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Cronologia del Partito Radicale -
1978

 DOCUMENTI
C'è da lacerare, sì di Marco Pannella  LOTTA CONTINUA, 7 gennaio 1978
19 gennaio Da: "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta Milano Libri Edizioni   Febbraio 79
...Peste li colga A colloquio con Marco Pannella L'OPINIONE, 24 gennaio 1978
9 marzo da "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta Milano Libri Edizioni febbraio 1979
La Costituzione è morta. Viva la Costituzione
Aborto: Le streghe son fregate di Loredana Lipperini  NR119, 26 maggio 1978
Un Parlamento squillo? di Roberto Cicciomessere  NR119, 26 maggio 1978
...non si bara con il referendum NR119, 26 maggio 1978
11/12 giugno da "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta Milano Libri Edizioni febbraio 1979
LA DIFFICOLTÀ DI ESSERE DIVERSI
RADICALI O QUALUNQUISTI? Introduzione di F. Corleone, A. Panebianco, L. Strik Lievers, M. Teodori
Internazionalisti Marco Pannella 'Il Giorno' Novembre 1978
Come vogliamo cambiare il Partito Radicale Gianfranco Spadaccia LOTTA CONTINUA, 8 novembre 1978

C'è da lacerare, si

di Marco Pannella LOTTA CONTINUA, 7 gennaio 1978

Meglio tutto, ivi comprese le elezioni anticipate e lo scioglimento delle Camere, piuttosto che andare allo scontro "confuso e lacerante" dei referendum. In buona sostanza è questo il succo del discorso del PCI alla DC, quale emerge dall'articolo sparato oggi in prima pagina, con straordinario rilievo tipografico, su "L'Unità". Secondo Enzo Roggi "lo sforzo di corresponsabilizzare più strettamente le forze democratiche e le grandi masse popolari per fronteggiare l'emergenza, dare certezze nuove, insomma governare la crisi e impedire lo sfascio, verrebbe dopo due o tre mesi vanificato..." "se "contemporaneamente" non viene disinnescata questa vera e propria mina vagante..." di uno "scontro confuso e lacerante".
Finalmente, dunque, il PCI pone la sua prima condizione tassativa, precisa, per uscire dal pantano in cui le impazienze di La Malfa e di Craxi l'hanno fatto infognare. Dopo aver rinunciato al governo della sinistra contro la DC per il governo con la DC, adesso rinuncia anche al governo con la DC a condizione che Moro si impegni a impedire che si vada ai referendum.

Noi riconosciamo volentieri che i referendum possono essere lacerati; è anche per questo che l'abbiamo convocati. Tutto sta intendersi sul che cosa si debba lacerare o no. C'è da lacerare le leggi fasciste, classiste, che sono la più profonda e diretta causa istituzionale della violenza e del caos nel quale ci troviamo. C'è da lacerare l'unità interclassista, antipopolare, fascista e clericofascista della Chiesa e della DC, con tutte le loro correnti interne ed esterne, dal MSI al PSDI, dal PLI al PRI, da DN al PSDI. Come accadde il 13 maggio del 1974, quando raccogliemmo i frutti della sconfitta del vertice del PCI che aveva tentato in ogni modo di impedire il referendum sul divorzio, temendo (giustamente dal suo punto di vista) ben più di vincerlo che di perderlo. C'è da lacerare l'assetto anticostituzionale del regime, a favore dell'instaurazione di un ordine costituzionale e democratico. E c'è da stracciare l'avvallo storico e politico che il PCI ha dato e dà ai codici fascisti, per poterli magari usare contro ogni dissenso interno o esterno, alle leggi Reale, Cossiga e Bonifacio, all'ergastolo, ai vilipendi, ai tribunali militari, ai codici militari, alle leggi che rendono aziende di stato i partiti, ai privilegi classisti e capitalistici, ai veritici vaticani ed al mondo nazionale e internazionale che rappresenta. Per il vertice del PCI la civiltà giuridica può essere ipotesi di una società "normalizzata", non di un paese dove lo scontro e la contrapposizione sociale, ideale, politica divengono sempre più drammatici. Insomma l'ergastolo, il fermo di polizia, le leggi militariste, clericali, fasciste, autoritarie possono essere aboliti ma solo quando non vi sia più concreta possibilità e occasione per usarli. Per il PCI, ieri come oggi, il paese è "immaturo", l'ordine deve regnare, dentro il partito e dentro lo Stato, e dove cresce la libertà o la certezza del diritto lì per lui cresce automaticamente il disordine e la violenza.

Ma cosa resterebbe del "compromesso storico" se questa infausta e aberrante politica che seconda il caos economico e sociale, come sempre a favore dei padroni ("di stato" o "privati" che siano), si scontrasse con la "mina vagante" dei referendum?

Questi referendum sono stati richiesti sei anni fa. Almeno da allora il PCI e il Parlamento intero potevano cogliere la "sollecitazione" e lo "stimolo" a legiferare finalmente nel senso della Costituzione e della civiltà, ma ce lo siamo augurato inutilmente. Le donne hanno abortito, sono state costrette ad abortire, ed abortire clandestinamente, durante tutti i trent'anni di "colloquio con la DC e il mondo cattolico"; le firme per il referendum sono state "presentate" da quasi tre anni: le leggi Rocco sono sempre vigenti. Perché la DC, la destra, dovrebbero mollare ora, in meno di quindici o dieci settimane, quel che per trent'anni hanno rifiutato di concedere? Quale forza contrattuale avrebbe mai il PCI, oggi, che non sia la consapevolezza anche da parte della DC che se i referendum si fanno, saremo noi a vincerli, o, comunque, il PCI e la DC, uniti, a perdere politicamente? Comunque non c'è più tempo per legiferare democraticamente; non c'è che da fare o vincere i referendum o rapinarli assassinando la Costituzione.

Ma la verità è che il vertice del PCI dimostra oggi che non ha mai creduto alle riforme costituzionali, democratiche, liberali e civili ma hanno finora potuto addebitare alla DC la loro mancata realizzazione. La politica dei referendum può dare sbocco politico alla diversa convinzione dell'immensa maggioranza dei comunisti e a quella che v'è in tutto il paese. Se ci fosse questo sbocco politico la politica del compromesso storico ne sarebbe travolta, né più né meno che quella tradizionale della DC e di questo Stato. E' per questo che con sintonia perfetta, da assalto di brigatisti cossighiani, stamane hanno sparato lo stesso piombo nella stessa direzione, contro i referendum democratici, "il Giornale, Il Giorno e L'Unità, finora, per anni, silenziosi, censurati e censurati.


19 gennaio Da: "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta

Milano Libri Edizioni - Febbraio 79

"… Avevamo fatto di tutto. Decine di giuristi, non di parte, si erano pronunciati contro le tesi governative; in almeno cento avevamo intrapreso un ennesimo sciopero della fame per chiedere alla RAI informazione sull'iter dei referendum, sapendo bene che solo nella censura e nella disinformazione si possono realizzare operazioni come quella della Corte costituzionale; centinaia di telegrammi si erano accumulati sui tavoli della presidenza del Consiglio dei ministri, né si potevano contare i sit-in e le dimostrazioni di piazza contro gli interventi di Andreotti. Il tutto era stato ignorato da un'informazione sempre più ammaestrata e obbediente: l'"arco costituzionale" rispondeva alle nostre iniziative con il controllo ferreo dei mass-media, un muro di gomma terribile, non perforabile.

Non avendo la vocazione di Jan Palach o dei bonzi buddisti, pronti a bruciarsi in piazza e candidati al martirologio, avevamo deciso, il 17 gennaio, di cessare le attività politiche nazionali del partito. Un comunicato stampa chiariva le motivazioni di tale decisione: "Per una forza politica di opposizione che intenda essere nonviolenta, costituzionale, in queste condizioni non esistono più i margini per esercitare la propria funzione; l'unica via praticabile è ormai diffondere le lotte radicali e libertarie nelle città e nelle regioni, non più da Roma, dal centro". Il giorno seguente, veniva diffusa la sentenza della Corte. La Costituzione era stata stracciata, il patto di ferro DC-PCI, la logica soffocante delle "larghe intese" aveva vinto. Probabilmente grazie all'operato, in seno alla Corte, del democristiano Elia e del comunista Malagugini. Anche i socialisti però avevano avallato il "colpo" con il silenzio o la latitanza…"


...Peste li colga

A colloquio con Marco Pannella L'OPINIONE, 24 gennaio 1978

"E' una decisione chiaramente dettata da motivi di opportunità politica. Devo dire, ad ogni modo, che quanto è avvenuto non ci ha stupiti. Da mesi denunciavo il ``pactum sceleris'' stretto fra alcuni giudici della Corte". Questa la prima valutazione, a caldo, con cui Marco Pannella commenta la decisione della Corte Costituzionale di dichiarare inammissibili quattro degli otto referendum. Ma le considerazioni che aggiunge, su questo, come su altri temi, non perdono certo di tono.

Domanda: D'accordo per l'opportunità politica, forse, ma a quale ``pactum sceleris'' ti riferisci?
Risposta: Mi riferisco la vero e proprio compromesso fra il giudice Elia, democristiano, anzi, moroteo, e Malagugini, comunista; questi signori tentavano da mesi, ormai, di guadagnare otto giudici su quindici alla tesi della inammissibilità. Certezza dell'imbroglio, dunque, sul piano politico. Mi chiedevo, semmai, quale sarebbe stata la reazione dei vecchi magistrati di Cassazione cresciuti insieme e omogenei alle leggi fasciste: poteva darsi che all'attaccamento al vecchio ordinamento subentrasse la fedeltà alla costituzione repubblicana, e che sulla devozione allo stato etico facesse premio il rispetto dello stato di diritto. Il corpo dello stato etico, le sue leggi più repressive, sono uscite vittoriose da questa prova perché omogenee alla cultura dei magistrati. Ma non è tutto: questa è l'ennesima dimostrazione che il compromesso storico passa necessariamente attraverso il ritorno allo stato etico, al rispetto delle sue leggi.

D.: Anche se sulla questione del compromesso storico possiamo essere d'accordo, temo che tu semplifichi un poco. Pensi realmente che tutto possa ridursi unicamente alla cultura dei magistrati e alla volontà di compromesso fra Dc e Pci. A un fatto antropologico e a uno politico?
R.: Infatti, ci sono motivazioni più basse. Quella della necessità partitica e quella della necessità di corrente. Dicevo già prima dell'esito che questa era la prova generale della elezione di Moro alla presidenza della repubblica. Elia è sfrenatamente moroteo, ed ha reso un servizio preziosissimo al Pci, che sarebbe stata la vera, grande vittima dei referendum, e che aveva assoluto bisogno di un rinvio. Per questo Moro verrà ripagato.

D.: Tu parli della Corte Costituzionale come di un gruppo di servi del potere, non di giudici. Fino ad ora, però, la Corte ha dimostrato un comportamento diverso.
R.: Infatti con questa operazione la Corte ha emesso una sentenza suicida, nel senso che ha ucciso tutto il suo prestigio. E' indubbio che dopo ``questo'' servizio al potere ``questa'' Corte ha perso la sua laicità e la sua giustificazione in un sistema democratico.

D.: Intanto però, di referendum ne sono rimasti quattro.
R.: Che però, probabilmente, non si faranno. Proprio per due di essi, quello sull'Inquirente e quello sulla legge manicomiale, a noi stessi andrebbe benissimo la soluzione parlamentare, attraverso una riforma. Ma si tratta, diciamo, di riforme ``facili''. Ad ogni modo, per la legge manicomiale, si sta verificando il caso previsto della Corte di Cassazione, di inammissibilità del referendum per mutamento ``in peggio'' della norma da abrogare. La riforma sanitaria, infatti, da un lato abroga la legge del 1908 ma dall'altro estende il ``fermo per malattia''.
Restano la legge Reale e il finanziamento pubblico dei partiti. La legge Reale verrà ``svuotata'' perché molti dei suoi articoli più repressivi verranno compresi in altre leggi di polizia. Si finirebbe, dunque, con il votare su una legge ormai priva di significato.
Sul finanziamento pubblico, invece, il discorso si inverte: questo è l'unico referendum su cui il Pci vuole andare. Ha le mani pulite, può dire di non avere mai avuto guai per finanziamenti ``neri'' e sa, soprattutto, che gran parte dei firmatari sono anche suoi elettori. Infine al Pci può convenire premere per almeno un referendum per non dare l'impressione di essere ``troppo'' contro.

D.: Veniamo alle due dimissioni e alla denuncia dell'esautoramento del Parlamento. In base a quali considerazioni vi siete mossi?
R.: I fatti sono noti. Dopo che mercoledì 11 gennaio la Camera ha votato, unanime, la mozione con cui i radicali chiedevano la costituzionalizzazione della crisi di governo, si è avuto l'atto di furbizia di lunedì scorso, con il quale Andreotti si è dimesso prima di passare davanti al giudizio delle Camere. A questo punto non avendo altro mezzo per intervenire, per denunciare questa grave offesa al Parlamento, ho creduto di dover rassegnare le mie dimissioni a Ingrao.

D.: Non c'è il rischio che queste dimissioni facciano la fine di quelle di Emma Bonino? L'on. Preti dice che subito dopo averle rassegnate si è messa a cercar gente che le rifiutasse...
R.: Il mio caso è completamente diverso da quello di Emma Bonino. Lei infatti, a giugno di quest'anno si dimise perché il governo non faceva niente per la riforma carceraria. Poi arrivò l'impegno di Andreotti a votare i provvedimenti sugli agenti di custodia. A quel punto, su preciso invito di Ingrao, Emma Bonino ritirò le dimissioni. Anche nel mio caso, del resto, se le dimissioni verranno rifiutate io non avrò niente da dire. Questo semplicemente perché dal modo come ho messo le cose, unendo le mie dimissioni alla mozione approvata dal Parlamento, la Camera, con le mie dimissioni, accetterà o rifiuterà il fatto politico della crisi al buio. E questo mi basta.

D.: Veniamo all'ultima questione, quella dei continui rinvii elettorali cui è ormai sottoposta la nostra democrazia.
R.: Mi pare che su questo punto la nostra posizioni sia chiara, anzi ovvia: l'unico pericolo che corre una democrazia è l'assuefazione a non votare, non l'abitudine a votare. Le elezioni traumatizzano un paese? Certo.


9 marzo da "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta

Milano Libri Edizioni - febbraio 1979

Giovedì 9 marzo. "… All'ingresso riservato al pubblico e ai giornalisti, due persone su tre sono agenti in borghese, camuffate per mimare la rappresentazione di tutta la scala sociale: c'è l'imbianchino, l'operaio, il borghese, con il loden e "la Repubblica" sotto il braccio, c'è il falso estremista.

Dopo i controlli e controcontrolli, ordini e contrordini, riesco ad arrivare all'ingresso, saluto i compagni che tenteranno di entrare come giornalisti di Radio Radicale, peraltro senza riuscirvi. Nel cortile, passo in mezzo ad una fila di carabinieri e ad una decina di cani lupo. Arrivo all'ingresso dell'edificio dove devo sottostare ad un accurato controllo della persona e dei miei oggetti personali: ho un attimo di perplessità, poi lascio perdere. Dopo di me controllano un tale (che scoprirò poi essere un altro giurato) il quale con mio enorme stupore depone una rivoltella: accerterò nei mesi seguenti che anche altri girano costantemente armati e cercherò di capire, chiedendolo direttamente a loro, quale grado di sicurezza possa venire da una rivoltella. Le risposte, vaghe, mi convincono che è soltanto un fatto psicologico, quindi ancor più pericoloso. Salgo al primo piano dove è ubicata l'aula: c'è un salone dove trascorreremo i tempi morti delle udienze (intervalli, attese, ecc...) e tre stanze, di cui una destinata al presidente, una alla giuria, una alla cancelleria e agli avvocati. E' tutto ridipinto e pulito, ma la struttura rivela inequivocabilmente la sua origine di caserma. C'è un'altra saletta, antistante l'aula, dove sosto con gli altri giurati convocati, una trentina di persona; a parte noi, in giro ci sono carabinieri e agenti in borghese.

Incomincia una lunga attesa, durante la quale cerco di parlare con le persone che sono con me. (… )
Finalmente arriva Barbaro che con un sorriso accattivante e tono deciso ci spiega che stiamo per iniziare, che gli imputati sono in aula e certamente (almeno stando alla sua esperienza) leggeranno un comunicato. Il primo atto processuale - prosegue Barbaro - sarà la nomina della giuria e il giuramento secondo l'ordine di estrazione, subito dopo dovremo risolvere il problema degli avvocati d'ufficio, perché è evidente che gli imputati revocheranno l'incarico agli avvocati di fiducia. Ha un'aria sorniona ma decisa, molto educato, formale, sorridente e un po' paternalista. Indossa un abito grigio che mi fa venire in mente gli amici di mio padre. Certo, un abisso ci divide nella mentalità, nei modi, nelle scelte. Un punto a mio favore è però che, per nascita, per educazione, per l'ambiente nel quale sono cresciuta ho conoscenza e familiarità con il mondo che lui rappresenta. Da parte mia chiarisco che ritengo sia auspicabile - presentandosi questo processo difficile e complicato non solo giuridicamente ma per il clima creatogli attorno dalle campagne politiche e di stampa e da sicure pressioni di altra natura - che vi sia sempre un confronto fra presidente e giuria sulla conduzione del dibattimento, anche sulle decisioni di sua stretta competenza, che tali ovviamente restano. Manifesto la preoccupazione che, rifiutando gli imputati la difesa, sia loro garantita la possibilità di esprimere il più compiutamente possibile le loro tesi. Il presidente mi pare d'accordo, dice che ne riparleremo a giuria formata. Suona il campanello e si apre l'udienza.

Entrano il presidente ed il giudice a latere, noi aspettiamo fuori. Dall'aula si sente parlare, entro e capisco che un imputato sta leggendo un comunicato: non riesco a vedere chi sia. Ascoltando il comunicato resto un attimo esterrefatta: è la prima volta che assisto a questo rituale. Giornalisti, avvocati, carabinieri, tutti sono attenti e tesi al discorso degli imputati.
Attraverso i microfoni, che permettono a tutti di sentire i "comunicati" dei brigatisti, riesco a cogliere le principali affermazioni:
... Come comunisti abbiamo sostenuto e sosteniamo che la giustizia borghese è solo un'arma con cui da sempre opprimete il popolo; e questa caserma, che con particolare buon gusto avete scelto per celebrare i fasti della "democrazia armata", lo dimostra anche nella forma.

Questo NON E' UN PROCESSO ma, più esattamente, E' UN MOMENTO DELLA GUERRA DI CLASSE; è un episodio dello scontro più generale che oppone in una lotta irreversibile le forze della rivoluzione alla controrivoluzione imperialistica. Ed è quindi su questo terreno generale che affronteremo la battaglia.

Che le cose stiano così è dimostrato ampiamente dalla mobilitazione generale che ha coinvolto tutte le forze politiche del vostro fronte (dalla DC ai revisionisti, ai radicali) in una iniziativa unitaria a sostegno delle decisioni dell'esecutivo...

... I REVISIONISTI vogliono che il "processo" si celebri ad ogni costo e a Torino, per dimostrare a cani e porci l'efficacia del loro modello controrivoluzionario e la loro capacità di mobilitare la classe operaia e le classi intermedie a sostegno dello Stato imperialista. Così abbiamo assistito, in questi ultimi giorni, alla campagna isterica e forcaiola che essi hanno scatenato ricorrendo alla squallida attivazione di tutti gli organismi da loro controllati (dalla Regione alla FGCI) per mobilitare la nuova MAGGIORANZA SILENZIOSA. Di questa operazione, in cui la burocrazia revisionista si è fatta Stato imperialistico, a tutti è apparsa chiara la sostanza: dividere il proletariato e attaccare con tutti i mezzi le sue avanguardie.

Ma la mobilitazione che doveva essere di massa, nonostante i suoi contenuti terroristici-ricattatori-polizieschi, non è riuscita a coinvolgere che una minima parte della classe operaia, della piccola borghesia e dei cosiddetti "ceti medi". Le migliaia di firme in tutta la regione sono un trucchetto da prestigiatori...

... I RADICALI. Se il "caso" ha voluto che una militante radicale fosse sorteggiata per far parte della giuria speciale, la scelta politica cosciente di farne parte è stata del tutto razionale. L'infortunio dei radicali è, a suo modo, emblematico e patetico: dopo aver abbaiato contro il regime e le "leggi speciali", al momento del bisogno sono corsi a puntellare il più speciale dei tribunali! In questo affanno generale, anche loro non hanno perso l'occasione di "farsi Stato imperialista". L'ideologia radical-pacifista svela qui fino in fondo il suo carattere borghese e reazionario: chi disarma le masse non può che finire per armare la controrivoluzione. Le mimose non ingannano più nessuno!...

... GLI AVVOCATI. Non siamo qui per difenderci e non abbiamo bisogno di difensori.

REVOCHIAMO PERTANTO IL MANDATO AI NOSTRI AVVOCATI DI FIDUCIA E RIFIUTIAMO QUALSIASI IMPOSIZIONE DI AVVOCATI DI REGIME.

Nessuno può ragionevolmente pensare di ostinarsi a proseguire per questo vicolo cieco senza incontrare la più dura risposta del movimento rivoluzionario...

Sul momento - naturalmente - rifletto solo sul pezzo concernete i radicali, anche perché istintivamente ho la tentazione di replicare. Il loro linguaggio mi pare rozzo quanto lo è l'analisi. Dei radicali hanno capito poco o nulla: poco della concezione del diritto, nulla della nonviolenza ("disarmo delle masse"). Quando mi sento dire di aver abbaiato contro le leggi speciali e di essermi adesso "fatta Stato imperialista" mi vien voglia di rispondere che noi le leggi speciali tentiamo di abrogarle, mentre le loro azioni costituiscono per il regime il miglior spunto per vararne altre. Dal linguaggio ho la conferma di opinioni già formate: il loro modo di porsi è una sintesi di stalinismo e di cattolicesimo, con una visione dei rapporti umani e sociali basata sull'intolleranza e sull'indisponibilità al dialogo, al centro una forte e retorica mistica della morte e del sacrificio. I valori che - direttamente o indirettamente - ascolto propagandare non mi trasmettono nulla di nuovo; l'unica parte interessante del comunicato può essere quella relativa alla "raccolta delle firme", alla quale non a caso essi si appigliano.
Le accuse e le minacce alla giuria e agli avvocati sono pesanti: un messaggio da passare all'esterno, attraverso i mass-media? Perché questi "militanti rivoluzionari", così "rigorosi e attenti", non si chiedono come mai i mass-media del regime riservano loro spazi di informazione enormi?

Il presidente incomincia a chiamare i giurati: mentre attendo il mio turno sento che accanto a me qualcuno dice che "sì, accetterò perché bisogna condannarli. Anzi bisognerebbe condannarli a morte": decido subito di chiederne l'allontanamento dalla giuria, ma non sarà comunque chiamato a farne parte. La giuria popolare deve essere una garanzia in più di equità e di controllo nel processo, non può essere formata da persone di parte e che hanno opinioni preconcette: il giudizio dovrebbe maturare fondandosi sulla conoscenza dei fatti che si acquisisce durante il dibattimento. La base di partenza è la presunzione della innocenza, fino a prova del contrario: su questo è indispensabile essere rigorosi, da subito.

Accetto per nona, ripetendo la formula del giuramento. Ma sono fra i giurati supplenti: non so ancora se ho la possibilità di partecipare alle camere di consiglio e alle discussioni, la cosa è controversa, non c'è una disposizione precisa. Il presidente chiarirà subito che lui intende far partecipare tutti i giurati alle discussioni e alle decisioni - fatto salvo il diritto di voto - fino alla sentenza. La responsabilità è minore, però la possibilità di controllo e di intervento durante il processo è garantita: era quanto più mi preoccupava, dover dare nei fatti una copertura alla giuria senza poter incidere e intervenire. Mi seggo dietro il presidente, da dove è più facile parlargli anche durante le udienze, e mi guardo intorno.

Gli imputati sono nella gabbia, anzi nelle due gabbie ed è quasi impossibile vederli, perché sono circondati da un cordone di carabinieri. Sono molto impressionata, e non potrebbe essere diversamente. Ho la percezione soffocante della privazione della libertà, anche minima, anche dei movimenti più inoffensivi o innocenti. Tutto appare assurdo, a cominciare dallo schieramento di forze dell'ordine all'interno di un'aula nella quale a stento riescono ad accedere persino i parenti: una manifestazione di impotenza e di paura, una esibizione plateale di inutile forza, un modo subdolo di vendere all'opinione pubblica un'immagine di "mostri", "criminali" che mai debbono apparire normali, esseri umani. Altrimenti la gente potrebbe porsi interrogativi, magari scomodi. Questi imputati non sono processati per assassinio o per strage, e non a caso l'opinione pubblica lo ignora e lo continuerà ad ignorare per tutto il processo.

Gli imputati appaiono tranquilli, ridono molto, cercano volti familiari in mezzo al pubblico, si esibiscono alla stampa e ai fotografi, consapevoli che da oggi si apre per loro la possibilità di rompere l'isolamento in cui vivono da mesi, usando i mezzi di informazione come canale di trasmissione, sia pur stravolto, del loro messaggio politico. E' ovvio che si prestino al gioco, cercando di usufruire della ribalta del processo.

Il comportamento dei giornalisti si adegua perfettamente a questa necessità: non si perderà occasione, durante il processo, per calcare la mano, spesso mistificando, sui comportamenti degli imputati. I fotografi sono scatenati: arrampicati gli uni sopra gli altri, sembra veramente che abbiamo l'occasione storica di fotografie il ciclope o l'ultimo esemplare di Neanderthal.

Intravedo in mezzo ai carabinieri il volto di Curcio, quello che mi è più noto: gli altri imparerò a conoscerli nel corso del processo: per ora sono volti senza nome. Sono uomini: ma chi sono? Qual è stata la loro vita, al di là delle biografie ufficiali che la stampa ci propina con un taglio tutto particolare? Cosa significa vivere per anni nella clandestinità, limitando la propria individualità, la propria esistenza, i propri rapporti ad un cerchio ristretto di persone? Cosa significa non vivere in mezzo alla gente? E da quali esperienze politiche provengono? Come si passa da una militanza politica aperta alla scelta dei mitra?

Alla fine la giuria è formata, la corte si ritira in camera di consiglio: il presidente chiarisce le funzioni di ognuno, in particolare dei giurati supplenti. Dice che ci sono ancora dieci avvocati d'ufficio da nominare, che non sarà facile, lui ne ha preventivamente consultati molti, ha già ricevuto cinquanta rifiuti (adesso capisco la sua battuta il giorno della mia accettazione), è molto polemico e dà la sensazione di sentirsi solo, lasciato solo a portare il carico e le responsabilità di questo processo. Cerchiamo dieci avvocati, vengono nominati in aula e si rinvia l'udienza alla mattina successiva. Ho la sensazione che Barbaro tiri un sospiro di sollievo.

Esco con gli altri giurati, ripercorrendo all'inverso tutto lo schieramento dei mitra: nel cortile ad ogni giurato si affianca - con mio stupore - un carabiniere con il mitra spianato, le macchine degli avvocati e dei giurati partono seguite a ruota da un'altra macchina con una media di tre mitra ognuna. Mi fermo a guardare la scena, chiedendomi che razza di vita possa essere quella degli "scortati"; sempre, a piedi o in macchina, seguiti da gente armata: addio all'allegria di camminare fra la gente, uno tra i tanti. Mi sembra folle.

Mi avvio da sola fuori dal recinto che blocca la strada-posteggio riservata a questa nuova specie di vigilati speciali: al di là delle transenne mi aspettano i compagni. Mi abbracciano. Con loro mi avvio alla ricerca di un taxi, ma sono letteralmente aggredita dai fotografi, che quasi impediscono di camminare; contemporaneamente mi scattano intorno agenti in borghese e carabinieri: mi innervosisco, accelero il passo cercando di farmi largo. Da un gruppo di tre o quattro donne, parenti o compagne degli imputati, partono insulti: mi fermo interdetta, la tentazione è quella di avvicinarmi e parlare, ma so che è inutile. E' un episodio che mi fa male. …"


La Costituzione è morta. Viva la Costituzione

Marco Pannella NR117, 11 marzo 1978

Più di un mese è passato. Adelaide Aglietta è ora a Torino, dando corpo e emblematica concretezza a una necessità drammatica di resistenza della quale per primi i radicali, soggetti destinatari e vittime di questa necessità, non sono in genere nemmeno consapevoli.

Dopo 22 anni di lotte, il Partito radicale aveva ormai cessato da tempo, perché impeditone con la violenza, le sue attività statutarie. Per assicurare la conquista degli obiettivi votati dai Congressi, le attività della Segreteria nazionale, del Tesoriere, del Presidente del Consiglio federativo, dei membri di Giunta e della decina di compagni direttamente con loro impegnati, non erano più quelle "esecutive" previste dai Congressi stessi.

Gli obiettivi venivano raggiunti: ma a che prezzo? Ormai, perché passasse quel minimo di informazione e di attenzione, anche interna, era necessario un impegno che ha messo in gioco la vita di quei compagni con quasi cento giorni di digiuno l'anno. Abbiamo dovuto scoprire e praticare il digiuno della sete, per la prima volta, penso, nella storia della nonviolenza politica. E' solamente grazie a queste decisioni, in genere personali o di piccolo collettivo, che il Partito radicale è il risultato presente (e distorto nella sua identità) nella scena politica e civile italiana. Né più né meno di quel che accadeva alle poche decine di militanti antifascisti della metà degli anni Trenta che "esistevano", in Italia e nell'opinione mondiale, solo grazie ai loro processi, alle loro azioni dirette, alle loro condanne, ai loro ferimenti, in una ventina di casi nel decennio, con la loro morte provocata.

Non saremmo in Parlamento, non avremmo potuto rovesciare il segno dell'assassinio di Giorgiana Masi, vera azione deliberata per assassinare il Partito radicale e la sua politica nonviolenta, non avremmo mai raggiunto le firme necessarie per richiedere i referendum (e costringere il regime e il PCI alla colossale, pubblica rapina della Costituzione), se il Partito non avesse al suo centro deciso ogni volta di pagare il prezzo proprio delle dittature per conquistare al Paese quel minimo di informazione senza di che è accecato e violentemente impedito di conoscere e giudicare, e il gioco democratico diventa impossibile.

Nel 1972 molti non compresero il nostro invito a bruciare pubblicamente le schede elettorali per denunciare il carattere antidemocratico, truffaldino, di elezioni che non consentivano nemmeno in teoria la effettiva "presentazione" di altre liste oltre quelle ufficiali (dal MSI al PSIUP) al giudizio del popolo. "Non ci mettiamo a tavola con i bari", "Questa non è democrazia, la Costituzione è violata e tradita", andavamo spiegando.

Scomparvero in quella occasione il PSIUP, il Manifesto, il MLP di Livio Labor. Raccogliendo firme contro il monopolio abusivo e violento della Rai-Tv e della Commissione parlamentare di regime, concorremmo in modo determinante a indurre la Corte Costituzionale alla sua sentenza esplosiva, che ingiungeva al Parlamento di riformare il servizio pubblico, altrimenti incostituzionale. Senza quella sentenza non sarebbero bastati i drammatici, quasi disperati digiuni della sete per conquistare spazi di informazione non di regime, non DC-PCI, per l'elettorato furono la corrispondenza fra le nostre richieste e "la legge" imposta dalla Corte Costituzionale a consentirci di aprire quelle brecce di libertà e di democrazia.

Ma parallelamente, l'azione di affossamento della libertà di espressione, nella stampa, di giornalisti e politici libertari o autenticamente liberali (cioè credenti nello Stato di diritto) avanzava a passi da gigante. I contorni mafiosi, sindoniani, massonici, multinazionali, dell'impero fatto costruire da Angelo Rizzoli, con la concomitante estensione di potere del gruppo dei giornalisti Fiat, con le nuove scelte del gruppo Mondatori ( di cui la diversa linea di Panorama è solo una spia), con il consueto allineamento agli interessi della "razza padronissima" di Caracciolo e Scalfari ( attorno alla polemica sullo scandalo Italcasse e Caltagirone, giunto a comportamenti banditeschi, a estorsioni vere e proprie nei confronti di Conte, con il linciaggio organizzato contro Tempo di Jannuzzi, colpevole d'aver dato spazio a noi radicali, con la liquidazione delle direzioni "liberali" del Resto del Carlino e del Giornale di Sicilia, dell'Alto Adige, della proprietà e direzione di Alessi (anti-Osimo) del Piccolo di Trieste, con l'operazione Mattino, con quella Corriere della Sera (con buona pace di Giuliano Zincone), con la linea ferocemente antiradicale assicurata (per compiacere al PCI) dal TG2 e da GR1, con il vero e proprio teppismo fascista nei confronti delle opposizioni di sinistra assunto da Paese Sera di Aniello Coppola e di Franco Rodano, con i Maurizio Costanzo e gli Enzo Biagi, l'unità di regime della stampa la rende tale da non avere altri margini di differenza e di apertura che non siano paragonabili a quelli che durante il regime PNF erano consentiti e richiesti alla stampa di allora, ai Gayda e agli Interlandi, ai Farinacci e ai Missiroli, fino agli spazi bottiani a intermittenza concessi già allora ai Benedetti e Pannunzio, al loro maestro Longanesi.

Situazione pienamente di continuità e sviluppo del fascismo, dunque. Se appartenessi a quanti dicono: "Se tornano i fascisti, allora non c'è che il mitra", a quanti credono che la nonviolenza sia possibile in regime di libertà anglosassoni, o a quanti ritengono perseguibile (sia pure "dialetticamente") la pace con la guerra, il socialismo con la politica, sia pure difensiva, di assassinio e di violenza, avrei già scelto queste strade.

Ma credo nella nonviolenza, nella libertà, nella democrazia, nel socialismo, nel dialogo innanzitutto come metodi, come mezzi, strumenti. Credo nella "guerriglia nonviolenta" d'attacco e non solo di difesa, credo nel ragionato, continuo, ragionevole sregolamento di tutti i meccanismi (indotti ed ereditati, conquistati ieri e inadeguati oggi) e sensi collettivi e personali, privati e politici; credo nel "valore" del diritto e dei diritti, credo nella speranza "Partito radicale" cui abbiamo saputo dare finora, non di rado, prefigurazione e corpo e speranza.

Credo che la responsabilità che si è assunta Adelaide sia enorme, dolorosa e felice. Ha avuto il coraggio di constatare che il Partito radicale non poteva più esistere, non esisteva più, se non a prezzi e condizioni che lo snaturavano pericolosamente, che chiedevano -sicuramente- i nostri morti e le nostre morti, eroi e martiri, a meno di voler ridursi al "ruolo" di minoranza protestataria, inefficace, di nuova opposizione legittimante il regime, e il sistema ( la scelta nucleare rappresenta il primo, vero, insuperabile anello di congiunzione fra il regime italiano e sistema capitalistico, imperialistico violento e distruttore anche del futuro dell'umanità; quell'anello di congiunzione che può richiamare all'interno dello Stato - non solamente in Italia - il "potere" di classe necessariamente fin qui detenuto dalle multinazionali).

Vi sono radicali che sembrano non comprendere questo. La loro soggettività corrisponde a dati oggettivi: sono quali la mancanza di dialogo e di informazione nel Paese, nella società (non siamo una setta: non basta quella "interna", può anzi essere pericolosa se isolata), li rende. Poi vi sono anche radicali la cui vita è meno difficile, non per loro calcolo o tradimento, ma perché il regime sa premiare chi riduce o "innalza" l'esser radicale a "pensiero", a "contenuti" da perseguire "un giorno", o da omologare ad altri meno condizionati in senso alternativo. C'è una "serenità" e "compostezza" radicale che sono all'opposto della severità e del rigore degli "scomposti" e "esagitati", cui finora (purtroppo!) si sono dovuti tutti i risultati raggiunti, le vittorie, le crescite.

Cessare l'attività politica nazionale del Partito radicale non è decisione di un momento. E' attività, o non è che resa (anche se la resa, per dei nonviolenti, può essere momento morale e civile necessario) continua per rinnovare la gestualità e il rituale di espressioni e azioni senza avvenire e senza reale presente se non quello di servizio al "tutto" che questo potere ha bisogno di essere e apparire, tutto e il contrario di tutto.

E' attività il chiedersi ogni momento se, per comunicare la nozione che nel 1978 in Italia non c'è democrazia politica, diritti costituzionali, libertà per le minoranze di alternativa e di opposizione, ma solamente violenza e arbitrio, dalla Corte Costituzionale al Parlamento, dalla Giustizia alla Economia, è attività il chiedersi ogni momento -dicevo- se per comunicare questa nozione sia necessario o possibile tacere o parlare. Ma si deve lottare perché questo silenzio, imposto e deliberato, diventi evidenza, parli, dia coscienza di sé, e del suo significato. Si deve lottare a livelli diversi.

Il nostro Statuto, il nostro pensiero comune, ci indica che il Partito radicale non può non essere, nel medio termine (nel quale -dopo 22 anni di attività- siamo pienamente entrati), che una conquista dei Partiti radicali. La nostra esperienza e la nostra identità storica ci indicano che le dimensioni territoriali democratiche, le Regioni o altro, non sono nemmeno esse raggiungibili, oggi, se non attraverso i marciapiedi, le strade, le piazze. Non si raggiunge, in questo fascismo, la gente, la classe che attraverso la materialità conosciuta e conquistata dei tavoli, delle schede, della raccolta del denaro e delle firme, cioè della innalzata bandiera costituzionalista e legalitaria, anticonsumistica e antiviolenta della "povertà" quale caratteristica aggregante e unificante, di base e di partenza di un movimento liberatorio, alternativo, maggioritario, come abbiamo sempre voluto essere e non di rado siamo stati.

Non li si raggiunge, non ci si trova, conosce e riconosce, se non con l'umiltà di richieste precise, umili, motivate semplicemente. Dobbiamo tutti in primo luogo ridiscendere nelle strade, con i nostri tavoli e con noi militanti così; la cruna dell'ago della raccolta di almeno un miliardo, come simbolo di forza e di speranza degli umili contro i ricchi, i potenti, i prevaricatori, i disperati e i fanatici.

E' poco per questo, per motivare il nuovo impegno di tanti? Può darsi. Vigevano mi assicura che non siamo più di un migliaio, finora, di iscritti militanti che hanno accettato e praticato la nuova forma di associazione, di autotassazione, per il Partito. Basteremmo in molti di meno, in realtà, per riannodare il filo interrotto, spezzato dalla DC e dal PCI, dal regime nel suo assieme, nella sua disperazione e nella sua paura, nel caos e nella guerra (per ora solo civile, ma per quanto ancora?) che sono l'"emergenza" senza la quale morirebbe -anziché farci morire-, far morire il Paese.

Intanto, ancora grazie ad Adelaide, all'unico punto fermo che abbiamo, per la sua decisione e intelligenza, che dobbiamo rendere comune alla gente, a tutti noi. I Partiti radicali, anch'essi, non credano di esistere, in quanto tali. I movimenti federati, meno che mai. C'è tutto da costruire. Di nuovo, come un tempo. Siamo in alcune centinaia ad avere gli strumenti, in centinaia di migliaia pronti a usarli, se sapremo diffonderli, socializzarli.

E non è vero che la decisione della Corte, l'assassinio della Costituzione sia sconfitta, altro che particolare e di mera congiuntura, nostra e non del regime. La Costituzione era assassinata nel silenzio e nella incredulità generale dei "liberali", della gente, da trent'anni. Referendum non se ne facevano (tranne uno: contro la democrazia, nel suo oggetto) da trent'anni. Tutto questo era normalità.

Oggi, per quattro referendum che non si faranno, e altri cinque che abbiamo ancora da difendere, a migliaia o milioni rompono dentro di sé con il potere. Quel che era nascosto e negato, ora è evidente. La verità delle nostre analisi e delle nostre proposte è ora fortemente cresciuta storicamente, è socializzata, è affidata non più solamente a noi e a coloro che abbiamo un tempo avuto accanto. La Costituzione assassinata, la strage di legalità, la costruzione materiale, vivente, alternativa a quella repubblicana, l'unità di tutti, dal PCI, al MSI, dal PRI alla DC, attorno al pensiero e alla realtà dello Stato Etico e corporativista, di Bottai, Rocco, Federzoni, Gentile, del patto sociale fra Capitale, Lavoro e Stato, mediato dal "Partito", non è più intuizione o fantasma, incubo o follia di qualcuno, del Partito radicale.

Il Partito radicale, lo Stato di diritto, la Costituzione, l'alternativa democratica e libertaria di classe, il movimento socialista e pacifista, la rivoluzione umanistica sono morti. Viva il partito radicale, lo Stato di diritto, la Costituzione, l'alternativa democratica e libertaria di classe, il movimento socialista e pacifista, la rivoluzione umanistica, battaglie di libertà e di liberazione.


ABORTO: LE STREGHE SON FREGATE

di Loredana Lipperini NR119, 26 maggio 1978

"In sordina, tra l'indifferenza della stampa, senza che una sola iniziativa del movimento femminista gli facesse eco, la legge sull'aborto è stata approvata dal Senato.
Sarebbe accaduta la stessa cosa se alla Camera dei Deputati non ci fosse stato l'ostruzionismo dei deputati radicali a denunciare la gravità di quanto stava accadendo: l'aborto è sempre stata la patata bollente di questa classe politica, l'elemento perturbatore degli equilibri della maggioranza. Quando proprio non si può fare a meno di parlarne, meglio esorcizzarlo, relegarlo in secondo piano. E' una delle tattiche della "Politica dell'emergenza". A causa dell'ostruzionismo radicale, invece, stampa e partiti sono stati costretti a dibattere dell'argomento: il paese ha intuito, più che sapere (questo non gli è stato consentito) che la legge che il Parlamento stava approvando era una truffa, che le donne, che i firmatari del referendum erano ancora una volta beffati.

Venendo meno l'opposizione radicale al Senato, la forza, l'opposizione stavolta poteva e doveva venire dal movimento delle donne. E' triste dirlo, ma già quando la legge veniva discussa alla Camera le compagne femministe sono scese in piazza una sola volta dopo averlo deciso controvoglia, con poca chiarezza e molte divisioni. Ci si rifiutava anche di pronunciare la parola referendum, per paura di venir chiamate radicali, di venir strumentalizzate chissà da chi: come se il voto non sarebbe stato un voto di donne, un riappropriazione del proprio diritto di decidere. Mentre la legge veniva approvata in tutta fretta al Senato, mi dispiace dirlo, ma obiettivamente il movimento femminista si è reso complice del silenzio in cui questa operazione è stata condotta. Non una volta ho sentito parlare di una mobilitazione delle compagne; l'unica manifestazione che si è svolta a Roma mentre la legge era al Senato è stata fatta quasi per dovere, erano presenti poche decine di compagne. Non una volta ho visto una compagna femminista manifestare sotto il Senato: le botte, ancora una volta, le abbiamo prese noi, compagne e compagni radicali, mentre protestavamo anche per loro, in pochi contro le cose vergognose che venivano approvate sulla pelle di tutte le donne.

Mentre scrivo, non so ancora quale sarà il giudizio della Cassazione: se si riuscirà ugualmente a fare il referendum sull'aborto, se si riuscirà in questo modo a sconfiggere, con una grande vittoria delle donne e del paese, chi non vuole che l'aborto sia realmente libero, realmente gratuito, realmente assistito e che con questa legge l'ha ribadito. Se così non fosse, gli anni che ci aspettano sono davvero molto difficili: nessuna mobilitazione, per quanto grande, per quanto capillare, riuscirebbe ad annullare le burocrazie e gli ostacoli che ci vengono opposti. E' probabilmente anche inutile rielencarli: i sette giorni di ripensamento prima di ottenere il "passi" per abortire, il riconfermato ruolo del padre nella decisione, l'impossibilità per la minorenne di abortire se non sborsando milioni dai cucchiai d'oro o facendosi massacrare l'utero dalle mammane, l'obiezione di coscienza massiccia degli enti ospedalieri, la mancanza di posti letto negli ospedali, la galera per chi pratica il self help, il terrorismo delle associazioni religiose che di fatto gestiscono i pochi consultori esistenti. E inoltre l'aumentato potere della classe medica, è il vero e proprio insulto che questa legge costituisce per la dignità della donna, che continua ad essere considerata una minorata mentale, incapace di decidere e di scegliere. Questo è quello che la maggioranza politica ha deciso di rispondere agli anni di lotte delle donne e di mobilitazione contro l'aborto clandestino: per i partiti che l'hanno votata, questa legge non è stata nulla di più che una tappa, più o meno importante, della loro strategia di violazione della legalità e di soffocamento dei diritti civili: anzi, si è trattato del momento in cui le loro alleanze si sono consolidate: Parigi, per PCI, PSI e soci val bene una messa.
Per noi donne si tratta di una sconfitta storica. E in questo momento non so quanto la più grande e imponente mobilitazione sul dopo-legge, che deve comunque ed immediatamente esserci, potrà cancellarla."


Un Parlamento squillo?

di Roberto Cicciomessere NR119, 26 maggio 1978

Regolamenti: liberali quando non servono

Il regolamento "liberale" della Camera, che andava bene, finché, per questi trent'anni, l'opposizione era stata solo formale e di facciata, diviene ora, nelle mani di una rigorosa sebbene piccola opposizione, un'arma capace di provocare seccature ad una maggioranza decisa a muoversi al di fuori delle sedi istituzionali e di ogni norma costituzionale.

In quest'ultimo mese, la maggioranza guidata dal PCI, ha usato tante violenze contro la opposizione di quattro deputati quante non sono state neppure tentate in trent'anni dalla Democrazia Cristiana contro la opposizione comunista, rivelatasi così chiaramente puramente formale.
La vicenda della legge Reale-bis ha visto il Presidente della Camera comportarsi come presidente della maggioranza, teso a difendere quanto il PCI aveva ottenuto con gli accordi governativi, e cioè l'abrogazione dei referendum radicali, anche a costo di calpestare le norme più elementari e fondamentali del regolamento.

L'assegnazione della legge Reale-bis alla Commissione Giustizia in sede legislativa è stata la prima mossa di Ingrao, in seguito al fallimento dei tentativi di "programmazione" dell'opposizione radicale, proponendoci contropartite in cambio della rinuncia all'ostruzionismo. Il regolamento e la Costituzione consentono infatti l'assegnazione in sede legislativa delle leggi che riguardino "questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale" e che "rivestano particolare urgenza". Certo è indubbia la rilevanza di questo provvedimento, come è indubbia la sua gravità: ma è evidente che la sua urgenza non è determinata da necessità oggettive, ma da quelle soggettive di una maggioranza che vuole evitare il referendum.

Inutilmente abbiamo chiesto che la legge Reale-bis fosse almeno assegnata congiuntamente alle commissioni Giustizia e Interni, come del resto era accaduto nel '75: anche in questo caso il Presidente ha fatto valere le sue prerogative per impedire anche solo una possibilità di allungamento dei tempi del dibattito conseguente ad una discussione congiunta di due commissioni.
Ma questa seconda violazione regolamentare, apparentemente inadeguata ai fini della speditezza dei lavori, ne preparava una ancora più consistente: alcuni giorni dopo, infatti, Ingrao assegnava alla Commissione Interni in esclusiva il cosiddetto decreto-legge contro il terrorismo, nonostante il fatto che questo provvedimento coinvolga modifiche del Codice di procedura penale, come gli aumenti di pena (cioè materie di stretta competenza della Commissione Giustizia). In nome delle ragioni di maggioranza ancora una volta Ingrao si prestava a violazioni che perfino molti democristiani e socialisti criticavano apertamente in aula, votando a favore della nostra richiesta di assegnazione del decreto alle commissioni congiunte Interni e Giustizia.

Sistemato quindi il problema della contemporaneità delle due discussioni in commissione, si poneva ora quello di stroncare l'opposizione radicale sulla Reale-bis. Per prima cosa era quindi necessario impedire la pubblicità dei lavori di commissione affinché i cittadini, ed in particolare gli elettori comunisti e socialisti fossero tenuti all'oscuro dei contenuti della legge truffa e dei motivi della nostra opposizione. Ma l'art. 65 del regolamento è chiaro in proposito: prevede infatti il diritto della stampa e del pubblico di seguire lo svolgimento delle sedute in separati locali attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
Nonostante le migliaia di richieste di giornalisti e cittadini per la pubblicazione dei lavori, Ingrao non consente la trasmissione delle sedute attraverso gli impianti audiovisivi a disposizione della Camera, violando così ancora una volta le disposizioni del regolamento.
Il secondo ostacolo per la maggioranza era rappresentato dalla pattuglia radicale, intenzionata a partecipare a tutti i lavori della Commissione Giustizia, così come previsto dall'art. 38 del regolamento che sancisce il diritto di ogni deputato a "partecipare, senza diritto di voto, alle sedute di commissioni diverse da quella alla quale appartiene, previa comunicazione al Presidente della Commissione stessa da parte del gruppo di appartenenza".

Per tutta risposta, Ingrao decreta con apposita circolare che i deputati non appartenenti alla Commissione Giustizia potevano assistere, nel senso di ascoltare e guardare, ma non parlare, nemmeno per illustrare i propri emendamenti. Su questa ennesima violazione regolarmente Pannella si fa espellere dalla Commissione, per sottolineare il nostro preciso dovere di disobbedire alle violenze patenti della Presidenza.
Mellini, membro effettivo della Commissione, viene quindi costretto a parlare giorno e notte per sedute ininterrotte.

A questo punto rimaneva il problema dei possibili "disturbi" che la discussione in aula sulla riforma dell'Inquirente (si doveva discutere in aula perché evidentemente tutte le altre sedi erano occupate dalle altre leggi truffa) poteva provocare alla Commissione. Ancora una volta Ingrao supera il problema con disinvoltura, autorizzando la contemporaneità delle due discussioni. Rimaneva però, anche in questo modo, un'ultima difficoltà: è ovvio, oltre che consolidato dalla prassi di trent'anni, che non è possibile votare due leggi contemporaneamente in aula e in commissione. In questo caso, infatti, il deputato si troverebbe privato di un solo diritto-dovere fondamentale, quello di partecipare non solamente al processo formativo di una decisione, ma anche al momento del voto su una legge. In questo caso, dunque, sarebbe costretto a scegliere tra il voto in aula e quello in commissione.

Incredibile ma vero, ancora una volta Ingrao ritiene che non ci sia niente di male se le votazioni in aula e in commissione avvengono contemporaneamente: decide dunque di non sospendere i lavori della commissione giustizia, neanche nel caso di votazioni in aula. Non servono a farlo ritornare sulle sue decisioni le proteste dei deputati radicali, l'esibizione di circolari presidenziali degli anni precedenti in cui si dichiarava la nullità dei lavori di commissioni in sede legislativa convocate contemporaneamente ai lavori legislativi d'aula, la denuncia della condizione a cui viene costretto non tanto il deputato d'opposizione, ma il deputato di maggioranza che deve votare come una pecora provvedimenti diversi senza neppure conoscere l'oggetto della votazione e aver ascoltato i pareri diversi dei suoi colleghi, costretto ad obbedire solamente alle indicazioni del capogruppo.

Tutto ciò avviene mentre Moro è nelle mani delle Brigate Rosse: ancora, il Parlamento viene espropriato dei suoi diritti e doveri di indirizzo e di controllo dell'esecutivo. Alle richieste quotidiane dei deputati radicali di aprire alla Camera il dibattito necessario per esplorare tutte le strade che potessero impedire l'assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana, la maggioranza opponeva la forza del numero, la violenza anticostituzionale, l'esproprio del Parlamento. E naturalmente Ingrao, cultore della centralità del Parlamento, rimaneva impassibile.

Da quanto è accaduto e sta accadendo oggi in Parlamento è chiaro che la richiesta di attuazione della Costituzione e dei regolamenti, la difesa dello Stato di diritto, sono oggi momenti di lotta rivoluzionaria contro chi, per affermare la propria logica illiberale e anticostituzionale, continua a far strage di leggi, costituzione, regolamenti, a cui, come è tragicamente dimostrato dagli ultimi avvenimenti, segue sempre la strage di vite umane, l'indifferenza e la sfiducia dei cittadini nell'agibilità democratica degli strumenti istituzionali.

Il fatto che cinque deputati siano riusciti a costringere la maggioranza a chiedere, per la prima volta in assoluto dopo trent'anni, un voto di fiducia sul decreto antiterrorismo per stroncare la loro opposizione, costituisce certamente una grossa e inaspettata vittoria.
Ma questo non è evidentemente sufficiente: solo la partecipazione dei cittadini può consentire anche a minime opposizioni parlamentari di esprimere con forza la volontà di maggioranze esistenti nel paese che, oggi, non trovano certamente rappresentanza e sbocco politico diretto nei partiti storici della sinistra.


NON SIBARA CON IL REFERENDUM

NR119, 26 maggio 1978

Dopo lo scippo del Codice Rocco, del Concordato, delle leggi militari, oggi l'Alta Corte afferma che...

Questa volta anche la Corte Costituzionale, quella Corte che a gennaio sottrasse con un vero e proprio "golpe" i quattro maggiori referendum del progetto di attuazione costituzionale promosso dal PR, ha dovuto riconoscere "l'esigenza di non frustrare il ricorso al referendum", la necessità di "tutelare adeguatamente i firmatari, i promotori delle richieste referendarie": le modifiche formali e pretestuose, gli espedienti legislativi - ha detto in pratica la Corte - non possono bloccare il referendum; solo se il parlamento modifica "i contenuti normativi essenziali", "i principi ispiratori" delle leggi sottoposte a referendum, è legittimo il blocco delle operazioni referendarie.

La nuova sentenza della Corte Costituzionale è sicuramente un argine - anche se dovremo valutarne nei prossimi giorni la reale efficacia - nei confronti dei furibondi attacchi e dell'ossessivo ostruzionismo contro i referendum (il vero ostruzionismo!) messo in atto, ormai da molti mesi, dai partiti della maggioranza/unanimità del parlamento.
Ostruzionismo e attacchi antireferendari spesso anche maldestri, portati avanti con leggi e leggine malfatte, a volte tecnicamente ridicole, ma per le quali non si è esitato a violare i regolamenti parlamentari e fondamentali principi costituzionali.
L'assurda pretesa di legiferare sulle materie sottoposte a referendum fino all'ultimo momento, senza alcun limite di tempo (anche dopo l'indizione dei comizi elettorali da parte del Presidente della Repubblica e addirittura dopo l'inizio della stessa campagna elettorale) ha intanto provocato una situazione tanto grave quanto addirittura paradossale: si potrà sapere con certezza quanti e quali referendum si terranno solo pochi giorni prima delle votazioni!

Infatti i referendum ancora in piedi (al 20 maggio) sono cinque, anche se stampa e Rai-TV, con la loro opera sistematica di disinformazione, ne hanno abrogati del tutto due, asserendo che l'approvazione delle leggi-truffa sull'inquirente e sui manicomi aveva già prodotto, automaticamente, il blocco delle operazioni referendarie. Questo blocco invece può essere dichiarato solo dall'Ufficio centrale della Cassazione al quale aspetta il compito di prendere in esame "leggi" approvate dal parlamento e valutare, con i criteri stabiliti dalla sentenza della Corte costituzionale, se esse mutino i principi ispiratori della disciplina sottoposta a referendum o se invece apportino solo modifiche formali. In quest'ultimo caso il referendum si fa. E, per quanto ha detto la Corte, si fa proprio sulla nuova legge che ha sostituito solo formalmente quella inizialmente sottoposta a referendum. L'Ufficio centrale della Cassazione però, potrà prendere queste decisioni solo verso la fine di maggio (il 25 o il 26 probabilmente) o forse ancora dopo, soprattutto per l'aborto.

Provocando questa incredibile situazione di incertezza e confusione sull'oggetto stesso della consultazione, i partiti di regime, anche se non riusciranno a "scongiurare" tutti i referendum hanno comunque già raggiunto lo scopo di soffocare e impedire un reale e approfondito dibattito sui temi dei referendum, soprattutto grazie al comportamento banditesco della Rai-Tv e alla decisione scandalosa della commissione parlamentare di vigilanza.
Ma c'è di più: avendo finora dato per scontato lo svolgimento di un solo referendum il Ministero degli Interni, o i prefetti e i Comuni hanno addirittura omesso o ritardato l'adempimento di alcune operazioni elettorali (soprattutto quelle da compiere per tutti i cinque referendum: tabelloni per l'affissione dei manifesti, verifica dell'esistenza di un numero sufficiente di urne etc.), mettendo in atto, anche in questo modo, un azione di boicottaggio e ostruzionismo nei confronti della campagna referendaria.

Cerchiamo comunque di esaminare più dettagliatamente a che punto è l'iter istituzionale del referendum ripercorrendo le tappe di questa complessa vicenda giuridico-costituzionale e cercando di prevederne, per quanto sia possibile gli sviluppi.

Il 6 dicembre scorso l'Ufficio centrale della Cassazione, attestando la regolarità delle 700 mila firme, escluse dal referendum sulla legge Reale l'art. 5 (relativo al divieto di usare caschi o altri mezzi che rendano difficoltoso il riconoscimento della persona), in quanto "sostituito" dal parlamento, sia pure solo formalmente e in senso peggiorativo.
Contro questa decisione che al di là del problema dell'art. 5 sanciva un principio aberrante e un precedente pericolosissimo, il Comitato promotore presentò il 7 gennaio un ricorso alla Corte Costituzionale, sollevando un "conflitto di attribuzione tra poteri dello stato" (cioè tra il Comitato stesso e l'Ufficio centrale).
L'11 aprile, entrando nel merito del ricorso, la Corte affermò che il conflitto era sorto a causa di una possibile illegittimità costituzionale dell'art. 39 della legge sul referendum (la norma in base alla quale l'Ufficio centrale aveva preso la sua decisione) nella parte in cui esso "prevede che il blocco delle operazioni referendarie si produca anche quando la sopravvenuta norma abrogatrice sia accompagnata dall'emanazione di altra normativa che regoli la stessa materia apportando solo innovazioni formali o di dettaglio".
Con la sentenza del 17 maggio la Corte ha accolto questa questione di legittimità dell'art. 39 e ha fornito i nuovi criteri, di cui si è già fatto cenno inizialmente, in base ai quali deve pronunciarsi l'Ufficio centrale quando il parlamento approva una legge concernente la stessa materia sottoposta a referendum.
Lunedì 22 maggio la Corte dovrà emettere una nuova sentenza per risolvere il problema specifico dell'art. 5 della legge Reale e fornire, probabilmente, ulteriori "indicazioni" sull'applicazione della sua stessa sentenza del 17 maggio.


11-12 giugno da "Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse" di Adelaide Aglietta   Milano Libri Edizioni - febbraio 1979

"… Seguo le votazioni e gli scrutini dei referendum. Nel pomeriggio di lunedì, al comune, i volti dei funzionari e degli assessori comunisti sono sempre più tirati, seri, pallidi. Verso la fine degli scrutini del primo referendum, quello sul finanziamento, viene sospesa la pubblicità dai dati. Sono i sintomi, divenuti poi certezza, che a Torino il finanziamento pubblico è stato sconfitto. Il 53,8 per cento dei cittadini ha votato per la sua abrogazione. Anche il 27 per cento sulla Reale è superiore a quello del resto d'Italia. La città operaia per eccellenza ha dato una risposta seria a certe propagande faziose, prive di contenuti, fondate sulla disinformazione, la mistificazione, il linciaggio.

La sera, in piazza Carlo Alberto, si radunano spontaneamente centinaia di persone, per festeggiare questa grande vittoria politica. Con un megafono improvvisato incomincio a parlare, ma non riesco a trattenere la commozione. Decine di compagni mi abbracciano: le lacrime che mi cadono sono forse l'inizio dello sciogliersi di un grosso nodo interno, l'inizio del rinascere e del riaffermarsi in me della fiducia nella gente, nella sua maturità e civiltà. Mi sono riconquistata la volontà di continuare a lottare, ad affermare nei comportamenti personali e politici quelle speranze che vedo non più patrimonio di pochi, ma sempre più patrimonio di molti: ora è necessario dare voce e rappresentanza a questa opposizione che con tanta chiarezza è venuta alla luce, l'11 giugno.

Dopo la manifestazione, in un clima di euforia, torno al partito. Mi telefonano da Roma: vogliono una dichiarazione per Radio Radicale. Gianfranco ed Emma - mi dicono - sono con Mimmo Pinto a Piazza Navona, a festeggiare anch'essi il risultato. Marco Pannella ha invece atteso i risultati in piazza, a Trieste, dove siamo già in piena compagna elettorale…"


LA DIFFICOLTÀ DI ESSERE DIVERSI

intervista con Marco Pannella MONDOPERAIO, 11 novembre 1978
a cura di Marco d'Eramo

SOMMARIO: Cronache della campagna elettorale di Marco Pannella e del Partito radicale alle elezioni amministrative a Trento: una campagna "all'americana". Analisi della situazione politica interna al Partito radicale, all'indomani del Congresso che ha eletto segretario l'obiettore di coscienza francese Jean Fabre. I rapporti con il Psi: non è un vero partito socialista se non è assolutamente maggioritario; bisogna puntare alla rifondazione del PSI che dovrebbe coinvolgere l'80% dei comunisti, dei radicali e dei socialisti.

Nel centro di Trento c'è un piccolo albergo. Il centralinista vi conosce vita, morte e miracoli di Emma Bonino, Massimo Teodori, Marco Pannella. Perché per le elezioni nel Trentino Alto Adige i dirigenti radicali hanno fatto di questo hotel il loro centro operativo. Dopo un congresso a sorpresa nelle Puglie in cui è stato eletto un segretario simbolico e spettacolare, il giovane francese obiettore di coscienza Jean Fabre, la leadership radicale si è trasferita in massa sulle Alpi per cercare di ottenere gli stessi buoni risultati di Trieste. Un Massimo Teodori che prepara le pagine di pubblicità comprate al quotidiano "l'Alto Adige", un Pannella che tiene banco nei comizi e nelle trasmissioni della Radio radicale, appena installata, militanti che occupano la più grande TV privata perché rifiuta il loro (solo il loro, aggiungono i radicali) annuncio pubblicitario. Una campagna "all'americana", ha detto "la Repubblica", organo non molto amato tra i radicali, un notevole attivismo e un'alleanza con la "nuova sinistra", cioè con "Lotta Continua" e il MLS da cui emergono varie discrepanze. Il comune denominatore è però la dura polemica con il PCI, ripagata d'altronde in moneta contante.
Questa campagna mostra alcune ambiguità anche nella vita interna dei radicali che, con l'ultimo congresso, hanno sciolto il partito nazionale e fondato la federazione dei partiti radicali regionali: in realtà è sempre il gruppo dirigente nazionale a spostarsi compatto. E' la contraddizione di un partito che si vuole di movimento e quasi senza delega, ma che è imperniato e quasi incarnato in un solo "capo carismatico", Marco Pannella, delegato così di fatto a "essere" il partito radicale. Un Marco Pannella che, proprio con il Congresso di Bari e con la soluzione simbolica per la scelta della segreteria, ha ripreso in mano la situazione, anche con l'appoggio del gruppo di Massimo Teodori, già all'opposizione, e ora confluito sulla linea che vuole un partito tutto di movimento, tutto fuori da quel che è considerato il "regime". Battuti sembrano essere stati Spadaccia e Aglietta che, dicono alcuni esponenti, quest'anno non hanno saputo prendere nessun'iniziativa. Le fratture all'interno dei radicali sono forti. L'accusa rivolta a Spadaccia e Aglietta e agli altri dirigenti centrali è di aver voluto ricostituire il partito come centro di potere, cioè di essere entrati, senza accorgersene, nella logica della lottizzazione, in una struttura "convenzionale" di partito, di aver lasciato tutta l'iniziativa al gruppo parlamentare.
Ma anche tra i sostenitori del partito di movimento, della critica dura "al regime", si delineano posizioni molto differenziate. Emma Bonino a Bari e Marco Pannella qui a Trento lanciano accuse al PSI, rimproverandogli di avere una doppia anima, ministeriale e libertaria. Una vecchia accusa, che però appare strana a Trento, dove il PSI era all'opposizione contro la "grande coalizione" PCI-DC, E' forse l'indice di un'approssimazione nell'approccio politico. Da altre tendenze radicali vengono invece appelli a una "non belligeranza" tra radicali e PSI, a una complementarità di azione, a un rispetto reciproco ognuno nel proprio ambito. Quest'atteggiamento "civile" non è un risultato facile: troppi i contenziosi del passato, le incomprensioni, che risaltano anche dalla conversazione di un'ora con Marco Pannella e che sono accentuati dall'importanza annessa dal leader radicale all'intervista con "Mondoperaio", "dopo anni di silenzio", come ha ripetuto più volte. Il problema di fondo pare però un'altro. La società italiana e la sua espressione politica, quel benedetto "quadro", sono mutate sensibilmente negli ultimi due anni e gli stessi radicali si trovano spiazzati rispetto alla loro posizione precedente e rispetto al terreno che prima occupavano soli e che ora anche altre forze occupano. Sono perciò alla ricerca di nuove forme di presenza nella società italiana, elementi essenziali per un movimento che si vuole "scandaloso" e "diverso", il cui ferro di lancia è perciò la cassa di risonanza dei mass-media e che risente così più degli altri della chiusura dei mezzi d'informazione, tacciati di censura e di appartenenza al regime. Da qui il complesso rapporto, che è al tempo stesso di convergenze e di conflittualità, con le altre forze della sinistra laica, a cominciare dai socialisti.

"Il congresso radicale di novembre è andato in modo strano. La linea Aglietta-Spadaccia, che sembrava vincente, pare aver perso."
Un Congresso radicale è diverso dagli altri, proprio come i radicali sono un partito diverso. Non si può leggerlo con la stessa chiave. Non vi sono delegati: può venire chi vuole. Molti si iscrivono proprio in occasione del Congresso e, tendono - pensando di accentuare la novità a riportarvi invece la vecchia logica mutuata dalle altre formazioni. Poi, il Congresso si è tenuto a Bari. Cerchiamo di tenerli in regioni diverse perché favoriscono l'insediamento locale. Ma ognuno al Congresso ci viene a sue spese. Così a Bari la presenza del Centro-Nord era sottovalutata. Quest'anno la partecipazione meridionale, più imprevedibile, era forte. Poi, con l'inflazione e l'aumento del costo, la composizione sociale è mutata; stranamente vengono molti più ragazzi, studenti poveri, con il sacco a pelo, in autostop, cui il viaggio non costa nulla, mentre le persone mediamente agiate (che dovrebbero andare in albergo, ristorante) vengono meno. Se non è per delegati, un Congresso è sempre un'incognita. Non si sa quanti saranno: 200 o 800?

"L'elezione dei ventiquattrenne francese Fabre è sembrata un po' plateale, ad imitazione della Chiesa che ha eletto uno straniero."
Guarda: Fabre è un obiettore di coscienza, che rischia di essere imprigionato. E la non violenza è il filo che fonda la diversità dei radicali e percorrere i temi specifici. Senza la non violenza, gli altri temi sarebbero sconnessi.

"Il Congresso sembra aver rispecchiato il paradosso che vivono i radicali: buoni successi elettorali nel referendum e a Trieste, ma crisi profonda del partito."
Non è vero. E' andato in crisi quel che abbiamo messo in crisi noi stessi. Per alcuni anni abbiamo accettato la contraddizione tra realtà pratica e statuto, per cui il partito radicale è una federazione di partiti regionali. Il partito esisteva solo per supplire all'assenza di questi partiti regionali. Ma quando chiudi deliberatamente l'unico centro di collegamento nazionale di cui disponi per respingere di nuovo a livello regionale le battaglie che vanno fatte, hai bisogno di due o tre anni per la riconversione. Perché ci siamo automessi in crisi? Perché la censura subita dai radicali è stata spezzata solo dallo specifico parlamentare. Siccome noi passiamo solo attraverso le pagine comprate a "La Repubblica", perché altrimenti il messaggio è o censurato o peggio ancora grotteschizzato, succede che solo il gruppo parlamentare riesce a spezzare la volontà o il bisogno di far fuori la presenza radicale. C'è stata quindi una deliberata messa in crisi per andare in direzione dello Statuto. Per un partito libertario, lo Statuto è il dato fondamentale, è l'invenzione. Normalmente i libertari hanno sempre avuto diffidenza per l'organizzazione. Il nostro atteggiamento è capovolto: se la libertà, come tutto, come fare all'amore, vivere, lavorare, è un prodotto sociale, è un prodotto dell'organizzazione che non è un modo di sacrificare ma che fonda questa libertà.

"Il partito in quanto tale non ha preso nessuna iniziativa politica quest'anno."
Il partito ha chiuso questo centro antistatuario, perché se non si cominciava con un atto volontario a innescare la ricerca obbligata nelle regioni, a riciclare i riflessi di noi stessi si restava nell'ideologia di tutti i partiti dell'arco costituzionale: come possiamo essere proudhoniani se non poniamo il problema della prefigurazione nella realtà intermedia di quel che vogliamo? Per misurare la distanza tra noi e il PSI, potrei dire che il PSI pratica un leninismo con finalità proudhoniane.

"Però vi sarebbero motivi di crisi più profondi. I radicali sono diventati per l'opinione pubblica il partito del referendum e oggi quest'arma è diventata inutilizzabile, almeno per un paio d'anni."
No. Per noi la situazione ottimale è di provocare la crisi del dato istituzionale del referendum per assuefazione e non per scarsa pratica. Per me lo schema della federazione dei partiti radicali, è quello che pratica con regolarità referendum a tutti i livelli, regionali e nazionali. L'idea, lanciata dal PCI, che il referendum è un fatto eccezionale, sarebbe una stupidaggine se fosse in buona fede, ma non lo è. Invece nella lettera e nello spirito della Costituzione c'è una compenetrazione continua tra democrazia delegata e democrazia diretta. Il parlamento si riunisce tutti i giorni. Perché i referendum non dovrebbero tenersi ogni anno? Certo, oggi, con i nostri militanti e le nostre strutture, un referendum nazionale assorbe tutta la nostra attenzione: perciò ci avviamo verso i referendum regionali.

"Voi siete assenti dal terreno economico oggi, quando la gente è colpita dalla crisi."
Noi chi? Il radicale è davvero una persona diversa per delibera, per prassi, per coscienza e addirittura per statuto. Se hai una concezione laica del partito, se cioè lo deleghi solo su punti approvati a stragrande maggioranza, se sei per la doppia, tripla tessera, come fai ad avere una struttura di delega approfondita? Ci vorrebbe un parlamento permanente di partito. E' impossibile tecnicamente. Invece per noi il partito è uno strumento, ma solo una cruna d'ago, necessaria, uno dei tanti strumenti necessari a un individuo che voglia costruire la società e realizzare se stesso in modo socialista e libertario. Se il partito è più di una cruna d'ago, non siamo più proudhoniani, ma leninisti e cattolici, che vivono in una società chiusa per costruirne un'altra, ma sempre chiusa.
Il pluralismo su cui avete vissuto per due anni è una tematica risaputa dagli anni '50. Noi abbiamo sempre parlato di unità delle sinistre e di alternativa, noi siamo stati ostili alla linea del patto confederale e io parlerei tranquillamente di Triplice, con tutte le accuse di qualunquismo che mi tiro addosso a livello semantico: però lo è. Per me un sindacato o è democratico e di classe, con uno sbocco politico di classe, perciò con un partito cui deve essere federato, anche statutariamente, oppure è un sindacato corporativista. Oggi l'unità sindacale è nella linea Bottai, nella linea del corporativismo e del solidarismo. Con la visione del partito e del sindacato come due volani politici della lotta, non siamo assenti da questo terreno.

"Molti pensano che l'assenza di problematiche economiche dipenda dalla composizione sociale dei radicali, ceti medio-alti."
E' vero il contrario: nel movimento socialista l'afflato umanistico e libertario è venuto sempre dai ceti popolari, mentre l'ottica economicistica è tipica di una certa borghesia intellettuale e classista. Quanto più la gente è arrabbiata, combattiva, fa scioperi, tanto più ha bisogno di un cambiamento totale, mentre l'apparato sindacale e di partito tende a economicizzare le rivendicazioni, a evitare che nella fabbrica si scantoni. Il fatto nuovo è che noi rappresentiamo una cultura socialista popolare, anche col rischio continuo dello sconfinamento messianico. C'è questo rischio, ma noi siamo contro i teorici dell'ingegneria socialista, alla Lombardi.
E poi contesto che noi abbiamo questa struttura sociale. Sono dieci milioni di comunisti che tirano per anni Berlinguer per la giacchetta fino a portarlo al referendum del divorzio, e non il borghese illuminato Berlinguer che con grande fatica tira questi dieci milioni e alla fine gli fa fare il referendum. La direzione del PCI, fino a 42 giorni prima del referendum, ha cercato di impedirlo ad ogni costo. Abbiamo sempre avuto, tra gli elettori, una percentuale comunista superiore allo spaccato elettorale. A Trieste il nostro voto è un voto d'insediamento comunista: ai cantieri Monfalcone abbiamo preso il quintuplo dei voti di DP e del PDUP.

"Oggi però gran parte dell'opinione pubblica italiana sembra esigere legge e ordine, che lo Stato "sorvegli e punisca": alcune vostre rivendicazioni libertarie possono apparire fuori tempo. Questo problema è collegato all'atteggiamento nei vostri confronti dei mass-media che costituiscono gli amplificatori dell'insicurezza collettiva."
Guarda che anche qui, a Trento, in zone di destra, bianche o nere, la gente ci capisce. Invece è la cultura borghese di merda che ha paura. Il sofisticatissimo Barbato è il portavoce di una cultura piccolo-borghese, frustrata e pericolosa: lui presume che la classe, la gente non vale niente, che l'operaio è coglione e gli interessano solo i soldi, che la gente non ragiona, è esasperata e vuole la pena di morte, mentre la pena di morte la vuole Barbato, non la vuole la gente. La Malfa conosce Beccaria e lo rifiuta, mentre la gente non lo conosce, però se le ripeti il ragionamento di Beccaria per cui il deterrente non è l'entità, ma la certezza della pena, lo capisce subito: condannare a un anno ma subito, invece di condannarlo a morte tra vent'anni o forse mai, rende più tranquilli i cittadini.
In base al pregiudizio per cui l'operaio è immaturo politicamente, si censura il messaggio libertario, che è di ordine e di maggiore efficienza, della concretezza, contro l'utopia squallida della soluzione autoritaria e interclassista: trent'anni hanno mostrato che è un'utopia squallida e perdente. Il grado di fascismo nei nostri confronti non c'è stato nel periodo si sono ampliati i titolari del potere dei mass-media, che hanno per ciò stesso una buona coscienza a buon mercato: rappresentando il 96% diventano più feroci con chi sta fuori, come noi, che diventiamo ebrei, omosessuali, rompiscatole. Guarda `La Repubblica', dove Scalfari alleva solo chi è contro di noi.

"Proprio sul tema della società reale, diversa da come se l'immagina il palazzo, e perciò della democrazia conflittuale, il PSI, già presente sul terreno economico da cui siete assenti, tende a occupare uno spazio crescente."
Guarda, io spero sempre che un altro faccia le cose al mio posto, perché ci sono milioni di battaglie per cui lottare e che io piango di non avere il tempo di impostare. E' come l'intimità, più l'esprimi e più si arricchisce e il suo spazio aumenta. C'è una miniera immensa di lotte per i diritti civili. Il rischio non è che il PSI ci tolga spazio, ma semmai il contrario: si fa il casino su Moro, però poi il PSI non fa nulla al livello istituzionale, nel dibattito parlamentare.

"Ma il PSI è stato sempre un vostro interlocutore privilegiato. Tu stesso ti sei iscritto nel '76." 
Credo di essere l'unica persona cui è stata rifiutata la tessera del PSI dal '45 ad oggi. Non è vero che abbiamo avuto un rapporto privilegiato, tranne alcuni mesi con la segreteria di Mancini. Ma la regola effettiva è stata un'estraneità totale: mai ricevuti, mai incontri. Guarda le delegazioni ai congressi. Quest'anno è venuto Accame. Noi vogliamo bene a Falco, davvero, ma i "grandi dirigenti" non vengono. Adelaide Aglietta, segretaria di un partito, ha dovuto supplicare per essere pubblicata dall'Avanti in una lettera. "Mondoperaio" è la prima intervista che mi fa, dopo decenni. Alla settimana dell'alternativa di Firenze hanno invitato tutti tranne noi. Perciò, purtroppo, un rapporto privilegiato non c'è mai stato. Dico purtroppo perché abbiamo sempre ricercato non un privilegio, ma, in prospettiva, la rifondazione del Partito socialista, a partire dal grande ceppo del PSI, certo. Solo che questa rifondazione dovrebbe coinvolgere l'80% dei comunisti, l'80% dei radicali, l'80% dei socialisti. Non è un vero partito socialista se non è assolutamente maggioritario.

"Una SPD o un Labour Party?
Il movimento di classe deve avere due espressioni, una è il partito e l'altra è il sindacato. Non il sindacato che dipende dal partito, ma al limite quasi il contrario.
Per noi l'obiettivo è l'unità della sinistra. Negli accordi elettorali abbiamo detto una volta di votare PSI, una volta PSUP, due volte per la sinistra, una volta abbiamo bruciato le schede e una volta ci siamo candidati. Io dico che ci vuole collaborazione. Dovremmo assolutamente prevedere in caso di elezioni, candidature separate alla camera e uniche al senato. Nel '76 avrebbe dato al PSI, aritmeticamente, 11 senatori in più. Però se dobbiamo chiederci chi ci massacra di più, chi è lo strumento di regime, è la TV e il TG2 più del TG1. E i compagni lo notano. "Il Corriere della Sera", dopo la svolta, ci tratta in un trafiletto di sedicesima pagina. Non lo aveva mai fatto. Tutta quest'area attacca i radicali che lo sentono.


RADICALI O QUALUNQUISTI? Introduzione

di F. Corleone, A. Panebianco, L. Strik Lievers, M. Teodori

SAVELLI editore, ottobre 1978

SOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.

Indice

Introduzione (1375)
PARTE PRIMA

I. "Politica e società" (1376)
Società politica e società civile; L'assimilazione dei partiti; I nuovi fenomeni sociali antagonisti,

II. "Radicali sotto accusa" (1377)
I radicali "piccolo borghesi"; I radicali "qualunquisti"; I radicali "irresponsabili" e "destabilizzatori"; I radicali "tra sinistra e destra"

III. "Il Pr come partito bifronte" (1378)
La rabbia radicale; Il partito delle riforme; Il partito "altro"; Il partito del progetto; I fondamenti ideali del Pr; L'organizzazione politica e le sue contraddizioni

IV. "Radicalismo e socialismo" (1379)
Il radicalfascismo; Radicali e socialisti nella storia d'Italia; I nuovi temi delle battaglie antiche

V. "Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo" (1380)
L'alternativa secondo i radicali; Di fronte alla svolta socialista; Contro i miti onnicomprensivi; Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo

PARTE SECONDA

"Un confronto sulla quesione radicale" (1381 - 1397)
Interventi di Gianni Baget-Bozzo (1381); Giorgio Galli (1382); Francesco Ciafaloni (1383); Domenico Tarizzo (1384); Ernesto Galli della Loggia (1385); Brice Lalonde (1386); Ugoberto Alfassio Grimaldi (1387); Giuseppe Are (1388); Alberto Asor Rosa (1389); Silverio Corvisieri (1390); Ruggero Orfei (1391); Sergio Cotta (1392); Federico Stame (1393); Paolo Ungari (1394); Giuliano Amato (1395); Fabio Mussi (1396); Giulio Savelli (1397)

"La mia fede nel socialismo (di ciò, oso dire, testimonia tutta la mia condotta successiva) è rimasta in me più che mai viva. Nel suo nucleo essenziale essa è tornata a essere quella ch'era quando dapprima mi rivoltai contro il vecchio ordine sociale: una negazione della tradizione e del destino, anche sotto lo pseudonimo di Storia; un'estensione dell'esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell'attività umana; un bisogno di effettiva fraternità; un'affermazione della superiorità della persona umana su tutti i meccanismi economici e sociali che l'opprimono. Col passare degli anni vi si è aggiunto un reverente sentimento verso ciò che nell'uomo incessantemente tende a sorpassarsi ed è alla radice della sua inappagabile inquietudine. Ma non credo di professare in questo modo un socialismo mio particolare. Le "verità pazze" ora ricordate sono più antiche del marxismo. Verso la seconda metà del secolo scorso esse si rifugiarono nel movimento operaio partorito dal capitalismo industriale, e continuano a restarvi una delle sue più tenaci fonti d'ispirazione. Ogni sincero socialista, magari senza rendersene conto, le porta in sé. Ho già ripetute volte espresso il mio parere sui rapporti, nient'affatto rigidi e immutabili, tra il movimento socialista e le teorie del socialismo. Sono gli stessi rapporti che corrono tra le scuole filosofiche e i grandi movimenti storici. Col progredire degli studi le teorie possono deperire ed essere ripudiate, ma il movimento continua. Sarebbe tuttavia errato, con riguardo al vecchio contrasto fra dottrinari ed empirici dell'organizzazione operaia, annoverarmi tra questi ultimi. Non concepisco la politica socialista indissolubilmente legata ad una determinata teoria, però a una fede, sì. Quanto più le "teorie" socialiste pretendono di essere "scientifiche", tanto più esse sono transitorie; ma i "valori" socialisti sono permanenti. La distinzione fra teorie e valori non è ancora abbastanza chiara nelle menti di quelli che riflettono a questi problemi, eppure è fondamentale. Sopra un insieme di teorie si può costituire una scuola e una propaganda; sopra un insieme di valori si può fondare una cultura, una civiltà, un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini."

Ignazio Silone, "Uscita di sicurezza"

INTRODUZIONE

"Il radicalismo è un fenomeno nuovo della politica italiana forse il fenomeno nuovo per eccellenza. E' strano che sia così poco notato". (Gianni Baget-Bozzo, "Argomenti Radicali");

"La questione del radicalismo torna oggi ad occupare un posto importante (...) perché, nella società e nelle idee, posizioni radicali, di nuovo e di vecchio tipo, sono venute diffondendosi". Fabio Mussi, "Rinascita";

"Mentre da varie parti ormai si indica l'egemonia del radicalismo (...), il termine "radicale'' o "radicalsocialista'' viene usato come un'impostazione se non proprio un accusa infamante da diverse parti". (Ruggero Orfei, "Il mensile").

E' uno dei caratteri nuovi del dibattito politico italiano: si scopre che esiste, è sempre esistito, a torto e pericolosamente sottovalutato, un "filone radicale", un fenomeno specifico e importante nella realtà culturale e politica del nostro paese.
Tentando un rapido recupero, ci si interroga sul "radicalismo" e sul "nuovo radicalismo". Su che cosa esso rappresenti come corrente profonda della società italiana, a quali esigenze risponda, perché sia sorto o risorto, dove possa portare. Accanto alla "questione comunista", all'ordine del giorno da quando il Pci ha fatto dal 1975 un balzo in avanti nei risultati elettorali; accanto alla "questione socialista", tornata alla ribalta per la ripresa di aggressività della nuova leadership craxiana e per quello che essa vuole rappresentare; accanto alla "questione cattolica", da sempre al centro della scena politica italiana, c'è oggi anche una "questione radicale", più che mai aperta e, implicitamente ed esplicitamente, nel fuoco dell'attenzione della politica e della cultura politica italiana.

Il fatto è che nel primo quinquennio degli anni Settanta le forze politiche "ufficiali" si sono trovate più volte prese di contropiede e sconfitte o costrette a vincere di controvoglia da questa realtà - il Partito radicale - da loro sempre misconosciuta, ignorata, disprezzata, ritenuta irrilevante e inconsistente (il "cosiddetto partito radicale" scriveva "L'Unità"). Di volta in volta i partiti "veri" si sono trovati a scoprire che i radicali avevano visto giusto, interpretando gli stati d'animo dell'opinione pubblica. E si accorgevano con disagio che, anche attraverso le battaglie di libertà rimosse dalle altre forze della sinistra e del mondo laico, e imposte invece dai radicali, l'opinione pubblica stessa rilevava o assumeva via via orientamenti inequivocabilmente radicali. In quegli anni si era avuta dapprima l'approvazione del divorzio in parlamento nel 1970 e poi il referendum del 1974, entrambi successi del gruppo radicale che aveva imposto e condotto quella campagna insieme a una serie di altre azioni per l'affermazione dei diritti civili.
I radicali come forza politica, seppure di minoranza, e relegati a battaglie ritenute dalle altre forze politiche settoriali, erano ormai divenuti una realtà.

Con il 1976 e l'entrata a Montecitorio di una pattuglia di parlamentari della "rosa nel pugno" e la successiva riuscita nella raccolta di alcuni milioni di firme su un articolato progetto di applicazione costituzionale per via referendaria, benché arrivato alla prova popolare dell'11 giugno 1978 solo con due referendum, si allargava e generalizzava la consapevolezza dell'efficace e significativa presenza radicale. La questione dei "nuovi radicali", che erano riusciti a conseguire vittorie grazie a una presenza politica dinamica, si è così trasformata negli anni e nei mesi più recenti nella questione del "nuovo radicalismo", messa ancor più in evidenza dai sorprendenti (per la classe politica) risultati dei due referendum del '78 in cui le posizioni sostenute dai radicali raccoglievano il consenso, rispettivamente, di un terzo circa (legge "Reale") e di quasi la metà (finanziamento dei partiti) dell'elettorato italiano.

Il primitivo disinteresse verso i radicali e il nuovo radicalismo era stato in parte rotto dalla cronaca politica tra il 1974 e il 1976. In un paese come il nostro in cui si è soliti dedicare grande attenzione ai più piccoli e passeggeri fenomeni politici, è stata soprattutto la forza dei risultati conseguiti all'inizio degli anni Settanta a costringere a prendere atto di questa scomoda presenza. In un primo tempo l'attenzione si è rivolta più alle forme dell'azione radicale, cogliendone le presunte caratteristiche "folcloristiche" o la clamorosità, che non al contenuto politico che i singoli atti, campagne e azioni comportavano. Dei radicali si diceva, salvo eccezioni, che usavano metodi "eccessivi", magari per fini giusti, oppure che la loro azione era meritoria purché rimanesse confinata a problemi "sovrastrutturali", ciò che secondo il gergo marxista significa marginale. Mentre la Politica - quella importante e che conta - riguarda altre cose e non può passare per veicoli che non rispondono alle caratteristiche riconosciute "corrette" e omologate dalle forze egemoni nel sistema politico.

Così, imposta dalle cose, in quegli anni si è avviata una discussione sul fenomeno radicale che però, cogliendone solo un aspetto, finiva per farsi sfuggire gran parte dei suoi caratteri e risultare nel suo insieme sostanzialmente distorcente. Ciò nasceva in gran parte dall'inadeguatezza delle culture politiche dominanti (in primo luogo di quella marxista) a intendere con strumenti idonei questo fenomeno nuovo.
La vicenda radicale, oltre a riallacciarsi alle antiche radici che si rifanno alla tradizione democratica italiana, è segnata anche dall'essere il prodotto del cambiamento della nuova società industriale avanzata e, segnatamente, di quella particolare fisionomia che essa ha assunto in Italia.

I tentativi di interpretazione e di definizione del fenomeno radicale hanno fatto ricorso, quando sono andati al di là degli specifici momenti di lotta, a categorie come quelle di "minoranza borghese", a etichettature come quelle di forza "intellettuale" o "illuministica", evocando caratteristiche che solo la profonda ignoranza dei dati di fatto possono aver fatto risuscitare da un logoro passato. Si sono messe in un unico contenitore, da una parte, le radici dei nuovi radicali con quelle dei vecchi radicali degli anni Cinquanta oppure, dall'altra, secondo un'ottica opposta, si è assimilato genericamente il nuovo radicalismo con il ribellismo contestatore dei movimenti giovanili sessantotteschi e postsessantotteschi ignorando, ad esempio, la profonda attenzione istituzionale e per i meccanismi concreti di riforma che hanno mosso costantemente lungo questi ultimi quindici anni l'ipotesi radicale.

Tutto ciò e altro ancora, è il frutto di pigrizia politica e intellettuale - o peggio ancora di volontà superficialmente liquidatoria - di tanti che hanno l'abitudine di argomentare saccheggiando l'arsenale delle "idées reçues" e degli schermi buoni per tutti gli usi, soprattutto allorché si tratta di contribuire ad affossare posizioni e iniziative politiche che sono scomode e con le quali non si vogliono fare i conti. Così si trova ad esempio chi sostiene che i nuovi radicali sono una specie di qualunquisti che hanno fatto il '68 (Mussi, vedi parte seconda); mentre altri prende per buoni i punti di riferimento del radicalismo ottocentesco di Cavallotti per capire il nuovo radicalismo pur con l'uso di una articolata cultura politica marxista, dando prova di scarsa o nulla conoscenza dei dati empirici (Asor Rosa, vedi parte seconda). E non serve certo a cambiare questo quadro generalizzabile la brillante eccezione di Baget-Bozzo (non per nulla proveniente da una formazione politicamente non tradizionale) che ha tentato, da suo punto di vista non laico, di intendere le intenzioni e le azioni del radicalismo politico d'oggi quali una risposta all'emergere di una "società radicale" contraddistinta da spinte collettive profondamente mutate rispetto a quelle predominanti nei passati decenni.

Se tale era la situazione ancora qualche tempo fa, ormai tuttavia si è aperto un dibattito di interpretazione che va al di là della pura contingenza. Si sono avuti in questo senso contributi e interventi sia da parte radicale sia da altri versanti.

Alla scarsa elaborazione teorica scritta che ha contraddistinto la vita del gruppo nel suo operare, per iniziativa radicale hanno cominciato a manifestarsi tentativi di rendere espliciti i dati fondanti della sua politica, cosa che aiuta anche l'osservatore, l'interlocutore o il contraddittore più disattento a uscire dalla genericità. Da quasi due anni viene pubblicato il bimestrale "Argomenti radicali"; nel 1977 con il volume "I nuovi radicali", opera di alcuni di noi che oggi presentiamo queste note, si è tentato di offrire il primo contributo sistematico di analisi storica e sociologica del Partito radicale e del suo ruolo nella vita politica italiana dell'ultimo ventennio. Nel maggio 1978 si è tenuto un convegno di studio, il primo ufficialmente dedicato dal partito alla riflessione sul suo modo di essere.

Va inoltre apparendo più di un segno di un dibattito - anche se animato nella maggior parte dei casi da intenzioni polemiche - che deve fare i conti con la natura della politica radicale e delle basi su cui essa poggia. "L'Unità" e "Rinascita", "L'Avanti" e "Mondoperaio", solo per restare agli organi ufficiale della sinistra tradizionale, non hanno potuto fare a meno negli ultimi tempi di interrogarsi sul nuovo radicalismo confrontandosi non solo con le azioni radicali ma anche con ciò che esse più in generale significano e comportano. A Berlinguer, che a più riprese ufficialmente si è espresso (nel congresso del 1976 e in successivi comitati centrali) contro le "spinte libertarie" "esasperate" e "disgregatrici" da battere nella sinistra, quest'anno ha fatto eco Craxi che, nella replica dell'ultimo congresso del Psi, ha sostenuto che i socialisti devono far propri i movimenti e le lotte per i diritti civili: "i compagni del Partito radicale non possono pensare che per molto tempo ancora noi accetteremo una sorta di loro rivendicazione monopolistica delle grandi battaglie che portano la firma dei parlamentari socialisti in materia di aborto e di diritti civili. Noi riprenderemo con forza la nostra azione nel campo dei diritti civili, delle buone cause in difesa dei diritti dell'uomo e dell'ambiente (...)": un ottimo proposito, anche se tutto da verificare, che tuttavia rivela il peso che hanno le idee-forza incarnate dai radicali nella sinistra non leninista e non centralista.

E non sono solo gli interventi dei politici e le loro legittime polemiche che danno corpo al dibattito in corso, ma anche le tendenze di fondo nella società e le loro espressioni politiche: la riluttanza di una parte sempre più larga del paese ad accettare la mediazione partitica totalizzante espressa dai partiti tradizionali, rivelatasi dapprima nelle ultime elezioni amministrative parziali e poi nei referendum dell'11 giugno e nelle elezioni delle regioni di frontiera; i crescenti segni di malessere nei confronti dell'attuarsi di forme di democrazia "consociata" (come definita da alcuni intellettuali socialisti) o "organizzata" (secondo la definizione dei comunisti); e l'apparente distacco dalla politica che ha dato lo spunto al dibattito sul qualunquismo.

Dunque, la questione del "nuovo radicalismo" è sul tappeto. Al di là dei radicali, al di là della leadership rappresentata in gran parte da Marco Pannella, al di là di questo o quell'episodio di lotta politica, i partiti, le tradizioni politiche, le analisi delle tendenze della società e le risposte dei gruppi dirigenti cominciano a dover fare i conti - e probabilmente dovranno sempre più farli - con una diversa cultura politica. Apparso sulla scena del paese con forme "vissute" o "simboliche", ben diverse da quelle attraverso cui si riconoscono e si legittimano i dibattiti di cultura politica, il nuovo radicalismo comincia oggi a essere riconosciuto come una delle importanti tendenze del nostro tempo.

Questo libro si compone di due sezioni: un nostro saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo, e una raccolta di interventi di non radicali da cui il saggio prende le mosse. La seconda sezione in cui sono raccolti gli scritti di Gianni Baget-Bozzo, Giorgio Galli, Francesco Ciafaloni, Domenico Tarizzo, Ernesto Galli della Loggia, Brice Lalonde, Ugoberto Alfassio Grimaldi, Giuseppe Are, Alberto Asor Rosa, Silverio Corvisieri, Ruggero Orfei, Sergio Cotta, Federico Stame, Paolo Ungari, Giuliano Amato, Fabio Mussi e Giulio Savelli, non costituisce appendice ma parte integrante del libro-intervento giacché sono proprio gli scritti dei nostri interlocutori, scelti a campione del più vasto dibattito, ad averci fornito la base della lunga discussione idealmente intrecciata tra noi e gli intellettuali e i politici che si sono espressi sulla questione radicale.

Gran parte degli interventi sono stati pubblica in "Argomenti radicali" dall'aprile 1977 in poi nella sezione "la pagina polemica" appositamente approntata per alimentare il dialogo da noi ritenuto necessario nell'interesse della sinistra e della chiarezza delle sue varie, se pur contrastanti, posizioni. Gli scritti di Corvisieri, Orfei, Amato, Mussi e Savelli, sono ripresi da altre pubblicazioni in cui sono apparsi in seguito a qualche spunto della cronaca politica, segno appunto di quell'attualità della questione che abbiamo messo in risalto.

Con il nostro saggio e il dialogo che esso intrattiene, attraverso gli interlocutori della seconda parte, con il mondo politico e culturale, intendiamo offrire un intervento di parte radicale che si confronti direttamente con il dibattito in corso. Esso è il frutto di una discussione tra i quattro autori che, impegnati direttamente se pur in gradi diversi nell'esperienza politica radicale, sono anche ingaggiati nel tentativo di rendere esplicite le ragioni profonde e la direzione di marcia dell'esperienza stessa.

Come ogni lavoro a più mani, è superfluo sottolineare che non tutto il saggio - con le sue analisi, le valutazioni e le indicazioni - è fin nei dettagli totalmente condiviso dai quattro autori i quali, ovviamente, sono congiuntamente responsabili delle linee generali di impostazione. Del resto le stesse formazioni culturali e scientifiche, che per alcuni si affiancano alla comune milizia politica, avrebbero dato luogo a modi diversi di trattazione se il libro fosse stato un prodotto singolo e non collettivo.

Pertanto le note che seguono vogliono essere un primo tentativo di riflessione organica e di interpretazione del nuovo radicalismo italiano (dopo la riflessione storica e sociologica del volume "I nuovi radicali") in occasione dell'intensificarsi, insieme ai segni di interesse, dei tentativi di classificazione liquidatoria all'insegna di un preteso nuovo qualunquismo.

Di qui il titolo del volume "Radicali o qualunquisti?" che deliberatamente accetta la sfida la quale, già positivamente affrontata da parte radicale sul terreno dei risultati concreti, viene ora da noi rilanciata sul terreno della cultura politica.

Internazionalisti

Marco Pannella Il Giorno - Novembre 1978

SOMMARIO: In questo articolo Marco Pannella rivendica al Partito radicale la sua natura di partito, per ora, di prevalente lingua italiana ma non di partito italiano. Per essere internazionalisti infatti bisogna essere prima di tutto strutturalmente transnazionali e nel Pr già si sono costituite realtà associative radicali in molti paesi europei. L'elezione di Jean Fabre, cittadino francese, a segretario del Pr, è ancora una volta l'occasione per sollevare questioni di diritto e per mettere in discussione la natura dei partiti "nazionalizzati" italiani.
(da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980", editrice Gammalibri, gennaio 1982)

Se i "mass media" facessero tutti il loro mestiere di informatori invece che quello di censurare e disinformare, si saprebbe che il Partito radicale è un partito di lingua italiana (almeno per ora e a livello centrale), ma non un partito "interno" allo Stato nazionale italiano; e che vi sono già strutture radicali, organizzate nel PR, belghe, francesi, catalane, oltre a militanti di molte altre anagrafi statali.
Ed essere internazionalisti - infatti - senza essere anche strutturalmente internazionali o transnazionali mi pare difficile: lo dimostrano ampiamente i partiti comunisti e quelli socialisti, il cui internazionalismo si riduce ormai all'internazionalità dei rapporti personali dei loro dirigenti e degli interessi finanziari e diplomatici dei loro vertici, leninisti o proudhoniani che siano; nel quadro di una sorta di politica di potenza partitica senz'anima e senza prospettiva ideale e storica.

Jean Fabre, il nostro nuovo segretario generale, per la sua vicenda personale e collettiva (sono ormai molti anni che lottiamo insieme), per le sue idee e capacità, per essere di fatto uno dei principali animatori europei dell'antimilitarismo internazionalista, socialista libertario e nonviolento, costituirà un naturale punto di organizzazione, espansione e sincronizzazione per le lotte pacifiste e antimilitariste contro il nucleare militare e civile, contro i terrorismi di Stato e "privati", contro lo strapotere delle multinazionali, contro la Nato e il Patto di Varsavia, per la ripresa di grandi lotte socialiste e cristiane, per la conversione di tutte le strutture di edificazione e difesa civile, popolare e nonviolenta.
L'elezione di Jean Fabre è la risposta, casuale solo nel tempo, che il Partito radicale ha ieri dato all'annuncio della giusta sconfitta del socialdemocratico Kreisky sul terreno della nuclearizzazione dell'energia e quindi all'intera società austriaca; è una risposta anche alle "grandi operazioni brandtiane" dell'internazionale socialista, del PSI e del suo segretario.
Eleggendo a segretari nazionali, negli anni scorsi, il poco più che ventenne Roberto Cicciomessere e Giulio Ercolessi, il Partito radicale aveva già dissacrato un modello obbligato di "dignità" partitica tradizionale; con Adelaide Aglietta elesse la prima donna segretario generale, oltre a porre a capolista di tutta Italia nel 1976 solo donne, e la conseguente costituzione di una rappresentanza parlamentare per metà femminile. Poi, oggi, il primo "straniero" eletto segretario di un partito che lo Stato pretende di aver "nazionalizzato" (come tutti gli altri) sembra oltre tutto porre in essere delicati problemi istituzionali. Certo con i finanziamenti pubblici degli apparati e dei giornali, con l'esproprio dei diritti del Parlamento a favore del Gran Consiglio dei signori segretari dei partiti di regime, il problema esiste. Per noi sul piano costituzionale non vi è nessun dubbio che lo stato nazionale dovrà, volente o nolente, riconoscere la pienezza dei diritti e doveri che il nostro statuto riconosce e conferisce a Jean Fabre come a ogni altro militante del PR, senza discriminazione ideologica, etnica, religiosa, di razza, di sesso, di età.

Certo Jean Fabre può - per di più - essere arrestato da un momento all'altro, magari dall'Interpol. Ma in questo nulla di nuovo: non si dimentichi infatti che già Adele Faccio, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia, decine di altri radicali e io stesso siamo tutti dei detenuti messi in libertà provvisoria, e che il deputato supplente (fra poco effettivo) Roberto Cicciomessere è anch'egli un avanzo delle galere militari della Repubblica.
Come è noto, sul piano dei diritti civili non è facile ignorare le idee e gli obiettivi del Partito radicale. Insomma: c'è un vescovo di Roma, cui il Concordato conferisce non solo diritti di cittadino ma privilegi di pubblico ufficiale italiano, che è di anagrafe polacca; c'è ora anche un segretario generale di partito rappresentato in Parlamento che è di anagrafe francese; si deve prendere così atto di una transnazionalità chiericale-cattolica, e di una socialista libertaria, pacifista e nonviolenta. Ci sembrano due ottime cose.
Speriamo anzi che venga il giorno in cui potremo avere a Roma un Presidente della Repubblica d'anagrafe e lingua sudtirolese, a condizione che egli si situi nella scia dei Cesare Battisti, dei Gustav Heinemann, dei Sandro Pertini, e non quella dei De Gasperi, Magnago e Piccoli.

Come vogliamo cambiare il PR

Gianfranco Spadaccia LOTTA CONTINUA, 8 novembre 1978

Intervista con Gianfranco Spadaccia dopo il congresso di Bari

Il Partito Radicale ha tenuto nei giorni scorsi a Bari il suo XX congresso, conclusosi con l'elezione ci un segretario "straniero": Jean Fabre, il quale è stato affiancato da una segreteria con 16 dirigenti "storici" del partito. Sul bilancio del congresso, sui programmi del PR, sui suoi rapporti con la nuova sinistra, riteniamo utile pubblicare il parere di Gianfranco Spadaccia.

L.C. - Quali ritieni essere le forme più efficaci dell'opposizione oggi in Italia? Quelle "sociali" o quelle "istituzionali"?
Spadaccia - Le une o le altre. Dipende da come si fanno e, per le prime, avendo la preoccupazione di trovare uno sbocco politico e istituzionale: preoccuparsi cioè di farle entrare in rapporto e in conflitto con il diritto, con i dati di potere e con le istituzioni, facendo leva sulle loro contraddizioni per sconvolgerle, trasformarle, rovesciarne la logica di classe.

Sembra che intendiate impegnarci sempre più su battaglie di tipo "sociale" contro il "nucleare" ad esempio. Che modifiche implica ciò nella vostra stessa organizzazione?
Qualcuno ha scritto che, sconfitti sul piano nazionale, ci preparavamo a ritirarci nelle regioni. E' una ben strana sconfitta quella che avemmo subito l'11 di giugno se ha prodotto la caduta di un presidente della Repubblica, l'elezione di Pertini, l'allarme di tutte le forze politiche e se ha rivelato lo scollamento dei partiti di regime e il loro elettorato. Tanto poco ci sentivamo e ci sentiamo sconfitti che ci siamo presentati al congresso ponendoci l'obiettivo delle elezioni europee come mobilitazione eccezionale del partito e siamo, in questa prospettiva, usciti dal congresso con la segreteria del compagno Fabre che, dalle prime reazioni, ha già mostrato, le possibilità d'intervento e di iniziativa sul piano italiano e internazionale e le contraddizioni che può suscitare ed aprire.
E' esattamente il contrario, dunque: è il moltiplicare le nostre iniziative e i luoghi dello scontro, insediando le lotte radicali ed alternative anche in dimensioni territoriali diverse da quella nazionale: nelle periferie urbane e nelle metropoli industriali come nelle metropoli disgregate delle regioni "depresse". Moltiplicare i referendum, attivando gli istituti della democrazia diretta regionale (referendum regionali e progetti di iniziativa popolare), moltiplicare le lotte per i diritti civili e farsi carico ormai direttamente dei problemi economici e sociali con le lotte contro il nucleare civile e militare (pensate a Trieste gli effetti che ha avuto la lotta per la difesa del Carso, pensate al referendum austriaco), e per conquistare condizioni più umane di vita e di lavoro contro la logica distruttiva di questo sistema produttivo e di questa meccanica dello sviluppo (distruttrice di ricchezza, distruttrice dell'ambiente e della vita concreta e quotidiana di masse sempre più vaste e consistenti di persone). Portare queste lotte nelle regioni e nel territorio, ma riconquistare ad esse anche la dimensione internazionale e internazionalista.

Nella scelta di un segretario francese, oltre a un giudizio evidentemente positivo sulle sue capacità, traspare anche l'intenzione di lanciare in grande "l'ipotesi europea" del PR. Che intenzioni avete, di qui alle elezioni europee di primavera?
Le elezioni europee, come ogni elezione, possono essere micidiali per una forza alternativa se vengono viste come una scadenza "obbligata" cui si "deve" partecipare. Possono essere invece un moltiplicatore della forza alternativa di un partito e di un movimento se vengono colte come una occasione per rafforzare le proprie caratteristiche internazionaliste e quindi per conquistare anche gli strumenti organizzativi e di lotta internazionali e trans-nazionali senza i quali l'internazionalismo o è soltanto una vuota affermazione ideologica e solidaristica o è politica diplomatica di vertice e di potenza. Questo è dunque il nostro primo compito. Le elezioni sono un momento collegato e successivo. Questo è il contributo che può darci Jean Fabre, un militante nonviolento, obiettore di coscienza, su cui pende un mandato di cattura dei tribunali militari francesi e che ha sperimentato in Francia, in Belgio, in altri paesi le tecniche della disubbidienza civile: guidare il partito potenziando le nostre lotte internazionaliste, antimilitariste, antinucleari di rivoluzionari nonviolenti.

Non hai l'impressione che la base del PR sia la più "turbolenta", ma in ultima analisi anche la più subalterna al fascino e al ruolo del suo gruppo dirigente?
La verità è che da noi il gruppo dirigente si modifica, si allarga e si trasforma durante il lavoro di un anno e trova poi sanzione quasi visiva in congresso con processo palese, per lo più in nulla preordinato e quindi che può risultare talora drammatico perché sotto il fuoco di un momento collettivo. Ma è anche vero che esiste un patrimonio di un gruppo che lavora da molti anni, anzi per alcuni da molti decenni, che ha costruito anno dopo anno (fin dalla fine degli anni '50) il nuovo PR: un patrimonio di esperienze, di lotte e di capacità che non può essere cancellato con un colpo di spugna, e che finisce quindi giustamente per pesare sulle soluzioni. In questo senso se non si vuol fare della facile retorica della base, bisogna guardare alle trasformazioni dei ruoli ed alla modifica delle composizioni delle responsabilità tra i diversi compagni che hanno operato in un anno piuttosto che a mitiche contrapposizioni tra "dirigenti" e "diretti" che non hanno senso in un organismo di poche migliaia di persone.E che ha il suo campo d'azione non nel partito ma nella società. Da noi ogni congresso è come l'ultimo, bellissimo, che ha avuto "Lotta Continua" organizzata, a Rimini. Solo che ne abbiamo uno l'anno. Gli scontri - anche quelli su e contro il "gruppo dirigente" - avvengono con durezza e senza mediazioni. E cambiano, ad ogni congresso, il partito, lo trasformano, e cambiano e trasformano il cosiddetto gruppo dirigente. Ogni anno ogni segretario era considerato un'"invenzione". E' stato così per i ventenni Cicciomessere ed Ercolessi, per la "donna" segretario Adelaide Aglietta, per le deputate Adele Faccio ed Emma Bonino. In realtà non erano invenzioni, era uno sconvolgere i ruoli, dissacrare lo stereotipo delle "cariche", sperimentare le responsabilità. Sarà così, è così anche per Jean Fabre. Queste "invenzioni" diventano capacità militanti, patrimonio personale di ognuno e collettivo di tutti. E tutti noi ne impariamo a non cristallizzarci, a non rientrare nei ritmi e nelle abitudini usuali dell'impegno politico, cioè nei ruoli.

Circola una voce maligna: che con il suo ultimo congresso quello che si definisce il partito libertario per eccellenza abbia accentuato una posizione "dittatoriale" della sua direzione (e di Marco Pannella in particolare).
Marco Pannella esiste e sarebbe stupido fingere di ignorarlo. E' il discorso del cosiddetto "carisma". La parola, usata sapientemente dagli avversari, finisce per dare al problema connotazioni quasi magiche, non razionali. La razionalità organizzata dei libertari come non deve condizionare, comprimere, schiacciare le "diversità" dei suoi militanti così come non deve comprimere o temere la loro forza della loro personalità soprattutto quando è il prodotto di una straordinaria e coerente esperienza, personale e politica, di vita e di lotta e di uno sforzo collettivo che durano oltre vent'anni.
In misura diversa questo vale per tutti gli altri compagni che hanno una lunga continuità di iniziative e di lotta. Come impedire che questa esperienza si trasformi in "dittatura"? Attraverso la distinzione delle responsabilità e la loro precisa individuazione, senza infingimenti collettivistici, collegiali, assemblearistici: non nascondendo quindi nel collettivo queste responsabilità ma portandole direttamente in primo piano.
Facciamo il paragone con Sofri: il suo "carisma" (perché infatti usare questo criterio solo per Pannella?) era utilizzato all'interno di una struttura collettiva (la segreteria collegiale) e rivolto tutto all'interno del movimento. Quello di Marco si è sempre rivolto all'esterno nella lotta politica. Certo, è impensabile che non abbia influenze importanti di riflesso anche all'interno, dirette o indirette. Ma queste come quelle degli altri compagni hanno un metro di misura, esplicito, nei fatti nei comportamenti, e nei risultati.
Quanto alla soluzione adottata dal congresso, da due anni abbiamo sperimentato la netta separazione dei due soggetti radicali (partito e gruppo parlamentare) nelle reciproche sfere di responsabilità, il primo impegnato nella lotta politica nel paese, il secondo nel lavoro legislativo. Ma quando entrambi i soggetti sono impegnati nei referendum o nelle elezioni, ieri a Trieste, oggi a Trento e Bolzano, domani alle europee o alle politiche anticipate, occorre creare evidentemente un momento di coordinamento, di dibattito, di confronto, non soltanto informale. Lo abbiamo trovato in un organismo consultivo, che non ha poteri né deliberativi né formali, il cui scopo è anche di assicurare al segretario il confronto con quanti hanno avuto in precedenza responsabilità dirette nel partito. Non è un direttorio. E' un momento di confronto.

Al congresso di Bologna avevamo notato una notevolissima coincidenza - anche fisica - tra i militanti radicali e i lettori e i compagni che fanno riferimento al nostro giornale. Secondo te fin dove arriva questa coincidenza, e dove iniziano le differenziazioni (non tanto politiche, ma anche di aree sociali e culturali)?
Questo è vero per la generazione più giovane (e anche più militante) del PR. La differenza comincia quando si esce da questa generazione. Le assemblee radicali sono sempre molto più promiscue (donne e uomini, giovani e anziani): per sesso ed età dunque, ma anche per quando riguarda le classi sociali, ed anche le aree politico-culturali. I dati teorici e di prassi che ci sono comuni (nonviolenza, laicismo, libertarismo, libero amore, pacifismo, anticlericalismo, antimilitarismo) sono conquistati da gente di provenienza culturale, fede, orientamento ideologico almeno inizialmente diverso. E' la caratteristica di un partito laico e nonviolento (non ideologico): il modo laico di stare assieme per raggiungere specifici obiettivi di lotta. Una delle differenze è, credo, nel fatto che non siamo nati nel '68. Il '68 non ci ha dato dei frammenti del suo movimento, ma ci ha dato come risultato la liberazione di energie sociali provenienti da ogni strato della società, e che oggi ritroviamo anche nel partito.

In che cosa vi ha cambiato il rapporto con Lotta Continua?
In passato dandoci la possibilità di mettere a confronto diretto due scelte radicalmente diverse, nella prassi di lotta e nella organizzazione. La lotta per i referendum, l'esperienza in Parlamento, la lettura del quotidiano ci trasformano come ci si trasforma sempre a contatto con realtà ed esperienze "diverse". Ne son nati rapporti, anche personali ovunque sempre più diffusi, una conoscenza più diretta senza la quale le trasformazioni reali non sono possibili. Entrambi siamo alle prese con i problema della nonviolenza e della sua prassi alternativa di fronte all'esplosione della violenza di regime e alla violenza del partito armato: voi ancora come vostra contraddizione (e quindi non necessariamente nel senso negativo del termine); noi per non essere riusciti ancora a dare, se non eccezionalmente, a questa prassi nonviolenta dimensioni nuove e di massa.

In Trentino Alto Adige i compagni radicali e di Lotta Continua, insieme a moltissime "realtà di base", hanno dato vita alla lista elettorale di "Nuova Sinistra". Nella campagna elettorale sembrerebbe che voi diate per assodata una "divisione dei comitati": a voi i grandi comizi e la campagna d'"opinione", agli altri il lavoro di base...
In nessun campo, e neppure in questo, credo alle divisioni dei compiti e ai "ruoli": noi gli operatori del "politico", voi quello del "sociale", noi gli animatori delle campagne d'opinione, voi i protagonisti delle esperienze di base. Queste classificazioni usate da sociologi e da politologi sono spesso schematiche e superficiali: usate da movimenti di lotta e da organizzazioni politiche sono suicide o servono solo ad autolimitarsi. Non ho esperienza diretta della campagna della lista di "Nuova Sinistra" se non limitata a due soli giorni. Ma perso che in una campagna elettorale il problema è quello di riuscire a parlare a tutti, ad assicurare a tutti la conoscenza della lista e dei suoi programmi, della sua volontà alternativa.
E' questo il motivo del nostro sostegno alla lista, come partito, partiti regionali e gruppo parlamentare. E non credo che i miei compagni si limitino a parlare per radio o nei comizi, e rifiutino invece di andare nelle assemblee di fabbrica o di scuola. Una forza è rivoluzionaria quando riesce a suscitare e a far esplodere contraddizioni in ogni settore della società, anche il più lontano. C'è invece nei compagni di "Lotta Continua" ancora una sorta di complesso di inferiorità, un residuo di mentalità gruppettara nonostante il dissolvimento del "gruppo", una tendenza a chiudersi nel movimento invece di rivolgersi all'esterno nella lotta politica contro il regime, contro l'avversario di classe, contro le strategie perdenti della sinistra storica, creatrici di disfatte per la classe.