dell'Ufficio di Presidenza facciano parte "tutti i gruppi parlamentari", in modo tale da escludere il gruppo misto, quello demoproletario e quello radicale. E per giustificare l'inserimento del PRI, del PLI e del PSDI che, secondo l'incredibile interpretazione accampata, non avevano nemmeno loro titoli per parteciparvi, affermando che tali gruppi non v'erano e sono per virtù propria ma in quanto DC, PCI, MSI e PSI avevano benevolmente ceduto qualche posto di loro spettanza.

E', insomma, la sagra delle lottizzazioni. Gruppo misto, liberale, demoproletario e radicale sono stati così esclusi anche dalle tre "giunte" istituzionali: del regolamento, delle autorizzazioni a procedere, delle elezioni. Così, probabilmente, i giochetti di potere tradizionali possono meglio esser proseguiti senza i rischi di un nostro controllo.
Su questi problemi, in quattro sedute, a parte noi non un solo deputato di un solo gruppo ha ritenuto di dover interloquire. I processi verbali testimoniano che solamente il gruppo radicale ha ogni volta cercato di intervenire per correggere la situazione, per indurre alla riflessione, per esprimere in qualche modo una qualche forma di dissenso.
E sullo scandaloso rifiuto del governo di rispondere alle interrogazioni e interpellanze sull'assassinio del giudice Occorsio, non abbiamo avuto altra reazione che quella dell'on. Bozzi, del PLI, oltre alla nostra.

Ci duole che questa serie di fatti ci abbia portato a posizioni polemiche proprio nei confronti del Presidente Ingrao (oltre che, nella prima seduta, dell'on. Jotti). Chi ci conosce sa che non siamo soliti usare cortesie e riguardi di maniera. Non abbiamo mai praticato e men che mai praticheremo in Parlamento forme di ipocrisia verso amici o avversari. Speriamo quindi di esser creduti da chi legge se diciamo che riteniamo Ingrao, per le sue qualità umane e civili, per il suo rigore morale e la sua severa tolleranza fra i pochissimi parlamentari italiani davvero atti a dare prestigio, oltre che riceverne, alla carica cui è stato eletto.
Ci auguriamo che gli sia consentito di darne presto la prova. Noi non siamo affatto fieri di alcune supplenze che i fatti ci chiedono di svolgere, né le sollecitiamo. V'è un oceano di cose che ci attendono e che urgono, tante da rischiare di farci naufragare. Ma non possiamo né vogliamo perdere con il rispetto di noi stessi anche quello di regole e istituzioni che riteniamo debbano finalmente affermarsi e crescere, anziché corrompersi e autodistruggersi com'è in parte già accaduto in questi trent'anni.

Sarà un compito duro, per noi otto del gruppo radicale, non solamente per i quattro nominalmente in carica. Dovremo badare a non farci chiudere e impantanare nella palude. Dovremo spesso, anche fisicamente, uscirne come abbiamo fatto sin dalla prima seduta, per ritrovare nelle piazze e sui marciapiedi la forza democratica che è la nostra.
Ma è anche un compito che nessun radicale deve delegarci, come nessun elettore. Come negli scorsi anni, e ancor più, è ancora da "fuori" che l'uso democratico e costituzionale del Parlamento può e dev'essere conquistato. Se il PR e tutti i compagni che ci hanno eletto facessero di noi e delle nostre funzioni, delle lotte che riusciremo a condurre, un alibi per il loro disimpegno verso le istituzioni anziché motivo e strumento per battaglie più ampie e dure, noi saremmo votati alla sconfitta e il PR, di nuovo, alla scomparsa.


L'assegnazione degli scranni nell'aula della Camera

Conferenza stampa del gruppo radicale (9 ottobre 1976)

PARLAMENTO: GRAVISSIME LE DECISIONI DEL PRESIDENTE INGRAO, CHE HA BLOCCATO CON L'ESPULSIONE DEI RADICALI DELLA CAMERA IL PROCESSO DI PARTECIPAZIONE NELL'ASSEMBLEA A DEI DEPUTATI. NEL CORSO DELLA CONFERENZA STAMPA DEL GRUPPO RADICALE RIVELATI TUTTI I TENTATIVI PER GIUNGERE ALLA COMPOSIZIONE DEL PROBLEMA. I RADICALI TORNERANNO AD OCCUPARE I BANCHI CONTESTATI. (NOTIZIE RADICALI, 9 ottobre 1976)

Parlando per primo nel corso della conferenza stampa indetta dal gruppo Parlamentare Radicale, in risposta alla sua espulsione dalla Camera dei Deputati, Marco Pannella ha sottolineato il "carattere calcolato e deliberato dell'azione del Presidente Ingrao".
La questione dell'attribuzione dei posti dura a lungo e Pannella ne ha svelato tutti i retroscena. E' dal 5 luglio che i radicali occupano i posti che poi sono stati loro contestati, senza che nessuno avesse trovato nulla da eccepire. E' falso quindi quello che vari organi di stampa e il TG 1 hanno affermato, che i radicali abbiano cioè occupato i banchi dei comunisti. I radicali, ha detto Pannella si sono mossi con profondo senso di responsabilità, cercando in tutti i modi di evitare che una cosa "futile" degenerasse, come poi è stato, in una questione di siffatte dimensioni; fin dall'inizio di agosto il gruppo radicale aveva inviato una lettera ai capigruppo, per chiedere che fosse risolta dall'assemblea l'attribuzione dei posti. Formalmente questa era di competenza dei questori, i quali, interpellati, hanno però sempre sostenuto come la cosa avesse una natura politica e che quindi la sua soluzione fosse competenza dell'assemblea.

Pannella ha rivelato di aver richiesto informalmente per due volte a Ingrao un'iniziativa della Presidenza per giungere ad una composizione del problema, Ingrao ha dichiarato che era preferibile che i gruppi interessati trovassero un accordo tra di loro; il presidente del gruppo PCI, Natta e l'on. Di Giulio, interpellati per un colloquio, hanno risposto con la chiusura più netta. 10 giorni fa, alla riunione dei capigruppo, quando nonostante fosse stato sollevato il problema, la seduta stava per concludersi senza che si fosse avuta una risposta, Pannella chiese che questo fosse discusso e se ne prendesse una decisione. Il vicepresidente Scalfaro espresse dubbi circa la decisione dei questori, mentre invece Ingrao dichiarò che riteneva davvero essere seguite le indicazioni dei questori. Nessuna decisione, ha sottolineato Pannella, fu comunque presa in quella sede.
A questo punto Pannella ha sottolineato come la Presidenza si fosse resa colpevole di una carenza di iniziativa e come l'espulsione dei 4 deputati radicali costituisse un gesto politico deliberato.
"Avevamo inviato alle ore 14 a tutti i parlamentari una lettera con la quale chiedevamo che fosse semplicemente riconsiderata la questione dei posti. "Ha detto Pannella."Verso le 16.30 il gruppo socialista ci comunicò si ritenere legittima la nostra richiesta. Successivamente pervennero le dichiarazioni scritte a nostro favore del liberale Costa e dei democristiani Mazzola, Bianco, Giordano, Costamagna, oltre naturalmente quello del gruppo di DP. "Pannella ha notato come fosse sufficiente la richiesta di un solo gruppo per far riconsiderare la questione. Il Presidente di turno, il dc Rognoni, più volte interpellato da Pannella si dichiarò favorevole a non effettuare la votazione dei decreti in discussione con la votazione elettronica, ma con le urne, Incidentalmente Pannella ha ricordato che almeno 200 delle chiavi necessarie per la votazione elettronica ancora non erano state consegnate.

E' verso le 19 che si apprende che Ingrao avrebbe imposto la votazione con il sistema elettronico, assumendo la Presidenza. Significa che Ingrao ha deciso di interrompere il processo di partecipazione di tutta l'assemblea e dei parlamentari, i quali stavano riconoscendo come non fosse la migliore una consuetudine che porta per esempio Lotta Continua a vedersi a pochi metri dai liberali. Pannella ha poi ricordato come fosse stato violato il regolamento della Camera: all'atto di votazione l'on. Malagugini ha preso la parola, denunciando la presenza dei parlamentari radicali sui banconi attribuiti al PCI. Alla analoga domanda di Pannella che chiedeva la parola allo stesso titolo di Malagugini, Ingrao si è opposto in base al regolamento.
"Gli abbiamo fatto rilevare che Malagugini aveva parlato, ha detto Pannella, ma Ingrao ci ha riposto che Malagugini esponeva un caso di necessità. Così senza sentirci si è stabilito che noi non eravamo un caso di necessità".
Pannella ha concluso affermando come sia da ritenere gravissimo il fatto che Ingrao ha interrotto il processo di partecipazione dei deputati. Nell'assemblea di Montecitorio non deve vigere il "centralismo democratico", ma la tradizione che anima i parlamenti anglosassoni.

Sono intervenuti inoltre Mellini e Bonino. Il primo ha rilevato che se in base all'assurda teoria dell'usucapione e dell'ereditarietà che il PCI vuole imporre, anche gli altri gruppi parlamentari si fossero comportati in modo simile, i radicali avrebbero finito per collocarsi vicino al MSI, l'unico partito che ha lasciato posti vuoti.
Bonino ha rilevato inoltre significativo coincidenze con le elezioni, allorché il PCI con la forza strappò al Partito Radicale il diritto al primo posto nelle liste elettorali.
I radicali torneranno nei banconi all'estrema sinistra, attribuiti per ora la PCI. E' ora il Presidente Ingrao che deve trovare soluzioni, vie d'uscita.


INDICE COMPLETO DEI DOCUMENTI E ARTICOLI SULLA QUESTIONE DELL'ASSEGNAZIONE DEI POSTI IN AULA NELLA VII LEGISLATURA

- Lettera di Marco Pannella al Presidente della Camera sul problema dell'assegnazione dei posti in aula (31 luglio 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale) [testo n. 4660];
- Lettera di Marco Pannella ai presidenti dei gruppi parlamentari della Camera e, per conoscenza, al Presidente della Camera sulla dislocazione in aula dei gruppi (14 agosto 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale) [testo n. 4661];
- Il Resto del Carlino (30 agosto 1976);
- Il Tempo (30 agosto 1976);
- La Repubblica (1 ottobre 1976);
- Il Resto del Carlino (2 ottobre 1976);
- Lettera a tutti i deputati con richiesta di solidarietà per il problema degli scranni (6 ottobre 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale) [testo n. 4662];
- Espulsione dall'aula dei Deputati Pannella, Mellini, Faccio e Bonino (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta del 7 ottobre 1976);
- Lettere di solidarietà di Raffaele Costa, Mario Segni, Gerardo Bianco, Alessandro Giordano, Sergio Cuminetti, Antonio Brusca (7 ottobre 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale);
- Richiesta di dibattito sulla questione degli scranni (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta dell'8 ottobre 1976);
- Il Messaggero (8 ottobre 1976);
- Il Giornale (8 ottobre 1976);
- Corriere della Sera (8 ottobre 1976) [testo n. 4663];
- La Stampa (8 ottobre 1976);
- Paese Sera (8 ottobre 1976);
- Gazzetta del Popolo (8 ottobre 1976);
- L'unità (8 ottobre 1976);
- L'Avvenire (8 ottobre 1976);
- Lettere di Luigi Spaventa e Massimo De Carolis (8 ottobre 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale);
- Conferenza stampa del gruppo radicale (9 ottobre 1976) [testo n. 4664]
- Dichiarazione del gruppo radicale sulla lettera di Riccardo Lombardi (9 ottobre 1976) [testo n. 4665]
- Intervento sul processo verbale dei deputati radicali sull'espulsione dall'aula (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta del 12 ottobre 1976);
- Corriere della Sera (13 ottobre 1976);
- La Nazione (13 ottobre 1976);
- Paese Sera (13 ottobre 1976);
- Il Tempo (13 ottobre 1976) [testo n. 4666];
- Il Giorno (13 ottobre 1976);
- Lettera di Antonio Caldoro (15 ottobre 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale);
- Tempo (17 ottobre 1976) [testo n. 4667];
- Dichiarazione del gruppo radicale sulla dislocazione dei posti in aula (conferenza capigruppo - 21 ottobre 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale) [testo n. 4668];
- Comunicato stampa del Presidente della Camera (21 ottobre 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali" a cura del Gruppo Parlamentare Radicale) [testo n. 4669];
- Pannella sul comunicato del Presidente - Replica di Ingrao (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta del 22 ottobre 1976);
- L'Avvenire (22 ottobre 1976);
- Pannella sul processo verbale sottolinea che le modalità di votazione del 22 ottobre non devono costituire precedente (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta del 28 ottobre 1976);
- I deputati radicali abbandonano l'aula (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta del 28 ottobre 1976);
- Pannella sull'art. 36 del Regolamento (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta del 8 novembre 1976);
- I deputati comunisti impediscono a Pannella di parlare dal suo banco (Camera dei Deputati - Resoconto stenografico della seduta del 4 maggio 1978);

(CAMERA DEI DEPUTATI, Gruppo Parlamentare Radicale, VII legislatura, "QUESTIONI REGOLAMENTARI E COSTITUZIONALI" dal 5 luglio 1976 al 5 maggio 1978)


L'imbroglio - IL TRATTATO DI OSIMO CON LA JUGOSLAVIA HA UN RISVOLTO CRIMINOSO: IL PROTOCOLLO ECONOMICO

di Guido Ercolessi PROVA RADICALE, dicembre 1976

SOMMARIO: Dopo 20 anni di demagogia nazionalista, la diplomazia segreta democristiana regala alle multinazionali e alla Fiat la zona franca sul Carso. Per Trieste e il suo territorio sarà una catastrofe ecologica, economica, culturale, urbanistica. Ma la sinistra di regime, Pci in testa, è d'accordo: un'altra prova di "lealtà atlantica"? Intanto, per paura del malcontento popolare, si pensa già di rinviare le elezioni comunali a Trieste. Facendo quadrato a difesa dell'accordo, la sinistra ha rischiato, prima dell'intervento radicale, di regalare alla destra monopolio dell'unanime opposizione popolare al folle progetto.

Il trattato di Osimo fra Italia e Jugoslavia si compone essenzialmente di due documenti: il trattato vero e proprio relativo alla definizione delle controversie territoriali fra i due paesi, e l'accordo di collaborazione economica cui è allegato, fra l'altro, un protocollo relativo all'istituzione di una zona franca industriale a cavallo del confine sull'altipiano carsico.

Quando, nel settembre dello scorso anno, venne dato l'annuncio che le intese erano state raggiunte, l'aspetto più appariscente sembrò il primo: il regime si sbarazzava delle finzioni giuridiche difese fin'allora (vedi la risposta ad un'interrogazione parlamentare missina del mese prima), e riconosceva anche formalmente che la zona B dell'ex territorio libero di Trieste altro non era che parte integrante del territorio jugoslavo. Era l'abbandono della politica perseguita per trent'anni dalla Dc a Trieste, era l'abbandono dell'ipocrita demagogia su cui per trent'anni la Dc era vissuta sfruttando i voti delle decine di migliaia istriani residenti a Trieste, alimentandone le illusioni revansciste. Tutte le forze politiche democratiche espressero il loro consenso; solo a Trieste, per motivi più sentimentali che politici, vi furono anche in campo democratico dissensi che lacerarono alcuni partiti, soprattutto il Psi e il Pri, che subirono piccole scissioni. Non vi fu però in quella fase nessuna reazione di rigetto di tipo nazionalistico che andasse al di là delle organizzazioni neo-irredentiste e degli esuli: pur a malincuore, anzi, anche molti di costoro si rendevano conto che quella soluzione era inevitabile, che anzi era arrivata tardivamente, e che sarebbe stato folle per difendere quella finzione giuridica rischiare una crisi internazionale che tra l'altro avrebbe strangolato l'economia triestina, per la quale il "confine aperto" è una necessità vitale. Lo stesso elettorato neofascista (che è forte a Trieste solo per la debolezza del "background" culturale cattolico, che determina un elettore orientato a votare Msi anziché Dc più facilmente che altrove) non era stato capace di mobilitarsi, com'era avvenuto dieci anni prima contro l'elezione di un assessore sloveno nella giunta municipale di Trieste. I torti subiti trent'anni prima dagli istriani italiani a causa della guerra fascista e della reazione nazionalistica da questa scatenata non avrebbero certo avuto modo di essere altrimenti riparati.

Le trattative furono condotte, per la prima volta nella storia diplomatica italiana, non dal ministero degli esteri, ma da un funzionario del ministero dell'industria, il dott. Eugenio Carbone, direttore generale di quel ministero. Col passare dei mesi il dibattito politico cittadino si spostò quindi dal problema dei confini a quello economico, cioè alle cosiddette contropartite per lo sviluppo economico di Trieste, rappresentate, a dire della Dc, dall'accordo economico allegato al trattato di Osimo, che ha il suo fulcro nella creazione di una zona franca industriale a cavallo del confine sul territorio carsico, alle spalle di Trieste. Per contestare tali intese nel maggio scorso si costituì un comitato, formato dai fuoriusciti dal Psi e dal Pri, ma anche da altre personalità di rilievo cittadino, anche iscritte al Psi, al Pri e al Pli, che con l'appoggio del quotidiano locale "Il Piccolo" promosse la raccolta delle firme per un progetto di legge di iniziativa popolare per la istituzione di una zona franca integrale comprendente tutto il territorio della provincia di Trieste. Tale progetto ricalcava un analogo disegno di legge sostenuto negli anni passati (e fino al 1972) dal Pci, in particolare da Vittorio Vidali, che si ricollega a una vecchissima aspirazione e tradizione triestina, risalente al periodo austroungarico, ma ancora evocatrice di entusiasmi e capace di mobilitare gran parte della popolazione. Dopo un inizio in sordina e dopo la parentesi estiva, a cominciare da settembre apparve chiaro che il grande successo dell'iniziativa, che esprimeva soprattutto, nelle motivazioni dei firmatari, tre posizioni fondamentali: ambienti nazionalisti firmavano per contestare gli accordi di Osimo nella loro globalità, gran parte della gente esprimeva invece o soprattutto la loro giustificatissima sfiducia nei confronti di una classe politica inconsistente e incapace e le preoccupazioni per il costante declino economico della città. Molti altri poi firmavano per contestare la soluzione che l'accordo economico di Osimo aveva previsto, in particolare con la istituzione della zona industriale carsica, senza in nessun modo interpellare o consultare le popolazioni interessate. Le forze politiche democratiche si chiudevano a riccio nell'ostinata difesa dell'accordo di Osimo e della Dc e la protesta popolare, sempre più plebiscitaria, rischiava oggettivamente, al di là delle intenzioni dei promotori, di essere risucchiata a destra, specie dopo l'impegno profuso, verso la fine di ottobre, dalle organizzazioni degli esuli. Di fronte a una città sempre più chiaramente in rivolta contro la sua classe politica, la sinistra rischiava di ripetere tragici errori, consegnando alla destra il monopolio dell'opposizione non solo al trattato sui confini, ma anche all'industrializzazione del Carso. Ma l'accordo di Osimo meritava questa difesa ad oltranza? Abbiamo cominciato allora ad approfondire la questione, e ci siamo convinti che la zona industriale, lungi dal costituire il bizzarro parto di un presuntuoso e ignorante alto burocrate democristiano, costituiva invece il perno dell'intero trattato, il quale non era per parte italiana altro che la copertura e il pretesto per imporre l'approvazione di un progetto che diventava sempre più chiaro e si appalesava sempre più catastrofico per Trieste e per la sua popolazione.

Presentata come "contropartita" alla cosiddetta cessione della zona B, la zona industriale carsica a cavallo del confine dovrà innanzitutto sorgere su un territorio molto ampio, più vasto della stessa città di Trieste, alle spalle di questa, esattamente nella direzione da cui soffia il vento predominante, la bora. L'inquinamento atmosferico sarà dunque inevitabile e massiccio: la bora anziché portare aria pulita, come finora è sempre accaduto, diverrà il veicolo principale della diffusione della malattie da inquinamento atmosferico. Basterebbe questa constatazione per esigere una diversa ubicazione della zona industriale: una ratifica di questa parte dell'accordo sarebbe un crimine in una città che già detiene il primato nazionale dei decessi per tumori polmonari.
Il terreno su cui la zona dovrà sorgere, oltre ad essere inadatto da un punto di vista orografico, è permeabilissimo: sarà quindi inevitabile un massiccio inquinamento idrico, a meno di non volere adottare impianti di disinquinamento e fognari che da soli impegnerebbero più dei 300 miliardi stanziati.

Per la realizzazione delle infrastrutture previste della legge di ratifica (e che comunque creerebbero altri problemi di difficile soluzione) le acque di scarico delle industrie della zona andranno inevitabilmente a inquinare le sottostante falda carsica, che sfocia nel golfo di Trieste attraverso il fiume Timavo, da cui Trieste trae attualmente il suo fabbisogno idrico. Non solo, la stessa falda isontina (un nuovo acquedotto reperirà dall'Isonzo l'acqua necessaria per l'approvvigionamento di Trieste) sarà irreparabilmente compromessa. E' da rilevare che già oggi la presenza di due sole industrie che scaricano i loro residui nel Timavo, in territorio jugoslavo, rende spesso inutilizzabili le sue acque, e Trieste è rimasta più volte all'asciutto. Lo stesso golfo di Trieste, dotato di bassi fondali e sfavoritissimo dalle correnti, non potrà non essere irrimediabilmente compromesso.

Gli accordi di Osimo non offrono, per la prevenzione degli inquinamenti, altro che dichiarazioni di intenzioni, ma nessuna prescrizione normativa precisa e vincolante; ci si rimette quindi alla buona volontà di chi gestirà questo accordo. Nessuna garanzia è data nemmeno per il tipo di insediamenti industriali che saranno consentiti nella zona, né alcun limite è posto alla sua estensione, limitandosi il protocollo a stabilire che le aree dovranno essere scelte da una commissione paritetica all'interno di un perimetro enorme, che comprende al suo interno gli abitanti di Gropada, Padriciano e Trebiciano e i sobborghi di Opicina, Basovizza e Sesana, oltre a una delle riserve naturali erette nel 1971 dalla legge Relci (dal nome del deputato moroteo che la presentò e che è oggi fra i paladini dell'accordo) sulla tutela dell'ambiente sociale e naturale del Carso. Il territorio interessato oltre a costituire tradizionalmente il polmone verde di Trieste (il Carso è noto per la quantità di specie vegetali e per l'abbondanza dei caprioli) e la meta del tempo libero dei triestini, è abitato pressoché totalmente dalla comunità nazionale slovena residente in Italia. La creazione della zona industriale non potrà che portare a compimento, con la costruzione delle industrie, delle infrastrutture abitative e viarie, con la congestione urbana e l'immigrazione di massa che si renderanno necessarie, l'opera di distruzione della minoranza nazionale slovena che vent'anni di fascismo e trent'anni di regime democristiano non erano riusciti a perfezionare: va rilevato infatti che, a differenza di quanto accaduto nel vicino comune carsico Duino Aurisina, dove sono stati insediati dopo la guerra mondiale numerosi nuclei di abitati riservati ai profughi istriani, nel territorio interessato la minoranza slovena, forte di una fitta struttura associativa di autodifesa etnica e culturale, è ancora di gran lunga il gruppo prevalente.

Sul piano sociale l'istituzione della zona industriale carsica provocherà lo sfacelo di una comunità urbana e rurale il cui livello di vita si mantiene ancora su livelli umanamente accettabili. Per la prima volta nella storia del nostro paese, la sinistra istituzionale si appresta a dare il proprio avallo al modello di sviluppo non controllato, scriteriato e distorto che per un secolo ha combattuto e contestato nel resto del paese. Si creeranno infatti nella zona non meno di settantamila posti di lavoro, per coprire i quali necessariamente saranno richiamati lavoratori dalle zone depresse della Jugoslavia meridionale, i quali con le loro famiglie verranno a creare una nuova città di non meno di 200.000 abitanti: una disoccupazione di massa così ampia da giustificare insediamenti industriali di tali dimensioni non esiste infatti nel territorio interessato né da parte italiana, né da parte jugoslava: si ricreeranno inevitabilmente quei fenomeni di congestionamento urbano, disadattamento sociale di massa, infelicità collettiva, che segnano il volto delle periferie dei centri industriali delle aree ipertrofiche del triangolo industriale: il carcere minorile voluto a Padriciano dal procuratore generale di Trieste Antonio Pontrelli (quello accusato dagli avvocati difensori degli imputati della strage di Peteano), la cui realizzazione è sempre stata contestata dalle forze democratiche, troverà il modo di riempirsi e di fornire finalmente un adeguato indice di criminalità anche alla cronaca triestina. Del resto un'immigrazione così massiccia di lavoratori jugoslavi finirà inevitabilmente per rinfocolare odi nazionali che si vanno invece sempre più definitivamente spegnendo..

Perché tutto questo? Gran parte degli errori contenuti nell'accordo è sicuramente dovuta all'incompetenza e all'incapacità di chi ha gestito la trattativa. Ad esempio per quanto riguarda l'ubicazione, il dottor Carbone, relatore a un convegno organizzato dalla Dc a Trieste in ottobre, ha risposto pressoché testualmente: "Sa, io non sono di Trieste, ma ho visitato la zona in elicottero (sic!) poi ci ho mandato i geometri, i quali mi hanno detto che, sì, ci sono effettivamente questi, com'è che li chiamate? questi buchi (si riferiva alle doline, alle foibe, agli altri fenomeni del carsismo, ndr), ma che la cosa era fattibile". A parte la scelta folle e criminale dell'ubicazione della zona industriale (e ci devono spiegare come sia possibile in periodo di austerità chiamare i contribuenti a fare sacrifici per costruire nuove industrie e per costruirle per di più in una zona dove costeranno quattro o cinque volte più che altrove, con grave danno per la salute di una città e nessun vantaggio per l'occupazione) resta da analizzare quale sia la molla economica, quali gli interessi che hanno spinto ad elaborare questo progetto. Va detto subito che, per esplicita affermazione dei nostri negoziatori, la zona franca industriale l'hanno voluta loro, e non gli jugoslavi, e certamente solo un democristiano italiano poteva partorire una imbecillità tale. Per quali interessi ha dunque agito il dottor Carbone, oltreché per venire incontro alle esigenze della Dc locale che ha cercato di presentare l'accordo sulla zona come una contropartita per Trieste, di fronte alle temute reazioni (che invece sono state assai deboli) contro la cosiddetta cessione dell'ex zona B? La risposta la fornisce l'art. 5 del protocollo sulla zona franca, che dice: "I rapporti di lavoro, relativi agli stabilimenti situati nella zona sono sottoposti alla legislazione dello Stato in cui ha sede l'impresa da cui dipendono detti stabilimenti". Poiché secondo il diritto jugoslavo, imprese straniere non possono insediarsi in Jugoslavia, ma solo essere presenti attraverso compartecipazioni minoritarie, ecco aprirsi per i grandi gruppi multinazionali la possibilità di usufruire sotto la bandiera ombra jugoslava della manodopera sottocosto, rappresentata dai lavoratori macedoni, montenegrini e bosniaci che immigreranno nella zona. Solo per questi grandi gruppi, grazie al peso contrattuale da essi detenuto presso il governo di Belgrado a causa di altre compartecipazioni in imprese jugoslave, sarà possibile superare sul piano dei rapporti di forza le difficoltà frapposte dalla legislazione jugoslava all'impiego di capitali stranieri. Questi gruppi (per parte italiana pare abbia già avanzato la richiesta la Fiat holding, e non a caso Gianni e Umberto Agnelli sono più volte pubblicamente intervenuti a Trieste in difesa dell'accordo) potranno quindi produrre merci da importare nei paesi del Mec godendo di condizioni inimmaginabili in Italia: pagando la manodopera a un prezzo pari a circa la metà di quello italiano, e senza applicare i ben più gravosi contratti italiani e la legislazione italiana (tra l'altro lo statuto dei lavoratori). Per altre imprese italiane non vi sarà alcun incentivo a installarsi nella zona franca. Più di 180 imprese di nazionalità jugoslava e nessuna di nazionalità italiana hanno infatti presentato richiesta di installarsi nella zona.

I riflessi sull'economia triestina, in mancanza di credibili prospettive occupazionali nella zona, saranno tutti negativi: le grandi imprese avranno tutto l'interesse a spostare le loro attività nella zona sotto la bandiera ombra jugoslava, sottraendo posti di lavoro agli operai triestini. Non a caso si sono verificate in questi ultimi mesi numerose chiusure di stabilimenti industriali e non è stata smentita la notizia, pubblicata da un diffuso settimanale, secondo cui la Fiat starebbe per ritirare la propria partecipazione del 50% nella "Grandi Motori Trieste". Lo stesso interesse avranno le grandi imprese che operano nel vicino Friuli e va rilevato che quantomeno i piani di sviluppo industriale della regione non dovrebbero ignorare dopo il 6 maggio i problemi della ripresa economica del Friuli, senza la quale non è pensabile nessuna rianimazione della vita civile nelle zone terremotate. Le industrie insediate nella zona non promuoveranno nessuna attività industriale indotta che venga incontro alle esigenze occupazionali di parte italiana, perché anche per queste imprese sarà conveniente operare con manodopera jugoslava in zona franca. L'industria triestina non potrà che soccombere di fronte alla concorrenza delle imprese jugoslave operanti in zona franca, il massiccio afflusso di nuova popolazione aumenterà il già alto costo della vita a Trieste; e, al di là di tutte le dichiarazioni di intenzioni contenute nell'accordo e nel protocollo, i trasporti via mare e via terra non passeranno certo attraverso i porti e i vettori triestini ben più costosi di quelli jugoslavi, così come resterà sulla carta l'affermazione secondo cui i cittadini dei due paesi avranno pari diritto all'impiego negli stabilimenti della zona.

Per di più le scelte operate attraverso l'accordo di Osimo sconvolgono ogni precedente previsione economica e urbanistica elaborata degli enti locali. Le popolazioni e i loro organi elettivi non sono stati minimamente consultati di fronte a scelte che segneranno così profondamente la loro vita futura. Solo il presidente regionale, il moroteo Comelli (altra delle due sciagure che, con il terremoto, hanno colpito quest'anno le popolazioni friulane) venne convocato nel cuore della notte per esprimere parere favorevole (obbligatorio a norma dello statuto regionale, che prevede la partecipazione del presidente della regione alle riunioni del Consiglio dei ministri che discutono materie d'interesse regionale) ad un progetto che nemmeno conosceva, se non nelle linee essenziali. Il voto favorevole dei consigli degli enti locali fu solo successivo, e verté ovviamente più sul problema della definizione delle controversie confinarie che su un accordo economico che era difficile allora valutare in tutte le sue conseguenze, e fu estorto con inaudite pressioni dei vertici nazionali di alcuni partiti: di fronte a un voto di un'assemblea cittadina del Pri, che invitava i propri rappresentanti ad astenersi, La Malfa annuncio telegraficamente le proprie dimissioni da vicepresidente del consiglio se tale mandato fosse stato rispettato, provocando le dimissioni di uno dei due consiglieri comunali repubblicani.

Ma se non vi è stato alcun coinvolgimento degli enti locali né delle forze sociali nella fase di stipulazione dell'accordo, non diverse sono le prospettive per la futura gestione degli accordi; ogni decisione in merito, infatti, è demandata a una commissione paritetica italo-jugoslava, costituita per parte italiana da tre rappresentanti dell'Ente Zona Industriale di Trieste (Ezit), presieduto, come tutto il sottogoverno locale, da un altro moroteo, Ennio Antonini. Attraverso la creazione di questo comitato, le competenze legislative e amministrative degli enti locali e della stessa regione a statuto speciale, già limitate con la definizione di scelte irreparabili attraverso la stesura degli accordi, verranno definitivamente amputate: sarà il comitato a decidere, senza alcun controllo elettivo, l'estensione della zona, i controlli (solo eventuali) sull'inquinamento, il tipo di insediamenti da permettere o da vietare, ed ogni altro compito previsto dal protocollo sulla zona franca e dalle sue disposizioni aggiuntive, tuttora ignote. Questo comitato dovrà, secondo l'art. 7 del protocollo, "amministrare la zona". Esso dovrà inoltre elaborare il piano urbanistico della zona, per proporlo alle "competenti autorità" dei due paesi. Nel miglior caso, quindi, agli enti locali non resterà che esprimere un sì o un no alle scelte proposte dal comitato, ma la situazione potrebbe anche essere peggiore. La Corte Costituzionale ha infatti fin qui ritenuto che il limite degli "obblighi internazionali" alle competenze legislative e amministrative delle regioni e degli enti locali vada interpretato in senso estensivo e antiautonomistico, come comprensivo della stessa esecuzione degli accordi: in caso di futuri contrasti fra Stato e enti locali, il governo troverà quindi miriadi di giuristi di regime disposti a sostenere la tesi che le "competenti autorità" sono, per parte italiana, quelle statali e non quelle locali.

Catastrofe ecologica, strage ambientale, deportazioni forzose di migliaia di lavoratori per essere ipersfruttati dai grandi gruppi multinazionali, congestionamento urbano, prevedibile incremento massiccio dei fenomeni di disadattamento sociale, rinfocolamento prevedibile di odi nazionali ormai quasi sopiti, aggravamento della crisi dell'economia triestina e ostacoli alla ripresa produttiva nel Friuli, amputazione permanente delle competenze degli enti locali attraverso lo strumento centralistico del trattato internazionale. Eppure, la sinistra triestina tradizionale ha fatto quadrato a difesa di questo accordo, ha rischiato, prima dell'intervento radicale, di regalare alla destra il monopolio dell'unanime opposizione popolare a questo folle e criminale progetto di regime. Il ricatto democristiano ha quindi ancora una volta funzionato: l'avere legato trattato e accordo in un unico documento sembra porre le forze democratiche di fronte all'alternativa: o ratifica integrale dell'accordo sulla zona industriale o crisi internazionale per la mancata definizione del problema dei confini. Da parte jugoslava, le preoccupazioni per la definitiva chiusura di un focolaio di tensione in previsione del "dopo Tito" sono più che giustificate, dopo il comportamento inqualificabile che per quasi vent'anni ha mantenuto la diplomazia italiana, che ha sempre promesso un accordo sui confini nei colloqui internazionali, mentre la Dc ha sempre alimentato impossibili illusioni revansciste e speculato in tal modo sui sentimenti dei profughi istriani a ogni tornata elettorale. Altrettanto giustificate sono quindi le preoccupazioni dei democratici italiani perché questo problema sia al più presto rimosso, ma non è in nessun modo accettabile che il prezzo dell'accordo sui confini sia la catastrofe che si vuole imporre a Trieste con la nuova e peggiore Gioia Tauro.

Non si tratta di essere a favore o contro l'industrializzazione in generale: si deve dire se alla sinistra va bene qualunque industria, dovunque e comunque. Vi sarebbero per l'ubicazione della zona industriale a cavallo del confine, almeno due alternative possibili: la zona del Vipacco, in provincia di Gorizia, o ancora meglio, quella che rappresenta la direttrice naturale dello sviluppo economico di Trieste: la valle delle Noghere, a sud della città, in continuazione dell'attuale zona industriale di Trieste. Anche in questa zona vi sono alcuni problemi tecnici, ma nemmeno paragonabili a quelli che dovrebbero essere affrontati sul Carso. La soluzione giuridica per salvare il trattato (pur non esente da gravi difetti per quel che riguarda, ad esempio, la perdita sicuramente incostituzionale della cittadinanza per i cittadini dei due gruppi etnici minoritari che non optino entro i tre mesi per il trasferimento nella madrepatria) e rinegoziare il trattato per la parte relativa alla zona industriale non dovrebbe essere difficile da trovare, essendo tutta da provare l'inscindibilità di trattato e accordo. Una soluzione del genere non dovrebbe trovare insormontabili ostacoli da parte jugoslava se è vero com'è vero che la zona industriale è stata voluta dagli italiani: anche se è certo che questa rinegoziazione non potrebbe che sottolineare e riconoscere la nullità e il pressappochismo dei negoziati democristiani. Finora la Dc aveva buon gioco a sostenere che l'opposizione alla ratifica della zona franca industriale non era che un pretesto per bloccare l'accordo sui confini: altrettanto poteva anche essere detto a proposito della raccolta delle firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la zona franca integrale, dopo il tentativo di strumentalizzazione messo in atto dalle organizzazioni nazionaliste. L'iniziativa radicale ha cambiato il segno di questa opposizione, ha quanto meno offerto la possibilità di dare uno sbocco democratico alla doverosa e plebiscitaria opposizione popolare alla zona industriale carsica. Aderendo alla raccolta delle firme abbiamo chiaramente affermato che volevamo con ciò significare non l'adesione ad un progetto economico alternativo, che non sarà approvato certamente da alcuna maggioranza parlamentare, ma proprio la nostra opposizione alla creazione della zona industriale, e, dopo il nostro intervento, il traguardo delle 50.000 firme è stato superato, e il flusso dei cittadini che si recano a firmare, già elevatissimo, è ulteriormente aumentato.

Le forze politiche hanno dovuto misurarsi con questa iniziativa radicale, un gruppo di prestigiosi esponenti della cultura e della sinistra italiana ha aderito ad un appello al Parlamento lanciato dal PR per una diversa ubicazione e regolamentazione della zona industriale. Giorgio Benvenuto ha autonomamente espresso una posizione analoga alla nostra, ed è stato colpito dalla stessa censura (il gazzettino radiofonico regionale, diretto dal moroteo Botteri, non ne ha dato notizia: si tratta del direttore della Rai locale che in una circolare inviata ai giornalisti ha scritto che la giunta Comelli non può essere contestata dalle popolazioni terremotate perché "in un paese democratico" tale compito spetta alle forze politiche rappresentate negli enti locali e quindi le proteste popolari vanno censurate). Il Pdup e Lotta Continua hanno fatto proprie in larga misura le nostre critiche anche se si asterranno dal dare battaglia contro la ratifica, sottostando anch'essi al ricatto democristiano; il Pli e poi il Psdi locali hanno chiesto anch'essi la rinegoziazione dell'accordo.

Ma le forze politiche maggioritarie hanno riunito nuovamente il consiglio comunale e quello provinciale, per riaffermare in una mozione il proprio favore alla ratifica: sulle linee della mozione è probabile che anche al Parlamento sarà proposto un ordine del giorno che affermerà "l'esigenza che enti locali e forze sociali siano resi pienamente partecipi della migliore attuazione degli accordi" e che "la comunità locale sia parte attiva e non oggetto passivo di scelte maturate altrove" (sic), e l'impegno alla "doverosa salvaguardia dell'equilibrio ecologico e dell'ambiente naturale del Carso, nonché dell'assetto etnico e sociale delle zone interessate": vane parole, "erba trastulla", come avrebbe detto Ernesto Rossi, di fronte alla approvazione con legge di un provvedimento ispirato a criteri diametralmente opposti, e dotato di valore normativo. Ma la chiave di volta della mozione approvata al consiglio comunale, da tutti i gruppi dell'"arco costituzionale" con la sola eccezione del Pli, è costituita da un'affermazione che riprende una frase di un manifesto diffuso nei giorni precedenti dalla federazione del Pci: sulla base degli accordi di Osimo dovranno "stabilirsi tra le forze democratiche della città nuove e positive intese, tali da assicurare all'iniziativa delle amministrazioni elettive l'autorevolezza che può derivare solo da una più ampia base dei consensi". Non è una frase equivoca: è l'accordo politico sulla zona industriale del Carso che apre la via la compromesso storico a livello locale. L'approvazione di una catastrofe di regime è stata il suo primo atto; il secondo, pare, sarà il rinvio delle elezioni comunali, previste per l'anno prossimo, e che non potrebbero che essere catastrofiche per le forze politiche, quanto la zona industriale lo sarà per la città. E' questo il nuovo modo di governare che i compagni del Pci ci preannunciano da mesi?