LA LOC è un movimento antimilarista, non la corporazione degli obiettori di Roberto Cicciomessere NR 221, 12 dicembre 1975 Dovrà essere un momento di
profondo chiarimento e di precise scelte. Tutti i compagni obiettori,
antimilitaristi non-violenti, radicali hanno quindi il diritto-dovere
di partecipare al 4° congresso nazionale della LOC che si svolgerà il
4, 5 e 6 gennaio a Milano. Credo infatti che proprio
oggi, in presenza di nuovi e non previsti contributi alla lotta contro
l'organizzazione militare da parte del personale permanente delle FF.AA
e di profonde modificazioni "strutturali" degli eserciti nazionali,
la proposta complessiva dell'obiettore di coscienza abbia, unica, la
possibilità di rappresentare con chiarezza una insostituibile posizione
politica per noi irrinunciabile. Ho creduto cioè, per un momento,
che a partire dalla esplosione interna della contraddizione fra società
civile ed organizzazione autoritaria delle FF.AA, dalla presa di coscienza
dei disagi profondi del personale permanente dell'esercito che sono
determinati soprattutto da crisi d'identità, da crisi del ruolo individuale
e collettivo dei militari, dovesse necessariamente e meccanicamente
scoppiare il rifiuto dell'istituzione. Ed in effetti ciò è avvenuto in alcune avanguardie del movimento, ma al momento di trarre le necessarie conclusioni si è opposta la quasi infinita capacità del "sistema" di recuperare a proprio vantaggio le stesse proprie contraddizioni (ristrutturazione delle FF.AA. e aumento delle spese per armamenti; forme di rappresentanza e partecipazione dei militari all'interno delle caserme), le tentazioni verso modelli portoghesi o terzomondistici (grazie anche al "contributo" dei compagni della "sinistra rivoluzionaria"), ed in definitiva l'impossibilità culturale e storica di concepire anche solo teoricamente l'abolizione degli eserciti. Ecco, allora ho capito ancora
più profondamente che il significato maggiore dell'obiettore di coscienza
non risiede nella controproposta perbenistica del servizio civile alla
comunità, neanche nella generica proposizione umanitaria e pacifista,
ma nella concreta demolizione del mito, del simbolo dell'esercito e
della sua necessaria esistenza. L'obiettore di coscienza,
esprime, nell'unica forma intellegibile e con mezzi omogenei all'obiettivo,
una proposta politica e culturale radicalmente alternativa a tutti gli
eserciti. Ed a questa affermazione
possiamo forse capire uno dei maggiori errori della LOC; aver voluto
o dovuto rappresentare tutti gli obiettori e non solo quelli che si
identificavano, non solo a parole ma nel comportamento, ai principi
costitutori di questa organizzazione politica. E' secondario anche fotografare
una situazione di servizio civile divenuto solo per pochi serio impegno
di pratica sociale e per molti interminabile ed alienante periodo di
attesa del congedo, riproponendosi cioè negli stessi termini del servizio
militare. Sicuramente non potremo accettare
l'attuale paralizzante condizione di continuo scontro politico ad ogni
livello che ha impedito sia una forte gestione della lotta antimilitarista
che, per coloro che credono nel significato autonomo del servizio civile,
l'elaborazione di un preciso progetto di intervento nel sociale con
le alleanze quindi necessarie per questo scopo. I fascisti scelgono il processo fascista NR1, 24 gennaio 1976 SOMMARIO: I motivi che hanno indotto gli avvocati radicali Mellini e De Cataldo prima ad accettare e in seguito a rifiutare la difesa degli imputati di Avanguardia Nazionale. Hanno accettato innanzitutto perchè tali imputati non hanno commesso atti di violenza, ma soltanto reati politici ed ideologici e in secondo luogo perché intedevano fare un processo radicale, libertario e antifascista. Hanno successivamente rifiutato la difesa poichè gli imputati non hanno accettato di avvalersi di un processo di tal genere e, quindi, del diritto di sollevare questioni preliminari ed eccezioni di incostituzionalità; hanno scelto, cioè, un processo fascista. Roma, 13 gennaio - NR Un appello ai 62 imputati
di Avanguardia Nazionale è stato rivolto da Marco Pannella, nel corso
di una conferenza-stampa tenuta presso la sede del Partito Radicale,
perché, dissociandosi dalla linea difensiva scelta dalla loro organizzazione
designino come loro difensori avvocati radicali. "Ci impegniamo
a difenderli - ha detto Pannella - anche contro eventuali ritorsioni
e rappresaglie che potrebbero avvenire in carcere". La conferenza-stampa era
stata convocata per spiegare i motivi che avevano indotto gli avvocati
Franco De Cataldo e Mauro Mellini ad assumere la difesa di alcuni imputati
del processo per ricostituzione del Partito Fascista intentato a 62
pretesi appartenenti alla organizzazione Avanguardia Nazionale. I due
avvocati hanno invece comunicato che rinunciano ad assumere la difesa
in questo processo, essendo venuta meno una delle condizioni che essi
avevano posto: gli imputati di A.N. hanno infatti rinunciato ad avvalersi
del diritto di sollevare, in apertura del processo, questioni preliminari
ed eccezioni di incostituzionalità. Gli avvocati avevano nei
giorni scorsi posto come pregiudiziale alla difesa i seguenti tre punti: I due avvocati hanno dato
alcune informazioni tecniche e processuali ai giornalisti, chiarendo
che nel processo ai A.N. non è contestato agli imputati alcun atto di
violenza ma solo reati politici ed ideologici. Il saluto del PR al 40° Congresso del Partito Socialista NR4 3 marzo 1976 Compagni del PSI, il Partito Radicale rivolge al Vostro Congresso un caldo e fraterno saluto. E' un congresso importante che si svolge in un momento cruciale, forse decisivo, della storia della nostra Repubblica democratica. Dai vostri lavori, dalle vostre decisioni di questi giorni non si attendono né l'indicazione di una nuova formula di governo, né scelte tattiche contingenti. E' in gioco la possibilità stessa di dare corpo alle speranze di alternativa e di rinnovamento della classe operaia e di masse crescenti di cittadini, delle masse femminili che hanno iniziato la loro lotta di liberazione, delle generazioni più giovani, dei nuovi ceti tecnici, dei ceti emarginati che lottano per la propria emancipazione, di quei settori produttivi della media e piccola borghesia che rifiutano ormai di identificare i loro destini con quelli di un regime corporativo e classista, clientelare e ingiusto, parassitario e corruttore. La realizzazione di queste
speranze è in gran parte affidata alla possibilità di una forza socialista
e libertaria che torni ad avere un ruolo determinante nella sinistra
italiana, nella costruzione della sua unità, nelle sue scelte politiche,
nei suoi programmi di governo. Ne esistono probabilmente le condizioni
e l'opportunità. Potrete coglierle se saprete uscire dal ruolo di forza
intermedia, secondaria, condizionata, che sembrano assegnarvi gli attuali
equilibri politici e la vostra attuale consistenza elettorale. La candidatura comunista al governo del paese ha aperto un dibattito falso e vergognoso sulle garanzie di democrazia che la sinistra dovrebbe fornire e che dovrebbero accompagnare la diretta assunzione di responsabilità di governo da parte del PCI. Le stesse forze che per trenta anni hanno impedito l'attuazione della costituzione, che hanno contrastato qualsiasi politica dei diritti civili, che hanno fatto strage non solo di legalità e istituzioni ma, dal 1969 al 1974, in una ininterrotta strategia della tensione, anche di vite umane, hanno la pretesa di porre condizioni e di proporsi addirittura come garanti della continuità dello Stato democratico. Non chiedono in realtà garanzie di libertà ma garanzie concordatarie e di potere. E' un disegno pericolose cinico che deve essere denunciato, contrastato, battuto, ma che può affermarsi ed imporsi senza una chiara risposta democratica di classe, socialista e libertaria. Questa risposta spetta in
primo luogo ai socialisti e ai libertari. Si presenta oggi alla sinistra
italiana l'occasione storica, che già nel 1947 Piero Calamandrei indicava
come prioritaria, di completare il disegno costituzionale, di realizzare
uno stato davvero democratico, di spazzare via le bardature fasciste,
autoritarie, clericali, militariste e corporative che caratterizzano
il nostro ordinamento giuridico, sopravvissute al fascismo, mantenute,
consolidate o create ex novo dalla Democrazia Cristiana. Questa è l'unica
garanzia che la sinistra deve fornire e la deve fornire non ai propri
avversari, non ai padroni di ieri e di oggi, che sperano di rimanere
tali anche domani, ma al paese e alla classe. Non esiste contrapposizione
fra politica delle libertà e dei diritti civili e politica di riforme
economiche e sociali: la prima è condizione delle seconde. La grande
scelta di fronte alla quale ci troviamo è fra l'illusione di poter edificare
il socialismo con metodi autoritari e la sfida di costruire il socialismo
ampliando la sfera della libertà del controllo, della partecipazione
delle masse e dei cittadini: fra un socialismo burocratico, autoritario,
necessariamente repressivo, e un socialismo libertario autogestionario. "La Segreteria nazionale del Partito Radicale" Le nostre proposte 1) l'apertura di un dibattito,
capace di coinvolgere tutte le forze politiche disponibili ma soprattutto
le forze sociali che si sono espresse nel paese attraverso nuovi istituti
di democrazia diretta nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole,
come nei nuovi movimenti di liberazione, per un programma di governo
di legislatura, di riforme economiche, sociali e istituzionali, che
possa costituire l'elemento di confronto con il PCI per un programma
comune delle sinistre; Su questo numero del giornale riportiamo un'ampia sintesi delle proposte di legge, elaborate dal Partito Radicale in collaborazione con gli altri movimenti dei diritti civili, con il Movimento per la liberazione della donna, con numerosi giuristi democratici. Queste proposte, anche se
non rispondono a criteri di sistematicità e omnicompensività, hanno
assunto le caratteristiche di una vera e propria "carta delle libertà
e dei diritti civili", come hanno voluto definirla i compagni Giuseppe
Caputo e Stefano Rodotà che hanno dato un importante contributo alla
loro compilazione e formulazione. Esse costituiscono anche il primo
contributo dei radicali a un progetto socialista di legislatura. di Marco Pannella STAMPA SERA, 12 aprile 1976 A vent'anni esatti dalla sua costituzione, il partito radicale ha deciso di presentarsi da solo, con proprie liste sia per la Camera che per il Senato, alle ormai prossime elezioni legislative. Pur non essendo più iscritto da più di tre anni a questo partito (ed essendolo, da qualche mese, al PSI) approvo questa decisione, che ritengo necessaria e doverosa verso la stessa vita democratica del Paese. Dobbiamo dirci con franchezza che nei confronti dei radicali il potere repubblicano agisce in modo fascista: che attraverso questa discriminazione è la vita civile di tutti che è minacciata. Come? Vediamo. La Corte Costituzionale ha detto chiaro e tondo, con energia, che il monopolio pubblico dell'informazione radiotelevisiva si giustifica solamente nella misura in cui assolve al compito democratico di servire i diritti dei cittadini. La Suprema Corte si è pronunciata in tal senso proprio dopo durissime battaglie radicali su questo tema. Ancora di recente, con una
sua ordinanza, la magistratura romana ha riconosciuto al partito radicale
un "diritto soggettivo assoluto", pari a quello degli altri
partiti "ufficiali" del regime, di accesso e di presenza nell'informazione
radiotelevisiva. Ebbene, ancora nei giorni scorsi, all'unanimità, la
commissione parlamentare di intervento e di vigilanza sulla Rai-tv,
pianificando "tribune politiche" e "conferenze stampa"
dei partiti fino a giugno (indirettamente quindi anche dibattiti e criteri
del'informazione dei giornali e notiziari audiovisivi) ne ha escluso
di nuovo il partito radicale. E non basta. Il regime partitico ufficiale si fonda, com'è ormai noto, oltre che sulla rapina legale del danaro pubblico, anche sul peculato, sulla corruzione, sui fondi neri di tutte le baronie economiche pubbliche e private, nazionali ed internazionali. Esso mantiene ancora in vita leggi che hanno consentito alla magistratura di condannare penalmente esponenti radicali colpevoli di ricorrere all'autofinanziamento pubblico e volontario, delle proprie attività: i radicali sono così dei delinquenti condannati per "colletta pubblica", fastidi di mendicanti e straccioni da marciapiede. Non vogliono "rubare". Non devono vivere. Intanto, valanghe di processi
e condanne per reati di opinione, arresti e carcere per le disobbedienze
civili che il solo partito non violento d'Italia ha compito durante
le lotte di liberazione sociale in questi dieci anni: da quella per
il divorzio, a quella per l'obiezione di coscienza, per l'educazione
demografica, per la libertà sessuale, per i diritti delle minoranze,
per l'aborto. E' dunque ormai evidente
che da vent'anni dura, ininterrotto, un tentativo violento di soffocamento
e di assassinio politico di questa minoranza, di tanta maggior violenza
quanto più essa si è rivelata a tutti, ormai, potente e popolare. Il
tentativo, forse, stava o sta per riuscire. I radicali hanno ora raccolto
la sfida, da intransigenti della democrazia quali sono. Il segreto che Pannella ha svelato agli italiani L'importanza di conquistare uno spazio in televisione di Umberto Eco CORRIERE DELLA SERA, 5 maggio 1976 Mentre scrivo, Marco Pannella ha vinto - anche se non del tutto - la sua battaglia per apparire sui teleschermi. Ma a questo punto ci si può riproporre a nervi più distesi la domanda che Parise ha posto su queste colonne, se l'accesso alla televisione valesse il rischio della vita, se occorreva pagare tanto per qualcosa che altri hanno avuto per vent'anni senza pagare (che dico?, traendone dell'utile) e che a conti fatti vale assai poco. A porre la questione in termini di sociologia delle comunicazioni, ancora dieci anni fa si riteneva che la televisione fosse uno strumento di persuasione che occorreva possedere ad ogni costo. La scuola di Francoforte ci aveva insegnato che i mezzi di massa erano i veri strumenti del Dominio. Ma le esperienze concrete dell'ultimo decennio hanno cambiato le carte in tavola. La DC ha posseduto la televisione per due decenni, a sentire i profeti apocalittici dei "mass media" vent'anni di televisione avrebbero dovuto produrre una generazione del consenso, capelli corti, casa e famiglia, legge e ordine. E invece Bernabei e Pippo Baudo, Willy De Luca e Mike Bongiorno, Andreotti che scopriva il monumento e Abby Lane che scopriva le gambe, Rumor Mariano e padre Mariano, Fanfani e Corrado impegnati entrambi a pubblicizzare la loro corrida, hanno prodotto i ragazzi del sessantotto, le femministe abortiste del settanta, il 13 maggio del settantaquattro e il 15 giugno del settantacinque. E quindi Henry Kissinger sa con chi deve prendersela. Perché è successo questo?
Perché Bernabei e Mike Bongiorno non sapevano il loro mestiere? No,
specie il secondo. E' che un mezzo di massa non diffonde messaggi nel
vuoto, li diffonde in mezzo ad altri messaggi e li fa arrivare nel vivo
delle situazioni concrete. Gridare "allegria!" a un disoccupato
produce strani e dialettici effetti. In termini più precisi, i messaggi
dei mezzi di massa interagiscono con le circostanze sociali e vengono
letti alla luce di molti messaggi alternativi. Non ultimo elemento è
il fatto che nulla è più corrosivo della propaganda politica in televisione,
nei modi almeno di "tribuna politica". Una indagine semiologica
fatta qualche anno fa da Paolo Fabbri aveva mostrato che ogni uomo politico
(di qualsiasi partito) messo davanti al teleschermo, non avendo più
a che fare col pubblico riconoscibile e caratterizzato del comizio in
piazza, presumendo giustamente di doversi rivolgere alla "media"
dei cittadini, livellava le punte dei propri discorsi sulla media. Se
era di destra correggeva il tiro a sinistra, se era di sinistra correggeva
il tiro a destra, e il risultato finale era che tutti i discorsi erano
di centro. Rari i casi di personaggio che supplisse a questo fatale
assestamento degli argomenti con una presenza che in qualche modo "bucasse"
lo schermo: per quel che ricordo citerei Pajetta. E forse Almirante,
che si spostava talmente e con tanta improntitudine dall'immagine attesa
dal pubblico, che qualche effetto lo faceva. Direi che tutti questi interrogativi sono validi se si affronta la questione dal punto di vista della comunicazione così come la si concepiva. Ma il caso Pannella ci obbliga a spostare il fuoco del discorso, perché "Pannella è stato anzitutto in Italia una persona che ha cambiato il modo di concepire i mezzi di comunicazione di massa". Se andiamo a rivederci i
vari episodi della vita pubblica di Pannella (che qui viene assunto
ad emblema del gruppo radicale in toto) si deve riconoscere che, indipendentemente
dalla valutazione che si possa o si voglia dare delle posizioni ideologiche
dell'uomo, Pannella ha anzitutto rivoluzionato i mezzi di comunicazione
nel nostro Paese. Ogni iniziativa di Pannella consiste sempre in una
operazione compiuta in un ambiente magari ridotto ma eseguita in modo
tale da mettere in questione tutte le nostre aspettative; così da obbligare
i mezzi di massa a parlarne. I radicali si lamentano che le loro iniziative
hanno subito e che subiscono il boicottaggio dei mezzi di informazione,
e probabilmente hanno ragione, commisurando gli effetti all'energia
che hanno speso, ma sta di fatto che quel poco dei loro interventi che
ha infranto la barriera del silenzio ha ribaltato il nostro modo di
vedere le cose su molti problemi. Occupare l'Altare della Patria portando
corone ai caduti visti come vittime e non come eroi, organizzare manifestazioni
sul marciapiede e non in mezzo la strada per non disturbare il traffico,
fumare droga dopo aver avvertito la polizia e non di nascosto (esigendo
l'arresto), digiunare per acquisire un un diritto alla parola riconoscimento
della Costituzione, tutte queste ed altre azioni hanno due caratteristiche.
Anzitutto, si pongono "dentro" le istituzioni e rivendicano
il rispetto delle istituzioni, ma mettono le istituzioni in crisi, perché
ci si accorge che a rispettarle a fondo sorge una situazione insostenibile.
E questo è un punto su cui Pannella è sempre stato molto esplicito,
paradossalmente amplificando il suo legalitarismo. In secondo luogo
obbligano la stampa e l'opinione pubblica a rendersi conto che le istituzioni
sono in difetto e che là dove pareva esserci ordine e osservanza c'era
invece prevaricazione, complicità e silenzio. In fine la comunicazione
attuata dai gesti di Pannella riguarda sempre circostanze concrete ma
si attua non "parlando" sulle circostanze, bensì "creando"
delle circostanze di cui altri saranno obbligati a parlare. Nel caso che stiamo discutendo, Pannella non vincerà perché andrà in televisione. Ha già vinto nel momento in cui ha mostrato a proprio rischio e pericolo "che" si ha diritto di andare in televisione, "come" bisogna lottare per ottenere questo diritto (dimostrando nell'ambito dei propri principi non violenti che si può vincere senza fare male agli altri, ovvero senza far male a degli innocenti) e spiegando ad ogni passo della propria azione "perché". Che ora Pannella abbia sei ore al giorno di televisione, o nessuna è irrilevante (non per lui, e non in pratica, ma in linea teorica): perché Pannella ha già detto all'opinione pubblica italiana, nelle fasi del processo per accedere alla Tv, più di quanto non dirà sui teleschermi. Anzi, più il potere gli ritardava l'accesso agli schermi, più Pannella stava parlando "a tutti" con effetti irreversibili. Certo ci è bastato vedere Pannella a TG2 la settimana scorsa per capire che anche sullo schermo egli "buca" il video, proprio perché non dice quello che il pubblico ormai si attenderebbe da un uomo politico. Lasciandoci pensare che è possibile, oltre a un uso nuovo dei mezzi fuori del video, un uso diverso del video. Ma questo, insisto, non è la cosa più importante. Pannella in questo mese ha insegnato a molti italiani non come si possa fare buon uso dei mezzi che la libertà eventualmente ci consente di usare, ma come si fa a diventare liberi, e soprattutto a meritarselo. Il 20 giugno, 40 milioni
di italiani chiamati a rinnovare la Camera, il Senato, le amministrazioni
locali, comunali, provinciali e regionali, troveranno sulla scheda il
simbolo col pugno e la rosa del Partito Radicale. E' la prima volta
in quindici anni. Si deciderà in quella data se il PR dovrà continuare
a vivere come partito che lotta oltre che nel paese, anche in Parlamento
oppure se dovrà scomparire. Liste autonome, dunque, in
tutta Italia. A questa presentazione si è giunti dopo che la Direzione
del PSI si è assunta la responsabilità di rifiutare sia un accordo politico
generale con il Partito Radicale, fondato sulla scelta abrogazionista
del Concordato e il rifiuto delle tesi "revisioniste", l'impegno
comune per la raccolta, nella primavera del '77 delle firme necessarie
per indire il referendum. Per l'attuazione della Costituzione, un impegno
preciso per garanzie legislative delle minoranze etniche e sociali,
sia un accordo parziale per le liste unitarie al Senato e alle amministrative. E' questo un giudizio severo, ma politico; siamo consapevoli dei rischi cui andiamo incontro, del fatto che in due giorni di elezioni si giocano venti anni di patrimonio di lotte. Ma se ora siamo in lizza, chiediamo di essere giudicati dai cittadini non è per ripicca o per formale ossequio alla mozione congressuale: è perché siamo coscienti che non è più possibile impedire al grande movimento per i diritti civili di esprimersi anche attraverso il voto, è perché non accettiamo il ricatto dell'"unità" che si fonda sulla scomparsa, sul dissolvimento della nostra identità, delle nostre speranze, e perché, e questo lo ha ampiamente illustrato la mozione del recente Consiglio Federativo, senza una forza radicale in Parlamento, che estenda i suoi metodi e la sua prassi in questa sede, l'istituto parlamentare subirà ancora e maggiori degenerazioni corporative di quelle che abbiamo visto in questa legislatura con il finanziamento pubblico dei partiti, l'uso fascista della Rai-Tv, l'insabbiamento degli scandali di regime. Un giudizio ancora più severo
va dato sul comportamento del PDUP e di Avanguardia Operaia che, motivandolo
con pretestuose purezze ideologiche che hanno dimostrato di non esistere
quando hanno dovuto accettare l'accordo con Lotta Continua, ha respinto
l'accordo tecnico-elettorale il quale attraverso liste comuni in sole
due circoscrizioni, avrebbe permesso con certezza quasi matematica il
raggiungimento del quoziente per conquistare un gruppo parlamentare.
Quattro radicali in parlamento Da La sfida radicale di F.Morabito - SugarCo 77 - cap.27 " Le elezioni, nel loro complesso, segnano un recupero della DC nei confronti dei risultati delle amministrative del 15 giugno, e una ulteriore avanzata del PCI; i due partiti ottengono insieme più del 73% dei voti, provocando una flessione più o meno grave degli altri partiti; solo i repubblicani riescono a riconfermare le loro posizioni. Grave la flessione del PLI e quella del PSDI, perdite anche per il MSI. Per i socialisti, invece, le perdite riguardano le regionali: ma rappresentano comunque uno smacco per le speranze del PSI, che era stato il promotore della crisi. Le percentuali e i seggi alla Camera sono: DC 38,7% (262 seggi, ne perde 5); PCI 34,4% (228, li aumenta di 49); PSI 9,6% (57 seggi, ne perde 4); PSDI 3,4% (15 seggi, ne perde 14); PRI 3,1% (14 seggi, uno in meno); PLI 1,3% (solo 5 seggi, ne aveva 20); MSI-DN 6,1% (35 seggi, ne perde 21); PPST 0,5% (mantiene i tre seggi che aveva); Democrazia Proletaria 1,5% (6 seggi, non era rappresentata alla Camera). Degli altri 5 seggi assegnati uno è di una coalizione di sinistra, gli altri 4, come abbiamo visto, dei radicali. Come si vede, le elezioni si sono rivelate una grande vittoria del partito comunista, che ottiene risultati molto positivi anche al Senato, con l'aumento di 22 seggi. La DC mantiene quelli che aveva in precedenza. Si registrano perdite per i socialisti, per il MSI-DN, per i socialdemocratici, per il PLI. I repubblicani migliorano di un seggio, e il PPST conserva i due che aveva. Anche qui la radicalizzazione dei voti su due blocchi DC e PCI è evidente. Durante la notte d'attesa i radicali ebbero momenti di speranza e di sfiducia. Durante la notte, presi da momentaneo sconforto per il timore di non ottenere neanche un posto al Parlamento, i dirigenti radicali avevano deciso di effettuare un congresso straordinario del partito per il suo scioglimento. Alle sette e mezzo però la radio radicale, che aveva allestito degli impianti di amplificazione nella piazza, annunciava l'elezione di quattro deputati, la presenza di "un peperoncino rosso nel cuore della sinistra". Il "quorum" era stato raggiunto nella circoscrizione di Roma-Viterbo-Latina-Frosinone con 57.935 voti: solo circa trecentocinquanta più del necessario. La percentuale nella circoscrizione fu dell'1,8%. E' da notare che a Roma città i radicali ottennero per la Camera il 2,5% con 47.952 suffragi, mentre per il comune e per la provincia, per le quali si era votato contemporaneamente, le percentuali furono rispettivamente dell'1,9% e del 2,3% (37.456 e 43.197 voti). Questo indica che probabilmente molti elettori votarono radicale solo per aiutarli a raggiungere il quoziente, e non perché effettivamente radicali. Si tratta di un dato che si può interpretare positivamente e negativamente. Negativamente, perché fa supporre che i radicali fossero meno di quanti sarebbero risultati essere il 20 giugno; positivamente, perché può essere interpretato come un'attestazione di simpatia e consenso al di là delle specifiche convinzioni politiche. Gianfranco Spadaccia, segretario del partito, in una dichiarazione pubblicata sul " Corriere della Sera" affermava: "In soli tre mesi ci siamo conquistati la fiducia di un elettorato che non ci conosceva. Dobbiamo questi risultati soprattutto alla nostra credibilità. Siamo l'unica forza politica che ha fatto sempre quello che aveva promesso di fare, il che È raro, in un paese dove i governi non governano e le opposizioni non fanno l'opposizione. E poi la gente ha capito che quello che La Malfa chiama il nostro utopismo, si lega a esigenze profonde e sentite di cambiare la qualità della vita. La Malfa è ridicolo, quando pensa di cambiare i consumi dei cittadini senza cambiare i valori, le aspirazioni, i rapporti collettivi e individuali sui quali è fondata la nostra convivenza". In un comunicato emesso in seguito al risultato elettorale, il PR commentava così la propria affermazione: "Il partito radicale si era proposto di portare in Parlamento una testa di ponte del movimento per i diritti civili che si era affermato nel paese. Questo obiettivo, che da tutte le parti era stato considerato assurdo e folle, è stato conseguito nonostante l'indegno comportamento di censura della quasi totalità della stampa italiana nei confronti delle liste radicali". Un altro comunicato veniva
divulgato dal Movimento di liberazione della donna: Il FUORI!, in un comunicato
emesso dopo le elezioni, definì la vittoria radicale " un momento
storico per il movimento di liberazione omosessuale in Italia (...)
tutte le battaglie, socialiste laiche e libertarie, da sempre combattute
per le strade e sui marciapiedi esploderanno anche in Parlamento". Emma Bonino, in un'intervista pubblicata su " Repubblica", avvertiva che il movimento femminile avrebbe dovuto assolvere una funzione autonoma nel Parlamento: " Non ci sentiamo, neppure all'interno del partito radicale, di delegare qualcuno, Spadaccia, Pannella, sui nostri problemi. Il femminismo lo facciamo noi, guai se ci appoggiassimo al partito". Ma dove e da chi il PR aveva
attinto i propri voti? Così Pannella a un giornalista de " il Giornale
nuovo": Nella stessa intervista,
Pannella sosteneva essere un errore contestare ai radicali di muoversi
nell'area della sinistra: " Il liberalismo è sempre ``terzo stato''.
Oggi il terzo stato è il proletariato. Dobbiamo lottare nel proletariato
per toglierlo all'egemonia comunista. I comunisti sono i giacobini,
noi non lo siamo". Per quanto riguarda il finanziamento
pubblico dei partiti, il PR decide di rinunciarci, e di accettare soltanto
il sovvenzionamento stabilito dalla legge per la campagna elettorale.
di Marco Pannella - LA PROVA RADICALE, luglio/agosto 1976 Mancano dieci giorni alle votazioni. Scopriamo casualmente che, se ce la facessimo, avremmo diritto a più di 200 milioni di rimborsi di spese elettorali. Ne parliamo con Gianfranco e Paolo. Conoscono le mie previsioni. E' più che probabile che non ce la facciamo. Se si votasse l'indomani, i voti probabilmente ci sarebbero, ma è già cominciato il prevedibile gioco di massacro. Non ci restano che sei minuti di Televisione. Non abbiamo una lira per pubblicità sui giornali, per qualche manifesto, per qualsiasi altra iniziativa. Ci spostiamo per i comizi arrangiandoci di tasca nostra, facendo debiti personali. Intanto, finiti i digiuni, gli scontri con il PCI per le liste, il silenzio è calato; non una parola è detta o scritta sui nostri obiettivi politici, sugli argomenti che svolgiamo, sui progetti generali. I segni che abbiamo trasmesso alla Rai-Tv, saranno cancellati dal bombardamento congiunto della censura e della mistificazione. Se solamente riuscissimo a fare un solo annuncio di mezza pagina il venerdì prima del voto su tutti i quotidiani! Certo, non raggiungeremmo che un decimo dell'elettorato: ma sicuramente basterebbe a consentirci di trattenere il necessario, il sufficiente. Dieci giorni prima avevo ordinato un sondaggio demoscopico su Milano città. I risultati che arrivano sei giorni prima delle votazioni sono una conferma: abbiamo il 2 per cento di elettori, proiettando questa percentuale sull'intera circoscrizione dovremmo farcela ad avere più dell'1,6 per cento necessario per il quoziente. Ma se perdiamo anche solo qualche voto già adesso abbiam chiuso. E c'è ancora quasi una settimana prima del voto. La situazione è tragicomica.
Se avessimo il danaro, anche in parte, che per legge dovremmo avere
rimborsato entro un mese dalle votazioni, è matematico, a nostro avviso,
che ce la facciamo. Basterebbe un prestito, anche a strozzo. Non riusciamo
ad averlo e siamo praticamente sicuri di essere sconfitti. In poche
ore ci rivolgiamo da tutte le parti, davvero tutte quelle immaginabili,
con angoscia crescente, mentre continuiamo i comizi in tutta Italia,
con gli aerei in sciopero, i treni in ritardo, i compagni ormai scoppiati. Dalla Sicilia a Milano ho
cercato di capire, dopo trent'anni che faccio politica, come è possibile
trovare non tanto un "finanziamento" quanto un prestito di
venti giorni. Siamo disposti a tutto, a esporci personalmente. Sembra
aprirsi uno spiraglio. Penso allora ad un tentativo
che, comunque vada, valutiamo come politicamente redditizio. Cerco di
sapere dov'è Gianni Agnelli. In Spagna, mi dicono. Non ho passaporto:
non me lo rinnovano da anni. Devono temere che anch'io, come Saccucci,
possa rifugiarmi all'estero. Pazienza per trent'anni di moralismo: telefono
a Cossiga chiedendogli se può farmi avere un qualcosa, un lasciapassare,
un rinnovo per 24 ore. E' gentilissimo. Il Questore di Roma mi telefona
assicurandomi un rinnovo per qualche giorno, in attesa che sia possibile
far meglio. Gli aerei partiranno? Anni fa la polizia spagnola non mi
lasciò entrare. Ora? Ma finalmente apprendo che Agnelli è tornato a
Torino. Sono le 7 di sera. Mi dice che fra due giorni sarà a Roma, e
possiamo vederci in questa occasione. Devo dirgli che ho poche ore per
sottoporgli un problema: se non può non fa nulla. Ma dovrei vederlo
al massimo questa notte. Alle 11,30 di domattina devo essere a Palermo.
Non so se troverò un aereo ma proverei ad andare subito a Fiumicino.
Lì ci sono dei compagni che mi aiutano, che non conoscevo fino a ieri.
Riesco a partire per Genova e non per Torino. L'avvocato, gentile, mi
aveva quindi inutilmente mandato a prendere all'aeroporto di Caselle. A mezzogiorno sono a Palermo, alle cinque a Messina, alle nove a Catania, alle tre del mattino di nuovo a Palermo, dove troviamo un albergo alle cinque, ed alle sei e mezzo si dovrebbe partire per Milano, dove si arriva alle dodici, per registrare l'ultimo appello regionale, parlare alle cinque a Pavia, alle sette a Lodi, poi a Monza... Non ho nemmeno il tempo di dire a Roma che tutte è stato inutile. Paolo lo capisce e con i dieci milioni cerca di fare qualche piccolo annuncio. Di tutta la stampa italiana accettano "Il Messaggero" per intervento (bontà sua!) della proprietà, e "Il Tempo". Intanto Berlinguer ci ha aggredito nella sua conferenza-stampa alla televisione. Siamo dei mentitori e degli esibizionisti. "Paese Sera" compie la sua opera di "killer" di Cefis, Agnelli, del "partito". Fino all'editoriale che ri-pubblichiamo qui accanto: tanto non possiamo rispondere. Arrigo Benedetti firma queste raffiche a pallettoni, da mafiosi: le firma, per l'esattezza per poter essere a qualsiasi costo, ancora, "direttore". Il PCI s'era accorto prima di noi che davvero a centinaia di migliaia di compagni comunisti stavano per votare a nostro favore. Gli ultimi comizi sono "trionfali". A Milano piazza Duomo è gremita fino a mezzanotte da gente commossa, entusiasta. Dico loro: non ce la faremo. Spiego perché. Non ci credono. E' impossibile: nessuno ha riempito così la piazza, e qui non c'è più curiosità. Un mese di campagna l'ha soddisfatta. Qui ci sono elettori, ed elettori decisi. I risultati mi hanno dato ragione: a Milano non ce l'abbiamo fatta. Torno a Roma. Non resta, ora, che sedermi per 19 ore, o più, di seguito a Radio Radicale. Per la prima volta da mesi, dopo i digiuni, i comizi, le riunioni, le notti insonni e i giorni quasi allucinanti anche se le une e gli altri così pieni di vita, di amore, di dialogo, di battaglie vinte, mi offro una passeggiata. Vado a piedi, dal partito alla Radio, a Monteverde Vecchio. Attraverso piazza Navona, via Giulia, il Tevere, dirotto un pochino fino a Regina Coeli poi su per via Garibaldi, Porta San Pancrazio. E' un tramonto terso, caldo, appena primaverile. In tanti mi fermano, mi dicono "andrà bene". Poi quelle incredibili trenta ore di dialogo senza sosta, dalla radio, ai telefoni, quella marea di amicizia, di comprensione, di crescita comune, di nuovi e vecchi compagni, di notti insonni di famiglie intere, riunite dopo chissà quanto, di voci dai letti, di emozionata fiducia e scoperta di sé, prima ancora che degli altri, e le voci dei ciechi, dei ciechi d'ogni sorta, che sempre, tutti, siamo e non sappiamo d'essere. Non ce l'abbiamo fatta, compagni, amici, ma abbiamo ancora mezza notte, davanti, e un rimasuglio d'alba, e ancora un'ora. Continuiamo così: comunque,
a questo punto, ci sarà andata bene, anche se il partito sarà finito,
il partito appena scoperto, sentito, amato. MA L'ANTIMILITARISMO NON VA IN SOFFITTA di Rosa Filippini PROVA RADICALE, giugno 1976 SOMMARIO: Rosa Filippini lamenta il rischio che la Lega degli obiettori di coscienza perda il carattere antimilitarista delle origini, constatando anche che a tre anni dall'approvazione della legge in materia non vi è stata una crescita quantitativa di coloro che hanno scelto il servizio civile. A suo giudizio, l'iniziativa del movimento è stata frenata dal fatto che la Lega, per supplire alle carenze del Ministero della difesa, abbia dovuto addossarsi l'intera organizzazione del citato servizio; si è finito così per identificare le finalità di questo con quelle della Lega. Gli obiettori organizzati nei coordinamenti regionali attribuiscono la responsabilità della crisi alla "linea radicale", rimproverata di svolgere una politica teatrale e fine a se stessa, distaccata dagli interessi delle masse, senza però proporre alternative valide. La spaccatura è stata ricomposta dall'intervento di Pannella, presidente della LOC: esistono quindi le basi per una ripresa del movimento. "C'è un ente, compagni, con cui dobbiamo sbrigarci a prendere contatto per "farne scoppiare le contraddizioni", per "deistituzionalizzarlo". Questo ente si chiama esercito, "assiste" circa 300 mila ragazzi l'anno, ne incarcera altri 6 mila e non sappiamo quanti ne rende pazzi. Prende i soldi dalle nostre tasche, è un ente inutile, ma ancora nessuno si è proposto di abolirlo. Nemmeno in questo congresso se n'è parlato". Al terzo congresso della Lega degli obiettori di coscienza (1-2 maggio) parla Dalmazio Bertulessi, 22 anni, metalmeccanico, appena uscito dal lager di Gaeta, dopo avervi scontato 16 mesi per il rifiuto del servizio militare e del servizio civile. Non ha torto: in questo congresso, a cui hanno partecipato circa 200 obiettori in servizio civile o in attesa di partenza, di antimilitarismo di è parlato solo come al congresso della DC si parla della Resistenza. Si nomina continuamente, ma non si sa cosa sia, è presente in tutti i discorsi, ma solo in quelli. L'attività del movimento si limita in questo momento agli interessi immediati dei giovani in età di leva che hanno scelto il servizio civile. Il pericolo di un'involuzione
corporativa è esistente. Alle proposte dei vecchi dirigenti radicali
nonviolenti le risposte dei nuovi obiettori appaiono deludenti: "Le
marce antimilitariste? Come si fa a partecipare? Ci sono gli orari di
lavoro, i vecchietti da assistere, il distretto che non concede la licenza,
il direttore dell'ente che ci denuncia ai carabinieri...". "Per
far passare una nuova legge prenderemo contatto con l'ente Regione...
chiederemo ai consigli comunali di far pressione sulla commissione parlamentare...
fra due o tre anni di vedrà...". Nel frattempo la mancanza di iniziative
politiche, l'indebolimento del carattere antimilitarista nonviolento
del movimento hanno già prodotto effetto negativi: a tre anni dall'approvazione
della legge non c'è stato neanche una crescita quantitativa, gli obiettori
che hanno svolto, stanno svolgendo o hanno richiesto di svolgere il
servizio civile non hanno superato il migliaio. Né basta la maggiore
durata nel servizio per giustificare la preferenza che i giovani di
leva continuano a dare al servizio militare. A questo punto, trasformata
la sede centrale in un ufficio di collocamento, le sedi periferiche
sono praticamente morte, e gli unici centri di attività rimangono i
collettivi di obiettori in servizi presso i vari enti, organizzati in
coordinamenti regionali. Ma proprio questi compagni, pressati dai problemi
che affrontano ogni giorno nelle realtà in cui operano, hanno finito
per identificare le finalità del servizio civile con quelle del movimento.
Rifiutano perciò ogni iniziativa politica di disobbedienza civile che
possa mettere il ministero della difesa di fronte all'alternativa: consentire
finalmente un servizio civile autodeterminato e autogestito, o prendersi
la responsabilità di rispedire tutti in galera come prima dell'approvazione
della legge. Alle critiche, gli obiettori
organizzati nei coordinamenti rispondono addossando la responsabilità
della crisi a quella che definiscono la "linea radicale" e
che in realtà è la stessa linea dei dirigenti storici nonviolenti del
movimento come Pinna, Soccio, Fiorelli, che non sono mai stati iscritti
al Partito Radicale. Afflitti da complessi d'inferiorità nei confronti
della "sinistra di classe", rimproverano ai radicali di voler
strumentalizzare il movimento per una politica di élite fatta di azioni
teatrali, provocatorie, fine a se stesse. Insomma, una politica distaccata
dagli interessi delle masse, dalle lotte operaie; in una parola, borghese.
Relazione del tesoriere Paolo Vigevano al XVI Congresso del PR Caratteristica del Partito
Radicale è stata in questi anni la pratica del più rigoroso autofinanziamento.
Abbiamo affrontato queste elezioni in condizioni difficili e quasi disperate.
Lo erano, sì le condizioni politiche generali. Ma lo erano a maggior
ragione le condizioni economiche e finanziarie del partito che partiva
con un deficit di venti milioni, senza nessuna prospettiva di finanziamento
che non fosse quella dei propri iscritti e simpatizzanti. Oggi possiamo
dire che abbiamo superato questa prova grazie allo sforzo dei vecchi
e dei nuovi radicali, con l'autogestione libertaria della campagna elettorale. Hanno garantito spese per
circa ottanta milioni, che abbiamo sostenuto a livello centrale. Sono
stati senz'altro più di 6.000 perché molte sedi non ci hanno ancora
mandato gli elenchi dei nuovi iscritti e dei sostenitori. Potevano essere
molti di più se avessimo potuto utilizzare la televisione come hanno
fatto i partiti che erano già rappresentati in Parlamento, se avessimo
potuto impegnare subito tutte le nostre forze nella campagna elettorale
anziché essere costretti noi soli con Lotta Continua, a raccogliere
le firme per la presentazione delle liste elettorali. Sarebbero stati
di più se avessimo potuto attuare una campagna elettorale più ricca,
se avessimo avuto a disposizione il finanziamento pubblico, la partecipazione
in imprese, l'utilizzazione di fondi più o meno neri come gli altri
partiti. Oltre ai seimila sostenitori
mi pare doveroso ringraziare i nostri fornitori che se da una parte
hanno accettato un rischio, testimoniano anche il credito non solo politico,
ma di corretta gestione finanziaria che il partito radicale ha saputo
acquistare grazie all'opera di Peppino Ramadori, Walter Baldassarri
e gli altri tesorieri che mi hanno preceduto. Negli ultimi giorni della
campagna elettorale avevamo bisogno di pubblicare su tutti i giornali
una pubblicità elettorale che ci consentisse di guadagnare quegli ultimi
sette-ottomila voti che ci avrebbero portati almeno due deputati in
più. A questo punto, nel momento
in cui il partito è cresciuto, che è passato in due mesi da 130 a 240
tra sedi e recapiti associativi, nel momento in cui migliaia di nuovi
simpatizzanti ci conoscono e si avvicinano al partito, dobbiamo renderci
conto che o si continua così come in passato o si muore come partito. Il nostro no al finanziamento
pubblico deriva da questo rifiuto di principio che trova una conferma
immediata se esaminiamo quali sarebbero gli effetti nel nostro partito. L'unica soluzione che possiamo adottare e che propongo in sede congressuale è quella di rifiutare semplicemente il finanziamento pubblico, di farne richiesta e di congelarlo su di un conto corrente a firma di quattro garanti ed evitare così che in base alla legge sul finanziamento pubblico venga ripartito tra gli altri partiti, utilizzando semmai le somme necessarie a garantire la contabilità che la legge sul finanziamento pubblico richiede. Quello che invece chiedo
è che il congresso impegni il partito allo studio di una legge che garantisca
il finanziamento dell'attività di partito, di sedi, di tipografie, di
ambienti dove tutti possano svolgere le iniziative politiche di base.
Per questo propongo fin da ora che si individuino gli edifici pubblici
non utilizzati da chiedere alle amministrazioni locali dove possono
svolgersi attività politiche aperte a tutti i partiti. Come primo atto
di disobbedienza civile, dove questi edifici non vengono concessi, propongo
che vengano occupati e adibiti a sedi aperte a tutte le iniziative politiche
militanti di base. Abbiamo invece deciso di
accettare il rimborso delle spese elettorali. Si tratta anche questa
di una legge sostanzialmente sbagliata, in quanto prevede che il rimborso
venga assegnato soltanto ai partiti che abbiano raggiunto il 2% dei
voti o un quorum e almeno 300.000 voti. Sono limiti estremamente restrittivi,
studiati in funzione del Partito Repubblicano ai tempi dell'approvazione
della legge. Tuttavia il principio del rimborso elettorale è sostanzialmente
giusto in quanto tende a ridurre le spese elettorali e a moralizzare
la campagna elettorale. E' una legge che va cambiata, che non ha senso
da sola se non c'è la possibilità di fatto da parte di tutti i partiti,
anche quelli non rappresentati in Parlamento, di accedere alla televisione
e di disporre dei canali di informazione di massa alla pari con tutti
gli altri partiti. Si pone ora il problema del
funzionamento delle strutture di partito, della stampa, della comunicazione
con gli iscritti e simpatizzanti e con l'esterno. La stampa di partito
deve continuare come in passato come organo di comunicazione interna
il più snello e il più essenziale possibile. A questo scopo il collettivo
stampa che è sorto intorno alla Agenzia Notizie Radicali ha messo in
cantiere e pubblicherà fino dalla prossima settimana un bollettino decadale
indirizzato a tutti gli iscritti e simpatizzanti. Per quanto riguarda
l'informazione rivolta all'esterno dovremo continuare a lottare per
conquistare spazio sulla stampa quotidiana e sulla RAI. L'esempio di
Democrazia Popolare con i suoi tre quotidiani e il suo rifiuto di utilizzare
la "Stampa borghese" ci conferma nella giustezza delle nostre
scelte fatte in proposito. Per questo dovremo potenziare l'Agenzia Notizie
Radicali e porre le condizioni perché tutti i partiti regionali e le
associazioni locali ne avviino di nuove. "Disordinarsi" per crescere di Gianfranco Spadaccia L'invito di Marco Pannella
a disorganizzarsi è stato motivo di ironia all'esterno del 16° Congresso
radicale, in alcuni commenti della stampa, e di protesta all'interno
per una parte dei congressisti. Come già l'anno scorso la raccolta delle firme per il referendum sull'aborto, quest'anno la campagna elettorale ha costituito per il partito un moltiplicatore della sua organizzazione e del suo rafforzamento. Nel giro di due anni è passato da meno di 40 realtà associative a circa 300, in altrettante città e paesi. Prima delle elezioni i partiti regionali, che sono la struttura portante del nostro statuto, non esistevano e li dove esistevano rappresentavano quasi dovunque soltanto labili strutture di coordinamento, affidate alla associazione più forte fra quelle operanti nella regione. Nelle grandi città, soprattutto a Roma, si passa dalla dimensione delle centinaia, alla dimensione delle migliaia di militanti: deve perciò mutare anche la presenza dell'organizzazione radicale. Di fronte a questa situazione di crescita del partito, il pericolo da cui bisogna guardarsi e che occorre evitare, è quello della chiusura, di ogni forma di chiusura: la tendenza di ciò che preesisteva prima del momento elettorale a chiudersi rispetto al nuovo; la tendenza ad impostare nel partito forme di organizzazione ed esperienze sulle quali altre forze politiche hanno consumato il loro fallimento; la ricerca di qualificazioni ideologiche di tipo solo proclamatorio; la richiesta al partito, che deve essere il momento di aggregazione federativa su un minimo comune denominatore sul quale si riconoscono tutti i radicali, di farsi carico di impegni e di iniziative che possono essere vitali solo se nascono non dall'alto, ma autonomamente da specifiche esperienze associative. Le numerose iniziative che
sono state prese durante e dopo le elezioni (dal fronte radicale invalidi
a quelle per la scuola, delle associazioni di quartiere di Roma, alle
nuove iniziative per i detenuti al progetto di convegno dei credenti
anticoncordatari) dimostrano che il partito si muove già in questa direzione,
che è la direzione giusta: di chi si apre all'esterno e non si chiude
in esperienze cristallizzatrici e riduttive. La MARCIA INTERNAZIONALE DEGLI ANTIMILITARISTI NONVIOLENTI di Roberto Cicciomessere PROVA RADICALE, ottobre 1976 CONTROCORRENTE IN ITALIA, LONTANA DAL PACIFISMO PASSIVO DEI NONVIOLENTI EUROPEI, L'INIZIATIVA ANTIMILITARISTA DEI RADICALI HA ACQUISTATO IN DIECI ANNI PESO INTERNAZIONALE, QUEST'ANNO LA MARCIA HA TOCCATO IL FRIULI, LA FRANCIA E LA SARDEGNA. ECCONE LA STORIA. 28 LUGLIO/1 AGOSTO:
FRIULI 28 luglio Al sacrario di Redipuglia
circa 250 poliziotti e carabinieri attendono la partenza della prima
marcia internazionale in Europa degli antimilitaristi nonviolenti, i
marciatori sono 80. Un elicottero dei carabinieri controlla dall'alto
i manifestanti. Adele Faccio deposita, con altri compagni, la corona
d'alloro al monumento al milite ignoto: è senza il nastro con l'intestazione
della marcia, in seguito al divieto della polizia. La scena si ripete
nel cimitero austro-ungarico. 29 luglio L'assemblea dei marciatori,
pur rilevando l'inconsistenza dell'obiettivo militare così strenuamente
e inutilmente difeso dalla polizia, decide di sostare a Lucinico fino
allo sblocco totale. Subire il divieto potrebbe pregiudicare la possibilità
di superare gli altri, che potrebbero essere opposti nelle tappe successive
su obiettivi politici più rilevanti. I marciatori, pur votando all'unanimità
la prosecuzione dell'azione di forza con il questore, si dichiarano
disposti a rinunciare se la richiesta verrà direttamente da carabinieri
e poliziotti non graduati, sottoposti così inutilmente a grossi disagi. 29 luglio 1 agosto Spadaccia, parlando a Peschiera,
ha gettato molta acqua sull'entusiasmo dei partecipanti alla manifestazione.
Da troppi anni - ha detto - ripetiamo davanti a questo carcere slogan
sull'eliminazione dei carceri militari, sull'abrogazione della giustizia
militare. Ma questo obiettivo sembra sempre più lontano e irraggiungibile.
Che fare quindi, per non rassegnarsi a ripetere stancamente slogan che
non trovano pratica affermazione nella lotta? 4 agosto 5 agosto 6 agosto 7 agosto 8 agosto 13 agosto 14 agosto 15 agosto 17 agosto 19 agosto Una sola possibile giustificazione
ai fatti di La Maddalena: la carica della polizia non è scattata incidentalmente
sul molo ma è stata voluta dal questore di Sassari Vorìa (ben conosciuto
per il suo comportamento fascista a Torino e resosi famoso con l'arresto
di Dario Fo) su precisa pressione delle autorità americane. L'indicazione
politica generale del ministro degli Interni Cossiga, che trascorreva
le vacanze proprio in quei giorni a La Maddalena in una villa del villaggio
Piras, era di non provocare disordini con i marciatori e di consentire
liberalmente le manifestazioni. Ma mentre le questure di Cagliari e
Nuoro si sono allineate, mostrandosi nei nostri confronti di una cortesia
abbastanza rara, la questura di Sassari (ovvero Vorìa), ha mostrato
fin dal primo giorno in cui siamo entrati nella sua giurisdizione di
digerire poco queste indicazioni politiche. Solo il nostro auto controllo
ha impedito incidenti con la polizia che ad Olbia, Arzachena, Palau
si rifiutava perfino di controllare il traffico lanciandosi senza la
normale scorta, probabilmente nella speranza di qualche incidente o
provocazione. 20 agosto QUELL'ESARCHIA E' EXTRAPARLAMENTARE di Marco Pannella PROVA RADICALE, luglio/agosto 1976 SOMMARIO: Marco Pannella definisce "esarchia extraparlamentare" la maggioranza composta da DC, PLI, PSDI, PRI, PSI e PCI, rilevando come, anche prima che la Camera dei deputati fosse insediata, tali partiti abbiano provveduto alla lottizzazione delle responsabilità e delle funzioni parlamentari. La stessa interpretazione del regolamento della Camera ha praticamente impedito che nei verbali restasse traccia di almeno un dubbio sulla liceità degli accordi che hanno portato alla citata lottizzazione. Ben prima di quanto non sperassimo
(e anche, d'altra parte, temessimo) è già in atto in Parlamento uno
scontro fra il nostro gruppo, le maggioranze che lo governano, le minoranze
che ne vivono passivamente le vicende. E' purtroppo uno scontro circoscritto
alla Camera: l'assenza di forze a sinistra del PCI (di cui porta intera
la responsabilità il gruppo dirigente di Democrazia Proletaria) lascia
mano libera alle pratiche correnti nel Senato. Non erano ancora giunti i telegrammi agli eletti dalle prefetture e già i deputati si vedevano così ordinati i comportamenti e i voti. Senza un minimo di verecondia li si indicava all'opinione pubblica come dei "deputati-squillo", tutti senza eccezione. Che bisogno c'era di convocarci? Che bisogno c'è del Parlamento? Una ventina di Signori, di potenti del Palazzo e di loro clienti decidono tutto fra loro. Al Gran Consiglio del Partito Nazionale Fascista, che decideva (non sempre, riconosciamolo) cosa si dovesse fare o non fare nella Camera di allora (detta dei Fasci e delle Corporazioni), s'è ora sostituito il Gran Consiglio di sei correnti partitiche che assieme, unite in una sorta di monopartitismo imperfetto, dettano ormai temi, svolgimenti, ore di lavoro e di ricreazione, l'ordine dei gesti come in una catena di montaggio, d'un migliaio di parlamentari-bidone? Avremmo voluto che il Parlamento stesso fosse investito di un dibattito su questo fatto che in modo così clamoroso ne condizionava la vita, ne dettava i comportamenti, ne inquinava vistosamente i processi formativi di volontà e di leggi. A questo punto ci siamo accorti
che non solamente i regolamenti parlamentari, ma ancor più la loro interpretazione,
era omogenea alla situazione che intendevamo e intendiamo denunciare
e superare. Non è praticamente consentito, per prassi, al deputato di
intervenire, non foss'altro che per notazioni procedurali, per richiami
al regolamento, proprio nei momenti in cui questi possono rivelarsi
più necessari e utili. Si è giunti a sostenere - e reiteratamente -
che in alcuni momenti (oltre a quelli nei quali si sta procedendo a
una votazione) sia possibile al Presidente negare a un parlamentare
anche di chiedere la parola e di motivare la sua richiesta, magari per
vedersela poi negare o togliere. E', insomma, la sagra delle
lottizzazioni. Gruppo misto, liberale, demoproletario e radicale sono
stati così esclusi anche dalle tre "giunte" istituzionali:
del regolamento, delle autorizzazioni a procedere, delle elezioni. Così,
probabilmente, i giochetti di potere tradizionali possono meglio esser
proseguiti senza i rischi di un nostro controllo. Ci duole che questa serie
di fatti ci abbia portato a posizioni polemiche proprio nei confronti
del Presidente Ingrao (oltre che, nella prima seduta, dell'on. Jotti).
Chi ci conosce sa che non siamo soliti usare cortesie e riguardi di
maniera. Non abbiamo mai praticato e men che mai praticheremo in Parlamento
forme di ipocrisia verso amici o avversari. Speriamo quindi di esser
creduti da chi legge se diciamo che riteniamo Ingrao, per le sue qualità
umane e civili, per il suo rigore morale e la sua severa tolleranza
fra i pochissimi parlamentari italiani davvero atti a dare prestigio,
oltre che riceverne, alla carica cui è stato eletto. Sarà un compito duro, per
noi otto del gruppo radicale, non solamente per i quattro nominalmente
in carica. Dovremo badare a non farci chiudere e impantanare nella palude.
Dovremo spesso, anche fisicamente, uscirne come abbiamo fatto sin dalla
prima seduta, per ritrovare nelle piazze e sui marciapiedi la forza
democratica che è la nostra. L'assegnazione degli scranni nell'aula della Camera Conferenza stampa del gruppo radicale (9 ottobre 1976) PARLAMENTO: GRAVISSIME LE DECISIONI DEL PRESIDENTE INGRAO, CHE HA BLOCCATO CON L'ESPULSIONE DEI RADICALI DELLA CAMERA IL PROCESSO DI PARTECIPAZIONE NELL'ASSEMBLEA A DEI DEPUTATI. NEL CORSO DELLA CONFERENZA STAMPA DEL GRUPPO RADICALE RIVELATI TUTTI I TENTATIVI PER GIUNGERE ALLA COMPOSIZIONE DEL PROBLEMA. I RADICALI TORNERANNO AD OCCUPARE I BANCHI CONTESTATI. (NOTIZIE RADICALI, 9 ottobre 1976) Parlando per primo nel corso
della conferenza stampa indetta dal gruppo Parlamentare Radicale, in
risposta alla sua espulsione dalla Camera dei Deputati, Marco Pannella
ha sottolineato il "carattere calcolato e deliberato dell'azione
del Presidente Ingrao". Pannella ha rivelato di aver
richiesto informalmente per due volte a Ingrao un'iniziativa della Presidenza
per giungere ad una composizione del problema, Ingrao ha dichiarato
che era preferibile che i gruppi interessati trovassero un accordo tra
di loro; il presidente del gruppo PCI, Natta e l'on. Di Giulio, interpellati
per un colloquio, hanno risposto con la chiusura più netta. 10 giorni
fa, alla riunione dei capigruppo, quando nonostante fosse stato sollevato
il problema, la seduta stava per concludersi senza che si fosse avuta
una risposta, Pannella chiese che questo fosse discusso e se ne prendesse
una decisione. Il vicepresidente Scalfaro espresse dubbi circa la decisione
dei questori, mentre invece Ingrao dichiarò che riteneva davvero essere
seguite le indicazioni dei questori. Nessuna decisione, ha sottolineato
Pannella, fu comunque presa in quella sede. E' verso le 19 che si apprende
che Ingrao avrebbe imposto la votazione con il sistema elettronico,
assumendo la Presidenza. Significa che Ingrao ha deciso di interrompere
il processo di partecipazione di tutta l'assemblea e dei parlamentari,
i quali stavano riconoscendo come non fosse la migliore una consuetudine
che porta per esempio Lotta Continua a vedersi a pochi metri dai liberali.
Pannella ha poi ricordato come fosse stato violato il regolamento della
Camera: all'atto di votazione l'on. Malagugini ha preso la parola, denunciando
la presenza dei parlamentari radicali sui banconi attribuiti al PCI.
Alla analoga domanda di Pannella che chiedeva la parola allo stesso
titolo di Malagugini, Ingrao si è opposto in base al regolamento. Sono intervenuti inoltre
Mellini e Bonino. Il primo ha rilevato che se in base all'assurda teoria
dell'usucapione e dell'ereditarietà che il PCI vuole imporre, anche
gli altri gruppi parlamentari si fossero comportati in modo simile,
i radicali avrebbero finito per collocarsi vicino al MSI, l'unico partito
che ha lasciato posti vuoti. INDICE COMPLETO DEI DOCUMENTI E ARTICOLI SULLA QUESTIONE DELL'ASSEGNAZIONE DEI POSTI IN AULA NELLA VII LEGISLATURA - Lettera di Marco Pannella
al Presidente della Camera sul problema dell'assegnazione dei posti
in aula (31 luglio 1976 - "Questioni regolamentari e costituzionali"
a cura del Gruppo Parlamentare Radicale) [testo n. 4660]; (CAMERA DEI DEPUTATI, Gruppo Parlamentare Radicale, VII legislatura, "QUESTIONI REGOLAMENTARI E COSTITUZIONALI" dal 5 luglio 1976 al 5 maggio 1978) L'imbroglio - IL TRATTATO DI OSIMO CON LA JUGOSLAVIA HA UN RISVOLTO CRIMINOSO: IL PROTOCOLLO ECONOMICO di Guido Ercolessi PROVA RADICALE, dicembre 1976 SOMMARIO: Dopo 20 anni di demagogia nazionalista, la diplomazia segreta democristiana regala alle multinazionali e alla Fiat la zona franca sul Carso. Per Trieste e il suo territorio sarà una catastrofe ecologica, economica, culturale, urbanistica. Ma la sinistra di regime, Pci in testa, è d'accordo: un'altra prova di "lealtà atlantica"? Intanto, per paura del malcontento popolare, si pensa già di rinviare le elezioni comunali a Trieste. Facendo quadrato a difesa dell'accordo, la sinistra ha rischiato, prima dell'intervento radicale, di regalare alla destra monopolio dell'unanime opposizione popolare al folle progetto. Il trattato di Osimo fra Italia e Jugoslavia si compone essenzialmente di due documenti: il trattato vero e proprio relativo alla definizione delle controversie territoriali fra i due paesi, e l'accordo di collaborazione economica cui è allegato, fra l'altro, un protocollo relativo all'istituzione di una zona franca industriale a cavallo del confine sull'altipiano carsico. Quando, nel settembre dello scorso anno, venne dato l'annuncio che le intese erano state raggiunte, l'aspetto più appariscente sembrò il primo: il regime si sbarazzava delle finzioni giuridiche difese fin'allora (vedi la risposta ad un'interrogazione parlamentare missina del mese prima), e riconosceva anche formalmente che la zona B dell'ex territorio libero di Trieste altro non era che parte integrante del territorio jugoslavo. Era l'abbandono della politica perseguita per trent'anni dalla Dc a Trieste, era l'abbandono dell'ipocrita demagogia su cui per trent'anni la Dc era vissuta sfruttando i voti delle decine di migliaia istriani residenti a Trieste, alimentandone le illusioni revansciste. Tutte le forze politiche democratiche espressero il loro consenso; solo a Trieste, per motivi più sentimentali che politici, vi furono anche in campo democratico dissensi che lacerarono alcuni partiti, soprattutto il Psi e il Pri, che subirono piccole scissioni. Non vi fu però in quella fase nessuna reazione di rigetto di tipo nazionalistico che andasse al di là delle organizzazioni neo-irredentiste e degli esuli: pur a malincuore, anzi, anche molti di costoro si rendevano conto che quella soluzione era inevitabile, che anzi era arrivata tardivamente, e che sarebbe stato folle per difendere quella finzione giuridica rischiare una crisi internazionale che tra l'altro avrebbe strangolato l'economia triestina, per la quale il "confine aperto" è una necessità vitale. Lo stesso elettorato neofascista (che è forte a Trieste solo per la debolezza del "background" culturale cattolico, che determina un elettore orientato a votare Msi anziché Dc più facilmente che altrove) non era stato capace di mobilitarsi, com'era avvenuto dieci anni prima contro l'elezione di un assessore sloveno nella giunta municipale di Trieste. I torti subiti trent'anni prima dagli istriani italiani a causa della guerra fascista e della reazione nazionalistica da questa scatenata non avrebbero certo avuto modo di essere altrimenti riparati. Le trattative furono condotte, per la prima volta nella storia diplomatica italiana, non dal ministero degli esteri, ma da un funzionario del ministero dell'industria, il dott. Eugenio Carbone, direttore generale di quel ministero. Col passare dei mesi il dibattito politico cittadino si spostò quindi dal problema dei confini a quello economico, cioè alle cosiddette contropartite per lo sviluppo economico di Trieste, rappresentate, a dire della Dc, dall'accordo economico allegato al trattato di Osimo, che ha il suo fulcro nella creazione di una zona franca industriale a cavallo del confine sul territorio carsico, alle spalle di Trieste. Per contestare tali intese nel maggio scorso si costituì un comitato, formato dai fuoriusciti dal Psi e dal Pri, ma anche da altre personalità di rilievo cittadino, anche iscritte al Psi, al Pri e al Pli, che con l'appoggio del quotidiano locale "Il Piccolo" promosse la raccolta delle firme per un progetto di legge di iniziativa popolare per la istituzione di una zona franca integrale comprendente tutto il territorio della provincia di Trieste. Tale progetto ricalcava un analogo disegno di legge sostenuto negli anni passati (e fino al 1972) dal Pci, in particolare da Vittorio Vidali, che si ricollega a una vecchissima aspirazione e tradizione triestina, risalente al periodo austroungarico, ma ancora evocatrice di entusiasmi e capace di mobilitare gran parte della popolazione. Dopo un inizio in sordina e dopo la parentesi estiva, a cominciare da settembre apparve chiaro che il grande successo dell'iniziativa, che esprimeva soprattutto, nelle motivazioni dei firmatari, tre posizioni fondamentali: ambienti nazionalisti firmavano per contestare gli accordi di Osimo nella loro globalità, gran parte della gente esprimeva invece o soprattutto la loro giustificatissima sfiducia nei confronti di una classe politica inconsistente e incapace e le preoccupazioni per il costante declino economico della città. Molti altri poi firmavano per contestare la soluzione che l'accordo economico di Osimo aveva previsto, in particolare con la istituzione della zona industriale carsica, senza in nessun modo interpellare o consultare le popolazioni interessate. Le forze politiche democratiche si chiudevano a riccio nell'ostinata difesa dell'accordo di Osimo e della Dc e la protesta popolare, sempre più plebiscitaria, rischiava oggettivamente, al di là delle intenzioni dei promotori, di essere risucchiata a destra, specie dopo l'impegno profuso, verso la fine di ottobre, dalle organizzazioni degli esuli. Di fronte a una città sempre più chiaramente in rivolta contro la sua classe politica, la sinistra rischiava di ripetere tragici errori, consegnando alla destra il monopolio dell'opposizione non solo al trattato sui confini, ma anche all'industrializzazione del Carso. Ma l'accordo di Osimo meritava questa difesa ad oltranza? Abbiamo cominciato allora ad approfondire la questione, e ci siamo convinti che la zona industriale, lungi dal costituire il bizzarro parto di un presuntuoso e ignorante alto burocrate democristiano, costituiva invece il perno dell'intero trattato, il quale non era per parte italiana altro che la copertura e il pretesto per imporre l'approvazione di un progetto che diventava sempre più chiaro e si appalesava sempre più catastrofico per Trieste e per la sua popolazione. Presentata come "contropartita"
alla cosiddetta cessione della zona B, la zona industriale carsica a
cavallo del confine dovrà innanzitutto sorgere su un territorio molto
ampio, più vasto della stessa città di Trieste, alle spalle di questa,
esattamente nella direzione da cui soffia il vento predominante, la
bora. L'inquinamento atmosferico sarà dunque inevitabile e massiccio:
la bora anziché portare aria pulita, come finora è sempre accaduto,
diverrà il veicolo principale della diffusione della malattie da inquinamento
atmosferico. Basterebbe questa constatazione per esigere una diversa
ubicazione della zona industriale: una ratifica di questa parte dell'accordo
sarebbe un crimine in una città che già detiene il primato nazionale
dei decessi per tumori polmonari. Per la realizzazione delle infrastrutture previste della legge di ratifica (e che comunque creerebbero altri problemi di difficile soluzione) le acque di scarico delle industrie della zona andranno inevitabilmente a inquinare le sottostante falda carsica, che sfocia nel golfo di Trieste attraverso il fiume Timavo, da cui Trieste trae attualmente il suo fabbisogno idrico. Non solo, la stessa falda isontina (un nuovo acquedotto reperirà dall'Isonzo l'acqua necessaria per l'approvvigionamento di Trieste) sarà irreparabilmente compromessa. E' da rilevare che già oggi la presenza di due sole industrie che scaricano i loro residui nel Timavo, in territorio jugoslavo, rende spesso inutilizzabili le sue acque, e Trieste è rimasta più volte all'asciutto. Lo stesso golfo di Trieste, dotato di bassi fondali e sfavoritissimo dalle correnti, non potrà non essere irrimediabilmente compromesso. Gli accordi di Osimo non offrono, per la prevenzione degli inquinamenti, altro che dichiarazioni di intenzioni, ma nessuna prescrizione normativa precisa e vincolante; ci si rimette quindi alla buona volontà di chi gestirà questo accordo. Nessuna garanzia è data nemmeno per il tipo di insediamenti industriali che saranno consentiti nella zona, né alcun limite è posto alla sua estensione, limitandosi il protocollo a stabilire che le aree dovranno essere scelte da una commissione paritetica all'interno di un perimetro enorme, che comprende al suo interno gli abitanti di Gropada, Padriciano e Trebiciano e i sobborghi di Opicina, Basovizza e Sesana, oltre a una delle riserve naturali erette nel 1971 dalla legge Relci (dal nome del deputato moroteo che la presentò e che è oggi fra i paladini dell'accordo) sulla tutela dell'ambiente sociale e naturale del Carso. Il territorio interessato oltre a costituire tradizionalmente il polmone verde di Trieste (il Carso è noto per la quantità di specie vegetali e per l'abbondanza dei caprioli) e la meta del tempo libero dei triestini, è abitato pressoché totalmente dalla comunità nazionale slovena residente in Italia. La creazione della zona industriale non potrà che portare a compimento, con la costruzione delle industrie, delle infrastrutture abitative e viarie, con la congestione urbana e l'immigrazione di massa che si renderanno necessarie, l'opera di distruzione della minoranza nazionale slovena che vent'anni di fascismo e trent'anni di regime democristiano non erano riusciti a perfezionare: va rilevato infatti che, a differenza di quanto accaduto nel vicino comune carsico Duino Aurisina, dove sono stati insediati dopo la guerra mondiale numerosi nuclei di abitati riservati ai profughi istriani, nel territorio interessato la minoranza slovena, forte di una fitta struttura associativa di autodifesa etnica e culturale, è ancora di gran lunga il gruppo prevalente. Sul piano sociale l'istituzione della zona industriale carsica provocherà lo sfacelo di una comunità urbana e rurale il cui livello di vita si mantiene ancora su livelli umanamente accettabili. Per la prima volta nella storia del nostro paese, la sinistra istituzionale si appresta a dare il proprio avallo al modello di sviluppo non controllato, scriteriato e distorto che per un secolo ha combattuto e contestato nel resto del paese. Si creeranno infatti nella zona non meno di settantamila posti di lavoro, per coprire i quali necessariamente saranno richiamati lavoratori dalle zone depresse della Jugoslavia meridionale, i quali con le loro famiglie verranno a creare una nuova città di non meno di 200.000 abitanti: una disoccupazione di massa così ampia da giustificare insediamenti industriali di tali dimensioni non esiste infatti nel territorio interessato né da parte italiana, né da parte jugoslava: si ricreeranno inevitabilmente quei fenomeni di congestionamento urbano, disadattamento sociale di massa, infelicità collettiva, che segnano il volto delle periferie dei centri industriali delle aree ipertrofiche del triangolo industriale: il carcere minorile voluto a Padriciano dal procuratore generale di Trieste Antonio Pontrelli (quello accusato dagli avvocati difensori degli imputati della strage di Peteano), la cui realizzazione è sempre stata contestata dalle forze democratiche, troverà il modo di riempirsi e di fornire finalmente un adeguato indice di criminalità anche alla cronaca triestina. Del resto un'immigrazione così massiccia di lavoratori jugoslavi finirà inevitabilmente per rinfocolare odi nazionali che si vanno invece sempre più definitivamente spegnendo.. Perché tutto questo? Gran parte degli errori contenuti nell'accordo è sicuramente dovuta all'incompetenza e all'incapacità di chi ha gestito la trattativa. Ad esempio per quanto riguarda l'ubicazione, il dottor Carbone, relatore a un convegno organizzato dalla Dc a Trieste in ottobre, ha risposto pressoché testualmente: "Sa, io non sono di Trieste, ma ho visitato la zona in elicottero (sic!) poi ci ho mandato i geometri, i quali mi hanno detto che, sì, ci sono effettivamente questi, com'è che li chiamate? questi buchi (si riferiva alle doline, alle foibe, agli altri fenomeni del carsismo, ndr), ma che la cosa era fattibile". A parte la scelta folle e criminale dell'ubicazione della zona industriale (e ci devono spiegare come sia possibile in periodo di austerità chiamare i contribuenti a fare sacrifici per costruire nuove industrie e per costruirle per di più in una zona dove costeranno quattro o cinque volte più che altrove, con grave danno per la salute di una città e nessun vantaggio per l'occupazione) resta da analizzare quale sia la molla economica, quali gli interessi che hanno spinto ad elaborare questo progetto. Va detto subito che, per esplicita affermazione dei nostri negoziatori, la zona franca industriale l'hanno voluta loro, e non gli jugoslavi, e certamente solo un democristiano italiano poteva partorire una imbecillità tale. Per quali interessi ha dunque agito il dottor Carbone, oltreché per venire incontro alle esigenze della Dc locale che ha cercato di presentare l'accordo sulla zona come una contropartita per Trieste, di fronte alle temute reazioni (che invece sono state assai deboli) contro la cosiddetta cessione dell'ex zona B? La risposta la fornisce l'art. 5 del protocollo sulla zona franca, che dice: "I rapporti di lavoro, relativi agli stabilimenti situati nella zona sono sottoposti alla legislazione dello Stato in cui ha sede l'impresa da cui dipendono detti stabilimenti". Poiché secondo il diritto jugoslavo, imprese straniere non possono insediarsi in Jugoslavia, ma solo essere presenti attraverso compartecipazioni minoritarie, ecco aprirsi per i grandi gruppi multinazionali la possibilità di usufruire sotto la bandiera ombra jugoslava della manodopera sottocosto, rappresentata dai lavoratori macedoni, montenegrini e bosniaci che immigreranno nella zona. Solo per questi grandi gruppi, grazie al peso contrattuale da essi detenuto presso il governo di Belgrado a causa di altre compartecipazioni in imprese jugoslave, sarà possibile superare sul piano dei rapporti di forza le difficoltà frapposte dalla legislazione jugoslava all'impiego di capitali stranieri. Questi gruppi (per parte italiana pare abbia già avanzato la richiesta la Fiat holding, e non a caso Gianni e Umberto Agnelli sono più volte pubblicamente intervenuti a Trieste in difesa dell'accordo) potranno quindi produrre merci da importare nei paesi del Mec godendo di condizioni inimmaginabili in Italia: pagando la manodopera a un prezzo pari a circa la metà di quello italiano, e senza applicare i ben più gravosi contratti italiani e la legislazione italiana (tra l'altro lo statuto dei lavoratori). Per altre imprese italiane non vi sarà alcun incentivo a installarsi nella zona franca. Più di 180 imprese di nazionalità jugoslava e nessuna di nazionalità italiana hanno infatti presentato richiesta di installarsi nella zona. I riflessi sull'economia triestina, in mancanza di credibili prospettive occupazionali nella zona, saranno tutti negativi: le grandi imprese avranno tutto l'interesse a spostare le loro attività nella zona sotto la bandiera ombra jugoslava, sottraendo posti di lavoro agli operai triestini. Non a caso si sono verificate in questi ultimi mesi numerose chiusure di stabilimenti industriali e non è stata smentita la notizia, pubblicata da un diffuso settimanale, secondo cui la Fiat starebbe per ritirare la propria partecipazione del 50% nella "Grandi Motori Trieste". Lo stesso interesse avranno le grandi imprese che operano nel vicino Friuli e va rilevato che quantomeno i piani di sviluppo industriale della regione non dovrebbero ignorare dopo il 6 maggio i problemi della ripresa economica del Friuli, senza la quale non è pensabile nessuna rianimazione della vita civile nelle zone terremotate. Le industrie insediate nella zona non promuoveranno nessuna attività industriale indotta che venga incontro alle esigenze occupazionali di parte italiana, perché anche per queste imprese sarà conveniente operare con manodopera jugoslava in zona franca. L'industria triestina non potrà che soccombere di fronte alla concorrenza delle imprese jugoslave operanti in zona franca, il massiccio afflusso di nuova popolazione aumenterà il già alto costo della vita a Trieste; e, al di là di tutte le dichiarazioni di intenzioni contenute nell'accordo e nel protocollo, i trasporti via mare e via terra non passeranno certo attraverso i porti e i vettori triestini ben più costosi di quelli jugoslavi, così come resterà sulla carta l'affermazione secondo cui i cittadini dei due paesi avranno pari diritto all'impiego negli stabilimenti della zona. Per di più le scelte operate attraverso l'accordo di Osimo sconvolgono ogni precedente previsione economica e urbanistica elaborata degli enti locali. Le popolazioni e i loro organi elettivi non sono stati minimamente consultati di fronte a scelte che segneranno così profondamente la loro vita futura. Solo il presidente regionale, il moroteo Comelli (altra delle due sciagure che, con il terremoto, hanno colpito quest'anno le popolazioni friulane) venne convocato nel cuore della notte per esprimere parere favorevole (obbligatorio a norma dello statuto regionale, che prevede la partecipazione del presidente della regione alle riunioni del Consiglio dei ministri che discutono materie d'interesse regionale) ad un progetto che nemmeno conosceva, se non nelle linee essenziali. Il voto favorevole dei consigli degli enti locali fu solo successivo, e verté ovviamente più sul problema della definizione delle controversie confinarie che su un accordo economico che era difficile allora valutare in tutte le sue conseguenze, e fu estorto con inaudite pressioni dei vertici nazionali di alcuni partiti: di fronte a un voto di un'assemblea cittadina del Pri, che invitava i propri rappresentanti ad astenersi, La Malfa annuncio telegraficamente le proprie dimissioni da vicepresidente del consiglio se tale mandato fosse stato rispettato, provocando le dimissioni di uno dei due consiglieri comunali repubblicani. Ma se non vi è stato alcun coinvolgimento degli enti locali né delle forze sociali nella fase di stipulazione dell'accordo, non diverse sono le prospettive per la futura gestione degli accordi; ogni decisione in merito, infatti, è demandata a una commissione paritetica italo-jugoslava, costituita per parte italiana da tre rappresentanti dell'Ente Zona Industriale di Trieste (Ezit), presieduto, come tutto il sottogoverno locale, da un altro moroteo, Ennio Antonini. Attraverso la creazione di questo comitato, le competenze legislative e amministrative degli enti locali e della stessa regione a statuto speciale, già limitate con la definizione di scelte irreparabili attraverso la stesura degli accordi, verranno definitivamente amputate: sarà il comitato a decidere, senza alcun controllo elettivo, l'estensione della zona, i controlli (solo eventuali) sull'inquinamento, il tipo di insediamenti da permettere o da vietare, ed ogni altro compito previsto dal protocollo sulla zona franca e dalle sue disposizioni aggiuntive, tuttora ignote. Questo comitato dovrà, secondo l'art. 7 del protocollo, "amministrare la zona". Esso dovrà inoltre elaborare il piano urbanistico della zona, per proporlo alle "competenti autorità" dei due paesi. Nel miglior caso, quindi, agli enti locali non resterà che esprimere un sì o un no alle scelte proposte dal comitato, ma la situazione potrebbe anche essere peggiore. La Corte Costituzionale ha infatti fin qui ritenuto che il limite degli "obblighi internazionali" alle competenze legislative e amministrative delle regioni e degli enti locali vada interpretato in senso estensivo e antiautonomistico, come comprensivo della stessa esecuzione degli accordi: in caso di futuri contrasti fra Stato e enti locali, il governo troverà quindi miriadi di giuristi di regime disposti a sostenere la tesi che le "competenti autorità" sono, per parte italiana, quelle statali e non quelle locali. Catastrofe ecologica, strage ambientale, deportazioni forzose di migliaia di lavoratori per essere ipersfruttati dai grandi gruppi multinazionali, congestionamento urbano, prevedibile incremento massiccio dei fenomeni di disadattamento sociale, rinfocolamento prevedibile di odi nazionali ormai quasi sopiti, aggravamento della crisi dell'economia triestina e ostacoli alla ripresa produttiva nel Friuli, amputazione permanente delle competenze degli enti locali attraverso lo strumento centralistico del trattato internazionale. Eppure, la sinistra triestina tradizionale ha fatto quadrato a difesa di questo accordo, ha rischiato, prima dell'intervento radicale, di regalare alla destra il monopolio dell'unanime opposizione popolare a questo folle e criminale progetto di regime. Il ricatto democristiano ha quindi ancora una volta funzionato: l'avere legato trattato e accordo in un unico documento sembra porre le forze democratiche di fronte all'alternativa: o ratifica integrale dell'accordo sulla zona industriale o crisi internazionale per la mancata definizione del problema dei confini. Da parte jugoslava, le preoccupazioni per la definitiva chiusura di un focolaio di tensione in previsione del "dopo Tito" sono più che giustificate, dopo il comportamento inqualificabile che per quasi vent'anni ha mantenuto la diplomazia italiana, che ha sempre promesso un accordo sui confini nei colloqui internazionali, mentre la Dc ha sempre alimentato impossibili illusioni revansciste e speculato in tal modo sui sentimenti dei profughi istriani a ogni tornata elettorale. Altrettanto giustificate sono quindi le preoccupazioni dei democratici italiani perché questo problema sia al più presto rimosso, ma non è in nessun modo accettabile che il prezzo dell'accordo sui confini sia la catastrofe che si vuole imporre a Trieste con la nuova e peggiore Gioia Tauro. Non si tratta di essere a favore o contro l'industrializzazione in generale: si deve dire se alla sinistra va bene qualunque industria, dovunque e comunque. Vi sarebbero per l'ubicazione della zona industriale a cavallo del confine, almeno due alternative possibili: la zona del Vipacco, in provincia di Gorizia, o ancora meglio, quella che rappresenta la direttrice naturale dello sviluppo economico di Trieste: la valle delle Noghere, a sud della città, in continuazione dell'attuale zona industriale di Trieste. Anche in questa zona vi sono alcuni problemi tecnici, ma nemmeno paragonabili a quelli che dovrebbero essere affrontati sul Carso. La soluzione giuridica per salvare il trattato (pur non esente da gravi difetti per quel che riguarda, ad esempio, la perdita sicuramente incostituzionale della cittadinanza per i cittadini dei due gruppi etnici minoritari che non optino entro i tre mesi per il trasferimento nella madrepatria) e rinegoziare il trattato per la parte relativa alla zona industriale non dovrebbe essere difficile da trovare, essendo tutta da provare l'inscindibilità di trattato e accordo. Una soluzione del genere non dovrebbe trovare insormontabili ostacoli da parte jugoslava se è vero com'è vero che la zona industriale è stata voluta dagli italiani: anche se è certo che questa rinegoziazione non potrebbe che sottolineare e riconoscere la nullità e il pressappochismo dei negoziati democristiani. Finora la Dc aveva buon gioco a sostenere che l'opposizione alla ratifica della zona franca industriale non era che un pretesto per bloccare l'accordo sui confini: altrettanto poteva anche essere detto a proposito della raccolta delle firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la zona franca integrale, dopo il tentativo di strumentalizzazione messo in atto dalle organizzazioni nazionaliste. L'iniziativa radicale ha cambiato il segno di questa opposizione, ha quanto meno offerto la possibilità di dare uno sbocco democratico alla doverosa e plebiscitaria opposizione popolare alla zona industriale carsica. Aderendo alla raccolta delle firme abbiamo chiaramente affermato che volevamo con ciò significare non l'adesione ad un progetto economico alternativo, che non sarà approvato certamente da alcuna maggioranza parlamentare, ma proprio la nostra opposizione alla creazione della zona industriale, e, dopo il nostro intervento, il traguardo delle 50.000 firme è stato superato, e il flusso dei cittadini che si recano a firmare, già elevatissimo, è ulteriormente aumentato. Le forze politiche hanno dovuto misurarsi con questa iniziativa radicale, un gruppo di prestigiosi esponenti della cultura e della sinistra italiana ha aderito ad un appello al Parlamento lanciato dal PR per una diversa ubicazione e regolamentazione della zona industriale. Giorgio Benvenuto ha autonomamente espresso una posizione analoga alla nostra, ed è stato colpito dalla stessa censura (il gazzettino radiofonico regionale, diretto dal moroteo Botteri, non ne ha dato notizia: si tratta del direttore della Rai locale che in una circolare inviata ai giornalisti ha scritto che la giunta Comelli non può essere contestata dalle popolazioni terremotate perché "in un paese democratico" tale compito spetta alle forze politiche rappresentate negli enti locali e quindi le proteste popolari vanno censurate). Il Pdup e Lotta Continua hanno fatto proprie in larga misura le nostre critiche anche se si asterranno dal dare battaglia contro la ratifica, sottostando anch'essi al ricatto democristiano; il Pli e poi il Psdi locali hanno chiesto anch'essi la rinegoziazione dell'accordo. Ma le forze politiche maggioritarie hanno riunito nuovamente il consiglio comunale e quello provinciale, per riaffermare in una mozione il proprio favore alla ratifica: sulle linee della mozione è probabile che anche al Parlamento sarà proposto un ordine del giorno che affermerà "l'esigenza che enti locali e forze sociali siano resi pienamente partecipi della migliore attuazione degli accordi" e che "la comunità locale sia parte attiva e non oggetto passivo di scelte maturate altrove" (sic), e l'impegno alla "doverosa salvaguardia dell'equilibrio ecologico e dell'ambiente naturale del Carso, nonché dell'assetto etnico e sociale delle zone interessate": vane parole, "erba trastulla", come avrebbe detto Ernesto Rossi, di fronte alla approvazione con legge di un provvedimento ispirato a criteri diametralmente opposti, e dotato di valore normativo. Ma la chiave di volta della mozione approvata al consiglio comunale, da tutti i gruppi dell'"arco costituzionale" con la sola eccezione del Pli, è costituita da un'affermazione che riprende una frase di un manifesto diffuso nei giorni precedenti dalla federazione del Pci: sulla base degli accordi di Osimo dovranno "stabilirsi tra le forze democratiche della città nuove e positive intese, tali da assicurare all'iniziativa delle amministrazioni elettive l'autorevolezza che può derivare solo da una più ampia base dei consensi". Non è una frase equivoca: è l'accordo politico sulla zona industriale del Carso che apre la via la compromesso storico a livello locale. L'approvazione di una catastrofe di regime è stata il suo primo atto; il secondo, pare, sarà il rinvio delle elezioni comunali, previste per l'anno prossimo, e che non potrebbero che essere catastrofiche per le forze politiche, quanto la zona industriale lo sarà per la città. E' questo il nuovo modo di governare che i compagni del Pci ci preannunciano da mesi?
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