di Marco Pannella LOTTA CONTINUA, 7 gennaio 1978 Meglio tutto, ivi comprese
le elezioni anticipate e lo scioglimento delle Camere, piuttosto che
andare allo scontro "confuso e lacerante" dei referendum.
In buona sostanza è questo il succo del discorso del PCI alla DC, quale
emerge dall'articolo sparato oggi in prima pagina, con straordinario
rilievo tipografico, su "L'Unità". Secondo Enzo Roggi "lo
sforzo di corresponsabilizzare più strettamente le forze democratiche
e le grandi masse popolari per fronteggiare l'emergenza, dare certezze
nuove, insomma governare la crisi e impedire lo sfascio, verrebbe dopo
due o tre mesi vanificato..." "se "contemporaneamente"
non viene disinnescata questa vera e propria mina vagante..." di
uno "scontro confuso e lacerante". Noi riconosciamo volentieri che i referendum possono essere lacerati; è anche per questo che l'abbiamo convocati. Tutto sta intendersi sul che cosa si debba lacerare o no. C'è da lacerare le leggi fasciste, classiste, che sono la più profonda e diretta causa istituzionale della violenza e del caos nel quale ci troviamo. C'è da lacerare l'unità interclassista, antipopolare, fascista e clericofascista della Chiesa e della DC, con tutte le loro correnti interne ed esterne, dal MSI al PSDI, dal PLI al PRI, da DN al PSDI. Come accadde il 13 maggio del 1974, quando raccogliemmo i frutti della sconfitta del vertice del PCI che aveva tentato in ogni modo di impedire il referendum sul divorzio, temendo (giustamente dal suo punto di vista) ben più di vincerlo che di perderlo. C'è da lacerare l'assetto anticostituzionale del regime, a favore dell'instaurazione di un ordine costituzionale e democratico. E c'è da stracciare l'avvallo storico e politico che il PCI ha dato e dà ai codici fascisti, per poterli magari usare contro ogni dissenso interno o esterno, alle leggi Reale, Cossiga e Bonifacio, all'ergastolo, ai vilipendi, ai tribunali militari, ai codici militari, alle leggi che rendono aziende di stato i partiti, ai privilegi classisti e capitalistici, ai veritici vaticani ed al mondo nazionale e internazionale che rappresenta. Per il vertice del PCI la civiltà giuridica può essere ipotesi di una società "normalizzata", non di un paese dove lo scontro e la contrapposizione sociale, ideale, politica divengono sempre più drammatici. Insomma l'ergastolo, il fermo di polizia, le leggi militariste, clericali, fasciste, autoritarie possono essere aboliti ma solo quando non vi sia più concreta possibilità e occasione per usarli. Per il PCI, ieri come oggi, il paese è "immaturo", l'ordine deve regnare, dentro il partito e dentro lo Stato, e dove cresce la libertà o la certezza del diritto lì per lui cresce automaticamente il disordine e la violenza. Ma cosa resterebbe del "compromesso storico" se questa infausta e aberrante politica che seconda il caos economico e sociale, come sempre a favore dei padroni ("di stato" o "privati" che siano), si scontrasse con la "mina vagante" dei referendum? Questi referendum sono stati richiesti sei anni fa. Almeno da allora il PCI e il Parlamento intero potevano cogliere la "sollecitazione" e lo "stimolo" a legiferare finalmente nel senso della Costituzione e della civiltà, ma ce lo siamo augurato inutilmente. Le donne hanno abortito, sono state costrette ad abortire, ed abortire clandestinamente, durante tutti i trent'anni di "colloquio con la DC e il mondo cattolico"; le firme per il referendum sono state "presentate" da quasi tre anni: le leggi Rocco sono sempre vigenti. Perché la DC, la destra, dovrebbero mollare ora, in meno di quindici o dieci settimane, quel che per trent'anni hanno rifiutato di concedere? Quale forza contrattuale avrebbe mai il PCI, oggi, che non sia la consapevolezza anche da parte della DC che se i referendum si fanno, saremo noi a vincerli, o, comunque, il PCI e la DC, uniti, a perdere politicamente? Comunque non c'è più tempo per legiferare democraticamente; non c'è che da fare o vincere i referendum o rapinarli assassinando la Costituzione. Ma la verità è che il vertice del PCI dimostra oggi che non ha mai creduto alle riforme costituzionali, democratiche, liberali e civili ma hanno finora potuto addebitare alla DC la loro mancata realizzazione. La politica dei referendum può dare sbocco politico alla diversa convinzione dell'immensa maggioranza dei comunisti e a quella che v'è in tutto il paese. Se ci fosse questo sbocco politico la politica del compromesso storico ne sarebbe travolta, né più né meno che quella tradizionale della DC e di questo Stato. E' per questo che con sintonia perfetta, da assalto di brigatisti cossighiani, stamane hanno sparato lo stesso piombo nella stessa direzione, contro i referendum democratici, "il Giornale, Il Giorno e L'Unità, finora, per anni, silenziosi, censurati e censurati. 19 gennaio Da: "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta Milano Libri Edizioni - Febbraio 79 " Avevamo fatto di tutto. Decine di giuristi, non di parte, si erano pronunciati contro le tesi governative; in almeno cento avevamo intrapreso un ennesimo sciopero della fame per chiedere alla RAI informazione sull'iter dei referendum, sapendo bene che solo nella censura e nella disinformazione si possono realizzare operazioni come quella della Corte costituzionale; centinaia di telegrammi si erano accumulati sui tavoli della presidenza del Consiglio dei ministri, né si potevano contare i sit-in e le dimostrazioni di piazza contro gli interventi di Andreotti. Il tutto era stato ignorato da un'informazione sempre più ammaestrata e obbediente: l'"arco costituzionale" rispondeva alle nostre iniziative con il controllo ferreo dei mass-media, un muro di gomma terribile, non perforabile. Non avendo la vocazione di Jan Palach o dei bonzi buddisti, pronti a bruciarsi in piazza e candidati al martirologio, avevamo deciso, il 17 gennaio, di cessare le attività politiche nazionali del partito. Un comunicato stampa chiariva le motivazioni di tale decisione: "Per una forza politica di opposizione che intenda essere nonviolenta, costituzionale, in queste condizioni non esistono più i margini per esercitare la propria funzione; l'unica via praticabile è ormai diffondere le lotte radicali e libertarie nelle città e nelle regioni, non più da Roma, dal centro". Il giorno seguente, veniva diffusa la sentenza della Corte. La Costituzione era stata stracciata, il patto di ferro DC-PCI, la logica soffocante delle "larghe intese" aveva vinto. Probabilmente grazie all'operato, in seno alla Corte, del democristiano Elia e del comunista Malagugini. Anche i socialisti però avevano avallato il "colpo" con il silenzio o la latitanza " A colloquio con Marco Pannella L'OPINIONE, 24 gennaio 1978 "E' una decisione chiaramente dettata da motivi di opportunità politica. Devo dire, ad ogni modo, che quanto è avvenuto non ci ha stupiti. Da mesi denunciavo il ``pactum sceleris'' stretto fra alcuni giudici della Corte". Questa la prima valutazione, a caldo, con cui Marco Pannella commenta la decisione della Corte Costituzionale di dichiarare inammissibili quattro degli otto referendum. Ma le considerazioni che aggiunge, su questo, come su altri temi, non perdono certo di tono. Domanda: D'accordo
per l'opportunità politica, forse, ma a quale ``pactum sceleris'' ti
riferisci? D.: Anche se sulla
questione del compromesso storico possiamo essere d'accordo, temo che
tu semplifichi un poco. Pensi realmente che tutto possa ridursi unicamente
alla cultura dei magistrati e alla volontà di compromesso fra Dc e Pci.
A un fatto antropologico e a uno politico? D.: Tu parli della
Corte Costituzionale come di un gruppo di servi del potere, non di giudici.
Fino ad ora, però, la Corte ha dimostrato un comportamento diverso. D.: Intanto però,
di referendum ne sono rimasti quattro. D.: Veniamo alle due
dimissioni e alla denuncia dell'esautoramento del Parlamento. In base
a quali considerazioni vi siete mossi? D.: Non c'è il rischio
che queste dimissioni facciano la fine di quelle di Emma Bonino? L'on.
Preti dice che subito dopo averle rassegnate si è messa a cercar gente
che le rifiutasse... D.: Veniamo all'ultima
questione, quella dei continui rinvii elettorali cui è ormai sottoposta
la nostra democrazia. 9 marzo da "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta Milano Libri Edizioni - febbraio 1979 Giovedì 9 marzo. " All'ingresso riservato al pubblico e ai giornalisti, due persone su tre sono agenti in borghese, camuffate per mimare la rappresentazione di tutta la scala sociale: c'è l'imbianchino, l'operaio, il borghese, con il loden e "la Repubblica" sotto il braccio, c'è il falso estremista. Dopo i controlli e controcontrolli, ordini e contrordini, riesco ad arrivare all'ingresso, saluto i compagni che tenteranno di entrare come giornalisti di Radio Radicale, peraltro senza riuscirvi. Nel cortile, passo in mezzo ad una fila di carabinieri e ad una decina di cani lupo. Arrivo all'ingresso dell'edificio dove devo sottostare ad un accurato controllo della persona e dei miei oggetti personali: ho un attimo di perplessità, poi lascio perdere. Dopo di me controllano un tale (che scoprirò poi essere un altro giurato) il quale con mio enorme stupore depone una rivoltella: accerterò nei mesi seguenti che anche altri girano costantemente armati e cercherò di capire, chiedendolo direttamente a loro, quale grado di sicurezza possa venire da una rivoltella. Le risposte, vaghe, mi convincono che è soltanto un fatto psicologico, quindi ancor più pericoloso. Salgo al primo piano dove è ubicata l'aula: c'è un salone dove trascorreremo i tempi morti delle udienze (intervalli, attese, ecc...) e tre stanze, di cui una destinata al presidente, una alla giuria, una alla cancelleria e agli avvocati. E' tutto ridipinto e pulito, ma la struttura rivela inequivocabilmente la sua origine di caserma. C'è un'altra saletta, antistante l'aula, dove sosto con gli altri giurati convocati, una trentina di persona; a parte noi, in giro ci sono carabinieri e agenti in borghese. Incomincia una lunga attesa,
durante la quale cerco di parlare con le persone che sono con me. (
) Entrano il presidente ed
il giudice a latere, noi aspettiamo fuori. Dall'aula si sente parlare,
entro e capisco che un imputato sta leggendo un comunicato: non riesco
a vedere chi sia. Ascoltando il comunicato resto un attimo esterrefatta:
è la prima volta che assisto a questo rituale. Giornalisti, avvocati,
carabinieri, tutti sono attenti e tesi al discorso degli imputati. Questo NON E' UN PROCESSO ma, più esattamente, E' UN MOMENTO DELLA GUERRA DI CLASSE; è un episodio dello scontro più generale che oppone in una lotta irreversibile le forze della rivoluzione alla controrivoluzione imperialistica. Ed è quindi su questo terreno generale che affronteremo la battaglia. Che le cose stiano così è dimostrato ampiamente dalla mobilitazione generale che ha coinvolto tutte le forze politiche del vostro fronte (dalla DC ai revisionisti, ai radicali) in una iniziativa unitaria a sostegno delle decisioni dell'esecutivo... ... I REVISIONISTI vogliono che il "processo" si celebri ad ogni costo e a Torino, per dimostrare a cani e porci l'efficacia del loro modello controrivoluzionario e la loro capacità di mobilitare la classe operaia e le classi intermedie a sostegno dello Stato imperialista. Così abbiamo assistito, in questi ultimi giorni, alla campagna isterica e forcaiola che essi hanno scatenato ricorrendo alla squallida attivazione di tutti gli organismi da loro controllati (dalla Regione alla FGCI) per mobilitare la nuova MAGGIORANZA SILENZIOSA. Di questa operazione, in cui la burocrazia revisionista si è fatta Stato imperialistico, a tutti è apparsa chiara la sostanza: dividere il proletariato e attaccare con tutti i mezzi le sue avanguardie. Ma la mobilitazione che doveva essere di massa, nonostante i suoi contenuti terroristici-ricattatori-polizieschi, non è riuscita a coinvolgere che una minima parte della classe operaia, della piccola borghesia e dei cosiddetti "ceti medi". Le migliaia di firme in tutta la regione sono un trucchetto da prestigiatori... ... I RADICALI. Se il "caso" ha voluto che una militante radicale fosse sorteggiata per far parte della giuria speciale, la scelta politica cosciente di farne parte è stata del tutto razionale. L'infortunio dei radicali è, a suo modo, emblematico e patetico: dopo aver abbaiato contro il regime e le "leggi speciali", al momento del bisogno sono corsi a puntellare il più speciale dei tribunali! In questo affanno generale, anche loro non hanno perso l'occasione di "farsi Stato imperialista". L'ideologia radical-pacifista svela qui fino in fondo il suo carattere borghese e reazionario: chi disarma le masse non può che finire per armare la controrivoluzione. Le mimose non ingannano più nessuno!... ... GLI AVVOCATI. Non siamo qui per difenderci e non abbiamo bisogno di difensori. REVOCHIAMO PERTANTO IL MANDATO AI NOSTRI AVVOCATI DI FIDUCIA E RIFIUTIAMO QUALSIASI IMPOSIZIONE DI AVVOCATI DI REGIME. Nessuno può ragionevolmente pensare di ostinarsi a proseguire per questo vicolo cieco senza incontrare la più dura risposta del movimento rivoluzionario... Sul momento - naturalmente
- rifletto solo sul pezzo concernete i radicali, anche perché istintivamente
ho la tentazione di replicare. Il loro linguaggio mi pare rozzo quanto
lo è l'analisi. Dei radicali hanno capito poco o nulla: poco della concezione
del diritto, nulla della nonviolenza ("disarmo delle masse").
Quando mi sento dire di aver abbaiato contro le leggi speciali e di
essermi adesso "fatta Stato imperialista" mi vien voglia di
rispondere che noi le leggi speciali tentiamo di abrogarle, mentre le
loro azioni costituiscono per il regime il miglior spunto per vararne
altre. Dal linguaggio ho la conferma di opinioni già formate: il loro
modo di porsi è una sintesi di stalinismo e di cattolicesimo, con una
visione dei rapporti umani e sociali basata sull'intolleranza e sull'indisponibilità
al dialogo, al centro una forte e retorica mistica della morte e del
sacrificio. I valori che - direttamente o indirettamente - ascolto propagandare
non mi trasmettono nulla di nuovo; l'unica parte interessante del comunicato
può essere quella relativa alla "raccolta delle firme", alla
quale non a caso essi si appigliano. Il presidente incomincia a chiamare i giurati: mentre attendo il mio turno sento che accanto a me qualcuno dice che "sì, accetterò perché bisogna condannarli. Anzi bisognerebbe condannarli a morte": decido subito di chiederne l'allontanamento dalla giuria, ma non sarà comunque chiamato a farne parte. La giuria popolare deve essere una garanzia in più di equità e di controllo nel processo, non può essere formata da persone di parte e che hanno opinioni preconcette: il giudizio dovrebbe maturare fondandosi sulla conoscenza dei fatti che si acquisisce durante il dibattimento. La base di partenza è la presunzione della innocenza, fino a prova del contrario: su questo è indispensabile essere rigorosi, da subito. Accetto per nona, ripetendo la formula del giuramento. Ma sono fra i giurati supplenti: non so ancora se ho la possibilità di partecipare alle camere di consiglio e alle discussioni, la cosa è controversa, non c'è una disposizione precisa. Il presidente chiarirà subito che lui intende far partecipare tutti i giurati alle discussioni e alle decisioni - fatto salvo il diritto di voto - fino alla sentenza. La responsabilità è minore, però la possibilità di controllo e di intervento durante il processo è garantita: era quanto più mi preoccupava, dover dare nei fatti una copertura alla giuria senza poter incidere e intervenire. Mi seggo dietro il presidente, da dove è più facile parlargli anche durante le udienze, e mi guardo intorno. Gli imputati sono nella gabbia, anzi nelle due gabbie ed è quasi impossibile vederli, perché sono circondati da un cordone di carabinieri. Sono molto impressionata, e non potrebbe essere diversamente. Ho la percezione soffocante della privazione della libertà, anche minima, anche dei movimenti più inoffensivi o innocenti. Tutto appare assurdo, a cominciare dallo schieramento di forze dell'ordine all'interno di un'aula nella quale a stento riescono ad accedere persino i parenti: una manifestazione di impotenza e di paura, una esibizione plateale di inutile forza, un modo subdolo di vendere all'opinione pubblica un'immagine di "mostri", "criminali" che mai debbono apparire normali, esseri umani. Altrimenti la gente potrebbe porsi interrogativi, magari scomodi. Questi imputati non sono processati per assassinio o per strage, e non a caso l'opinione pubblica lo ignora e lo continuerà ad ignorare per tutto il processo. Gli imputati appaiono tranquilli, ridono molto, cercano volti familiari in mezzo al pubblico, si esibiscono alla stampa e ai fotografi, consapevoli che da oggi si apre per loro la possibilità di rompere l'isolamento in cui vivono da mesi, usando i mezzi di informazione come canale di trasmissione, sia pur stravolto, del loro messaggio politico. E' ovvio che si prestino al gioco, cercando di usufruire della ribalta del processo. Il comportamento dei giornalisti si adegua perfettamente a questa necessità: non si perderà occasione, durante il processo, per calcare la mano, spesso mistificando, sui comportamenti degli imputati. I fotografi sono scatenati: arrampicati gli uni sopra gli altri, sembra veramente che abbiamo l'occasione storica di fotografie il ciclope o l'ultimo esemplare di Neanderthal. Intravedo in mezzo ai carabinieri il volto di Curcio, quello che mi è più noto: gli altri imparerò a conoscerli nel corso del processo: per ora sono volti senza nome. Sono uomini: ma chi sono? Qual è stata la loro vita, al di là delle biografie ufficiali che la stampa ci propina con un taglio tutto particolare? Cosa significa vivere per anni nella clandestinità, limitando la propria individualità, la propria esistenza, i propri rapporti ad un cerchio ristretto di persone? Cosa significa non vivere in mezzo alla gente? E da quali esperienze politiche provengono? Come si passa da una militanza politica aperta alla scelta dei mitra? Alla fine la giuria è formata, la corte si ritira in camera di consiglio: il presidente chiarisce le funzioni di ognuno, in particolare dei giurati supplenti. Dice che ci sono ancora dieci avvocati d'ufficio da nominare, che non sarà facile, lui ne ha preventivamente consultati molti, ha già ricevuto cinquanta rifiuti (adesso capisco la sua battuta il giorno della mia accettazione), è molto polemico e dà la sensazione di sentirsi solo, lasciato solo a portare il carico e le responsabilità di questo processo. Cerchiamo dieci avvocati, vengono nominati in aula e si rinvia l'udienza alla mattina successiva. Ho la sensazione che Barbaro tiri un sospiro di sollievo. Esco con gli altri giurati, ripercorrendo all'inverso tutto lo schieramento dei mitra: nel cortile ad ogni giurato si affianca - con mio stupore - un carabiniere con il mitra spianato, le macchine degli avvocati e dei giurati partono seguite a ruota da un'altra macchina con una media di tre mitra ognuna. Mi fermo a guardare la scena, chiedendomi che razza di vita possa essere quella degli "scortati"; sempre, a piedi o in macchina, seguiti da gente armata: addio all'allegria di camminare fra la gente, uno tra i tanti. Mi sembra folle. Mi avvio da sola fuori dal recinto che blocca la strada-posteggio riservata a questa nuova specie di vigilati speciali: al di là delle transenne mi aspettano i compagni. Mi abbracciano. Con loro mi avvio alla ricerca di un taxi, ma sono letteralmente aggredita dai fotografi, che quasi impediscono di camminare; contemporaneamente mi scattano intorno agenti in borghese e carabinieri: mi innervosisco, accelero il passo cercando di farmi largo. Da un gruppo di tre o quattro donne, parenti o compagne degli imputati, partono insulti: mi fermo interdetta, la tentazione è quella di avvicinarmi e parlare, ma so che è inutile. E' un episodio che mi fa male. " La Costituzione è morta. Viva la Costituzione Marco Pannella NR117, 11 marzo 1978 Più di un mese è passato. Adelaide Aglietta è ora a Torino, dando corpo e emblematica concretezza a una necessità drammatica di resistenza della quale per primi i radicali, soggetti destinatari e vittime di questa necessità, non sono in genere nemmeno consapevoli. Dopo 22 anni di lotte, il Partito radicale aveva ormai cessato da tempo, perché impeditone con la violenza, le sue attività statutarie. Per assicurare la conquista degli obiettivi votati dai Congressi, le attività della Segreteria nazionale, del Tesoriere, del Presidente del Consiglio federativo, dei membri di Giunta e della decina di compagni direttamente con loro impegnati, non erano più quelle "esecutive" previste dai Congressi stessi. Gli obiettivi venivano raggiunti: ma a che prezzo? Ormai, perché passasse quel minimo di informazione e di attenzione, anche interna, era necessario un impegno che ha messo in gioco la vita di quei compagni con quasi cento giorni di digiuno l'anno. Abbiamo dovuto scoprire e praticare il digiuno della sete, per la prima volta, penso, nella storia della nonviolenza politica. E' solamente grazie a queste decisioni, in genere personali o di piccolo collettivo, che il Partito radicale è il risultato presente (e distorto nella sua identità) nella scena politica e civile italiana. Né più né meno di quel che accadeva alle poche decine di militanti antifascisti della metà degli anni Trenta che "esistevano", in Italia e nell'opinione mondiale, solo grazie ai loro processi, alle loro azioni dirette, alle loro condanne, ai loro ferimenti, in una ventina di casi nel decennio, con la loro morte provocata. Non saremmo in Parlamento, non avremmo potuto rovesciare il segno dell'assassinio di Giorgiana Masi, vera azione deliberata per assassinare il Partito radicale e la sua politica nonviolenta, non avremmo mai raggiunto le firme necessarie per richiedere i referendum (e costringere il regime e il PCI alla colossale, pubblica rapina della Costituzione), se il Partito non avesse al suo centro deciso ogni volta di pagare il prezzo proprio delle dittature per conquistare al Paese quel minimo di informazione senza di che è accecato e violentemente impedito di conoscere e giudicare, e il gioco democratico diventa impossibile. Nel 1972 molti non compresero il nostro invito a bruciare pubblicamente le schede elettorali per denunciare il carattere antidemocratico, truffaldino, di elezioni che non consentivano nemmeno in teoria la effettiva "presentazione" di altre liste oltre quelle ufficiali (dal MSI al PSIUP) al giudizio del popolo. "Non ci mettiamo a tavola con i bari", "Questa non è democrazia, la Costituzione è violata e tradita", andavamo spiegando. Scomparvero in quella occasione il PSIUP, il Manifesto, il MLP di Livio Labor. Raccogliendo firme contro il monopolio abusivo e violento della Rai-Tv e della Commissione parlamentare di regime, concorremmo in modo determinante a indurre la Corte Costituzionale alla sua sentenza esplosiva, che ingiungeva al Parlamento di riformare il servizio pubblico, altrimenti incostituzionale. Senza quella sentenza non sarebbero bastati i drammatici, quasi disperati digiuni della sete per conquistare spazi di informazione non di regime, non DC-PCI, per l'elettorato furono la corrispondenza fra le nostre richieste e "la legge" imposta dalla Corte Costituzionale a consentirci di aprire quelle brecce di libertà e di democrazia. Ma parallelamente, l'azione di affossamento della libertà di espressione, nella stampa, di giornalisti e politici libertari o autenticamente liberali (cioè credenti nello Stato di diritto) avanzava a passi da gigante. I contorni mafiosi, sindoniani, massonici, multinazionali, dell'impero fatto costruire da Angelo Rizzoli, con la concomitante estensione di potere del gruppo dei giornalisti Fiat, con le nuove scelte del gruppo Mondatori ( di cui la diversa linea di Panorama è solo una spia), con il consueto allineamento agli interessi della "razza padronissima" di Caracciolo e Scalfari ( attorno alla polemica sullo scandalo Italcasse e Caltagirone, giunto a comportamenti banditeschi, a estorsioni vere e proprie nei confronti di Conte, con il linciaggio organizzato contro Tempo di Jannuzzi, colpevole d'aver dato spazio a noi radicali, con la liquidazione delle direzioni "liberali" del Resto del Carlino e del Giornale di Sicilia, dell'Alto Adige, della proprietà e direzione di Alessi (anti-Osimo) del Piccolo di Trieste, con l'operazione Mattino, con quella Corriere della Sera (con buona pace di Giuliano Zincone), con la linea ferocemente antiradicale assicurata (per compiacere al PCI) dal TG2 e da GR1, con il vero e proprio teppismo fascista nei confronti delle opposizioni di sinistra assunto da Paese Sera di Aniello Coppola e di Franco Rodano, con i Maurizio Costanzo e gli Enzo Biagi, l'unità di regime della stampa la rende tale da non avere altri margini di differenza e di apertura che non siano paragonabili a quelli che durante il regime PNF erano consentiti e richiesti alla stampa di allora, ai Gayda e agli Interlandi, ai Farinacci e ai Missiroli, fino agli spazi bottiani a intermittenza concessi già allora ai Benedetti e Pannunzio, al loro maestro Longanesi. Situazione pienamente di continuità e sviluppo del fascismo, dunque. Se appartenessi a quanti dicono: "Se tornano i fascisti, allora non c'è che il mitra", a quanti credono che la nonviolenza sia possibile in regime di libertà anglosassoni, o a quanti ritengono perseguibile (sia pure "dialetticamente") la pace con la guerra, il socialismo con la politica, sia pure difensiva, di assassinio e di violenza, avrei già scelto queste strade. Ma credo nella nonviolenza, nella libertà, nella democrazia, nel socialismo, nel dialogo innanzitutto come metodi, come mezzi, strumenti. Credo nella "guerriglia nonviolenta" d'attacco e non solo di difesa, credo nel ragionato, continuo, ragionevole sregolamento di tutti i meccanismi (indotti ed ereditati, conquistati ieri e inadeguati oggi) e sensi collettivi e personali, privati e politici; credo nel "valore" del diritto e dei diritti, credo nella speranza "Partito radicale" cui abbiamo saputo dare finora, non di rado, prefigurazione e corpo e speranza. Credo che la responsabilità che si è assunta Adelaide sia enorme, dolorosa e felice. Ha avuto il coraggio di constatare che il Partito radicale non poteva più esistere, non esisteva più, se non a prezzi e condizioni che lo snaturavano pericolosamente, che chiedevano -sicuramente- i nostri morti e le nostre morti, eroi e martiri, a meno di voler ridursi al "ruolo" di minoranza protestataria, inefficace, di nuova opposizione legittimante il regime, e il sistema ( la scelta nucleare rappresenta il primo, vero, insuperabile anello di congiunzione fra il regime italiano e sistema capitalistico, imperialistico violento e distruttore anche del futuro dell'umanità; quell'anello di congiunzione che può richiamare all'interno dello Stato - non solamente in Italia - il "potere" di classe necessariamente fin qui detenuto dalle multinazionali). Vi sono radicali che sembrano non comprendere questo. La loro soggettività corrisponde a dati oggettivi: sono quali la mancanza di dialogo e di informazione nel Paese, nella società (non siamo una setta: non basta quella "interna", può anzi essere pericolosa se isolata), li rende. Poi vi sono anche radicali la cui vita è meno difficile, non per loro calcolo o tradimento, ma perché il regime sa premiare chi riduce o "innalza" l'esser radicale a "pensiero", a "contenuti" da perseguire "un giorno", o da omologare ad altri meno condizionati in senso alternativo. C'è una "serenità" e "compostezza" radicale che sono all'opposto della severità e del rigore degli "scomposti" e "esagitati", cui finora (purtroppo!) si sono dovuti tutti i risultati raggiunti, le vittorie, le crescite. Cessare l'attività politica nazionale del Partito radicale non è decisione di un momento. E' attività, o non è che resa (anche se la resa, per dei nonviolenti, può essere momento morale e civile necessario) continua per rinnovare la gestualità e il rituale di espressioni e azioni senza avvenire e senza reale presente se non quello di servizio al "tutto" che questo potere ha bisogno di essere e apparire, tutto e il contrario di tutto. E' attività il chiedersi ogni momento se, per comunicare la nozione che nel 1978 in Italia non c'è democrazia politica, diritti costituzionali, libertà per le minoranze di alternativa e di opposizione, ma solamente violenza e arbitrio, dalla Corte Costituzionale al Parlamento, dalla Giustizia alla Economia, è attività il chiedersi ogni momento -dicevo- se per comunicare questa nozione sia necessario o possibile tacere o parlare. Ma si deve lottare perché questo silenzio, imposto e deliberato, diventi evidenza, parli, dia coscienza di sé, e del suo significato. Si deve lottare a livelli diversi. Il nostro Statuto, il nostro pensiero comune, ci indica che il Partito radicale non può non essere, nel medio termine (nel quale -dopo 22 anni di attività- siamo pienamente entrati), che una conquista dei Partiti radicali. La nostra esperienza e la nostra identità storica ci indicano che le dimensioni territoriali democratiche, le Regioni o altro, non sono nemmeno esse raggiungibili, oggi, se non attraverso i marciapiedi, le strade, le piazze. Non si raggiunge, in questo fascismo, la gente, la classe che attraverso la materialità conosciuta e conquistata dei tavoli, delle schede, della raccolta del denaro e delle firme, cioè della innalzata bandiera costituzionalista e legalitaria, anticonsumistica e antiviolenta della "povertà" quale caratteristica aggregante e unificante, di base e di partenza di un movimento liberatorio, alternativo, maggioritario, come abbiamo sempre voluto essere e non di rado siamo stati. Non li si raggiunge, non ci si trova, conosce e riconosce, se non con l'umiltà di richieste precise, umili, motivate semplicemente. Dobbiamo tutti in primo luogo ridiscendere nelle strade, con i nostri tavoli e con noi militanti così; la cruna dell'ago della raccolta di almeno un miliardo, come simbolo di forza e di speranza degli umili contro i ricchi, i potenti, i prevaricatori, i disperati e i fanatici. E' poco per questo, per motivare il nuovo impegno di tanti? Può darsi. Vigevano mi assicura che non siamo più di un migliaio, finora, di iscritti militanti che hanno accettato e praticato la nuova forma di associazione, di autotassazione, per il Partito. Basteremmo in molti di meno, in realtà, per riannodare il filo interrotto, spezzato dalla DC e dal PCI, dal regime nel suo assieme, nella sua disperazione e nella sua paura, nel caos e nella guerra (per ora solo civile, ma per quanto ancora?) che sono l'"emergenza" senza la quale morirebbe -anziché farci morire-, far morire il Paese. Intanto, ancora grazie ad Adelaide, all'unico punto fermo che abbiamo, per la sua decisione e intelligenza, che dobbiamo rendere comune alla gente, a tutti noi. I Partiti radicali, anch'essi, non credano di esistere, in quanto tali. I movimenti federati, meno che mai. C'è tutto da costruire. Di nuovo, come un tempo. Siamo in alcune centinaia ad avere gli strumenti, in centinaia di migliaia pronti a usarli, se sapremo diffonderli, socializzarli. E non è vero che la decisione della Corte, l'assassinio della Costituzione sia sconfitta, altro che particolare e di mera congiuntura, nostra e non del regime. La Costituzione era assassinata nel silenzio e nella incredulità generale dei "liberali", della gente, da trent'anni. Referendum non se ne facevano (tranne uno: contro la democrazia, nel suo oggetto) da trent'anni. Tutto questo era normalità. Oggi, per quattro referendum che non si faranno, e altri cinque che abbiamo ancora da difendere, a migliaia o milioni rompono dentro di sé con il potere. Quel che era nascosto e negato, ora è evidente. La verità delle nostre analisi e delle nostre proposte è ora fortemente cresciuta storicamente, è socializzata, è affidata non più solamente a noi e a coloro che abbiamo un tempo avuto accanto. La Costituzione assassinata, la strage di legalità, la costruzione materiale, vivente, alternativa a quella repubblicana, l'unità di tutti, dal PCI, al MSI, dal PRI alla DC, attorno al pensiero e alla realtà dello Stato Etico e corporativista, di Bottai, Rocco, Federzoni, Gentile, del patto sociale fra Capitale, Lavoro e Stato, mediato dal "Partito", non è più intuizione o fantasma, incubo o follia di qualcuno, del Partito radicale. Il Partito radicale, lo Stato di diritto, la Costituzione, l'alternativa democratica e libertaria di classe, il movimento socialista e pacifista, la rivoluzione umanistica sono morti. Viva il partito radicale, lo Stato di diritto, la Costituzione, l'alternativa democratica e libertaria di classe, il movimento socialista e pacifista, la rivoluzione umanistica, battaglie di libertà e di liberazione. ABORTO: LE STREGHE SON FREGATE di Loredana Lipperini NR119, 26 maggio 1978 "In sordina, tra l'indifferenza
della stampa, senza che una sola iniziativa del movimento femminista
gli facesse eco, la legge sull'aborto è stata approvata dal Senato. Venendo meno l'opposizione radicale al Senato, la forza, l'opposizione stavolta poteva e doveva venire dal movimento delle donne. E' triste dirlo, ma già quando la legge veniva discussa alla Camera le compagne femministe sono scese in piazza una sola volta dopo averlo deciso controvoglia, con poca chiarezza e molte divisioni. Ci si rifiutava anche di pronunciare la parola referendum, per paura di venir chiamate radicali, di venir strumentalizzate chissà da chi: come se il voto non sarebbe stato un voto di donne, un riappropriazione del proprio diritto di decidere. Mentre la legge veniva approvata in tutta fretta al Senato, mi dispiace dirlo, ma obiettivamente il movimento femminista si è reso complice del silenzio in cui questa operazione è stata condotta. Non una volta ho sentito parlare di una mobilitazione delle compagne; l'unica manifestazione che si è svolta a Roma mentre la legge era al Senato è stata fatta quasi per dovere, erano presenti poche decine di compagne. Non una volta ho visto una compagna femminista manifestare sotto il Senato: le botte, ancora una volta, le abbiamo prese noi, compagne e compagni radicali, mentre protestavamo anche per loro, in pochi contro le cose vergognose che venivano approvate sulla pelle di tutte le donne. Mentre scrivo, non so ancora
quale sarà il giudizio della Cassazione: se si riuscirà ugualmente a
fare il referendum sull'aborto, se si riuscirà in questo modo a sconfiggere,
con una grande vittoria delle donne e del paese, chi non vuole che l'aborto
sia realmente libero, realmente gratuito, realmente assistito e che
con questa legge l'ha ribadito. Se così non fosse, gli anni che ci aspettano
sono davvero molto difficili: nessuna mobilitazione, per quanto grande,
per quanto capillare, riuscirebbe ad annullare le burocrazie e gli ostacoli
che ci vengono opposti. E' probabilmente anche inutile rielencarli:
i sette giorni di ripensamento prima di ottenere il "passi"
per abortire, il riconfermato ruolo del padre nella decisione, l'impossibilità
per la minorenne di abortire se non sborsando milioni dai cucchiai d'oro
o facendosi massacrare l'utero dalle mammane, l'obiezione di coscienza
massiccia degli enti ospedalieri, la mancanza di posti letto negli ospedali,
la galera per chi pratica il self help, il terrorismo delle associazioni
religiose che di fatto gestiscono i pochi consultori esistenti. E inoltre
l'aumentato potere della classe medica, è il vero e proprio insulto
che questa legge costituisce per la dignità della donna, che continua
ad essere considerata una minorata mentale, incapace di decidere e di
scegliere. Questo è quello che la maggioranza politica ha deciso di
rispondere agli anni di lotte delle donne e di mobilitazione contro
l'aborto clandestino: per i partiti che l'hanno votata, questa legge
non è stata nulla di più che una tappa, più o meno importante, della
loro strategia di violazione della legalità e di soffocamento dei diritti
civili: anzi, si è trattato del momento in cui le loro alleanze si sono
consolidate: Parigi, per PCI, PSI e soci val bene una messa. di Roberto Cicciomessere NR119, 26 maggio 1978 Regolamenti: liberali quando non servono Il regolamento "liberale" della Camera, che andava bene, finché, per questi trent'anni, l'opposizione era stata solo formale e di facciata, diviene ora, nelle mani di una rigorosa sebbene piccola opposizione, un'arma capace di provocare seccature ad una maggioranza decisa a muoversi al di fuori delle sedi istituzionali e di ogni norma costituzionale. In quest'ultimo mese, la
maggioranza guidata dal PCI, ha usato tante violenze contro la opposizione
di quattro deputati quante non sono state neppure tentate in trent'anni
dalla Democrazia Cristiana contro la opposizione comunista, rivelatasi
così chiaramente puramente formale. L'assegnazione della legge Reale-bis alla Commissione Giustizia in sede legislativa è stata la prima mossa di Ingrao, in seguito al fallimento dei tentativi di "programmazione" dell'opposizione radicale, proponendoci contropartite in cambio della rinuncia all'ostruzionismo. Il regolamento e la Costituzione consentono infatti l'assegnazione in sede legislativa delle leggi che riguardino "questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale" e che "rivestano particolare urgenza". Certo è indubbia la rilevanza di questo provvedimento, come è indubbia la sua gravità: ma è evidente che la sua urgenza non è determinata da necessità oggettive, ma da quelle soggettive di una maggioranza che vuole evitare il referendum. Inutilmente abbiamo chiesto
che la legge Reale-bis fosse almeno assegnata congiuntamente alle commissioni
Giustizia e Interni, come del resto era accaduto nel '75: anche in questo
caso il Presidente ha fatto valere le sue prerogative per impedire anche
solo una possibilità di allungamento dei tempi del dibattito conseguente
ad una discussione congiunta di due commissioni. Sistemato quindi il problema
della contemporaneità delle due discussioni in commissione, si poneva
ora quello di stroncare l'opposizione radicale sulla Reale-bis. Per
prima cosa era quindi necessario impedire la pubblicità dei lavori di
commissione affinché i cittadini, ed in particolare gli elettori comunisti
e socialisti fossero tenuti all'oscuro dei contenuti della legge truffa
e dei motivi della nostra opposizione. Ma l'art. 65 del regolamento
è chiaro in proposito: prevede infatti il diritto della stampa e del
pubblico di seguire lo svolgimento delle sedute in separati locali attraverso
impianti audiovisivi a circuito chiuso. Per tutta risposta, Ingrao
decreta con apposita circolare che i deputati non appartenenti alla
Commissione Giustizia potevano assistere, nel senso di ascoltare e guardare,
ma non parlare, nemmeno per illustrare i propri emendamenti. Su questa
ennesima violazione regolarmente Pannella si fa espellere dalla Commissione,
per sottolineare il nostro preciso dovere di disobbedire alle violenze
patenti della Presidenza. A questo punto rimaneva il problema dei possibili "disturbi" che la discussione in aula sulla riforma dell'Inquirente (si doveva discutere in aula perché evidentemente tutte le altre sedi erano occupate dalle altre leggi truffa) poteva provocare alla Commissione. Ancora una volta Ingrao supera il problema con disinvoltura, autorizzando la contemporaneità delle due discussioni. Rimaneva però, anche in questo modo, un'ultima difficoltà: è ovvio, oltre che consolidato dalla prassi di trent'anni, che non è possibile votare due leggi contemporaneamente in aula e in commissione. In questo caso, infatti, il deputato si troverebbe privato di un solo diritto-dovere fondamentale, quello di partecipare non solamente al processo formativo di una decisione, ma anche al momento del voto su una legge. In questo caso, dunque, sarebbe costretto a scegliere tra il voto in aula e quello in commissione. Incredibile ma vero, ancora una volta Ingrao ritiene che non ci sia niente di male se le votazioni in aula e in commissione avvengono contemporaneamente: decide dunque di non sospendere i lavori della commissione giustizia, neanche nel caso di votazioni in aula. Non servono a farlo ritornare sulle sue decisioni le proteste dei deputati radicali, l'esibizione di circolari presidenziali degli anni precedenti in cui si dichiarava la nullità dei lavori di commissioni in sede legislativa convocate contemporaneamente ai lavori legislativi d'aula, la denuncia della condizione a cui viene costretto non tanto il deputato d'opposizione, ma il deputato di maggioranza che deve votare come una pecora provvedimenti diversi senza neppure conoscere l'oggetto della votazione e aver ascoltato i pareri diversi dei suoi colleghi, costretto ad obbedire solamente alle indicazioni del capogruppo. Tutto ciò avviene mentre Moro è nelle mani delle Brigate Rosse: ancora, il Parlamento viene espropriato dei suoi diritti e doveri di indirizzo e di controllo dell'esecutivo. Alle richieste quotidiane dei deputati radicali di aprire alla Camera il dibattito necessario per esplorare tutte le strade che potessero impedire l'assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana, la maggioranza opponeva la forza del numero, la violenza anticostituzionale, l'esproprio del Parlamento. E naturalmente Ingrao, cultore della centralità del Parlamento, rimaneva impassibile. Da quanto è accaduto e sta accadendo oggi in Parlamento è chiaro che la richiesta di attuazione della Costituzione e dei regolamenti, la difesa dello Stato di diritto, sono oggi momenti di lotta rivoluzionaria contro chi, per affermare la propria logica illiberale e anticostituzionale, continua a far strage di leggi, costituzione, regolamenti, a cui, come è tragicamente dimostrato dagli ultimi avvenimenti, segue sempre la strage di vite umane, l'indifferenza e la sfiducia dei cittadini nell'agibilità democratica degli strumenti istituzionali. Il fatto che cinque deputati
siano riusciti a costringere la maggioranza a chiedere, per la prima
volta in assoluto dopo trent'anni, un voto di fiducia sul decreto antiterrorismo
per stroncare la loro opposizione, costituisce certamente una grossa
e inaspettata vittoria. Dopo lo scippo del Codice Rocco, del Concordato, delle leggi militari, oggi l'Alta Corte afferma che... Questa volta anche la Corte Costituzionale, quella Corte che a gennaio sottrasse con un vero e proprio "golpe" i quattro maggiori referendum del progetto di attuazione costituzionale promosso dal PR, ha dovuto riconoscere "l'esigenza di non frustrare il ricorso al referendum", la necessità di "tutelare adeguatamente i firmatari, i promotori delle richieste referendarie": le modifiche formali e pretestuose, gli espedienti legislativi - ha detto in pratica la Corte - non possono bloccare il referendum; solo se il parlamento modifica "i contenuti normativi essenziali", "i principi ispiratori" delle leggi sottoposte a referendum, è legittimo il blocco delle operazioni referendarie. La nuova sentenza della Corte
Costituzionale è sicuramente un argine - anche se dovremo valutarne
nei prossimi giorni la reale efficacia - nei confronti dei furibondi
attacchi e dell'ossessivo ostruzionismo contro i referendum (il vero
ostruzionismo!) messo in atto, ormai da molti mesi, dai partiti della
maggioranza/unanimità del parlamento. Infatti i referendum ancora in piedi (al 20 maggio) sono cinque, anche se stampa e Rai-TV, con la loro opera sistematica di disinformazione, ne hanno abrogati del tutto due, asserendo che l'approvazione delle leggi-truffa sull'inquirente e sui manicomi aveva già prodotto, automaticamente, il blocco delle operazioni referendarie. Questo blocco invece può essere dichiarato solo dall'Ufficio centrale della Cassazione al quale aspetta il compito di prendere in esame "leggi" approvate dal parlamento e valutare, con i criteri stabiliti dalla sentenza della Corte costituzionale, se esse mutino i principi ispiratori della disciplina sottoposta a referendum o se invece apportino solo modifiche formali. In quest'ultimo caso il referendum si fa. E, per quanto ha detto la Corte, si fa proprio sulla nuova legge che ha sostituito solo formalmente quella inizialmente sottoposta a referendum. L'Ufficio centrale della Cassazione però, potrà prendere queste decisioni solo verso la fine di maggio (il 25 o il 26 probabilmente) o forse ancora dopo, soprattutto per l'aborto. Provocando questa incredibile
situazione di incertezza e confusione sull'oggetto stesso della consultazione,
i partiti di regime, anche se non riusciranno a "scongiurare"
tutti i referendum hanno comunque già raggiunto lo scopo di soffocare
e impedire un reale e approfondito dibattito sui temi dei referendum,
soprattutto grazie al comportamento banditesco della Rai-Tv e alla decisione
scandalosa della commissione parlamentare di vigilanza. Cerchiamo comunque di esaminare più dettagliatamente a che punto è l'iter istituzionale del referendum ripercorrendo le tappe di questa complessa vicenda giuridico-costituzionale e cercando di prevederne, per quanto sia possibile gli sviluppi. Il 6 dicembre scorso l'Ufficio
centrale della Cassazione, attestando la regolarità delle 700 mila firme,
escluse dal referendum sulla legge Reale l'art. 5 (relativo al divieto
di usare caschi o altri mezzi che rendano difficoltoso il riconoscimento
della persona), in quanto "sostituito" dal parlamento, sia
pure solo formalmente e in senso peggiorativo.
11-12
giugno da "Diario di una giurata popolare
al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta
Milano Libri Edizioni - febbraio 1979 La sera, in piazza Carlo Alberto, si radunano spontaneamente centinaia di persone, per festeggiare questa grande vittoria politica. Con un megafono improvvisato incomincio a parlare, ma non riesco a trattenere la commozione. Decine di compagni mi abbracciano: le lacrime che mi cadono sono forse l'inizio dello sciogliersi di un grosso nodo interno, l'inizio del rinascere e del riaffermarsi in me della fiducia nella gente, nella sua maturità e civiltà. Mi sono riconquistata la volontà di continuare a lottare, ad affermare nei comportamenti personali e politici quelle speranze che vedo non più patrimonio di pochi, ma sempre più patrimonio di molti: ora è necessario dare voce e rappresentanza a questa opposizione che con tanta chiarezza è venuta alla luce, l'11 giugno. Dopo la manifestazione, in un clima di euforia, torno al partito. Mi telefonano da Roma: vogliono una dichiarazione per Radio Radicale. Gianfranco ed Emma - mi dicono - sono con Mimmo Pinto a Piazza Navona, a festeggiare anch'essi il risultato. Marco Pannella ha invece atteso i risultati in piazza, a Trieste, dove siamo già in piena compagna elettorale " LA DIFFICOLTÀ DI ESSERE DIVERSI intervista con Marco
Pannella MONDOPERAIO, 11 novembre 1978 SOMMARIO: Cronache della campagna elettorale di Marco Pannella e del Partito radicale alle elezioni amministrative a Trento: una campagna "all'americana". Analisi della situazione politica interna al Partito radicale, all'indomani del Congresso che ha eletto segretario l'obiettore di coscienza francese Jean Fabre. I rapporti con il Psi: non è un vero partito socialista se non è assolutamente maggioritario; bisogna puntare alla rifondazione del PSI che dovrebbe coinvolgere l'80% dei comunisti, dei radicali e dei socialisti. Nel centro di Trento c'è
un piccolo albergo. Il centralinista vi conosce vita, morte e miracoli
di Emma Bonino, Massimo Teodori, Marco Pannella. Perché per le elezioni
nel Trentino Alto Adige i dirigenti radicali hanno fatto di questo hotel
il loro centro operativo. Dopo un congresso a sorpresa nelle Puglie
in cui è stato eletto un segretario simbolico e spettacolare, il giovane
francese obiettore di coscienza Jean Fabre, la leadership radicale si
è trasferita in massa sulle Alpi per cercare di ottenere gli stessi
buoni risultati di Trieste. Un Massimo Teodori che prepara le pagine
di pubblicità comprate al quotidiano "l'Alto Adige", un Pannella
che tiene banco nei comizi e nelle trasmissioni della Radio radicale,
appena installata, militanti che occupano la più grande TV privata perché
rifiuta il loro (solo il loro, aggiungono i radicali) annuncio pubblicitario.
Una campagna "all'americana", ha detto "la Repubblica",
organo non molto amato tra i radicali, un notevole attivismo e un'alleanza
con la "nuova sinistra", cioè con "Lotta Continua"
e il MLS da cui emergono varie discrepanze. Il comune denominatore è
però la dura polemica con il PCI, ripagata d'altronde in moneta contante. "Il congresso
radicale di novembre è andato in modo strano. La linea Aglietta-Spadaccia,
che sembrava vincente, pare aver perso." "L'elezione dei
ventiquattrenne francese Fabre è sembrata un po' plateale, ad imitazione
della Chiesa che ha eletto uno straniero." "Il Congresso
sembra aver rispecchiato il paradosso che vivono i radicali: buoni successi
elettorali nel referendum e a Trieste, ma crisi profonda del partito." "Il partito in
quanto tale non ha preso nessuna iniziativa politica quest'anno." "Però vi sarebbero
motivi di crisi più profondi. I radicali sono diventati per l'opinione
pubblica il partito del referendum e oggi quest'arma è diventata inutilizzabile,
almeno per un paio d'anni." "Voi siete assenti
dal terreno economico oggi, quando la gente è colpita dalla crisi." "Molti pensano
che l'assenza di problematiche economiche dipenda dalla composizione
sociale dei radicali, ceti medio-alti." "Oggi però gran
parte dell'opinione pubblica italiana sembra esigere legge e ordine,
che lo Stato "sorvegli e punisca": alcune vostre rivendicazioni
libertarie possono apparire fuori tempo. Questo problema è collegato
all'atteggiamento nei vostri confronti dei mass-media che costituiscono
gli amplificatori dell'insicurezza collettiva." "Proprio sul
tema della società reale, diversa da come se l'immagina il palazzo,
e perciò della democrazia conflittuale, il PSI, già presente sul terreno
economico da cui siete assenti, tende a occupare uno spazio crescente." "Ma il PSI è
stato sempre un vostro interlocutore privilegiato. Tu stesso ti sei
iscritto nel '76." "Una SPD o un
Labour Party? RADICALI O QUALUNQUISTI? Introduzione di F. Corleone, A. Panebianco, L. Strik Lievers, M. Teodori SAVELLI editore, ottobre 1978 SOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli. Indice Introduzione (1375)
I. "Politica e società"
(1376) II. "Radicali sotto
accusa" (1377) III. "Il Pr come
partito bifronte" (1378) IV. "Radicalismo
e socialismo" (1379) V. "Radicalismo o
marxismo, convivialità o tecnofascismo" (1380) PARTE SECONDA "Un confronto sulla
quesione radicale" (1381 - 1397) "La mia fede nel socialismo (di ciò, oso dire, testimonia tutta la mia condotta successiva) è rimasta in me più che mai viva. Nel suo nucleo essenziale essa è tornata a essere quella ch'era quando dapprima mi rivoltai contro il vecchio ordine sociale: una negazione della tradizione e del destino, anche sotto lo pseudonimo di Storia; un'estensione dell'esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell'attività umana; un bisogno di effettiva fraternità; un'affermazione della superiorità della persona umana su tutti i meccanismi economici e sociali che l'opprimono. Col passare degli anni vi si è aggiunto un reverente sentimento verso ciò che nell'uomo incessantemente tende a sorpassarsi ed è alla radice della sua inappagabile inquietudine. Ma non credo di professare in questo modo un socialismo mio particolare. Le "verità pazze" ora ricordate sono più antiche del marxismo. Verso la seconda metà del secolo scorso esse si rifugiarono nel movimento operaio partorito dal capitalismo industriale, e continuano a restarvi una delle sue più tenaci fonti d'ispirazione. Ogni sincero socialista, magari senza rendersene conto, le porta in sé. Ho già ripetute volte espresso il mio parere sui rapporti, nient'affatto rigidi e immutabili, tra il movimento socialista e le teorie del socialismo. Sono gli stessi rapporti che corrono tra le scuole filosofiche e i grandi movimenti storici. Col progredire degli studi le teorie possono deperire ed essere ripudiate, ma il movimento continua. Sarebbe tuttavia errato, con riguardo al vecchio contrasto fra dottrinari ed empirici dell'organizzazione operaia, annoverarmi tra questi ultimi. Non concepisco la politica socialista indissolubilmente legata ad una determinata teoria, però a una fede, sì. Quanto più le "teorie" socialiste pretendono di essere "scientifiche", tanto più esse sono transitorie; ma i "valori" socialisti sono permanenti. La distinzione fra teorie e valori non è ancora abbastanza chiara nelle menti di quelli che riflettono a questi problemi, eppure è fondamentale. Sopra un insieme di teorie si può costituire una scuola e una propaganda; sopra un insieme di valori si può fondare una cultura, una civiltà, un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini." Ignazio Silone, "Uscita di sicurezza" INTRODUZIONE "Il radicalismo è un fenomeno nuovo della politica italiana forse il fenomeno nuovo per eccellenza. E' strano che sia così poco notato". (Gianni Baget-Bozzo, "Argomenti Radicali"); "La questione
del radicalismo torna oggi ad occupare un posto importante (...) perché,
nella società e nelle idee, posizioni radicali, di nuovo e di vecchio
tipo, sono venute diffondendosi". Fabio Mussi, "Rinascita"; E' uno dei caratteri nuovi
del dibattito politico italiano: si scopre che esiste, è sempre esistito,
a torto e pericolosamente sottovalutato, un "filone radicale",
un fenomeno specifico e importante nella realtà culturale e politica
del nostro paese. Il fatto è che nel primo
quinquennio degli anni Settanta le forze politiche "ufficiali"
si sono trovate più volte prese di contropiede e sconfitte o costrette
a vincere di controvoglia da questa realtà - il Partito radicale - da
loro sempre misconosciuta, ignorata, disprezzata, ritenuta irrilevante
e inconsistente (il "cosiddetto partito radicale" scriveva
"L'Unità"). Di volta in volta i partiti "veri" si
sono trovati a scoprire che i radicali avevano visto giusto, interpretando
gli stati d'animo dell'opinione pubblica. E si accorgevano con disagio
che, anche attraverso le battaglie di libertà rimosse dalle altre forze
della sinistra e del mondo laico, e imposte invece dai radicali, l'opinione
pubblica stessa rilevava o assumeva via via orientamenti inequivocabilmente
radicali. In quegli anni si era avuta dapprima l'approvazione del divorzio
in parlamento nel 1970 e poi il referendum del 1974, entrambi successi
del gruppo radicale che aveva imposto e condotto quella campagna insieme
a una serie di altre azioni per l'affermazione dei diritti civili. Il primitivo disinteresse verso i radicali e il nuovo radicalismo era stato in parte rotto dalla cronaca politica tra il 1974 e il 1976. In un paese come il nostro in cui si è soliti dedicare grande attenzione ai più piccoli e passeggeri fenomeni politici, è stata soprattutto la forza dei risultati conseguiti all'inizio degli anni Settanta a costringere a prendere atto di questa scomoda presenza. In un primo tempo l'attenzione si è rivolta più alle forme dell'azione radicale, cogliendone le presunte caratteristiche "folcloristiche" o la clamorosità, che non al contenuto politico che i singoli atti, campagne e azioni comportavano. Dei radicali si diceva, salvo eccezioni, che usavano metodi "eccessivi", magari per fini giusti, oppure che la loro azione era meritoria purché rimanesse confinata a problemi "sovrastrutturali", ciò che secondo il gergo marxista significa marginale. Mentre la Politica - quella importante e che conta - riguarda altre cose e non può passare per veicoli che non rispondono alle caratteristiche riconosciute "corrette" e omologate dalle forze egemoni nel sistema politico. Così, imposta dalle cose,
in quegli anni si è avviata una discussione sul fenomeno radicale che
però, cogliendone solo un aspetto, finiva per farsi sfuggire gran parte
dei suoi caratteri e risultare nel suo insieme sostanzialmente distorcente.
Ciò nasceva in gran parte dall'inadeguatezza delle culture politiche
dominanti (in primo luogo di quella marxista) a intendere con strumenti
idonei questo fenomeno nuovo. I tentativi di interpretazione e di definizione del fenomeno radicale hanno fatto ricorso, quando sono andati al di là degli specifici momenti di lotta, a categorie come quelle di "minoranza borghese", a etichettature come quelle di forza "intellettuale" o "illuministica", evocando caratteristiche che solo la profonda ignoranza dei dati di fatto possono aver fatto risuscitare da un logoro passato. Si sono messe in un unico contenitore, da una parte, le radici dei nuovi radicali con quelle dei vecchi radicali degli anni Cinquanta oppure, dall'altra, secondo un'ottica opposta, si è assimilato genericamente il nuovo radicalismo con il ribellismo contestatore dei movimenti giovanili sessantotteschi e postsessantotteschi ignorando, ad esempio, la profonda attenzione istituzionale e per i meccanismi concreti di riforma che hanno mosso costantemente lungo questi ultimi quindici anni l'ipotesi radicale. Tutto ciò e altro ancora, è il frutto di pigrizia politica e intellettuale - o peggio ancora di volontà superficialmente liquidatoria - di tanti che hanno l'abitudine di argomentare saccheggiando l'arsenale delle "idées reçues" e degli schermi buoni per tutti gli usi, soprattutto allorché si tratta di contribuire ad affossare posizioni e iniziative politiche che sono scomode e con le quali non si vogliono fare i conti. Così si trova ad esempio chi sostiene che i nuovi radicali sono una specie di qualunquisti che hanno fatto il '68 (Mussi, vedi parte seconda); mentre altri prende per buoni i punti di riferimento del radicalismo ottocentesco di Cavallotti per capire il nuovo radicalismo pur con l'uso di una articolata cultura politica marxista, dando prova di scarsa o nulla conoscenza dei dati empirici (Asor Rosa, vedi parte seconda). E non serve certo a cambiare questo quadro generalizzabile la brillante eccezione di Baget-Bozzo (non per nulla proveniente da una formazione politicamente non tradizionale) che ha tentato, da suo punto di vista non laico, di intendere le intenzioni e le azioni del radicalismo politico d'oggi quali una risposta all'emergere di una "società radicale" contraddistinta da spinte collettive profondamente mutate rispetto a quelle predominanti nei passati decenni. Se tale era la situazione ancora qualche tempo fa, ormai tuttavia si è aperto un dibattito di interpretazione che va al di là della pura contingenza. Si sono avuti in questo senso contributi e interventi sia da parte radicale sia da altri versanti. Alla scarsa elaborazione teorica scritta che ha contraddistinto la vita del gruppo nel suo operare, per iniziativa radicale hanno cominciato a manifestarsi tentativi di rendere espliciti i dati fondanti della sua politica, cosa che aiuta anche l'osservatore, l'interlocutore o il contraddittore più disattento a uscire dalla genericità. Da quasi due anni viene pubblicato il bimestrale "Argomenti radicali"; nel 1977 con il volume "I nuovi radicali", opera di alcuni di noi che oggi presentiamo queste note, si è tentato di offrire il primo contributo sistematico di analisi storica e sociologica del Partito radicale e del suo ruolo nella vita politica italiana dell'ultimo ventennio. Nel maggio 1978 si è tenuto un convegno di studio, il primo ufficialmente dedicato dal partito alla riflessione sul suo modo di essere. Va inoltre apparendo più di un segno di un dibattito - anche se animato nella maggior parte dei casi da intenzioni polemiche - che deve fare i conti con la natura della politica radicale e delle basi su cui essa poggia. "L'Unità" e "Rinascita", "L'Avanti" e "Mondoperaio", solo per restare agli organi ufficiale della sinistra tradizionale, non hanno potuto fare a meno negli ultimi tempi di interrogarsi sul nuovo radicalismo confrontandosi non solo con le azioni radicali ma anche con ciò che esse più in generale significano e comportano. A Berlinguer, che a più riprese ufficialmente si è espresso (nel congresso del 1976 e in successivi comitati centrali) contro le "spinte libertarie" "esasperate" e "disgregatrici" da battere nella sinistra, quest'anno ha fatto eco Craxi che, nella replica dell'ultimo congresso del Psi, ha sostenuto che i socialisti devono far propri i movimenti e le lotte per i diritti civili: "i compagni del Partito radicale non possono pensare che per molto tempo ancora noi accetteremo una sorta di loro rivendicazione monopolistica delle grandi battaglie che portano la firma dei parlamentari socialisti in materia di aborto e di diritti civili. Noi riprenderemo con forza la nostra azione nel campo dei diritti civili, delle buone cause in difesa dei diritti dell'uomo e dell'ambiente (...)": un ottimo proposito, anche se tutto da verificare, che tuttavia rivela il peso che hanno le idee-forza incarnate dai radicali nella sinistra non leninista e non centralista. E non sono solo gli interventi dei politici e le loro legittime polemiche che danno corpo al dibattito in corso, ma anche le tendenze di fondo nella società e le loro espressioni politiche: la riluttanza di una parte sempre più larga del paese ad accettare la mediazione partitica totalizzante espressa dai partiti tradizionali, rivelatasi dapprima nelle ultime elezioni amministrative parziali e poi nei referendum dell'11 giugno e nelle elezioni delle regioni di frontiera; i crescenti segni di malessere nei confronti dell'attuarsi di forme di democrazia "consociata" (come definita da alcuni intellettuali socialisti) o "organizzata" (secondo la definizione dei comunisti); e l'apparente distacco dalla politica che ha dato lo spunto al dibattito sul qualunquismo. Dunque, la questione del "nuovo radicalismo" è sul tappeto. Al di là dei radicali, al di là della leadership rappresentata in gran parte da Marco Pannella, al di là di questo o quell'episodio di lotta politica, i partiti, le tradizioni politiche, le analisi delle tendenze della società e le risposte dei gruppi dirigenti cominciano a dover fare i conti - e probabilmente dovranno sempre più farli - con una diversa cultura politica. Apparso sulla scena del paese con forme "vissute" o "simboliche", ben diverse da quelle attraverso cui si riconoscono e si legittimano i dibattiti di cultura politica, il nuovo radicalismo comincia oggi a essere riconosciuto come una delle importanti tendenze del nostro tempo. Questo libro si compone di due sezioni: un nostro saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo, e una raccolta di interventi di non radicali da cui il saggio prende le mosse. La seconda sezione in cui sono raccolti gli scritti di Gianni Baget-Bozzo, Giorgio Galli, Francesco Ciafaloni, Domenico Tarizzo, Ernesto Galli della Loggia, Brice Lalonde, Ugoberto Alfassio Grimaldi, Giuseppe Are, Alberto Asor Rosa, Silverio Corvisieri, Ruggero Orfei, Sergio Cotta, Federico Stame, Paolo Ungari, Giuliano Amato, Fabio Mussi e Giulio Savelli, non costituisce appendice ma parte integrante del libro-intervento giacché sono proprio gli scritti dei nostri interlocutori, scelti a campione del più vasto dibattito, ad averci fornito la base della lunga discussione idealmente intrecciata tra noi e gli intellettuali e i politici che si sono espressi sulla questione radicale. Gran parte degli interventi sono stati pubblica in "Argomenti radicali" dall'aprile 1977 in poi nella sezione "la pagina polemica" appositamente approntata per alimentare il dialogo da noi ritenuto necessario nell'interesse della sinistra e della chiarezza delle sue varie, se pur contrastanti, posizioni. Gli scritti di Corvisieri, Orfei, Amato, Mussi e Savelli, sono ripresi da altre pubblicazioni in cui sono apparsi in seguito a qualche spunto della cronaca politica, segno appunto di quell'attualità della questione che abbiamo messo in risalto. Con il nostro saggio e il dialogo che esso intrattiene, attraverso gli interlocutori della seconda parte, con il mondo politico e culturale, intendiamo offrire un intervento di parte radicale che si confronti direttamente con il dibattito in corso. Esso è il frutto di una discussione tra i quattro autori che, impegnati direttamente se pur in gradi diversi nell'esperienza politica radicale, sono anche ingaggiati nel tentativo di rendere esplicite le ragioni profonde e la direzione di marcia dell'esperienza stessa. Come ogni lavoro a più mani, è superfluo sottolineare che non tutto il saggio - con le sue analisi, le valutazioni e le indicazioni - è fin nei dettagli totalmente condiviso dai quattro autori i quali, ovviamente, sono congiuntamente responsabili delle linee generali di impostazione. Del resto le stesse formazioni culturali e scientifiche, che per alcuni si affiancano alla comune milizia politica, avrebbero dato luogo a modi diversi di trattazione se il libro fosse stato un prodotto singolo e non collettivo. Pertanto le note che seguono vogliono essere un primo tentativo di riflessione organica e di interpretazione del nuovo radicalismo italiano (dopo la riflessione storica e sociologica del volume "I nuovi radicali") in occasione dell'intensificarsi, insieme ai segni di interesse, dei tentativi di classificazione liquidatoria all'insegna di un preteso nuovo qualunquismo. Di qui il titolo del volume "Radicali o qualunquisti?" che deliberatamente accetta la sfida la quale, già positivamente affrontata da parte radicale sul terreno dei risultati concreti, viene ora da noi rilanciata sul terreno della cultura politica. Marco Pannella Il Giorno - Novembre 1978 SOMMARIO: In questo articolo
Marco Pannella rivendica al Partito radicale la sua natura di partito,
per ora, di prevalente lingua italiana ma non di partito italiano. Per
essere internazionalisti infatti bisogna essere prima di tutto strutturalmente
transnazionali e nel Pr già si sono costituite realtà associative radicali
in molti paesi europei. L'elezione di Jean Fabre, cittadino francese,
a segretario del Pr, è ancora una volta l'occasione per sollevare questioni
di diritto e per mettere in discussione la natura dei partiti "nazionalizzati"
italiani. Se i "mass media"
facessero tutti il loro mestiere di informatori invece che quello di
censurare e disinformare, si saprebbe che il Partito radicale è un partito
di lingua italiana (almeno per ora e a livello centrale), ma non un
partito "interno" allo Stato nazionale italiano; e che vi
sono già strutture radicali, organizzate nel PR, belghe, francesi, catalane,
oltre a militanti di molte altre anagrafi statali. Jean Fabre, il nostro nuovo
segretario generale, per la sua vicenda personale e collettiva (sono
ormai molti anni che lottiamo insieme), per le sue idee e capacità,
per essere di fatto uno dei principali animatori europei dell'antimilitarismo
internazionalista, socialista libertario e nonviolento, costituirà un
naturale punto di organizzazione, espansione e sincronizzazione per
le lotte pacifiste e antimilitariste contro il nucleare militare e civile,
contro i terrorismi di Stato e "privati", contro lo strapotere
delle multinazionali, contro la Nato e il Patto di Varsavia, per la
ripresa di grandi lotte socialiste e cristiane, per la conversione di
tutte le strutture di edificazione e difesa civile, popolare e nonviolenta. Certo Jean Fabre può - per
di più - essere arrestato da un momento all'altro, magari dall'Interpol.
Ma in questo nulla di nuovo: non si dimentichi infatti che già Adele
Faccio, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia, decine di altri radicali
e io stesso siamo tutti dei detenuti messi in libertà provvisoria, e
che il deputato supplente (fra poco effettivo) Roberto Cicciomessere
è anch'egli un avanzo delle galere militari della Repubblica. Gianfranco Spadaccia LOTTA CONTINUA, 8 novembre 1978 Intervista con Gianfranco Spadaccia dopo il congresso di Bari Il Partito Radicale ha tenuto nei giorni scorsi a Bari il suo XX congresso, conclusosi con l'elezione ci un segretario "straniero": Jean Fabre, il quale è stato affiancato da una segreteria con 16 dirigenti "storici" del partito. Sul bilancio del congresso, sui programmi del PR, sui suoi rapporti con la nuova sinistra, riteniamo utile pubblicare il parere di Gianfranco Spadaccia. L.C. - Quali ritieni
essere le forme più efficaci dell'opposizione oggi in Italia? Quelle
"sociali" o quelle "istituzionali"? Sembra che intendiate
impegnarci sempre più su battaglie di tipo "sociale" contro
il "nucleare" ad esempio. Che modifiche implica ciò nella
vostra stessa organizzazione? Nella scelta di un
segretario francese, oltre a un giudizio evidentemente positivo sulle
sue capacità, traspare anche l'intenzione di lanciare in grande "l'ipotesi
europea" del PR. Che intenzioni avete, di qui alle elezioni europee
di primavera? Non hai l'impressione
che la base del PR sia la più "turbolenta", ma in ultima analisi
anche la più subalterna al fascino e al ruolo del suo gruppo dirigente? Circola una voce maligna:
che con il suo ultimo congresso quello che si definisce il partito libertario
per eccellenza abbia accentuato una posizione "dittatoriale"
della sua direzione (e di Marco Pannella in particolare). Al congresso di Bologna
avevamo notato una notevolissima coincidenza - anche fisica - tra i
militanti radicali e i lettori e i compagni che fanno riferimento al
nostro giornale. Secondo te fin dove arriva questa coincidenza, e dove
iniziano le differenziazioni (non tanto politiche, ma anche di aree
sociali e culturali)? In che cosa vi ha
cambiato il rapporto con Lotta Continua? In Trentino Alto Adige
i compagni radicali e di Lotta Continua, insieme a moltissime "realtà
di base", hanno dato vita alla lista elettorale di "Nuova
Sinistra". Nella campagna elettorale sembrerebbe che voi diate
per assodata una "divisione dei comitati": a voi i grandi
comizi e la campagna d'"opinione", agli altri il lavoro di
base... |