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Cronologia del Partito Radicale -
1979

DOCUMENTI (maggio/dicembre)
Un voto internazionalista, pacifista, ecologista di Jean Fabre NR75, 18 maggio 1979
La mozione del Consiglio Federativo NR76, 15 luglio 1979
"E noi cialtroni andiamo in Parlamento per fare un po' d'ordine" Intervista di Giampaolo Pansa a Marco Pannella LA REPUBBLICA, 8 giugno 1979
La sinistra non segna l'ora giusta Intervista a Leonardo Sciascia di Mimmo Candito 'La Stampa' 14 giugno 1979
DOPO TANTE BATTAGLIE PER LA VITA HANNO SCELTO LA MORTE INSIEME di Angiolo Bandinelli LOTTA CONTINUA, 17 luglio 1979
Area e Partito radicale di Angiolo Bandinelli "Rinascita" 3 agosto 1979
SCELTE DI FONDO PER LA SINISTRA di Jean Fabre AR12/13 aprile 1979
Anche Pannella è un compagno, però... di Umberto Eco "L'Espresso" 5 agosto 1979
Disunitevi e disorganizzatevi di Danilo Granchi "Il Giornale" 14 novembre 1979
MA IO GLI VOGLIO SEMPRE BENE di Sergio Saviane L'ESPRESSO 18 novembre 1979

Un voto internazionalista, pacifista, ecologista

di Jean Fabre NR75, 18 maggio 1979

Il 10 giugno si terranno le prime elezioni dirette al parlamento europeo. Se per molti si tratterà di un primo appuntamento con l'Europa, per noi invece si tratterà di ampliare le iniziative intraprese negli ultimi anni sui marciapiedi di diversi paesi europei, e di fare contemporaneamente del gruppo parlamentare europeo un punto di riferimento per la forze alternative emergenti in tutta Europa. Siamo sulla soglia di una nuova sfida che dobbiamo, da radicali, affrontare con umiltà e decisione. All'eurocomunismo e all'eurosocialismo, ormai bandiere vuote di contenuto e soprattutto di prospettiva, dobbiamo contrapporre con i fatti, con le lotte concrete, con la disobbedienza civile, con la democrazia diretta, con la non violenza, un'eurosocialismo radicato nei contenuti, nei metodi, nell'esperienza del partito radicale. L'Europa degli emarginati, degli sfruttati, delle minoranze e dei marginalizzati ne ha un urgente bisogno.

E ciò perché siamo di fronte ad una fallimento delle sinistre in Europa, e ancor peggio ad uno slittamento a destra dei partiti di sinistra ammucchiati in un socialdemocrazia la cui politica non si contrappone sostanzialmente nei fatti alla gestione della Democrazia Cristiana europea e dei suoi equivalenti.

All'inizio del secolo, con lo sviluppo della società industriale e dello sfruttamento che ne risultava, la sinistra era profondamente internazionalista, e individuava negli eserciti il "nemico di classe". Oggi la sinistra nella maggior parte dell'Europa è diventata militarista, tutt'al più professa un'internazionalismo solo verbale. Questi cambiamenti sono accaduti proprio allorché si sono organizzate e estese le multinazionali che dominano tutta l'economia mondiale, le alleanze militari internazionali che condizionano il quadro politico e hanno anch'esse un'incidenza enorme sull'economia, e quando siano ormai tutti legati nello stesso quadro ecologico.

Ovunque, mentre l'Onu annunzia che questa nostra società ucciderà quest'anno per fame e denutrizione 17 milioni di bambini, le sinistre votano i bilanci militari. Quella francese, che ha peraltro sposato la scelta nucleare militare, ha chiesto e ottenuto il raddoppio nel giro di cinque anni delle spese militari. La sinistra tedesca inventa, vota, organizza il Berufverbote con il quale centinaia di persone hanno perso il loro lavoro per il solo reato di avere determinate convinzioni politiche. La medesima sinistra manda poliziotti armati e cani addestrati contro le popolazioni civili che si oppongono alla costruzione di centrali nucleari. La sinistra inglese gioca sui sentimenti nazionalisti più arretrati per limitare la perdita del suo elettorato.

E' con queste sinistre che sono allineati il PSI e il PCI. Il PCI si accinge a realizzare un compromesso internazionale con gli Schmith e tutta la socialdemocrazia europea. Delle sinistre che non esercitano più il loro ruolo di cambiamento radicale, che sono logorate, invecchiate, fossilizzate. In altre parole delle sinistre che, assieme alle forze del conservatorismo e degli interessi privati, portano la responsabilità della nascita e dello sviluppo del cosiddetto teppismo degli autonomi, del terrorismo rosso, della esasperazione sociale. Fino a che le sinistre rimarranno tali, avremo bisogno di uno, cinque, dieci partiti regionali radicali in tutta Europa per gettare le basi della grande forza socialista europea capace di creare un'autentica alternativa di sinistra.
Non è un caso che i movimenti antimilitaristi, antinucleari, ecologisti, femministi, libertari nonviolenti di tutta Europa seguono con interesse l'esperienza radicale in Italia. Non è un caso che il partito radicale si è dato uno statuto che non richiede una cittadinanza particolare per l'iscrizione e che non limita la sua azione all'interno delle frontiere di un paese.
Oggi proponiamo sul piano europeo lo statuto radicale come alternativa da partire dalla quale possono articolarsi e vincolarsi in piena autonomia le forze emergenti portatrici di proposte nuove che devono essere capaci di trovare uno sbocco politico sociale e istituzionale.

Non vogliamo andare al parlamento europeo con degli slogan. Ci dobbiamo andare con delle lotte da portare avanti. Come con il divorzio, l'obiezione di coscienza; l'aborto, la lotta sulla droga, il finanziamento pubblico, il diritto all'informazione, abbiamo inciso fortemente sulla vita politica dell'Italia, ci proponiamo di caratterizzare l'Europa dei prossimi anni.

Ai compagni comunisti e socialisti che in Italia hanno codificato, limitato, imprigionato e snaturato l'aborto, annunciamo che riprendiamo la lotta per la depenalizzazione conducendola in tutta Europa. Per noi radicali, il diritto della donna a decidere da sé, come e quando assumere la maternità non deve avere frontiere e va conquistato in tutti i paesi. Terremo già in autunno un primo convegno di lotta su questo tema a Bruxelles, in un paese caratterizzato da una delle leggi più repressive dell'intera comunità europea. Ci impegniamo a sradicare in tutta Europa i tribunali militari. Ci batteremo ovunque per i diritti civili, contro i Berufsverbote, contro l'Europa dei cittadini schedati, opponendoci con la lotta nonviolenta a tutte le leggi repressive simili al codice Rocco o alla Legge Reale. Riprenderemo per gestirla sul piano europeo la lotta per il disarmo e per sconfiggere la morte per fame ogni anno nel mondo di un numero di persone equivalente all'intera popolazione dell'Italia, contribuiremo alla lotta per un'autentica liberazione sessuale come lo facciamo da anni nel nostro paese.

Dobbiamo creare un'Europa democratica e ecologica, opponendoci alla scelta nucleare civile militare. Dobbiamo bloccare gli investimenti nelle centrali nucleari e riuscire a farli trasferire per la ricerca di fonti alternative di energia. Sapendo che la crescita industriale com'è concepita oggi implica lo spreco di risorse sempre più scarse, la distruzione dei sistemi naturali, l'inquinamento dell'ambiente, il logoramento delle relazioni umane, lo schiacciamento del terzo mondo, non possiamo sfuggire alla nostra responsabilità, e abbiamo perciò il dovere di impegnarci per un cambiamento che non può realizzarsi in un solo paese ma richiede un'azione su scala europea.

Il parlamento europeo non può limitarsi a dibattere se l'Europa dovrà costruire 100 invece di 60 centrali nucleari, se 3 milioni di contadini dovranno abbandonare la terra invece di 1 milione.
Deve rimettere in questione le scelte fondamentali, quella energetica, del disarmo, della liberazione dall'oppressione delle burocrazie, dei rapporti con il resto del mondo.
Il parlamento europeo non può essere l'unico luogo dove saremo impegnati. Ci ritroveremo sulle piazze e sui marciapiedi belgi, tedeschi, francesi o olandesi, come l'abbiamo fatto nel '76 con la marcia antimilitarista internazionale a Verdun, con lo sciopero della sete di Marco Pannella a Madrid nel '77 per il riconoscimento nella costituzione spagnola del diritto alla obiezione di coscienza, come continueremo quest'estate con una manifestazione per il disarmo da Bruxelles (sede della NATO) a Varsavia (sede del patto di Varsavia).
La migliore garanzia che possiamo dare su quello che potremo fare in Europa risiede in quello che abbiamo fatto fino ad ora in Italia.
Per noi la vita è politica. In politica sono i fatti che contano, in Europa come in Italia. Non si può far fiducia ai partiti che hanno fatto e continuano a fare il gioco della DC. Oggi per cambiare l'Europa bisogna cambiare voto, come il referendum per il finanziamento pubblico dei partiti senza il quale Leone sarebbe ancora presidente.
Esiste un solo voto internazionalista, ecologista, di opposizione: quello del partito dei referendum, della nonviolenza. Il voto radicale.


La mozione del Consiglio Federativo

NR76, 15 luglio 1979

Il Consiglio Federativo riunito a Roma il 30 giugno e il 1 luglio 1979:

RIVOLGE un particolare ringraziamento al milione e trecento elettori che il 3-4 e 10 giugno scorsi hanno dato il proprio voto alla lista radicale nonostante la campagna di linciaggio e di diffamazione messa in atto contro il Partito Radicale da tutte le forze politiche in particolare dal PCI.

ESPRIME il proprio augurio alle compagne e ai compagni impegnati con la loro militanza nelle istituzioni parlamentari, in un compito arduo e faticoso che sicuramente saprà corrispondere alle aspettative consolidatesi numerose prima, durante e dopo la campagna elettorale intorno ai radicali.

RITIENE l'attuale quadro politico ancora profondamente legato ad una politica di accordi compromissori che tutte le forze ricercano come sbocco risolutivo della crisi che il paese attraversa e CONFERMA il giudizio negativo e contrario a questo tipo di politica che pure la sinistra storica continua a perseguire nel tentativo vano di ritenere condizionabile la democrazia cristiana attraverso un meccanismo di cogestione.

AFFERMA come la convergenza DC-PCI abbia accentuato la corporativizzazione di ogni area sociale, culturale, istituzionale ed economica da parte del regime dei partiti e abbia definitivamente reso esplicito il disegno di quella politica di cogestione interclassista del potere perseguita da sempre dal PCI, anche nel ruolo di opposizione e non meno ora che sembra apparentemente ritornarvi, un convergenza realizzata nelle Commissioni parlamentari, sulle grandi scelte economiche, rapporti con ambienti pubblici, sui fondi di dotazioni delle partecipazioni statali, attraverso la gestione del potere statale.

RILEVA come queste elezioni politiche anticipate abbiano marcato una chiara sconfitta per la politica della strategia della tensione praticata dalla Democrazia Cristiana, e per quella del compromesso storico attuata dai vertici comunisti.

GIUDICA più che mai praticabile una ipotesi di governo delle sinistre, che in questa legislatura confermano una intatta forza numerica rispetto alla precedente che aveva registrato il tetto massimo della crescita della sinistra parlamentare, o quanto meno quella di un governo laico alternativo alla DC che si ponga come obiettivo primario la rottura del sistema di potere democristiano.

INDIVIDUA nella ripresa delle lotte di disobbedienza civile e di azione nonviolenta del patrimonio della tradizione radicale i metodi fondamentali dell'iniziativa del partito, sottolineandone in particolare quegli indispensabili riferimenti istituzionali che le qualificano come battaglie dei diritti civili.

RICONFERMA l'ipotesi referendaria come principale strumento di rottura degli equilibri interpartitici di regime, chiaramente condannati dal corpo elettorale, e invita gli organi esecutivi del partito ad effettuare un approfondito esame della possibilità di arricchirla con iniziative vertenti sulla materia regionale e ravvisa nella stessa il mezzo per condizionare l'intera dinamica della vita politica nazionale.

RICONFERMA inoltre l'impegno antimilitarista del partito con particolare riferimento alla carovana del disarmo Bruxelles-Varsavia.

INVITA gli organi del partito a impegnarsi a livello nazionale e internazionale perché non si realizzi il disegno - già chiaramente delineato dai gruppi socialdemocratici, democristiani, liberaldemocratici - di impedire la costituzione di un gruppo di Nuova Sinistra nel nuovo Parlamento Europeo, denuncia in tale operazione prevaricatrice [ …] ecologica, antimilitarista, antinucleare, nell'istituzione parlamentare europea.

RILEVA l'assoluta necessità di adeguare la coesistenza effettiva degli iscritti al partito ai risultati elettorali, cogliendo l'attuale momento di ampio interesse sul partito al fine di avanzare nell'attuazione dello Statuto e a tal fine IMPEGNA la segreteria, i partiti regionali e le associazioni radicali tutte a raggiungere il traguardo di 10.000 iscritti prima del Convegno di novembre, INDICE una campagna straordinaria di tesseramento e di autofinanziamento destinata ad assicurare la copertura delle spese del partito nei prossimi mesi e il potenziamento e la ristrutturazione delle radio radicali, con il collegamento nazionale via cavo già predisposto durante la campagna elettorale, CONVOCA a Roma per i giorni 17-18-19 agosto un'assemblea nazionale degli iscritti e simpatizzanti del partito, aperta a tutti coloro che condividono l'impegno nelle lotte civili nonviolente, "per un approfondito dibattito sul rapporti tra partito radicale e area radicale".

Il CF per un complessivo momento di verifica e di dibattito sulle prospettive politiche del partito e di incontro con quanti il 3 e il 10 giugno si sono riconosciuti nella politica del PR convoca inoltre entro il 30 settembre una serie di assemblee in tutte le regioni, con la partecipazione del segretario, del Presidente del CF, del tesoriere e di rappresentanti del Gruppo Parlamentare.

RIBADISCE altresì l'impegno a convocare un convegno su "Liberazione Sessuale, Liberazione della donna e nonviolenza" in accordo con le deliberazioni del congresso di Bologna e di quello di Bari.

Infine nel prendere atto delle intervenute dimissioni del tesoriere del Partito Adelaide Aglietta, eletta in Parlamento porge alla medesima un caloroso ringraziamento per l'opera svolta e indirizza un augurio di buon lavoro al nuovo tesoriere Paolo Vigevano, che ritorna a ricoprire questo incarico ancora una volta in un momento particolare difficile della situazione finanziaria del Partito.


"E noi cialtroni andiamo in Parlamento per fare un pò di ordine

Intervista di Giampaolo Pansa a Marco Pannella LA REPUBBLICA, 8 giugno 1979

SOMMARIO: All'indomani del successo elettorale del Partito radicale nelle elezioni del 3 giugno 1979 (18 deputati e 2 senatori rispetto i soli quattro deputati delle elezioni del 1976) Marco Pannella delinea gli impegni dei parlamentari radicali nella ottava legislatura. Il problema non è pensare ad una seconda repubblica ma quello di far funzionare la prima e di attuare la Costituzione. "Ci accusano di essere irresponsabili ma saremo noi a costringere le altre forze politiche a rispettare le regole dello Stato di diritto". Il compito dell'opposizione non è quello di far un ostruzionismo invisibile in cambio di qualche fetta di potere ma di obbligare la maggioranza ad assumere le proprie responsabilità e d'indicare cosa farebbe nel caso fosse al governo. La necessità di costituire un "gabinetto ombra". Molti elettori comunisti hanno votato radicale perché vogliono la Dc all'opposizione e l'alternativa di sinistra: anche in Italia è possibile, come nella Francia di Mitterrand, il programma comune della sinistra.

I radicali tornano in Parlamento. Non sono più quattro, ma venti. E tutti si domandano: adesso che sono diventati tanti, che cosa faranno? Andiamo a chiederlo a Marco Pannella.

D. Hai vinto le elezioni, Pannella...
R. "No! Il partito radicale ha soltanto triplicato i voti e quintuplicato i parlamentari. Comunque, non ha certo vinto il Centro, come sosteneva il vostro titolo. Anche voi siete stati tratti in inganno dai primi dati del Viminale".

D. Chi ha vinto allora?
R. "All'interno del Centro c'è stato un lieve spostamento a favore dell'opposizione, ossia dei liberali. All'interno della Sinistra lo spostamento è andato a favore dell'alternativa e dell'unità della sinistra".

D. Perché?
R. "Osserva la nuova Camera. C'è quasi un 6 per cento a sinistra del Pci. E poi il Pci ha perso 26 seggi, ma noi ne abbiamo conquistati 14 e il Psi 5; in più ci sono quelli del Pdup. Comunque, la principale forza di noi radicali non sta nel numero dei parlamentari".

D. In che cosa sta?
R. "In un fatto semplice che non sapete spiegarvi. Dal 1960 tre protagonisti caratterizzano la nostra società politica: la Dc, il Pci e il movimento dei diritti civili, vale a dire il partito radicale. Il resto non è esistito."

D. Anche voi, insomma, venite da lontano.
R. "Da lontanissimo. Gli insulti della burocrazia comunista contro di me sono gli stessi che andavano a Carlo Rosselli, fino a sei mesi prima che fosse ucciso. E gli insulti al partito radicale sono identici a quelli che erano riservati a Giustizia e Libertà".

D. Quali insulti?
R. Irresponsabilità. Vittimismo. Super-attivismo. E, naturalmente fascismo. E si spiega: in questi venti anni il solo antagonista politico dell'interclassismo della Dc e del Pci è stato il partito radicale".

D. E oggi?
R. "Oggi il nostro slogan è: dall'antagonismo radicale al protagonismo socialista. Ma anche questa, per noi, non è una novità. Vogliamo continuare il cammino cominciato nel 1962, quando Elio Vittorini accettò di diventare il presidente del partito radicale. C'è un unico filo nella nostra storia recente: il filo che collega Vittorini a Pasolini, Ernesto Rossi a Sciascia..."

"Impediremo che le leggi dormano sette anni"

D. Come intendete continuare il cammino?
R. "Dimostrando quanto fosse giusta l'intuizione di Gobetti, di Basso, di Foa che le idealità della rivoluzione borghese possono essere realizzate soltanto se prendono corpo nel proletariato, nel mondo del lavoro. E che soltanto all'interno di un socialismo libertario e autogestionario si può salvare anche nell'economia il valore della libertà, della creatività individuale, del cosiddetto 'libero mercato'".

D. Puoi spiegarti con più chiarezza?
R. "Sì. Il problema principale della nostra democrazia non è di pensare a una seconda Repubblica. E' quello di far funzionare e realizzare la splendida articolazione e previsione della prima Repubblica. Insomma, attuare la Costituzione. E poi bisogna avere bene in testa un'altra cosa..."

D. Quale?
R. "Che l'ispiratrice dei repubblicani e dei comunisti rischia sempre più di essere la sinistra crispina, autoritaria e trasformista, alla quale noi, per le istituzioni, contrapponiamo piuttosto la destra storica di Bertrando Spaventa. Ossia, lo Stato di diritto e il senso dello Stato contro la ragion di Stato o di partito".

D. Detto ancora più semplicemente, a quali obiettivi guardate?
R. "Così come ci siamo fatti carico del diritto di famiglia o del divorzio, cercheremo di creare un diritto positivo conseguente alla Costituzione. Faremo funzionare meglio, e per la prima volta in trenta anni, il Parlamento e il governo. Attraverso l'uovo di Colombo".

D. Che sarebbe?
R. "Per esempio il regolamento della Camera, il quale dice che entro 60 giorni, ed eccezionalmente entro 120, si dà il parere sulle proposte e sui disegni di legge e poi si vota. E poiché un governo forte, e capace di decidere, è la condizione di un Parlamento forte, noi radicali impediremo che le proposte governative e le nostre, dormano nei cassetti per sette anni. A meno che si tratti di leggi-truffa".

D. E' questo che deve fare l'opposizione?
R. Si, il compito dell'opposizione non è quello di liquefarsi, e far liquefare il governo in un ostruzionismo invisibile, in attesa che il governo le conceda una fettina di potere o di vantaggio in una legge corporativa. Il nostro dovere è quello di obbligare la maggioranza ad assumere le proprie responsabilità e, se del caso, come opposizione, votare contro, dicendo quello che proporremmo se fossimo governo".

D. Progettate un governo-ombra?
R. "Un "gabinetto-ombra". Certo. E spero che riusciremo a costituirlo fra dicembre e gennaio. Insomma, lavoreremo, faremo delle proposte e porteremo ordine nelle Camere".

D. Molti temono da voi l'esatto contrario: la paralisi del Parlamento, l'ostruzionismo a ritmo continuo...
R. "L'ostruzionismo l'abbiamo fatto quando loro hanno preteso che il Parlamento votasse una decina di leggi in una ventina di giorni per far fuori i referendum!" Gli ostruzionismi che ci vengono addebitati erano il tentativo di difendere la funzione legislativa delle Camere e i diritti costituzionali del cittadino. Noi non vogliamo un 'Taxi-Parliament', un parlamento-squillo, al servizio di padroni extra-istituzionali, quindi irresponsabili. Loro hanno sempre cercato questo. Adesso che noi siamo in venti, nemmeno ci proveranno più! Tutto sarà più calmo".

D. Che cosa intendi per parlamento 'più ordinato'?
R. "Un parlamento dove si arriva a votare, e in aula. E dove le commissioni cessano di essere quelle che, sia detto senza ingiuria!, sono in una Camera dei Fasci e delle Corporazioni".

D. Che vuoi dire?
R. "La funzione fascista della mediazione fra capitale e lavoro che durante il fascismo avveniva nella burocrazia dello Stato ma sotto il controllo del partito, oggi avviene nelle commissioni parlamentari: tengono a dormire le leggi per poi costruire i capolavori di mediazione corporativista che Dc e Pci hanno costruito in questi anni".

D. E subito che cosa farete?
R. "Il primo problema è l'incarico di formare il nuovo governo. Bisogna che il presidente della Repubblica non sia a priori costretto a designare il candidato della Dc (che ha il 38 per cento dei voti), ma possa scegliere fra costui e il candidato della sinistra (che ha il 46 per cento) o dello schieramento laico, "divorzista" (che ha il 54 per cento)".

D. E il secondo problema?
R. "Evitare la lottizzazione arrogante degli incarichi costituzionali fra i partiti dell'ultima maggioranza. Il 20 giugno non s'illudano di chiamarci ad eleggere dei presidenti delle Camere già fatti proclamare dalla Raitivù prima della convocazione del Parlamento. Stiano attenti! Solleveremmo dei grossi problemi! Non sarebbe un'elezione tranquilla! Vedi, noi radicali abbiamo un destino curioso...".

"Da quando la base comunista vota per noi"

D. Quale?
R. "O ci accusano di essere cialtroni di strada o dei parlamentari dallo sfrenato garantismo ottocentesco. Certo, i partiti hanno il diritto di consultarsi. Ma lo Stato di diritto è il rispetto delle regole del gioco. E noi li costringeremo a rispettarle ogni giorno e sin dal primo giorno".

D. E agli altri partiti di sinistra che cosa mandi a dire?
R. "Che il discorso dell'alternativa di sinistra è avvertito dal paese non come un discorso di sfascio o di violenza, ma di moderazione e, aggiungerei, di classicità. I dirigenti comunisti hanno sempre paura di essere ritenuti stalinisti o antidemocratici se fanno un discorso molto netto di alternativa a sinistra. Anche loro, così, cadono nella trappola culturale di credere che nello scontro democratico c'è violenza! E mostrano di non avere ancora capito che democrazia è dire ai cittadini: date voti a noi per governare al posto degli altri, e non per governare con gli altri".

D. E che altro vuoi dimostrare?
R. "Che continuando a costruire l'alternativa, come faremo, è possibile rafforzare nel Pci quantomeno il dubbio che la grande massa dei suoi iscritti la vuole questa alternativa, vuole la Dc all'opposizione e vuole l'unità delle sinistre come unico strumento politico praticabile di democrazia classica nel nostro paese, di alternanza".

D. Pensi di poterci riuscire?
R. "Spero di sì. Ricordati del referendum sul divorzio. Ancora quaranta giorni prima del 13 maggio, Rinascita e l'Unità bollavano il referendum come una jattura. Poi, sotto la nostra spinta, le masse comuniste prevalsero contro il "moderato" Berlinguer, estremista dell'opportunismo".

D. Può accadere ancora così?
R. "Sì. L'ho visto in questa campagna elettorale: il candidato medio comunista vomitava accuse contro la Dc, si sfogava, a volte senza misura o senza pudore. Penso che sia possibile dimostrare che l'alternativa a sinistra, ossia la democrazia classica attuata dal proletariato, dal mondo dei lavoratori, degli inermi, dei mansueti è una speranza per l'oggi e non un residuato dell'Ottocento. E' un viaggio difficile e lungo, ma si può fare".

D. La prima tappa di questo viaggio qual è?
R. "Il programma comune della sinistra. I radicali lo chiedono dal 1966, sette anni prima di Mitterand. Già nel 1959 ho avuto una polemica con Togliatti che non lo voleva. E anche adesso si tratta di battere la linea Togliatti, oggi chiamata linea Berlinguer, che è il principale sostegno dell'assetto del regime".

D. Tu credi che nel Pci esistano forze a favore dell'alternativa?
R. "Sì, ma quali siano non è facile capirlo. Nel Pci c'è la tragedia del centralismo burocratico, La maggior parte dell'apparato si è formata per cooptazione sulle proposte di vertice. E funzionari e dirigenti tendono a vivere anche nel quotidiano un conflitto proprio con la base comunista per la sua presunta "immaturità", per il suo presunto "estremismo". Però adesso che la base comunista ha cominciato a votare radicale, molte cose possono cambiare".

D. Ne sei davvero convinto?
R. "Sì. Il voto radicale di molti comunisti nei referendum del 1978, e a Trieste, Trento e Bolzano, aveva giù fatto riaprire la discussione nel Pci, portando le Botteghe Oscure a fare la crisi di governo, sia pure soltanto per motivi tattici".

D. E adesso?
R. "Adesso occorre che, domenica, alle europee, questa tendenza a nostro favore si rafforzi. Si rafforzerà così il dibattito nel Pci e la prospettiva di sinistra. Quel 4 per cento perso dal Pci il 3 giugno, se verrà esteso, rafforzerà politicamente tutta la sinistra. compreso lo stesso partito comunista. Se non c'era il voto radicale, il dibattito era già chiuso! E io ho fiducia. Io credo che la salvezza del Pci da una linea innaturale passi attraverso l'adozione di una linea di alternativa socialista e libertaria".

D. Ci sono nel Pci dirigenti vicini alle cose che stai dicendo?
R. "Purtroppo non lo so. L'intolleranza, anche nella vita quotidiana, è tale che non esite un dirigente del Pci con il quale io abbia un contatto politico. C'è stato un momento di disgelo dopo il referendum sul divorzio. Poi quegli spiragli si sono subito chiusi. Le burocrazie hanno sempre paura dei compagni più che degli avversari! Per loro il demonio sta sempre nell'amico, non nel nemico. Però...".

D. C'è un "però" nel rapporto Pannella-Pci?
R. "Sì. Sul piano personale, loro hanno avuto comportamenti feroci, noi mai. Quindi non ci sono guasti insuperabili. E poi io sono molto laico e ritengo che siano le linee giuste a fare gli uomini politici giusti. Per questo Berlinguer è mediocre. Ma se c'è un mutamento di linea nel Pci, gli interlocutori verranno fuori e, al limite, possono anche essere gli stessi uomini di oggi".

"Offriremo ai socialisti un patto di unità"

D. E i socialisti?
R. "Offriremo al Psi un patto di unità d'azione parlamentare. Vedi, con i socialisti di difficoltà ce n'è una sola: devono scegliere. Per esempio, Claudio Signorile deve scegliere fra Bisaglia e me. Non ci sono soltanto problemi di contenuto politico, ma di scelte di metodo e di vita. I socialisti non possono sperare di essere una forza di alternativa se poi hanno più giornali e spendono più miliardi della Dc. Bisogna rivalutare un tantino anche la prassi...".

D. E dopo le "scelte di vita"?
R. "L'obiettivo può essere un nuovo partito di tipo federativo, con l'80 per cento del Pci, l'80 per cento del Psi e l'80 per cento dei radicali".

D. Non è utopia, Pannella?
R. "No. Non è vero che noi siamo gli utopisti dell'impossibile e loro i realisti del possibile. L'utopia, la squallida utopia, è stata la loro, di Pci e Psi. I fatti, ormai, lo dimostrano. Anch'io credo che la politica sia l'arte del possibile e lo sto dimostrando. Ma si può creare il possibile o consumare il possibile. E la loro arte spaventosa è di consumare il possibile sino all'estremo: la repubblica, la Costituzione, il dialogo, la civiltà, le idee...".

D. Non credi che queste tue parole rafforzino il muro che ti separa da comunisti e socialisti?
R. "No. Il muro c'è soltanto con l'apparato del Pci. E il vero pericolo non sta nella sua solidità. Sta nella violenza con la quale è difeso da una certa classe burocratica che lo vede franare perché ormai distrutto dal tempo. Una violenza dettata dalla paura. Il muro fra noi e la base comunista e socialista invece non c'è. Cercano di crearlo. Però ogni volta che noi facciamo così con un dito, si sgretola. Lo abbiamo visto lo scorso anno e il 3 giugno. Il nostro successo viene proprio di lì".


La sinistra non segna l'ora giusta

Intervista a Leonardo Sciascia di Mimmo Candito - La Stampa, 14 giugno 1979

SOMMARIO: Lunga intervista allo scrittore, che non ha ancora scelto per quale Parlamento opterà, se quello italiano o quello europeo. Il suo fare "è lo scrivere", ma "in certi momenti..." Giudica "conservatrice" l'Europa attuale ma pensa che le elezioni hanno posto fine al '68 che aveva dato luogo "al terrorimo da un lato e ai nouveaux philosophes"dall'altro. Non gli dispiace che i PC non siano più rivoluzionari, ma pretende che lo dicano con chiarezza. Teme un'Europa dominata dai tedeschi, vorrebbe "l'avvento di un po' di povertà", "l'accettazione, il vagheggiamento della povertà..." la povertà di quel francescanesimo per il quale la Chiesa "è sopravvissuta, nel cuore umano, non come istituzione". Questa "linea francescana" egli vorrebbe per la sinistra, che deve infine abbandonare "il nome e la dottrina del potere". Insomma, ciò che occorre "è la reinvenzione della sinistra". Respinge le accuse di chi gli imputa di provare "diffidenza" per lo Stato; al contrario, egli vuole uno Stato "forte", "forte nella legge, nella capacità morale..." E' vero che il nome di Moro è scomparso da elezioni che "sembravano dover esser fatte in sua memoria", ma pensa che Moro non avrebbe cambiato di molto la politica della DC. Ciò di cui la DC ha bisogno è un PCI forte, a lei "speculare". Moro ha "fregato tutti non volendo morire" e questo è diventato un "fatto politico enorme". Il PCI non ha capito la questione Moro "e così si è dato la zappa sui piedi".

Eletto a Roma e a Strasburgo, Sciascia non ha ancora scelto. E stanco per questi suoi interminabili viaggi in treno, ma par di capire che l'Europa gli vada a misura giusta. "Nella vita uno deve pentirsi più del non fare che del fare. Lampedusa disse un giorno qualcosa sul peccato del fare: ma io sono e resto un peccatore inveterato, cerco di fare".

Nello studiolo soffice di Sellerio, le serrande abbassate tagliano fuori la calura. Filtra una quiete penombra. Sciascia ha davvero qualcosa di grottesco. Un che di indolente che a volte si accende di attenzione. Come il suo Candido Munafò. "Ci vuole poco a passare questo confine tra la pagina e la realtà, e la tentazione per me è sempre troppo forte. Il mio fare resta sempre lo scrivere, ma in certi momenti bisogna fare una testimonianza più diretta, rischiosa anche".

D.: Solo che ne viene fuori una grossa contraddizione con quanto, lei professore, aveva detto con scandalo di molti al tempo delle dimissioni dal consiglio comunale di Palermo".
R.: "Certo, ma io accetto questa contraddizione; è una mia scelta consapevole, volontaria. Per un mio esasperato senso del dovere. Avevo tutte le ragioni per tirarmi indietro, la salute, la voglia di scrivere, la campagna che amo più della città. Ma mi è parso che fosse un chiudersi, un arroccarsi troppo di fronte a cose che avvertivo comunque necessarie".

D.: Però finisce per ritrovarsi in mezzo a una Europa dove si è mobilitato di tutto, dalla retorica di Carlomagno, alla storia che votiamo più degli altri così mostriamo di essere i più bravi."
R.: "Io sono più vicino alle posizioni di Sartre e del Comitato contro l'egemonia tedesco-americana, più che a questo idillio europeista fiorito con grazia ammaliante da giornali e TV. Non ho pratica di assemblee, so che la realtà di queste cose è assai più brutta di quella che si immagina; ma resto dell'idea che bisogna provare. Infatti non sono d'accordo con il Comitato quando chiedeva un boicottaggio elettorale: io dico che semmai il boicottaggio bisogna farlo standoci dentro, andando a vedere".

D.: Gorresio dice che questa che è venuta fuori è una Europa borghese, Cavallari che è moderata. Per lei, Sciascia che roba è?"
R.: "E' un'Europa conservatrice, che porta con sé il problema della crisi delle sinistre. Mentre viaggiavo in treno ieri, mi è venuta un'immagine: gli orologi che vanno male non segnano mai l'ora giusta, mentre l'orologio che è fermo due volte al giorno l'ora giusta la segna. E l'elettorato finisce per rivolgersi a quell'orologio fermo".

D.: Si è anche voluto vedere, nei risultati del voto di domenica, la pietra tombale messa sulle bandiere del Maggio, e l'immaginazione che doveva andare al potere."
R.: "Ma bisogna vedere se il '68 poteva essere visto come il trionfo delle illusioni o delle delusioni. Per me è stato un fenomeno che ha dato luogo al terrorismo da un lato e ai noveaux philosophes dall'altro. Da un lato le illusioni che somigliano molto alla disperazione, e dall'altro la delusione, direi, più ragionevole. E stato chiaro, nel '68, che le rivoluzioni non si potevano più fare. Che a farle, si rischiava la sconfitta in partenza".

D.: Ma lei professore ha appena detto che ci sono momenti in cui è anche necessario rischiare".
R.: "Certo, ma la ragionevolezza di oggi, la ragionevolezza della delusione, sta nel fatto di scegliere la nonviolenza, invece che la violenza. Essendo un uomo di immagine e di immaginazione, più che di teoria, io vedo una specie di spartiacque, tra quello che era prima e il dopo, in un episodio del '68, raccontato nel suo libro dal prefetto di Parigi: lui scrive che al di là del ponte Saint Michel stavano gli studenti, come un muro pronti all'assalto, e che lui ha fatto schierare la polizia da quest'altra parte. E ha pensato: se gli studenti passano il ponte, è la rivoluzione. Ma gli studenti non passarono il ponte. Perché dietro non avevano il PCF. Quello è il momento storico che segna la fine delle rivoluzioni. Da quel momento i partiti comunisti non sono stati più rivoluzionari".

D.: E' il giudizio freddo dell'uomo politico o è anche la rabbia dell'uomo di sinistra?"
R.: "No, il mio risentimento sta nel fatto che i PC non sono più stati, e non sono, rivoluzionari; è nella constatazione che non si sono ancora decisi a dirlo, che non hanno voluto prendere atto di quel fatto. A me un PC socialdemocratico va benissimo, ma a patto che lo dica".

D.: Ripiombiamo allora in quell'Europa che Sciascia-Candido vede diventare sempre più un orfanotrofio: gli orfani di De Gaulle, gli orfani di Franco, gli orfani di Salazar, gli orfani del partito comunista. In quest'Europa, Candido dice che solo i tedeschi hanno un padre, anche se è un fantasma".
R.: "Si, il fantasma del nazismo. Forse noi proiettiamo sui tedeschi l'eccesso delle nostre paure, delle nostre spaventose esperienze. Ma il fatto è che paura la fanno davvero. Sto arrivando da un viaggio che ho fatto in treno, da Parigi ad Amsterdam e poi qui a casa. Ho passato due frontiere: il Belgio e l'Olanda senza nemmeno accorgermene; ma a passare la frontiera tedesca me ne sono proprio accorto. Questi poliziotti che passavano a ondate di tre, con le pistole che sbattevano sulle pareti del treno, che erano gentili. che non chiedevano nemmeno i documenti. Che guardavano in faccia, soltanto questo, e il rumore delle loro pistole ad ondate. Un certo brivido uno lo avverte".

D.: Allora: Europa dominata dai tedeschi, e dietro i fantasmi della nostra coscienza, e il potere americano, e il grande capitale senza patria. Ma basta così?"
R.: "Sta finendo il mito delle rivoluzioni, e quindi necessariamente deve nascere qualche altro mito, qualche altra utopia. Finisce il mito della rivoluzione violenta"

D.: Candido-Sciascia confessava che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare in Europa: e che gli piaceva vedere finire quello che deve finire. Ma non apre bocca su quello che deve cominciare" .
R.: "Vorrei l'avvento di un po' di povertà, e spero che tutto cominci da lì. Dall'accettazione, dal vagheggiamento della povertà. Certo non parlo della povertà che hanno vissuto i poveri; dico di una povertà come vocazione. E un po' come l'opposizione tra quelle due grandi correnti della Chiesa, il domenicanesimo e il francescanesimo E' in effetti, la Chiesa è sopravvissuta, nel cuore umano non come istituzione, più per la linea francescana che quella domenicana".

D.: Detto in parole che capiscano tutti?".
R.: "Ecco, io vorrei che la sinistra trovasse una specie di linea francescana, che abbandonasse la linea domenicana, il nome e la dottrina del potere. Per esempio trovo che la sinistra è morta se si schiera per il nucleare; una sinistra viva, vitale, promettente, deve schierarsi contro la morte nucleare".

D.: C'è una radice, una origine storica di questa scelta domenicana?"
R.: "Credo che tutto sia avvenuto in Russia. Forse anche prima di Stalin; ma comunque è Stalin che segna questo processo, e marchia la storia che poi è venuta nella lotta per una democrazia reale".

D.: Le dichiarazioni ufficiali del PCI, dopo il risultato di queste due domeniche, mostrano però un cambiamento, parlano di un nuovo rapporto tra il sociale e il politico, tendono a rompere gli schemi interpretativi che scacciavano, per esempio, i radicali dentro il peggiore qualunquismo fascista".
R.: "E penoso che lo riconoscano solo dopo la sconfitta. Il fatto è che bisogna farla finita con le tattiche e le strategie, lo stalinismo della pratica e l'antistalinismo della teoria, e debbono tornare alla speranza della gente".

D.: In pratica che cosa significa?"
R.: "La storia che ci aspetta è la reinvenzione della sinistra. Io non dico che sia certa, questa reinvenzione; dico che bisogna provare, che non bisogna lasciare cadere la speranza".

D.: Questo riporta però alla sua diffidenza nei confronti dello Stato, alla distinzione tra Stato e società".
R.: "Non ho diffidenza verso lo Stato. Calvino, al momento della sua polemica sulla viltà dell'intellettuale (''Né con lo Stato, né con le BR''), ha ricordato in una intervista come nei miei libri si possa intravedere piuttosto il vagheggiamento dello Stato, e che questo mio essere "contro lo Stato" va visto come una delusione e non come un'avversione. Figuriamoci se io, qui, dal fondo della Sicilia, non vagheggi uno Stato democratico, uno Stato forte".

D.: Cosa significa ''forte"?"
R.: "Nient'affatto repressivo, ma invece forte nella legge, nella capacità morale di far rispettare la legge verso tutti i cittadini. Uno Stato che riesca a non privilegiare nessuno".

D.: Però, mi pare che la realtà in cui l'Europa si muove oggi sia, nella analisi di Sciascia, un pendolo tra la germanizzazione da un lato e la sicilianizzazione dall'altro".
R.: "Possono essere, in verità, due fatti concomitanti e fatali per la nostra speranza..."

D.: Ma lo scrittore e il deputato Sciascia hanno questa speranza?
R.: "C'è una speranza contemperata dallo scetticismo. Una contemperazione sempre salutare, perché senza scetticismo la speranza rischia di diventare fanatismo. La quota di speranza e comunque è assai maggioritaria. Lo scetticismo sta sempre al margine. Come quando uno si mette a scrivere a macchina e lascia un margine per le correzioni".

D.: Il nome di Moro è scomparso da queste elezioni che sembravano dover essere fatte in sua memoria".
R.: "Moro non avrebbe cambiato di molto la politica della DC. Credo che Moro riservasse ai comunisti la stessa trappola che aveva usato ai socialisti. Poteva essere una questione di tempi, e forse li avrebbe distrutti anche di più, con più risultati. Ma credo che la DC doveva comunque tornare a questa politica di ora, perché tra la DC e il PCI c'è troppo rapporto speculare per cui non possono avvicinarsi troppo senza cadere tutti e due. Debbono stare sempre a una certa distanza, e questa distanza debbono farla aumentare nei periodi elettorali. Senza un PCI forte, non ci sarebbe una DC forte".

D.: Ma la DC resta ancora il partito di maggioranza".
R.: "E il criterio assistenziale con cui è gestito il potere che la fa forte, le dà questa primogenitura. C'è una fascia maggioritaria di persone che va da quello che una volta si chiamava sottoproletariato a tutta la burocrazia statale e locale, che con la DC sta bene. Perché appartiene ad un criterio che doveva essere normale in un partito cattolico italiano: cioè l'unico criterio che un partito cattolico poteva adottare era quello di trasformare la carità cristiana in assistenza dello Stato".

D.: E Moro diceva anche questo, ma poi hanno anche detto che diceva pure altro".
R.: "Le sue scelte vivevano solo nella riserva mentale, non negli articoli o nelle interviste più o meno postumi. La santificazione che è stata fatta ha avuto risultati fallimentari. Moro li ha fregati tutti non volendo morire, e questo è diventato un fatto politico enorme, di grande ripercussione. Io arrivo anche a immaginare che gli Stati Uniti davano probabilmente come perduto questo nostro Paese. Perduto per loro, voglio dire. E che invece sono stati riconfortati dalla resistenza del governo a non cedere allo scambio con i brigatisti. Hanno ritrovato allora una certa fiducia in questo Stato italiano, per cui l'hanno ripreso pienamente dentro la loro area. Se questa mia immaginazione corrispondesse alla realtà, i comunisti, sostenendo il patto della fermezza, si sono dati la zappa sui piedi".

D.: Questo, se ben capisco, significa distinguere tra regime e Stato".
R.: "Certamente. C'è una distinzione tra coscienza morale e istituzione, tra fondamento etico e manovra o interesse di parte".

D.: E ora? Già ci sono formule in discussione per il nuovo governo".
R.: "Un governo laico sostenuto dalle sinistre sarebbe un fatto molto grosso. Se invece si dice che lo sostiene anche la DC, allora siamo fuori dalla realtà. Sarebbe un ritorno a quell'unanimismo che finora è stato una fregatura".


DOPO TANTE BATTAGLIE PER LA VITA HANNO SCELTO LA MORTE INSIEME

di Angiolo Bandinelli - LOTTA CONTINUA, 17 luglio 1979

Accomunati drammaticamente dalla morte, Aloisio e Giuliano Rendi erano, già in vita, legati irrevocabilmente da un identico, difficile destino; non tanto biologico, il fatto cioè di essere gemelli (che pure li condizionava) quanto un destino culturale di dimensioni non usuali: quello di essere e di sentirsi epigoni di una cultura, quella grande cultura borghese europea, che il nazismo e il fascismo, le sue grandi guerre, ma anche le sue interne contraddizioni venivano spazzando, irrimediabilmente.

Avevano assorbito con facilità, nella famiglia, tutti i portati migliori di quella cultura, in primo luogo la fede, più che la fiducia, nei valori della ragione e della democrazia. E consapevolmente, naturalmente e con grande semplicità ne avevano fatto partecipi tutti coloro i quali, per interessi civili o politici o per età, venivano a contatto. Per molti che come me, ebbero la fortuna di averli come compagni già sui banchi della scuola media, Aloisio e Giuliano furono immediatamente maestri. Apparivano subito singoli, diversi: perché antifascisti, perché atei, perché colti, perché schivi, in una comunità di ragazzi che fascismo e chiesa educavano ai modelli più lontani, di un gregarismo che non tollerava devianze. E questa loro diversità essi ebbero sempre il coraggio di enunciare apertamente e semplicemente, dinanzi all'insegnante, al federale fascista, al prete, al delatore, allo sbirro. Erano forti del fatto che non potevano essere ulteriormente e più pesantemente colpiti; perché il loro padre era in galera per antifascismo, perché la loro casa era sorvegliata giorno e notte, perché il loro ceto di amici, di affini per cultura e per elezione era battuto e disperso.

Chi avvertiva tutto questo, trovava a casa di Aloisio e di Giuliano una immensa ricchezza. Sotto il fascismo, a Roma, incontrammo lì la grande cultura antifascista, da Thomas ed Heinrich Mann a Benedetto Croce; insieme i valori del più severo e intransigente storicismo e la dolcezza fluente della poesia di Rilke, fino alle aperture - per noi quasi incomprensibili, allora - verso Locke, Hume e Shaftesbury: tutto, insomma, il miglior liberalismo europeo in ciò che di contraddittoriamente grande esso produceva e per cui ancora viveva: la tolleranza e il calvinismo, l'amore della libertà, il non vano cosmopolitismo, l'assoluta partecipazione al destino del diverso.

Questa eredità Aloisio e Giuliano Rendi hanno trasmesso integra al Partito Radicale, fin dalla sua nascita. Il federalismo europeo, il pacifismo e l'antimilitarismo radicale non si spiegherebbero senza Aloisio e Giuliano, il miglior Giuliano teorico e studioso di politica e di economia. Il pacifismo, l'antimilitarismo radicali non hanno la loro prima matrice in Gandhi, ad esempio, ma proprio nella più segreta eredità liberale, nella quale confluivano assieme le eredità anabattiste e lo sdegno verso l'irrazionalità della guerra. Intorno al 1960, Giuliano in particolare elaborò assieme a Marco Pannella incunaboli teorici, fondamentali, del partito "nuovo" cui si cercava di dare vita in quegli anni. La consapevolezza che l'equilibrio continentale, dipendessero dalla soluzione del problema europeo portò Giuliano a dedicare attenzione alla ricostruzione economica della Germania, e ai temi connessi, della rifondazione della democrazia in quel paese (che egli riteneva precaria, se non inserita in un quadro istituzionale a livello europeo).

E' difficile, oggi, spiegare l' importanza di queste ricerche e di queste indicazioni. Ma vi è una generazione intera, e non solo di radicali, che deve probabilmente la parte migliore di sé all'insegnamento, scritto e soprattutto orale, di Giuliano e di Aloisio Rendi. Per questo la loro perdita ci è immensamente dolorosa.


Area e Partito radicale

di Angiolo Bandinelli - "Rinascita" 3 agosto 1979

SOMMARIO: Contesta il fatto che le analisi apparse sul numero de "il Contemporaneo" dei 5 agosto tendano a identificare, più o meno, le due aree costituite una dal "partito radicale" e l'altra dai disparati fenomeni definiti come "nuovo radicalismo". Esse vanno tenute distinte, proprio in conseguenza della presenza di un vero e proprio partito, nato dalle ceneri di quello sciolto "miserabilmente" nel 1962 e dotato di un proprio "progetto politico" con il quale esso mira rigorosamente a "ricondurre" a "unità politica" "il disgregarsi, il parcellizzarsi della società su cui dilagava il 'radicalismo'". Questo progetto punta a costruire "l'alternanza/alternativa" avendo come interlocutore il PCI. Anzi, fin dai tempi delle iniziative sull'ENI e l'industria pubblica, il vero "problema dei problemi" è stato, per i radicali, proprio il rapporto con il partito comunista e la sua strategia.

ripubblicato in "I radicali: compagni, qualunquisti, destabilizzatori?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981.

Tra il marzo e l'autunno del 1962 miserabilmente, tra risse e ripicche, veniva sciolto e si disperdeva il Partito radicale prima edizione quello idealmente raccolto attorno fogli prestigiosi del "Mondo" di Pannunzio. L'occasione prossima veniva fornita da una "querelle" interna tutto sommato di scarso rilievo; ma il motivo vero della drastica conclusione di una ipotesi politica nata tra tante speranze e sotto così ricchi auspici era nella necessità che il nascente centrosinistra non trovasse fuori di sé possibili coaguli di forze antagoniste o critiche o di confronto (specialmente sul versante laico), pericolosi e temuti per l'avvio dell'esperimento di governo con la Democrazia cristiana che socialisti e repubblicani si apprestavano a varare.

Assieme a "quel" partito, e nella consunzione dell'esperimento di centrosinistra, moriva anche l'ipotesi, allora caldeggiata da molti, di una "terza forza" che si ponesse a mezza via, ago della bilancia ed arbitro tra Dc e partito comunista. Ma, intanto, un gruppetto di giovani (non tanto tali, anagraficamente) si opponeva allo scioglimento definitivo del partito radicale e assumeva la responsabilità della sua gestione. Da tempo il gruppetto agitava un progetto, un disegno che nello stesso partito era duramente contrastato dalle altre componenti: quello di aprire un dialogo/confronto con il PCI per arrivare a delineare e costituire, assieme anche a questo partito, un raggruppamento di forze che avesse la capacità di respingere finalmente la DC all'opposizione e di attuare l'alternanza di governo. I più qualificarono quella "sinistra radicale" come un gruppetto di illusi, o di spregiudicati ambiziosi, disponibili a farsi al più presto fagocitare dal PCI.

Credo di poter affermare, con sufficiente esattezza, che tutto quanto è accaduto successivamente nel perimetro del Partito radicale - nei durissimi anni '60 come nel decennio successivo - è stato sforzo di esplicazione e di realizzazione di quel progetto: la realizzazione del fronte laico di sinistra e della svolta alternativa. Indispensabile, urgente per il paese veniva giudicato liquidare il "regime" DC, considerato come il vero erede - a livello "strutturale" - del "regime" fascista.

In sostanza, fin da allora, nell'esiguità delle forze e dei mezzi, il Partito radicale si pose - con consapevolezza e rigore - quale soggetto politico, portatore di un progetto politico. E qui mi pare difettino le analisi, pur vive ed importanti, apparse sul numero del "Contemporaneo", che affrontano e analizzano il "neoradicalismo degli anni '70" e non il problema del Partito radicale in quanto tale. Eppure, la distinzione non è indifferente.

E' esatta, infatti, una delle osservazioni che mi paiono ricorrenti (ma qua e là smentite da altre di segno opposto) nella serie degli interventi: che, cioè, il Partito radicale non coincide perfettamente con l'area più vasta per la quale si giustifica e vale la connotazione dell'"aggettivo" "radicale", o il sostantivo (così ricco di sfumature di valore, quasi sempre a negativo) di "radicalismo": il radicalismo, insomma, degli anni '70. E' vero. Il Partito radicale ha aperto e condotto battaglie che si sono anche immerse nel ribollire del radicalismo: ma non si è "mai" identificato con questo. Ha dato anzi, di quel complesso di fenomeni, giudizi profondamente autonomi, a seconda del rapporto complesso, mai univoco, che essi assumevano via via rispetto al suo disegno politico.

Mi pare che questa sia una distinzione importante, che non può essere sottaciuta. Indubbiamente, il Partito radicale è vissuto all'interno dei fenomeni che costituiscono, nel loro insieme, il "radicalismo degli anni '70". Ma vi è vissuto, e ne ha partecipato l'intera sinistra italiana. "De te fabula narratur", come dice Massimo Cacciari.

L'ipotesi secondo la quale il sociale avrebbe dovuto e potuto giungere ad espressione e dignità politica solo attraverso la mediazione dei partiti (del "politico"), mentre questi sarebbero stati la fedele riproduzione dei dati di quel sociale (il corporativismo, il "pluralismo", insomma) è entrata in crisi, certo, "anche" per l'emergenza, nella società, del "radicalismo degli anni '70" (che così diventa anche esso soggetto, dotato di sua realtà e autonomia). Questo è un problema che coinvolge tutta la sinistra storica e la sua interpretazione dello Stato assistenziale; e non è un caso che acuti studiosi di area marxista, italiana e non - e soprattutto di area marxista - stiano lavorando attorno ad una profonda revisione di giudizi su questo nodo centrale. Ma - attenzione - il problema in parte travolse anche il Partito radicale, pur se in questo si venivano sperimentando schemi di interpretazione politica e culturale particolarmente agili alla comprensione di certi fenomeni. Il Partito radicale non coincise con il "radicalismo", con il "movimento". E anzi (a correzione di alcuni dei giudizi apparsi sul "Contemporaneo") preoccupazione costante del Partito radicale fu quella di ricondurre a "unità politica" il disgregarsi, il parcellizzarsi della società su cui dilagava nel paese il "radicalismo". L'elaborazione, il tentativo, non sempre sono riusciti. Ancora oggi, all'interno del partito, è aperta la ricerca di forme di aggregazione atte a dare espressione politica a certi fenomeni (e quindi a salvarli): persino a livello strutturale, perché è una baggianata quella delle lotte radicali come specificamente sovrastrutturali. Né più né meno di quel che spetta fare a tutta la sinistra.

E' su questo terreno, anche (ma non solo su questo) che si proporrà di nuovo il tema (meglio: i temi) dell'alternanza/alternativa, del modello di sviluppo, dei rapporti tra cittadino e Stato (dico cittadino, non individuo), ecc. Sarebbe però un peccato, ed un errore se, nell'affrontare questi problemi, la sinistra o qualcuno nella sinistra si ponesse nella chiusa e rigida ottica del mero "recupero". Chi puntasse su questa carta sarebbe destinato, non si illuda, al puro e semplice fallimento.

Per tornare agli inizi, penso che il dibattito sul radicalismo, se andrà avanti, dovrà tenere distinti quanto basta i due temi del Partito radicale e del complesso dei fenomeni cui il nome viene attribuito. Non è sulla loro meccanica intersezione, ad esempio, che si può incardinare l'altra importantissima questione, dei rapporti con il PCI. Se a soggetto di questi rapporti si assume il Partito radicale, sarebbe sbagliato continuare ad affermare che la sua polemica con il PCI si è fatta particolarmente aspra e dura in questi ultimi tempi e nel clima elettorale. Lo stesso termine di "polemica" è sviante. Con il PCI, il Partito radicale ha avuto sempre - ha voluto e preteso di avere sempre - rapporti da "interlocutore" diretto, quale portatore di uno specifico progetto politico, rigorosamente definito. E' su questo - sulla diversità del "progetto" politico - che si capisce e va valutata la durezza e il significato complessivo del confronto. Fin dai tempi dell’ENI, quando oggetto del dibattere era molto prima dell'insorgenza del "radicalismo degli anni '70", la questione della "centralità" dell'industria di Stato moderno: ed era il '63-'64.

In conclusione, un punto fermo, che aiuti tutti a capire un po' meglio il problema. Per il Partito radicale, quello dei rapporti con il PCI è stato da sempre, il problema dei problemi. E si deve riconoscere che, nei momenti il cui confronto è stato anche più duro, mai il Partito radicale ha posto la questione nei termini di chi solleva l'enigma del "fattore K" a giustificare fallimenti, tradimenti e patteggiamenti.


SCELTE DI FONDO PER LA SINISTRA

di Jean Fabre AR12/13 aprile 1979

SOMMARIO: Jean Fabre giudica vergognoso che le forze di sinistra che si candidano al governo possano aver votato in Parlamento (o si siano astenute in modo complice) i piani nucleari allorché molti problemi rimangono irrisolti. Il nucleare non può costituire una risposta adeguata ai nostri problemi energetici (nella migliore delle ipotesi fornirebbe una percentuale minima del fabbisogno nazionale) ma può costituire un ulteriore pericolo per la pace mondiale.

L'autore partendo dalla questione nucleare fa poi notare come paradossalmente la sinistra sia diventata nazionale e nazionalista in tutta Europa mentre il capitalismo diventava sempre più transnazionale. Lancia un appello alle forze politiche e sociali perché mettano in atto la riforma dello Stato come modello per l'Europa, e diano corpo a grandi lotte internazionali contro il nucleare , per il diritto effettivo all'aborto, per l'abolizione dei tribunali militari.

(Argomenti radicali, bimestrale politico per l'alternativa, Aprile-Settembre 79)

"Quando l'ENEL ci annuncia con 8 mesi di anticipo che durante l'inverno, "verso il 26 dicembre", avremo probabilmente un blackout, non significa che c'è bisogno di ricorrere all'energia nucleare, ma significa senz'altro che, se talepredizione si rivela altro che un ricatto a sostegno di una scelta già fatta per altri motivi, la catastrofe ormai pianificabile è il risultato di una politica disastrosa condotta dall'ENEL stessa e dai governi DC da molti anni. Scoprire nei primi mesi del '79 che ci sarà un black-out per la fine dell'anno vuol dire che non è stata messa in atto una politica energetica che mira a parecchi anni di distanza.

Il nucleare, oltre ai numerosi inconvenienti che presenta, non può comunque costituire una risposta adeguata, giacché nella migliore delle ipotesi fornirebbe una percentuale minima del fabbisogno nazionale (intorno al 7%) e non prima del '90, allorché i bisogni sono quelli dell'85 o addirittura del '79. Bisognerebbe oggi prendere atto degli errori passati per evitarne altri, ben più pericolosi, nel futuro. I black-out odierni hanno origini precise, una delle quali risiede nell'eccessiva centralizzazione della produzione elettrica che fa correre ad intere regioni un rischio non trascurabile.

La produzione di elettricità a partire dall'energia nucleare richiede grosse centrali, e non si presta ad una decentralizzazione e alla moltiplicazione delle unità produttive. Più vulnerabili per le conseguenze dei guasti, lo sono anche per eventuali azioni terroristiche che non si possono ignorare in un paese nel quale è possibile ogni giorno uccidere per ragioni politiche e anche rapire i più protetti tra gli uomini di Stato.

Se sappiamo di non sapere molte cose sul nucleare, ne sappiamo comunque abbastanza per decidere di non imboccare tale strada. I rischi ambientali (e quindi per la nostra vita) sono stati sottolineati da tempo dagli ecologisti ma presi sul serio solo dopo gli incidenti accaduti alla centrale di Harrisburg negli Stati Uniti, seguiti dalla "scoperta" di altri incidenti avvenuti altrove nelle settimane successive. Il silenzio è purtroppo ritornato su questo argomento tabù poiché, dopo che è stato reso di pubblico dominio ciò che non si poteva ignorare, si tratta ormai di far ammettere alle popolazioni di molti paesi "l'ineluttabilità" di una scelta folle, qualunquista, e per molti versi criminale. Non dimentichiamo neanche che gli incidenti di cui sopra sono avvenuti nei circuiti secondari (sistema di raffreddamento) e dovuti a guasti minori. Questo per dire che la fede assurda nella tecnica dalla quale dipende la nostra sicurezza è puro qualunquismo che bisogna togliere subito dai vangeli del "realismo" socialista e comunista e denunciare come truffa che fa parte del gioco sanguinoso delle forze del capitalismo.

Rimane vergognoso il fatto che delle forze di sinistra che si candidano al governo possano aver votato in parlamento (o essersi astenute in modo complice come se la scelta non fosse chiara) i piani nucleari allorché molti problemi rimangono irrisolti e che la scelta si può già apprezzare sul piano economico. La centrale di Caorso entra così in funzionamento mentre nessun paese al mondo in più di 35 anni diesperienza e ricerca attiva (dalle prime bombe atomiche in poi) è riuscita a trovare una soluzione soddisfacente al problema delle scorie. Per di più, né in Italia, né in Francia, né negli USA i piani di emergenza sono portati a conoscenza delle popolazioni locali che sono direttamente minacciate.

Si sa anche che tale scelta non può che portare ad uno stato verticista, alla necessità di controllare i movimenti attorno alle centrali e dai trasporti di materia fissile, alla protezione poliziesca contro possibili attentati, atti di terrorismo, furti di materia radioattiva (i primi si sono già verificati in Francia, negli USA, e il caso ancora più clamoroso rimane quello di un battello scomparso che sarebbe finito in Israele), e quindi a sistemi accentratori, leggi autoritarie, ed a un'estensione sempre maggiore della schedatura dei cittadini, dei poteri di polizia e del militarismo. Invece di organizzarsi intorno al benessere del cittadino, la società si organizza intorno agli imperativi del nucleare civile e militare.

Oltre a questi problemi c'è la nuova dipendenza che sarebbe creata dalla necessità di approvvigionamento in uranio. Abbiamo vissuto i giochi successivi delle multinazionali del petrolio, che dal '73 in poi hanno creato scarsità di petrolio seguita da periodi di abbondanza, riuscendo a far alzare i prezzi e i propri profitti che hanno trovato punte vertiginose. Così, si conciliava la necessità di incrementare i profitti con quella di creare un clima tale da giustificare la scelta nucleare. Contemporaneamente, si dava pubblicamente tutta la colpa ai paesi dell'OPEC senza differenziare fra le élites locali e le popolazioni, e senza spiegare come d'altro canto sono i paesi ricchi ad imporre il prezzo delle materie prime che importano dal terzo mondo e quello dei prodotti finiti che vi esportano o che fanno produrre per importarli, di nuovo approfittando addirittura del "basso costo della manodopera".

Oggi USA e Francia addestrano i loro eserciti per occupare i pozzi di petrolio. Ed ecco che non solo si tratta di morire per l'ENEL, ma addirittura si mette in gioco la pace mondiale per l'incapacità di affrontare i problemi come si pongono. Con il nucleare, non si fa altro che aggiungere un pericolo per la pace mondiale a quello che già viviamo. Scambiando una dipendenza per l'altra (o meglio detto aggiungendo l'una all'altra) si può intravedere come sarà "necessaria" la "protezione" delle fonti di materie prime radioattive.

Quando si vede quale è da anni l'atteggiamento della Francia nei confronti del Sud-Africa, grosso produttore d'uranio, si sa che non solo si chiuderanno gli occhi su tutti i razzismi del mondo, ma non ci sarà limite ad eventuali interventi militari che si giustificheranno per ragioni di sicurezza nazionale intesa nel senso ampio della parola. Al di là di tali minacce si sovrappone quella legata alla disseminazione delle armi nucleari. La tecnologia della bomba non è difficile da dominare per chi può investire un minimo.

Il possesso delle materie fissili necessarie diventa un gioco utilizzando i sottoprodotti dei reattori nucleari civili. Dopo la Cina, l'India, che non può dare da mangiare a tutti i suoi cittadini, diventa ormai capace di distruggere città intere; si dice che Israele dovrebbe disporre dello stesso ordigno fra poco, e l'Iran di Khomeini potrebbe arricchire con i laser il plutonio delle centrali vendute allo Scià per alimentare bombe destinate a non si sa chi... Quello che si sa però, è il continuo aumento del rischio di guerre nucleari e convenzionali... per una manciata di candele!

Tanti errori commessi richiedono interventi urgenti ed eccezionali. Bisognerà moltiplicare le fonti di energia, rimettere in moto centrali idroelettriche ridiventate competitive dopo l'aumento dei prezzi del petrolio, riutilizzare il carbone, riconcepire unità decentrate, più piccole, e fare dell'ENEL la banca dell'energia e non il monopolio. Bisognerà investire massicciamente nelle fonti ancora troppo sconosciute dal vento al sole, passando per le termopile e numerosi altri sistemi, per i quali investimenti di ricerca e di produzione darebbero risultati molto più elevati per ogni Lira in vestita di quanto lo è con il nucleare. Dare priorità alle fonti rinnovabili, alle energie dolci. Mentre negli USA si decide di investire nelle alternative il 20% dei crediti stanziati al nucleare, non si fa quasi nulla in Italia allorché per la sua posizione, la sua configurazione geografica, il suo clima e le sue capacità tecnologiche ed industriali potrebbe assumere una leader-ship mondiale in questa materia.

Al tempo stesso, bisogna guardare allo spreco come prima fonte di energia. Bisogna riconcepire la casa, gli elettrodomestici, l'isolamento, tutte cose concepite sulla base del mito dell'abbondanza illimitata comune alla religione comunista e al capitalismo. Bisogna avere il coraggio (e questo investe i sindacati allo stesso tempo che i partiti politici ed altre forze sociali) di ripensare il nostro modello di "sviluppo" mentre oggi si lavora troppo e si lavora male, si produce troppo e si produce male, si consuma troppo e si consuma male. Il modello di sviluppo che è stato il nostro si rivela fallimentare. Prodotto dei miti socialista e capitalista, ci porta ormai sull'orlo della guerra per aver disumanizzato la nostra civiltà. La guerra dell'energia si fa necessaria per mantenere i miti, per far fronte ai bisogni artificiali creati da questo sistema, e perché due mondi si trovano a confronto: quello occidentale e quello sovietico.

Non si tratta più di dare pane, tetto e vestito ad ognuno ma di vendere il superfluo, mandare avanti la fiera degli specchi per le allodole, e dappertutto produrre od acquisire cannoni e bombe, anche là dove si muore di fame, anche sotto i regimi socialisti dove la produzione pianificata di beni di prima necessità non ha raggiunto livelli soddisfacenti. La rivoluzione della questione energetica passa anche attraverso questa riflessione di fondo. Se la questione energetica è uno dei nodi fondamentali da risolvere oggi, è ben chiaro che non può essere fatto con misure prese nel solo quadro nazionale italiano. Le dipendenze internazionali sono troppe. Le scelte di fondo vengono prese a livello europeo o dei paesi industrializzati. L'ultimo "summit" a Tokyo con il verdetto nucleare finale è uno degli aspetti visibili di un meccanismo decisionale che scappa ai singoli stati. L'Italia, la Francia e la Germania investono insieme per la centrale di Malville in territorio francese. Nello stesso modo, le conseguenze sull'ecologia sono transnazionali. Se un incidente scoppiasse nel Super-Phoenix francese, Torino potrebbe essere inquinata. Si può morire in un paese delle scelte fatte in un altro, come un incidente ad una centrale svedese potrebbe costringere lo stato danese a spendere miliardi per ripararne i danni sulla propria popolazione.

Ben al di là di questi esempi c'è il ruolo delle potenti multinazionali che hanno trasformato la nostra organizzazione sociale con decisioni prese in Olanda, negli Stati Uniti, o in Germania, che rivoluzionano la vita della gente in Italia, in Francia o in Inghilterra. Paradossalmente, la sinistra è diventata nazionale e nazionalista in tutta Europa mentre il capitalismo diventava sempre più transnazionale. Parlare oggi di indipendenza nazionale è dar prova di decenni di arretramento. Organizzare la "difesa nazionale" con gli eserciti è una truffa vera e propria mentre l'invasione è fatta da tempo dalla Lockheed all'ICMESA, dalla Westinghouse alla ESSO, dalla NATO dominata dal Pentagono all'inquinamento portato attraverso tutta Europa dai grandi fiumi o dall'aria che si respira, e così via.

Sembrerà una cosa banale richiamare l'attenzione sull'impatto della TV che ci dà il giorno stesso immagini prese a 20.000 chilometri di distanza, o della radio che trasforma la nostra cultura e uniformizza i modelli di comportamento come i consumi da New-York a Reggio Calabria. Purtroppo questa dimensione rimane assente dal modo di fare politica dei partiti che si sono così ghettizzati fuori dalla storia e quindi la subiscano più che farla. E' anche questa la crisi del PCI che non riesce a porsi come forza creatrice non subalterna, e che si adatta man mano che cambia il mondo solo per schierarsi sulle scelte fatte dalle forze più conservatrici. Quando anche la casa si uniformizza da Los Angeles a Mosca e che ci si preannuncia un ascolto di quasi un miliardo di telespettatori per una trasmissione TV su Pompei o sull'elezione di un nuovo Papa, è ovvio che bisogna sapere che cosa si può cambiare nei limiti dello stato nazionale e cosa richiede un approccio diverso da mettere in atto subito.

Non ci può essere una politica agricola nazionale. Nonostante le direttive comunitarie della CEE, viviamo ancora la distruzione annuale in Europa di tonnellate di pomodori, frutta, burro, latte, mentre si consumano in Italia peperoni cresciuti in Olanda in condizioni del tutto artificiali poiché manca il sole. Per di più, in un mondo nel quale è in corso uno sterminio per fame e malnutrizione, l'Italia importa prodotti alimentari dai cosiddetti paesi sottosviluppati dove pretendiamo di esportare tante rivoluzioni verdi! La guerra dei vini fra produttori italiani e francesi e ormai quella dell'abbigliamento mettono in rilievo l'inadeguatezza pazzesca dell'azione sindacale, prodotto di un corporativismo chiuso che non si può definire socialista e ancora meno di classe.

Quando Piperno è arrestato a Parigi e si annuncia d'altra parte che 6 francesi che rischierebbero la pena di morte in Francia saranno giudicati in Italia, quando i servizi segreti fanno arrestare Freda e Ventura a 8.000 chilometri dall'Italia, non si può ignorare che la riforma della giustizia non è solo nazionale ma ha una componente internazionale che sta per concretizzarsi nel repressivo "spazio giudiziario europeo". A quando l'impegno delle forze di sinistra per la conquista dei diritti civili in tutta Europa?

Non si può ragionare in Europa dopo il trattato di Roma come se fossimo ancora prima, anche se non si è fatto comunque altro che coordinare il mercato, gli scambi e le produzioni industriali ed agricole, tentare di armonizzare gli investimenti e riequilibrare le differenze regionali, cioè rendere un po' meno selvaggio un capitalismo transnazionale che funziona a tale livello già dai tempi del colonialismo e del mercato degli schiavi. Sono in ritardo i partiti politici, i sindacati, i movimenti alternati vi, le forze sociali e i modelli di pensiero. Anche la ricerca scientifica dovrebbe oggi essere concepita sempre di più nel quadro più vasto delle popolazioni che dovrebbero beneficiarne. Quando dobbiamo lottare contro lo spreco, e molte tecnologie richiedono investimenti e conoscenze ad alto livello, diventa globalmente troppo costoso ripartire da capo in ogni paese, lasciare accumulare ritardi tecnici in certe zone del mondo, mentre è ingiusto lasciare parte dell'umanità fuori da certe conoscenze a nome di una competizione che non ha nulla da vedere con un socialismo libertario e umano.

All'interno degli stati nazionali si possono cambiare i quadri giuridici, si possono operare scelte regionali (che devono andare ben al di là delle briciole di decisioni lasciate oggi alle regioni), mentre i grandi orientamenti in tutte le materie che hanno delle complicazioni comunitarie si prendono nel quadro internazionale. Così, la definizione di una politica agricola, il consumo alimentare, il commercio, la produzione industriale, gli scambi di materie prime e prodotti finiti, la ripartizione delle risorse energetiche non equamente distribuite, molti aspetti della questione sociale della droga, la protezione dell'ecologia, la ricerca medica e l'uso di certi trattamenti medici, il controllo sull'impatto dei modelli culturali, l'azione sui prezzi e l'inflazione, l'occupazione (intesa come ripartizione del lavoro e non come obiettiva in sé come è il caso oggi), la lotta contro la fame e la trasformazione delle attuali politiche militari richiedono tutte misure che non si possono concepire se non a livello internazionale.

Nell'ambito nazionale si può invece realizzare la riforma universitaria e della pubblica istruzione, la riforma delle pensioni, definire una politica edilizia, attrezzare il paese e le regioni di strutture ospedaliere, organizzare i trasporti pubblici, operare una riforma della giustizia per gli aspetti legati al bilancio, alle strutture, ai mezzi messi a disposizione, alla formazione del personale, alle leggi che definiscono una civiltà giuridica che può essere umanista e libertaria. Si possono fare passi verso la risoluzione dei problemi energetici con il decentramento della produzione, lo sviluppo delle energie dolci, e le misure legate all'uso di nuove tecnologie e alla necessità del risparmio energetico. Si può mettere in atto una politica di disarmo unilaterale, accompagnarla di una politica internazionale di non allineamento e di solidarietà con i popoli più poveri, e liberare così risorse che permettano di affrontare impegni internazionali, dallo SME all'integrazione europea. Si può fare una riforma fondamentale dello stato dando alle regioni il massimo di potere decisionale, lasciando allo stato nazionale l'unico compito di definire democraticamente i grandi orientamenti interregionali.

Tale riforma sarebbe peraltro un contributo enorme alla realizzazione di un'Europa federale e federalista come tappa verso la risoluzione dei problemi comuni dell'umanità. Per operare riforme necessarie e non essere riformiste le forze sociali e politiche devono intra prendere trasformazioni interne e condurre battaglie significative, attraverso le quali passa il processo di rinnovamento necessario e lo spolverare delle abitudini mentali senza il quale rimarremo inadeguati.

Il primo compito spetta alle forze sindacali. Oltre ad abbandonare l'unitarismo che immobilizza e porta al conservatorismo, devono avere la capacità di organizzarsi pienamente sul piano trasnazionale radicandosi nella concezione di un socialismo della fine del ventesimo secolo, fuori da tutti gli schemi corporativisti e clientelari. Alle forze politiche e sociali spetta promuovere e mettere in atto la riforma dello Stato come modello per l'Europa, imporre la legge elettorale unica e rispettosa delle minoranze per il parlamento europeo; battersi dappertutto dentro le istituzioni e fuori per la difesa del diritto delle minoranze, e condurre battaglie per imporre i diritti civili non più come diritti all'interno dello stato nazionale, ma diritti che vanno conquistati per tutti e ovunque. Oltre al rinnovamento sindacale, occorre quindi dare corpo a grandi lotte internazionali contro il nucleare e per le energie dolci in tutta Europa, per il diritto effettivo all'aborto senza differenza a tutti i paesi della comunità europea, per abolire i tribunali militari e ancora per la libera ed effettiva informazione a cui hanno diritto tutti i cittadini.

Più radicale ancora sarebbe una lotta estesa a tutta Europa per riuscire a salvare dallo sterminio per fame e malnutrizione la maggior parte di coloro che muoiono adesso, portando così lo scontro con il conservatorismo e le forze della morte sulla maggiore contraddizione di classe. Fare l'Europa oggi non può significare farla soltanto per facilitare il funzionamento della società capitalista e liberale, altrimenti saremo al di fuori da qualsiasi prospettiva socialista e libertaria.

Anche la battaglia contro lo sterminio in corso costituisce quindi un punto di passaggio della costruzione di un'Europa che sia un minimo "progressista"".


ANCHE PANNELLA E' UN COMPAGNO, PERO'...

di Umberto Eco "L'Espresso" 5 agosto 1979

In questo scorcio squallido d'estate in cui il paese assiste alla propria incapacità di darsi un governo, mentre nulla sembra succedere di nuovo, si registra un evento culturale e politico della massima importanza: il numero del "Contemporaneo" (supplemento a "Rinascita") dedicato al radicalismo degli anni '70. Non credo potrà rimanere una battuta estiva, anche se non se ne possono prevedere tutti gli effetti. Ma si tratta in ogni caso di un evento significativo.

Bisogna perciò subito evitarne l'interpretazione cinico-maliziosa: il Pci, dopo aver detto dei radicali, in fase elettorale, tutto l'abominio possibile, ora cerca di riaprire un dialogo. Interpretazione riduttiva perché in politica si fa sempre così, ma si tratta di vedere come lo si fa e a che prezzo. Questa rassegna di articoli, che presenta quasi al completo lo schieramento delle teste pensanti del partito, accogliendo in più alcuni ospiti come Bobbio e Baget-Bozzo e addirittura ospiti "pericolosi" come Marco Boato, dà l'impressione che si voglia pagare un prezzo molto alto, superiore a quello di qualche piccola "combine" parlamentare. Il numero del "Contemporaneo" è interamente illustrato da incisioni di Escher, il maestro delle prospettive ambigue e duplici, l'artista che obbliga a riguardare i suoi disegni più volte, sempre da punti di vista diversi, senza che si arrivi a una conclusione consolatoria e stabile. Non è una scelta casuale: l'intera serie di articoli suggerisce l'idea che tutto debba essere rimesso in discussione, compresa l'idea di un'unica verità. Sarebbe altrettanto ingenuo vedere questa sortita come una resa al nemico: al contrario, tutti gli articoli di parte comunista contengono decise critiche dell'ideologia radicale, e a voler riassumere il modo molto rozzo una serie di discorsi spesso sottili, si potrebbe dire che il messaggio è: "Ci rendiamo conto che si sono molte cose giuste nell'eredità radicale, salvo che il partito di Pannella non sa gestire bene questa eredità è giunto il momento di farla nostra". Dunque, operazione di egemonia certo, e non operazione suicida. Ma anche qui dipende da come la proposta egemonica viene fatta, e ancora una volta a quale prezzo.

Perciò, nell'esaminare questi interventi, non considererò la parte critica (che potremmo riassumere in un'idea di Natta: voi esprimete un rifiuto giusto senza avere un progetto alternativo), ma gli aspetti che lasciano intravvedere l'aprirsi di un deciso processo autocritico da parte dell'intellighentia comunista. In ogni caso è la prima volta che il Pci riconosce così seriamente la validità di un fermento che, bene o male, si svolge alla propria sinistra. Molti diranno che lo ha sempre fatto. Insisto: il modo, le dimensioni qui sono nuove. In ogni caso il tema dominante degli interventi è: non stiamo soltanto mettendo in discussione voi, ma stiamo mettendo in discussione noi stessi.

La maggior parte degli interventi dà per scontato che l'"eredità radicale" (diremo dopo in qual modo essa viene ricostruita) ha consegnato alla sinistra dei nuovi dati di coscienza coi quali non si può non fare i conti. Che per esempio, come dice Massimo Boffa, la linea di classe possa ora attraverso le differenze di sesso, di età, o sul versante protezione dell'ambiente naturale contro produttivismo sfrenato. Che c'è stata un'eredità positiva della contestazione sessantottesca e della successiva rivalutazione della qualità della vita (Natta). Che non si può più teorizzare e lavorare sulla contraddizione fondamentale soltanto; che stanno sorgendo nuove classi e nuove aggregazioni di un universo terziarizzato il quale "mette in crisi la stessa idea marxista di sviluppo, ivi compresa la distinzione classica tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo"; e che si frantuma la distinzione tra sovrastruttura e struttura; e che infine queste nuove aggregazioni "trasversali" impongono "una vera e propria "rivoluzione copernicana", un superamento dell'idea di centralità operaia come motore immobile di una politica di alleanze", da cui una critica del ruolo del partito (Giacomo Marramao). Si veda inoltre l'intervento di Alberto Abruzzese sui dati ineliminabili dell'immaginario radicale, sulla funzione delle sue proposte trasgressive eccetera.

Si tratta ora di vedere come in questo dibattito il Pci "costruisca" il proprio interlocutore. Se si vuol riconoscere una nuova area di coscienza e di bisogni, e nello stesso tempo contestare al partito radicale il diritto ad esserne l'interprete esclusivo, occorre riconoscere un'eredità radicale più vasta. Per questo, sfruttando e ridefinendo al tempo stesso quelle che potrebbero essere pure omonimie, una serie di articoli ricostruisce un albero genealogico radicale di vaste dimensioni.

Franco De Felice traccia una linea Salvemini-Gobetti, Nicola Tranfaglia la fa scorrere attraverso la storia della stampa "radicale", dal "Mondo" di Pannunzio all'ultimo "Espresso" (e si veda come l'aggettivo "radicale" amplii qui la propria estensione), rilevandone l'impegno critico "ribelle di fronte a ogni mito (anche di sinistra) come di fronte a ogni trionfalismo". Ottavio Cecchi ricompone una genealogia dello sperimentalismo tracciando una linea diretta Vittorini-neoavanguardia (e non contano gli appunti critici, quanto il riconoscimento di una tendenza coerente, appunto di un'eredità da rimediare). Biagio De Giovanni compie l'operazione più delicata, una ricucitura (e lo dico senza ironia) del tessuto che unisce da un lato la scuola di Francoforte, dall'altro il radicalismo americano degli anni '60 attraverso la mediazione di Marcuse, sino ad arrivare a Foucault - la cui teoria della pluralità dei poteri viene mostrata come maturazione di quell'eredità radicale che aveva troppo insistito sulla massiccia incombenza di un unico Dominio.

E infine, da un lato Baget-Bozzo e dall'altro Roversi compiono l'operazione apparentemente più curiosa: la restituzione di Pasolini all'area radicale. Regalo non gratuito, perché in tal modo si mostra, nella personalità dilaniata del Poeta Assassinato, la possibilità stessa di un dialogo, "una concordia dialettica", dice Baget-Bozzo, in armonia con la frase pasoliniana che cita Roversi: "Sono qui, come marxista che vota per il Pci e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali".

Sto ricomponendo brani di articoli diversi come se si trattasse di un'unica e sfacciata operazione manipolatoria. E' lo scotto che bisogna pagare per dire in poche colonne che questo numero del "Contemporaneo" si presenta come il risultato di un progetto teorico-critico, non come semplice rassegna di opinioni diverse. Anche perché l'impressione che emerge dalla lettura è che il progetto sia in realtà più ampio. Infatti una volta ricomposta l'eredità radicale nelle dimensioni di cui si è detto, è chiaro che i radicali di Pannella diventano solo una componente di questo panorama. Il panorama complesso riguarda l'immaginario, i bisogni, i modi di vita della seconda società (anche se non mi ricordo che nessuno degli intervenuti usi quest'espressione e, curiosamente, Asor Rosa è assente da questa rassegna). Ma allora, detto fuori dai denti, in questo numero la cultura del Pci sta iniziando a fare i conti, sotto l'etichetta vastissima di "eredità radicale", anche con l'area di autonomia. Dico "area di autonomia", non i teorici padovani, citati di scorcio, ma l'area dei collettivi, dei gruppi sciolti, dei giovani del rifiuto del lavoro come di quelli dei grandi raduni musicali, del movimento informe della disaffezione.

Non è un'impressione. Apre Natta e dice che questa "area, sia pure eterogenea, di cui parliamo" obbliga a "usare altri termini: quello dell'autonomia, per esempio, nel rapporto con le formazioni storiche del movimento operaio, dell'"antagonismo" verso i partiti e i sindacati". Giuseppe Vacca avverte che ci troviamo di fronte a nuove sperimentazioni, a nuovi "cortocircuiti tra vivere e pensare": e se pure giudica la fuga verso la droga e il terrorismo diffuso come forme degenerate di questi cortocircuiti, parla pur sempre di "doglie del parto" di una nuova società. Bruno Gravagnuolo parla di "radicalismo autonomo" come di "spezzone" del fenomeno radicale. Avverte subito che rispetto alla politica di Negri e di "Metropoli" "non c'è ombra di ricomposizione unitaria a nessun livello", ma il discorso è aperto, e come si dice a Pannella che non dovrà essere lui a gestire del tutto l'eredità radicale, così si dice ai teorici di Autonomia che non dovranno essere loro a gestire delle istanze, contraddittorie ma realissime, che non possono più essere esorcizzate. Giacomo Marramao scrive: "L'aspetto più acuto e pericolosamente penetrante delle analisi prodotte dall'Autonomia, sta proprio nel rifiuto di concepire lo Stato come una "rocca", una fortezza autoritaria, e nel cogliere a suo modo (da un punto di vista ribellistico-eversivo) che le trasformazioni istituzionali hanno dato luogo, dalla grande crisi in avanti, a un contesto costituzionalmente contraddittorio e irriducibile a un codice univoco". Mentre Angelo Bolaffi riflette sulla contestazione dell'etica del lavoro, Nicola Badaloni, a conclusione di una severa disamina critica delle debolezze radicali, conclude: "Ma a tanti che hanno peccato sarà, dicono, perdonato, se avranno contribuito a ristabilire l'idea di Marx che il comunismo è in primo luogo diritto dei meno forti, oggi si direbbe degli emarginati". Precisazione linguistica, mi pare.

Altri sono gli interventi di rilievo: come quello di Cacciari che traccia una genealogia dell'umanesimo radicale e della sua contraddizione nei confronti della Tecnica; o quello lucidissimo di Carla Pasquinelli (fra tutti, quello rivolto più ai comunisti che ai radicali) su come tutto il dibattito in corso imponga di fare i conti con un'idea della trascendenza: "La crisi del marxismo coincide dunque con la fine della trascendenza", appunto che mi pare ugualmente critico sia nei confronti del partito che del comunismo utopico alla Toni Negri.

L'impressione globale di questa raccolta di interventi è che il Pci abbia deciso di riconoscere che non è circondato da un frammentato arcipelago di terroristi professionisti pagati dai servizi segreti e di neoqualunquisti intesi soltanto a impedirgli di andare al governo (anche se ovviamente non rinuncia alla battaglia su questo fronte): ma che esiste un tessuto reale di insofferenza e invettività, disaffezione e invenzione alternativa, violenza e nuova costruttività, e che anche in questa pluralità (dal pedigree talora illustre) si agita il marxiano "sogno di una cosa". Fare i conti con questo tessuto esterno significa fare i conti anche col proprio tessuto interno. Del numero di "Contemporaneo" non si può dire che sia conciliante, ma neppure che sia trionfalisticamente dogmatico. E' come una prospettiva di Escher, e forse il commento visivo ne costituisce l'articolo più compromettente: bisogna rivedere i concetti di alto e basso, destra e sinistra, dentro e fuori.

 


DISUNITEVI E DISORGANIZZATEVI

di Danilo Granchi "Il Giornale" 14 novembre 1979

I radicali che contano sono diventati due, e accanto a Marco Pannella, primo e insostituibile come sempre, c'è il nuovo segretario Geppi Rippa eletto, la notte su 5 novembre a conclusione del XXII congresso nazionale di Genova. E, tanto per cominciare, nelle prime battute a congresso chiuso i due hanno detto cose differenti. Pannella, intervistato da Elio Domeniconi del settimanale "Contro", ha tenuto a ricordare (nostalgia?) che ai tempi della Lega del divorzio i radicali erano in duecento, e si sono tirati dietro la maggioranza degli italiani, mentre "ci si chiede se in tremila siamo pochi". Il discorso poi è diventato tagliente: "Sarebbe assurdo pretendere che tutti questi tremila siano perfetti". Il risvolto risulta semplice e preciso: i duecento, perfetti lo erano. La parola d'ordine pannelliana rimane dunque condensata nell'imperativo paradossale: "Disorganizzatevi". Rippa su questo punto la vede in modo diverso. Ha detto a un altro giornalista, Mimmo Liguoro: "Ora che abbiamo quasi un milione e mezzo di voti dobbiamo organizzarci meglio".

Chi dice però che i radicali sono ormai divisi in pannelliani e antipannelliani o dice quello che pensa, e allora non li conosce, o dice malignamente quello che non pensa perché li detesta. Se c'è una distinzione che, latente da anni, ha preso corpo in questi ultimi tempi, è invece quella fra "pannelliani" e "pannellati". Quest'ultima qualifica, sprizzata come una scintilla dal vivo degli scontri verbali in congresso, si chiarisce da sé per via di assonanze: toccati, miracolati, tarantolati, plagiati da Pannella. Il ventinovenne napoletano longilineo e zazzeruto Geppi Rippa non è più, se lo fu mai, un pannellato, è semplicemente un pannelliano. Gestirà il partito con la sopraggiunta benedizione del gran leader, non per sua delega. Il candidato dei pannellati non era lui, era un giovanissimo piemontese tutto scatti, Giovanni Negri.

A proposito del tentativo messo in atto da Pannella di convogliare su Negri la benevolenza del congresso e i voti di convalida dell'evidente investitura se ne sono dette, al Palasport genovese, di feroci. Ai congressi radicali non vanno, caso unico, delegati eletti dalla base, va la base stessa, tutti gli iscritti o anche solo simpatizzanti, senza vaglio preliminare alcuno. Sicché i lavori procedono immersi in un plancton di tipi originali e incontrollabili, pronti a aprire bocca e buttar fuori quello che viene senza pensarci un secondo. Una autoprovocazione continuata, resa meno esplosiva da una tolleranza che pare, e non è, indifferenza. Spesso dalle parole in crocchio si passa ai volantini, ai disegnini, alle circolari a ciclostile. Manifesti da levare il pelo sono rimasti lì, non rimossi per giorni, affissi sotto il palco della presidenza.

Più che "tazebao", pasquinate cinquecentesche. Così ad esempio un dialogo telefonico a fumetti che cominciava "Ciao Marco, agli ordini, lo sai che non mi hanno ancora eletto?". Risposta: "Habbi fede" con annesso disegnino di triangolo con l'occhio in mezzo, simbolo del Padreterno. E dopo una serie di allusioni iniziatiche quando maramaldesche: "Marco, siamo da tre ore al telefono, spenderemo un capitale, e non di Carlo Marx". Replica "Non preoccuparti, caro, c'è il finanziamento pubblico". Abbiamo tralasciato, con concisione, le interiezioni care a Cambronne e a Zavattini. La sostanza, al di là delle botte e risposte fescennine, è che la vecchia guardia pannelliana si è vista bocciare, con suo pupillo, il tentativo di far andare avanti le cose come prima mentre le circostanze sono cambiate. Se non veniva fuori Rippa - lo dicono tutti i maggiorenti, a quattr'occhi - chissà in che mani sarebbe andata la gestione del partito.

Ma Rippa c'era e c'è. Se si chiedono note di colore su di lui, personaggio che ha titolo all'attenzione come il più giovane fra i segretari di partito con un gruppo parlamentare che è il doppio di quello liberale, i suoi collaboratori sgusciano via: non si cava niente più della scarna biografia ufficiale stilata su due piedi la notte dell'elezione. Ha meno di trent'anni, è di buona famiglia, vive da anni fuori casa, non è sposato e in definitiva, per tutto questo, affari suoi. Ma Valter Vecellio per esempio, direttore di "Notizie radicali", diventa agiografico se si tratta di descrivere la gran capacità di lavoro del neo-segretario, la sua efficienza "aggregante". Non solo a tavolino ma anche ai tavolini, quelli adibiti, per intenderci, alla raccolta di firme sotto le richieste di referendum. Come nella Roma prima di Augusto, non si fa carriera politica nel Pr se prima non si è servito spada in mano sul campo, meglio se lasciandoci qualche penna: un paio di mesi in prigione per renitenza alla leva, dieci o quindici chili perduti digiunando, notti all'addiaccio per i sit-in, pernottamenti sul pavimento nel sacco a pelo per assemblee, congressi, marce della pace.

Pannelliano ineccepibile sotto questi profili, arrestato di fresco a Napoli durante la visita di Giovanni Paolo II mentre inalberava uno scanzonato manifesto: "Napoli milionaria saluta il Papa povero", obiettore di coscienza totale, cioè passibile di prigione. Tutto in regola. Ma credenziali valide il Geppi le aveva anche agli occhi dei contestatori implacabili, Giulio Ercolessi, Giuseppe Ramadori, Graziano Laurini, vezzeggiati dai rotocalchi e dalla televisione di Stato, tutti col pugnale di Bruto in mano perché, parole di Laurini contro il dittatore Marco, "non esistono dittature buone". Giusto un mese prima del congresso Rippa si era dimesso da tesoriere. La ragione? Risposta dell'interessato: "Un gesto politico, giudicate voi". C'era dietro - perché no? - tutta la vicenda delle scelte fatte dai capilista dopo le elezioni di giugno, i grossi nomi della "consorteria pannelliana" in testa dovunque per numero di preferenze e quindi eletti più volte: nel decidere circa il seggio da tenere e quelli da cedere, inevitabile il risentimento fra i primi non eletti rimasti sacrificati. Rippa, con 9700 preferenze nella circoscrizione Napoli-Caserta, sarebbe andato alla Camera se Pannella avesse optato per Milano-Pavia.

Piccole cose, ombre, intorno alle quali hanno però preso corpo questioni non futili, di sostanza. Con tanto di lettera a un quotidiano milanese, Franco Roccella, neodeputato in Sicilia proveniente dalla preistoria radicale degli anni Sessanta e passato per una lunga stagione socialista, ha tenuto a professarsi estraneo a manovre e interventi "dietro le quinte" da più parti attribuiti a lui e al collega Aldo Ajello. Manovre a parte, i parlamentari citati e forse altri (lo stesso Gianfranco Spadaccia, dicono, che non sarebbe entusiasta dell'"esilio" al Senato e, fra i non parlamentari, il direttore di "Teleroma 56" Lino Jannuzzi) si sono subito posti, dopo il successo vistoso alle elezioni del 3 e del 10 giugno, il problema del momento: come fare del Pr un partito adatto a sostenere le responsabilità piombategli addosso insieme alla valanga di voti.

Non sono in pochi fra gli esponenti radicali di spicco coloro che si rammaricano perché i termini del problema non sono stati posti davanti al congresso con tutta chiarezza. Il livello del dibattito ne avrebbe di sicuro guadagnato. E non ci sarebbe stata quella commistione continua fra bizantinismo manovriero ed esplosioni folcloristiche che ha fatto la felicità dei nemici viscerali del radicalismo italiano e delle sue fortune.

Del tutto omogenea con gl'intenti e le modalità delle manifestazioni antimilitariste pannelliane - e in nome delle quali Pannella avrebbe voluto la sospensione e il rinvio del congresso perché tutti i convenuti a Genova potessero marciare su Tolone o su Parigi al soccorso dell'imprigionato segretario Fabre - l'impresa di Maria Isabella Puggioni che, noleggiata una barca a motore e issata la bandiera bianca, si è avventurata con quattro fidi per la rada incappando in una sosta forzata alla diga foranea, per recapitare al comandante della portaerei americana "Independence" ancorata al largo l'invito a trasferire "lontano dai nostri sguardi" quel "costosissimo giocattolo di morte". Chiaramente ispirata invece a un beffardo contrappasso l'iniziativa di quei congressisti contestatori che, arrivato il loro turno fra gl'iscritti a parlare, dichiaravano che se ne sarebbero stati in silenzio in segno di protesta per tutti i dieci minuti concessi loro dal regolamento congressuale. Battibecco di uno di questi puntigliosi con la presidenza. Presidente: "Vorrei fare una comunicazione". Oratore, sospendendo lo sciopero del silenzio: "La presidenza è pregata di non interrompere l'intervento, faccia le sue comunicazioni fra un intervento e l'altro". E zitto di nuovo.

Può andare avanti così un partito che non è più soltanto una confraternita di bizzarri aspiranti alla santità politica? Questo è il nido di vipere. E per contro: fino a che punto un partito vivo perché "diverso" può mettersi in riga senza contrarre le paralizzanti malattie degli altri partiti: i "grandi animali di legno" commiserati da Jean-Paul Sartre? Politologi ingegnosi di area radicale buttano là diversivi eruditi. Citano Cavour, che aveva una politica e non un partito. Ma intanto la leadership di Pannella è in licenza di convalescenza, e il provvidenziale Rippa è lì a sbrigare le faccende di casa, in attesa che i non violenti della rosa in pugno si risolvano a prendere il toro per le corna.


MA IO VI VOGLIO SEMPRE BENE

di Sergio Saviane L'ESPRESSO 18 novembre 1979

SOMMARIO: Il XXII Congresso radicale di Genova (31 ottobre, 1, 2, 3, 4 novembre 1979) si apre con due elementi: l'arresto del segretario del Partito Jean Fabre in Francia come obiettore di coscienza e la contestazione interna del gruppo di Giulio Ercolessi e Giuseppe Ramadori. I deputati radicali, rispettando il principio della "separazione" fra membri eletti (che rappresentano la nazione senza vincoli di mandato) e partito, non partecipano al Congresso. La stampa amplifica la contestazione interna parlando di caduta della leadership di Marco Pannella.

Interpellato su quello che è successo a Genova, Saviane risponde che "i giornali scrivono solo che a Genova c'è un gran casino. E per questo io voto radicale. Senza tanto preoccuparmi. I radicali sono abituati a questi errori, a questi casini, a questi trattamenti, a queste contraddizioni, e a questi linciaggi. E anche per questo io li voto". 1633

Tu che sei radicale, cosa te ne fai adesso del partito?, mi domandano: lo butti al macero o lo voterai ancora? Già, adesso devo anche discolparmi. Ma di quale colpa? Di essere nauseato dello spettacolo che quotidianamente mi fornisce la maggior parte della classe politica italiana? Di guardarla senza paraocchi, questa classe politica, e vedere che peggiora sempre più? O di dirlo. Se oggi la televisione ci fa vedere, nell'ottima trasmissione di Lucchi-Manganiello-Caracciolo-Fattori, il re sciaboletta che passa in rassegna sul Piave le sue truppe, o il duce che trebbia il grano a petto nudo con Starace, non tutti i cittadini si accorgono che gli sciaboletti di oggi, con le loro chiacchiere, le loro cerimonie, le loro inaugurazioni, con le loro promesse mai mantenute o con le loro menzogne, sono ancora più ridicoli e bolsi di quelli di ieri. Ridendo del passato, dimenticano il presente. Eppure oggi l'Italia offre ogni momento quasi lo stesso spettacolo. I cittadini le vedono ogni sera queste pagliette della politica e delle istituzioni che rilasciano interviste, ma solo pochi riescono a svegliarsi dal loro torpore e a scorgerne il lato tragico e ridicolo. Qualcuno tenta di suonare la sveglia. Ma ecco che il regime, con i suoi apparati radiotelevisivi e giornalistici, le lotterie, le processioni, i rosari e le interviste a colori è lì pronto a convincere gli italiani che le cose non sono come le dipingono quelli del ``Male'', certi caricaturisti, certi giornali ancora liberi e "quei cialtroni dei radicali". Invece i cialtroni dei radicali servono proprio per questo. Per suonare la sveglia ai sordi che non la sentono e a quelli che non la vogliono sentire. A volte la sveglia funziona, e così qualche persona, sia pure nel dormiveglia, si accorge che avvengono occupazioni di Rai o di ministri, sit-in, manifestazioni di protesta, che esiste insomma anche un'opposizione. Ma in genere rimangono a letto, non hanno la forza di alzarsi. Non è mica affare loro: è affare di quegli straccioni dei radicali.

Un mese fa viene arrestato a Parigi Jean Fabre, segretario del partito radicale, e la stampa nazionale rimane quasi indifferente. Se avessero arrestato Berlinguer, Zacagnini, Longo, Zanone, Craxi o Spadolini, che gli farebbe anche bene a questi due pollastroni un po' di dieta, si sarebbero mobilitati Camera e Senato, tutta la stampa e la televisione, tutta la diplomazia, Pertini, il papa, i vescovi con la Famiglia cristiana. Ma siccome è stato messo dentro il segretario del partito degli straccioni, nessuno si muove. Anzi, la televisione trasmette addirittura che Jean Fabre è stato arrestato a Parigi non per una precedente accusa di obiezione di coscienza, ma "per aver spacciato marijuana".

L'arresto del segretario di un partito è un fatto senza precedenti, ma anche una grossa carta politica da giocare alla vigilia del congresso di Genova. Il consiglio federativo, organo supremo del partito radicale, vista l'indifferenza della stampa e della televisione sul caso Fabre, dopo aver discusso molti giorni, invece di rinviare il congresso (unica pedina da muovere in quel momento), decide di tenerlo lo stesso e di mandare a Genova solo due parlamentari: Adelaide Aglietta e Marco Pannella. Perché solo questi due? Perché lo statuto del partito radicale, a differenza di quelli di tutti gli altri partiti, obbliga (giustamente secondo me) i parlamentari a non partecipare ai congressi. I congressi sono assemblee per gli iscritti, i delegati, i cittadini, chiunque voglia prendere la parola. I parlamentari, loro, parlano già altrove, sempre. Dunque, al congresso andranno solo in due Adelaide Aglietta andrà a Genova per ascoltare gli interventi; Marco Pannella andrà come rappresentante del Parlamento Europeo, e per fare il suo intervento su Fabre. Pannella fa il suo intervento, insulta molti delegati, viene fischiato, dice che senza Fabre non si può fare il congresso, invita i compagni a salire sui pullman e andare a Mentone a protestare, quindi parte per Parigi con gli altri parlamentari.

La decisione del consiglio federativo di non rinviare il congresso subito dopo l'arresto di Fabre è l'unico grande errore di Pannella. Era intuibile che gli straccioni, giunti a Genova a proprie spese e con i sacchi a pelo non volessero rinunciarvi. Infatti i pullman per Parigi rimangono vuoti. Così, mentre a Parigi i deputati radicali faranno il sit-in e vengono allontanati con la forza, a Genova il congresso sedotto e abbandonato continua i suoi arruffati lavori.

Parlano a centinaia, delegati, criptodelegati, disperati, iscritti e non iscritti, liberi cittadini, perfino bambini. E' l'Italia degli emarginati. Ma chi raccoglie le loro proteste se non il congresso? E' evidente che i giornali, nella gran confusione, per motivi di partito, o di regime, vanno a nozze e mettono alla berlina i radicali che fanno "un congresso da casino". Infatti i giornali non dicono ai loro lettori perché questo può accadere in un partito che non ha e non può avere paragoni con gli altri partiti, perché è un partito di ``diversi'' di ``matti'', di ``cialtroni'' che non conoscono neanche le regole del gioco e commettono errori madornali. I giornali scrivono solo che a Genova c'è un gran casino. E per questo io voto radicale. Senza tanto preoccuparmi. I radicali sono abituati a questi errori, a questi casini, a questi trattamenti, a queste contraddizioni, e a questi linciaggi. E anche per questo io li voto.