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Cronologia del Partito Radicale -
1980

DOCUMENTI
RAPPORTO CARTER: L'ARITMETICA DELLA Povertà Prefazione di Aldo Ajello Quaderni radicali, gennaio 1980
L'appello: "subito una legge per non morire" AR14 Novembre 1979/Gennaio 1980
Decreti antiterrorismo: ostruzionismo? Noi dobbiamo farlo Intervista a Leonardo Sciascia "Panorama" gennaio 1980
Una nuova Buchenwald - Lettera al Messaggero di Marco Pannella IL MESSAGGERO 1 marzo 1980
Fame nel mondo: grazie per il silenzio di Giovanni Paolo II di Marco Pannella IL MESSAGGERO, 9 aprile 1980
FIRMA SUBITO PER I DIECI REFERENDUM Fermali con una firma VOLANTINO aprile 80
COMMISSIONE MORO, POLEMICA BERLINGUER-SCIASCIA di Valter Vecellio NR 29 maggio 1980
Vorrei che tu, Guttuso ed io Colloquio con Leonardo Sciascia di Rita Cirio L'ESPRESSO, 13 maggio 1980
Elezioni, referendum, prospettive politiche di Massimo Teodori AR/15 Febbraio-Maggio 1980
IL NUOVO PATTO RADICALE - LA MOZIONE DEL CONGRESSO DI ROMA di Lorenzo Strik Lievers AR/15 Febbraio-Maggio 1980
I conti con i referendum di Giuseppe Rippa NR32, 28 giugno 1980
Sterminio per fame nel mondo Intervento di Marco Pannella al PE16.9.80
Pannella impuso sus tesis en el congreso del partido radical italiano Juan Arias, "EL PAIS" miércoles 5 de noviembre de 1980
Si va a letto col nemico piuttosto che ucciderlo di Rosa Montero. Intervista a Marco Pannella"EL PAIS" 7 dicembre 1980

RAPPORTO CARTER: L'ARITMETICA DELLA POVERTA'

Prefazione di Aldo Ajello Quaderni radicali, gennaio 1980

Questa è un'ampia sintesi del rapporto preliminare predisposto da una speciale Commissione incaricata dal Presidente Carter di studiare i problemi della fame e della denutrizione e di indicare le priorità della politica estera americana in questa materia.
Il dato che più ci ha impressionato in questo rapporto e che ci ha indotto a divulgarlo, è che esso approda alle stesse conclusioni alle quali noi siamo arrivati e che propone soluzioni analoghe a quelle che noi proponiamo.
La fame e la denutrizione non sono il risultato di una maledizione biblica, ma la conseguenza di una iniqua distribuzione delle risorse e della ricchezza alla quale è possibile porre rimedio con un atto di umana volontà.
La lotta contro la fame, la denutrizione e il sottosviluppo non è solo un imperativo morale, ma anche un imperativo economico e politico.
Su questo concetto io insisto da anni e ne ho fatto il filo conduttore di tutti i miei interventi al Senato, alla Camera e in tutte le sedi dove la questione è stata dibattuta.
Secondo il nostro punto di vista, l'imperativo morale dovrebbe essere di per sé sufficiente per fare della lotta contro la fame la nostra prima priorità. L'indifferenza o la scarsa attenzione a questa tragedia o, peggio ancora, il suo sfruttamento, sono in netta contraddizione con tutti i principi etico-politici ai quali si ispira quella che chiamiamo pomposamente la "civiltà occidentale".
Ma nella fattispecie l'imperativo morale non è il solo: c'è anche un imperativo economico che ha come suo presupposto il concetto di interdipendenza.
Interdipendenza fra paesi industrializzati detentori di tecnologia e carenti di materie prime e di fonti energetiche, e paesi in via di sviluppo produttori di materie prime e di energia e carenti di tecnologia; interdipendenza tra Paesi industrializzati i cui mercati sono ormai saturi e non sono più in grado di stimolare il processo produttivo, e paesi in via di sviluppo i cui mercati conservano intatte enormi potenzialità sia di animare un autonomo processo produttivo più che di vivificare le economie stanche dei paesi industrializzati. E numerose altre interdipendenze sono riscontrabili, talché il tema della interdipendenza economica fra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo è diventato la questione centrale di tutto il dialogo nord-sud, in tutte le sedi in cui esso si svolge e segnatamente in sede UNCTAD.
E' ormai opinione diffusa e consolidata che la crisi economica che oggi interessa i paesi occidentali è una crisi strutturale che potrà essere superata solo contribuendo massicciamente allo sviluppo dei paesi terzo e del quarto mondo. L'aiuto allo sviluppo, quindi, non è un atto filantropico, ma una scelta di politica economica lungimirante, compiuta nella consapevolezza di difendere un comune interesse e di promuovere il comune vantaggio.

C'è infine un imperativo politico che si aggiunge a quello morale e a quello economico e che certamente non è meno importante. Nessuna pace stabile e durevole può essere garantita a lungo in un mondo in cui un quarto dell'umanità vive in condizioni di relativo benessere, con scandalose punte di opulenza, mentre gli altri tre quarti soffrono per la fame e la denutrizione.
Se pensiamo che nel 2000 ci saranno sulla terra circa 7 miliardi di esseri umani a fronte dei quattro miliardi di oggi, possiamo facilmente comprendere quale tremenda carica destabilizzatrice rappresenta questo esercito di affamati.
Ecco il senso dello slogan della marcia di Pasqua dell'anno scorso: "Salviamoli e salviamoci". Non ci sarà salvezza per noi se non ci sarà salvezza per loro.

Questi dati, sui quali si è fondata l'iniziativa radicale contro lo sterminio per fame, trovano puntuale e singolare riscontro nel rapporto americano. Ne deriva una scelta di priorità che interseca le nostre priorità e le avvalora fornendo loro un autorevole supporto tecnico.
La lotta contro la fame, la denutrizione, il sottosviluppo, le malattie; l'impegno per costruire un nuovo ordine etico, economico e politico mondiale devono essere la priorità delle priorità.
Per anni le relazioni internazionali si sono sviluppate lungo l'asse est-ovest. Oggi, la via della salvezza passa per l'asse nord-sud. Prima il dialogo est-ovest bastava garantire la pace ma oggi pace vuol dire sviluppo.
In questo contesto il dialogo nord-sud acquista una importanza ben maggiore di quella che gli hanno assegnato le diplomazie occidentali.
Per anni abbiamo depredato i paesi in via di sviluppo delle loro risorse umane con l'ignominia dello schiavismo, delle materie prime e dell'energia, con il colonialismo, e le deprediamo ancora della quota di sviluppo cui hanno diritto, con il neocolonialismo, imponendo inique ragioni di scambio e condannandoli alla fame e alla denutrizione.
Tutto questo è costato e costa ogni anno milioni di vite umane. Tutto questo non è soltanto moralmente inaccettabile, è economicamente stupido e politicamente suicida.
Tutto questo deve finire prima che sia troppo tardi. Non si può più trattare di assistenza, ma di partnership: di un rapporto paritario fra soggetti aventi pari dignità, diretto al perseguimento del ben comune.
E quindi tutto il modo di affrontare il problema deve cambiare. Quello che appare dissennato in un'ottica filantropica, si rivela saggio in un ottica di cooperazione imposta dagli imperativi categorici dell'interdipendenza economica, della politica della sicurezza e della questione morale.
E' anche qui i suggerimenti del rapporto americano incontrano le proposte radicali: soddisfare immediatamente la richiesta dell'ONU dello 0,70% del P.N.L. destinandolo effettivamente alla cooperazione allo sviluppo e stanziare altri fondi per interventi straordinari. Ma il fatto più rilevante è che la Commissione ci dà ragione su un punto fondamentale. Non esiste la politica dei due tempi.
La tesi secondo cui bisogna prima rimediare alle carenze strutturali e poi salvare chi muore di fame, è assassina.
In nome di questa tesi i comunisti hanno snobbato le nostre iniziative, le hanno accusate di improvvisazione, le hanno sostanzialmente boicottate.
In nome di questa tesi tutti i chierici dello sviluppo, i cultori della materia, gli acrobati del realismo ci hanno definito irresponsabili, ci hanno additato alla pubblica esecrazione, hanno irriso alle nostre proposte.

Ebbene il rapporto americano dà torto a questi chierici e a questi esperti e dà ragione a noi. Bisogna condurre - affermano i commissari - due distinte azioni: una ordinaria, destinata allo sviluppo e una straordinaria diretta al salvataggio di vite umane da strappare alla morte e da conservare alla vita. Queste due azioni - continua il rapporto - devono essere contemporanee e parallele.
Tutte e due si devono concentrare sul soddisfacimento prioritario dei bisogni fondamentali.
E qui si individuano giustamente le responsabilità delle classi dirigente dei paesi del terzo mondo che hanno seguito una politica di prestigio disperdendo enormi ricchezze in armamenti e in una politica di sviluppo industriale che ha concentrato in poche aree urbane impianti spesso ad alta tecnologia, e quindi ad alta dipendenza dal paese fornitore, lasciando il resto del paese a vivere e a morire di una agricoltura eufemisticamente definita di sussistenza.
E qui si riscontra uno dei frutti più amari del colonialismo: l'esportazione di modelli di sviluppo e di modelli culturali totalmente estranei alle potenzialità economiche e alla cultura dei paesi che li importano, acquisendoli acriticamente.
Su questo fronte, che spesso è inquinato da complicità, connivenze e da gravi fenomeni di corruzione, la nostra azione deve essere altrettanto severa, come sul fronte dei governi occidentali.

Ma c'è un ultima considerazione, non direttamente connessa al rapporto americano, che vale la pena di fare: liberare i paesi del terzo e del quarto mondo dal ricatto alimentare significa creare nuovi spazi di libertà e di autonomia che sono la condizione necessaria per il rilancio di un nuovo processo di distensione.
Una distensione dinamica che superi la logica bipolare dei blocchi contrapposti egemonizzati dalle due superpotenze, e crei un nuovo equilibrio multipolare fondato sul consenso e non sul terrore atomico.
Questo, il rapporto americano non può dirlo, perché mette in discussione l'egemonia degli Stati Uniti nell'occidente, come quella sovietica in oriente, e prefigura un ruolo autonomo per un Europa che avesse il coraggio di essere soggetto di iniziativa politica. Ma siamo persuasi che all'esito di questo modello di distensione è legato il futuro della pace nel mondo, non essendo possibile immaginare un ritorno al passato: al grande negoziato diretto tra le due superpotenze e alla diplomazia segreta nel chiuso delle cancellerie.
E anche in questa prospettiva la questione prioritaria è la lotta contro la fame e la denutrizione, la rimozione del ricatto alimentare.
E allora la battaglia che ci ha visti impegnati nel corso di questo anno e che riprendiamo ora con nuovo vigore in occasione della prossima Pasqua non è una delle priorità, è la nostra suprema priorità.
Dobbiamo fare tutto il necessario per farla diventare la suprema priorità della nostra politica estera.
Cominceremo a denunciare le responsabilità del Governo italiano che, con le sue inadempienze, si è reso complice dello sterminio. Del pari denunceremo tutti i Governi dei paesi industrializzati e di quelle in via di sviluppo che hanno una qualche responsabilità in questa gigantesca Buchenwald.
E per tutti chiederemo una nuova Norimberga, con i suoi giudici, i suoi testimoni, i suoi imputati e le sue vittime. Davanti ad un tale tribunale il rapporto americano potrebbe essere un efficace atto di accusa.



L' APPELLO: SUBITO UNA LEGGE PER NON MORIRE

AR14 Novembre 1979/Gennaio 1980,

"Il problema dell'eroina rischia, come qualcuno prevedeva e molti temevano, di diventare un problema marginale: se n'è parlato molto, non si è fatto niente per risolverlo, e infine non se ne parla più. Il ministro della Sanità dopo le sensazionali dichiarazioni di fine estate continua a "studiare" il problema senza avere il coraggio di affrontarlo seriamente. La stessa stampa dopo l'allarme autunnale dedica ormai alla questione scarni bollettini di guerra annunciando le morti sempre più numerose.
L'opinione pubblica e i partiti tendono a dimenticare e ad esorcizzare il problema nascondendosi dietro altre e più gravi preoccupazioni: la questione dell'eroina così passa fra i mali minori, endemici.
In realtà uno Stato che si dimostra indifferente (ma forse non è impotente) nei confronti di un fenomeno che riguarda più di centomila persone e comincia ad uccidere non più a decine ma a centinaia, si rivela anche su questo "piccolo" problema, incapace di essere al servizio dei cittadini, soprattutto dei più deboli.
Per questo crediamo che l'attuale legge 685 vada subito sostituita o radicalmente modificata; e riteniamo importante l'iniziativa presa da un gruppo di deputati radicali e socialisti.
Tale iniziativa lacera in modo concreto il silenzio che intorno al problema della droga si vuole creare: e lo lacera con un fatto capace di mettere in moto un cambiamento della situazione, con una proposta di legge.
Il progetto di legge presentato, aperto a modifiche e a contributi costruttivi, contiene alcuni principi originali e sostanziali: la difesa contro la morte; l'attacco al mercato nero; il diritto alla salute e alla libera scelta; la liberazione di centinaia di giovani condannati per l'uso di sostanze (quali i derivati della cannabis) assai meno nocive di altre, pure legali.
Chiediamo che le forze politiche si assumano la loro responsabilità. Chiediamo, indipendentemente dal giudizio di merito, che il Parlamento discuta subito la proposta di legge sulla droga.

I primi cento firmatari dell'appello

"Leonardo Sciascia, Adriano Buzzati Traverso, Giorgio Benvenuto (segretario generale UIL), Enzo Mattina (segretario nazionale FLM), Franco Ferrarotti, Luigi Pintor (Il Manifesto), Giancarlo Arnao, Hayr Terzian, Marco Margnielli, Rosalba Terranova, Pierluigi Cornacchia, Guido Blumir, Roberto Pizzò, Marco Lombardo Radice, Maria Lizza, Michele Risso, Luigi Del Gatto, Luigi Bonito, Miretta Cugli, Graziana Delpierre e Matteo di Capua (dell'Associaziane Autoregolamentazione Stupefacenti); Carlo Fiordaliso (segretario generale UIL-sanità); magistrati: Michele Coiro, Gaetano Dragotto, Gabriele Cerminara, Aurelio Galasso, Franca Marrone, Franco Misiani, Riccardo Morra, Giuseppe Salmé, Luigi Saraceni, Aldo Vittozzi, Gianni Vattimo, Angelo Pezzana (FUORI), Angiolo Bandinelli (cansigliere comunale radicale di Roma), Giuseppe Ramadari (consigliere provinciale radicale di Roma), Francesco Rutelli (segretario PR Lazio), Franco Corleone (segretario PR Lombardia), Enzo Francone (segretario PR Piemonte), Rita Cenni (segretario PR Emilia), Sandra Dionisio (segretario PR Campania), Paolo Manzi (segretario PR Puglie), Aligi Taschera, Angelo Foschi (coordinamento nazionale droga del PR): Angelo Panebianco, Lorenzo Strik Lievers, Mercedes Bresso, Enzo Belli Nicoletti (Argomenti Radicali); Paolo Hutter (Radio popolare di Milano), Federico Mancini, Guido Martinotti, Paolo Flores D'Arcais (centro Mondoperaio, Roma), Giaime Pintor, Ernesto Galli della Loggia, Tina Lagostena Bassi, Nina Marazzita, Roberto Villetti (Avanti!) Enrico Boselli (segretario nazionale FGS), Enrico Mentana (vice-segretario FGS), Beppe Attene (vice-segretario nazionale ARCI); della redazione de L'Europeo: Lauretta Colonielli, Letizia Maraini, Lauro Ballio, Fiamma Arditi, Alvise Sapori, Maria Giulia Minetti, Ludovico Ripa di Meana, Pasquale Chessa, Angelo Virdò, Antonella Riccio, Barbara Palombelli, Roberto Chiodi, Giuseppe Catalano, Corrado Incerti, Michele Dzieduszycki, Gioncarlo Mazzini, Paolo Oietti, Maria Adele Teodori, Franco Scaglia (Radiocorriere), Borbara AIberti (scrittrice), Amedeo Pagani, Monique Husson (ANSA ), Marina Mogaloi (GR3), Margareta Steinby, Francesco Dambrosio, Elena Marinucci, la redazione di Lotta Continua, Felice Piersanti, Lidia Ravera, Mariella Gramaglia, Massimo Miniero e Gruppo di intervento sulle farmaco-dipendenze di Napoli; Fiamma Nirenstein, Silvio Pergameno, Gianpiero Borella (giornalista)".


Decreti antiterrorismo: ostruzionismo? Noi dobbiamo farlo.

Intervista a Leonardo Sciascia "Panorama" gennaio 1980

Domanda: "Ostruzionismo: la sola parola evoca un clima drammatico, una questione di vita o di morte per il gioco democratico. Ma è davvero in gioco la democrazia con i decreti antiterrorismo?"
Risposta: "Credo proprio di sì, che questa legge sia pericolosa per l'avvenire della democrazia. Non riesco a concepire un sistema democratico che si ripari dal diritto, dalla giustizia. Quando una legge arriva a contemplare una detenzione di una dozzina d'anni prima che si arrivi a una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione, non so dove sia andato a finire il diritto, dove la democrazia".

D.: "L'accusa agli ostruzionisti è questa: prevaricazione della minoranza sulla maggioranza..."
R.: "L'ostruzionismo è il forzare le regole del gioco, non il negarle, da parte di una minoranza che sta per essere sopraffatta dalla maggioranza. Da una maggioranza che ha torto: che ha torto di fronte al diritto. In questo caso: il diritto, i diritti che la Costituzione sancisce".

D.: "Non credete però che la vostra campagna trovi scarsa eco nell'opinione pubblica? Ormai c'è gente che chiede perfino la pena di morte..."
R.: "Lo credo senz'altro. Ma ci sono momenti in cui le minoranze debbono assumersi penose e impopolari responsabilità; e anche il peso della possibile sconfitta. E' bene non dimenticare che così è stato in Italia tra il 1922 e il 1925".

D.: "Non teme che, semplificando al massimo, il messaggio che arriva da Montecitorio alla gente sia questo: il governo vuole fare qualcosa contro il terrorismo; i radicali glielo impediscono; quindi i radicali sono amici dei terroristi?"
R.: "Sì, lo temo. Me ne dispiace. L'importante è che non sia vero. E che anzi è vero il contrario".

D.: "Sottoscriverebbe ancora lo slogan: "Né con lo Stato né con le BR?"
R.: "Ha mai visto in un mio scritto questo slogan? E non crede, rileggendo i miei scritti dalla polemica con Giorgio Amendola in poi, che quel che volevo dire non aveva niente a che fare con questo slogan? La mia polemica non è stata, né è, contro le istituzioni: ma contro quello che le istituzioni contengono di marcio".

D.: "Al di là della vicenda dei decreti, c'è un'impressione crescente di impotenza del Parlamento, di paralisi. Si immaginava così Montecitorio, prima di diventare deputato? Non si è pentito della sua decisione?"
R.: "La immaginavo così, la Camera: e non era poi difficile immaginarla. In quanto alla mia decisione: ero pentito nel momento stesso di prenderla".


Una nuova Buchenwald - Lettera al Messaggero

di Marco Pannella IL MESSAGGERO 1 marzo 1980

SOMMARIO: Il Presidente della Repubblica dice che contro i terroristi siamo in guerra. Si perde il conto delle vittime. Ma c'è un'altra strage che procede: quella silenziosa dello sterminio per fame, con le sue decine di milioni di vittime. Si muore non per mancanza di cibo, ma per mancanza della volontà politica di procurarlo, mentre le eccedenze alimentari del Nord industrializzato costituiscono un problema economico. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve essere investito del problema della sicurezza alimentare di milioni di persone. Gli Stati devono immediatamente stanziare almeno l'1.40% dei loro bilanci per lo stesso scopo. Il Partito radicale impegnato a promuovere una mobilitazione generale su questo obiettivo, e i suoi militanti impegnati in una non solo simbolica azione di denutrizione.

Il leader radicale Marco Pannella, deputato alla Camera, ci ha inviato la seguente, lettera, che siamo lieti di pubblicare.

Signor Direttore,

la strage continua. Si perde ormai il conto dei morti, assassinati dai terroristi: due, trecento? Non se ne può più. Il Presidente della Repubblica, all'inizio dell'anno, dichiara che contro i killer noi siamo in guerra. Da allora le leggi stravolte, il bilancio dello Stato, l'aumento delle vittime, lo stato della giustizia e delle carceri sembrano testimoniare davvero di una sorta di stato di guerra, contro la persistente infamia di alcune decine o centinaia di persone inermi. Per costoro non v'è più nulla di sacro, nemmeno la vita.

Per costoro? Solo per costoro? Chi scaglierà la prima pietra? Se questa strage continua, lo sterminio - ancor più scientifico, puntuale - di decine di milioni di persone ogni anno, per denutrizione e fame, dilaga. Decine di milioni di sterminati nei mesi scorsi, decine di milioni nei mesi prossimi. Dov'è lo scandalo? La morte, non la vita: lo sterminio, l'assassinio, sembrano sacri.

L'Onu, la Fao, il Consiglio Mondiale dell'Alimentazione, la Commissione Carter, la Commissione Brandt, il Club di Roma, l'Uncted, il Papa, il Presidente della Repubblica, il Presidente Giscard d'Estaing, l'Ambasciatore Gardner, il Parlamento Europeo, quello italiano, tutti, tutti, in documenti e dichiarazioni ufficiali, che abbiamo raccolto, tutti sono concordi nell'affermare che non si muore per mancanza di cibo, ma per "volontà politica" - o per la sua mancanza, il che fa lo stesso.

Quest'anno saranno spesi all'incirca 650 miliardi di dollari in armamenti circa 1.600 miliardi di lire al giorno. E v'è nel mondo già tanto esplosivo da assicurare trenta volte la morte di ogni essere umano, la scomparsa totale dell'umanità. Quest'anno il tasso di mortalità per denutrizione e fame non solamente subirà un ulteriore aumento, ma suo tasso di crescita sarà il maggiore degli ultimi anni. La Fao lo aveva già previsto. Il 19 febbraio scorso, a Bruxelles, in una "hearing" pubblica che abbiamo organizzato al Parlamento Europeo, ad una mia precisa domanda, il Presidente del Consiglio Mondiale dell'Alimentazione Tanko, il vice Presidente della Commissione Carter, e il Presidente della Commissione "Nord-Sud" Willy Brandt, lo hanno concordi confermato.

Queste previsioni sono al di sotto della realtà. In genere non viene calcolato il collasso, lo sfascio che incombe ormai irreversibile sulle "economie" dei paesi del terzo e del quarto Mondo a causa della situazione energetica e della politica di investimenti e dei prezzi dei paesi dell'Opec, che viene pagata innanzitutto dai paesi poveri, da quelli del quarto Mondo. Gli "aiuti" che ancora giungono in quei luoghi, nella Buchenwald cui riduce l'intero mondo del sottosviluppo la nostra generazione, vengono assorbiti dalle classi dirigenti, "rivoluzionarie" o "conservatrici" che siano, con poche esenzioni, per nutrire le minoranze cittadine e per armare eserciti. Spesso i governanti degli affamati appartengono al mondo degli affamatori, dei nuovi nazisti-stalinisti, al nostro. La Commissione Carter ha documentato che la quantità di cereali sufficiente in un anno perché non vi sia denutrizione nel mondo equivarrebbe al costo di 5 (cinque!) sottomarini attualmente in costruzione negli Usa.

Ma è inutile ch'io continui a scrivere di questo: delle "eccedenze" di cui rigurgitiamo, signor direttore, quelle alimentari fanno pace con quelle del nostro "sapere". Progetti, programmi, "food strategy", impegni internazionali e nazionali, agenzie specializzate, tecnici e volontari, missionari e mercenari, crescono in modo esponenziale. Il da fare è arcinoto. Quel che si fa è lo sterminio.

A Roma, come e forse più che altrove. Occorre cambiare volontà politica, occorre imporre una politica della vita, della pace, del disarmo, della nonviolenza. E' l'unica realistica, l'unica non impossibile nei suoi risultati. L'unica che viene rifiutata, censurata. Occorre che si diventi tutti donne e uomini di speranza, contro il deserto della disperazione cui ci rassegniamo.

Da più di un anno lo andiamo dicendo, andiamo lottando. Da ogni angolo del mondo ci si comincia a dar ragione. Non vorremmo soddisfarcene. Dopo un anno di impegno, di studio, di digiuni e di azioni parlamentari, dopo esser stati impegnati a Roma o in Cambogia, o Ottawa o a Strasburgo sappiamo ora che erano giusti gli obiettivi che ci portarono alla prima grande Marcia pasquale, da Porta Pia al Quirinale, dal Quirinale a Palazzo Chigi, da Palazzo Chigi a Montecitorio, a Palazzo Madama, per giungere a S. Pietro, da papa Giovani Paolo II.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU deve immediatamente essere investito dell'imperativo di salvare decine di milioni di bambini, di persone che sono già in agonia, o stanno inesorabilmente per entravi.
Gli Stati devono immediatamente versare l'1,40 (0.70 x 2) del loro prodotto nazionale lordo per lo stesso scopo, per l'aiuto allo sviluppo. Trattati internazionali aventi valore di diritto positivo nei nostri paesi non solamente lo consentono ma lo esigono. Il nostro paese deve prendere l'iniziativa, mentre è restato - di fronte ai 15 milioni di bambini che morivano - fermo all'ultimo posto nello schieramento dei paesi industrializzati, dunque al primo di quello dello sterminio neo-nazista.

Occorre una mobilitazione generale, non più di chiacchiere o di tragici e suggestivi mottetti pacifisti, ma di opere. Dobbiamo dar corpo, non solo parola, alla vita, alla salvezza di questo mondo. Con i nostri compagni nonviolenti, cristiani, socialisti, del PR siamo già impegnati in un'azione non solamente simbolica di sottonutrizione. Il 30 marzo inizieremo un digiuno di massa, il primo satyagraha gandhiano in occidente, il primo da quasi cinquant'anni. Dalla Domenica delle Palme a quella di Pasqua organizzeremo, con gente che verrà da ogni parte d'Europa e non solo d'Europa, una serie di manifestazioni pubbliche, per ritrovarci tutti, speriamo, in una seconda marcia della Vita, della Pace, del Disarmo, in piazza S. Pietro il giorno di Pasqua.
Proponiamo che immediatamente, nelle famiglie, nelle scuole, negli uffici e nelle fabbriche, nei paesi, nelle Chiese e nelle sedi pubbliche e in quelle sindacali e politiche, ci si organizzi per dar vita (letteralmente) alla speranza, per dar vita a chi stiamo invece sterminando.

Anche quest'anno il comitato per la Vita, la Pace e il Disarmo, aperto a tutti, potrà costituire il punto di incontro e di coordinamento. Malgrado che il suo obiettivo dello scorso anno sia stato - come qualcuno di noi prevedeva - atrocemente mancato. O proprio per questo. Tutto deve esser subordinato a questa speranza. Se la stampa ci aiuterà, signor direttore, se potrà compiere il suo compito di informazione fino in fondo, da Roma potrà accendersi una scintilla che farà divampare questa guerra alla guerra e alla morte che tutti deve unirci.
Ci si scriva, per ora, presso la Camera dei Deputati, o, se lei lo ritiene possibile, presso "Il Messaggero".
Con il nostro digiuno, quest'anno, legheremo le nostre esistenze a quella di milioni di altri. Salvi con quelle, sconfitti con quelle. Ma al di là delle scelte consapevoli questo - credo - è il destino di tutti.
E ora attendiamo. Con trepidazione, ma con speranza.


Fame nel mondo: grazie per il silenzio di Giovanni Paolo II

di Marco Pannella IL MESSAGGERO, 9 aprile 1980

Marco Pannella ha dato l'avvio con una lettera al "Messaggero" alla marcia contro lo sterminio per fame nel mondo che si è svolta a Pasqua, con la partecipazione di decine di migliaia di cittadini. Ora, con questo scritto, tira le somme e commenta il silenzio del Papa e del "Palazzo".

Giovanni Paolo, Giovanni Paolo ha davvero taciuto? Il suo silenzio ci insegue. Non è forse che ci parli? Non avevamo forse noi denunciato gli uomini di lamento, gli uomini la cui parola non diviene verità e vita, ma quasi meglio sospinge verso la morte, verso la disperazione?
Una parola che non salvi, che non sia annuncio di salvezza e di resurrezione, può essere ripetuta, deve essere pronunciata, o non deve essere piuttosto taciuta? Pronunciarla, non sarebbe menzogna, quasi bestemmia?

Della Buchenwald di oggi, del tremendo sterminio, questa volta, i Papi hanno parlato. Incessantemente, da venti anni. La "Populorum progressio" è del 1976. Giovanni Paolo II lo scorso anno, a Pasqua, e fino a poche settimane fa, non ha mancato di denunciarlo con forza. A dicembre, anche lui, come andavamo facendo da tempo, non si è limitato a dire "fame", ma ha evocato con parole solenni lo "sterminio", ha scongiurato i potenti della terra di porvi termine. Questa volta, questa volta è il mondo comunista, il mondo socialista, è il mondo "libero" e democratico che tace, o mente. Che stermina.
Perché, altrimenti, proprio per Pasqua, per la prima volta, dopo anni, mentre lo sterminio dilaga, s'accresce, tremendo e inimmaginabile ancor ieri, Giovanni Paolo avrebbe dovuto tacere? Proprio quando una marea di popolo, festante, fiduciosa, di credenti, era giunta lì non per esortarlo a parlare, ma per applaudire la Parola che era attesa? Attesa; o forse scontata? La Parola, può essere scontata?
No. Giovanni Paolo in questa Pasqua ha annunciato solo la Resurrezione dei morti. E' stato uomo, testimone di verità. Altro, questa volta, egli non poteva. Per il resto, per gli affamati, per gli assetati, per gli agonizzanti, per il popolo di Dio degli umili, degli oppressi, degli sfruttati, per decine e decine di milioni di donne e di uomini condannati egli s'è mostrato inerme, come loro. Egli ci ha mostrato le sue mani: vuote, povere anch'esse.
"Pace. O guerra. Ordine. O terrore". E oggi infatti c'è guerra e terrore. Grazie per questo suo silenzio. Grazie per aver ricordato che è dall'interno del sepolcro in cui si rinchiudono i vivi che la pietra va rimossa, e rimossa da loro. Anche il Papa non può più che tacere. Anch'egli è ridotto al silenzio. Io so che ieri molti hanno pregato anche per lui.

Ed è anche per lui, penso, che altri hanno parlato, "Vox populi, vox Dei". E la marea di popolo di credenti e di non (o diversamente) credenti che è giunta festante, in nome della Vita, della Pace e del disarmo, contro lo sterminio per fame e la preparazione della guerra, in piazza San Pietro, da Porta Pia, a Pasqua, con i gonfaloni di Milano e Pavia con i radicali, con Terracini, con Petroselli, con Veltri, con Susanna Agnelli, con centinaia di digiunatori del Satyagraha 1980, con i miti ed emblematici Hare-Krishna, con gli infermi, i vecchi e i bambini, con cartelli e striscioni, con itinerari e storie diverse e a volte opposte, con i fiori, questa marea era davvero un popolo.
Popolo dolce e forte, inerme e nonviolento, ma non inerte o rassegnato, irresponsabile: sicché, quest'anno, i portoni del Palazzo, tutti, gli erano sprangati: o aperti come per meglio sottolineare il deserto che contenevano. Gli abitanti del Palazzo tacciono, ormai, per ragioni opposte a quelle del Papa. Nei prossimi giorni devono, ciascuno al suo posto e con le sue funzioni, decretare più sterminio e meno pace. Così vuole la (loro) politica. I granai siano dunque sempre più vuoti, gli arsenali sempre più pieni. Così pensano. Così noi non siamo d'accordo, come persone, come cittadini, come deputati non di un Partito ma della nazione, del popolo. Così noi non taceremo nemmeno nel Palazzo. Così, prima di votare Governo e Legge finanziaria dello Stato, faremo tutto quanto ci sarà possibile perché il denaro dei cittadini italiani non sia speso per demagogiche e pretese "necessità", per assassinare, per preparare la guerra anziché la pace.

Geno Pampaloni, e con lui molti dei migliori, sbagliano. Occorre studiare e aver studiato il problema della fame del mondo prima di decretarne l'insolubilità, quanto meno nel presente. Non è per imprudenza interiore o per avventatezza o per massimalismo che noi diciamo che o lo sterminio cessa, comincia a cessare, subito, o ci sterminerà in breve, noi, sterminatori compresi. Non è umanamente impossibile evitarlo. E' umanamente impossibile compierlo, lasciarlo compiere.
Se il Consiglio di Sicurezza dell'Onu sarà indotto a prendere le decisioni che gli competono, se anche un solo stato comincia (ma subito!) a dare il dovuto, se la volontà politica viene acquisita, in poche settimane e mesi è possibile, è perfettamente immaginabile e realizzabile che milioni e decine di milioni di persone siano salvate dalla fame e dalla morte.

In coscienza, è quanto credo. Non posso imbracciare un mitra, impugnare una pistola, non posso nemmeno minacciare, per ottenere che la legge suprema della vita, il diritto - negati - siano rispettati dallo stesso potere che li ha imposti e impone a tutti noi. Chi ci comanda, i potenti della terra, i signori della guerra, sono di nuovo impazziti. E i più saggi e onesti ai nostri occhi diventano i più pericolosi.

In queste condizioni non ci resta, per affermare la speranza e la pace, che la più assoluta delle azioni di nonviolenza: rischiare la vita contro che continua invece a scegliere, impazzito, la certezza della guerra e della morte.


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Fermali con una firma VOLANTINO aprile 80

[RECTO]

FIRMA SUBITO PER I DIECI REFERENDUM

Mancano solo pochi giorni!

Una grande domanda di libertà; la vita che esige una nuova qualità. E, di fronte partiti sempre più incapaci di capire, chiusi nei soliti giochi che non interessano nessuno, attenti solo alla spartizione del potere.
C'è la rabbia contro i signori della politica; c'è la consapevolezza che le scelte di oggi incideranno nel futuro: l'energia nucleare; la violenza nella lotta politica; le delusioni verso la sinistra; natura, ambiente risorse di tutti distrutte dalla "civiltà" industriale; i deboli nel mondo condannati dai forti allo sterminio per fame; lo spreco criminale delle spese di guerra; l'invadenza dei militari nella vita civile; la difesa delle libertà e dei diritti civili, la risposta democratica e la lotta effettiva al terrorismo; la volontà di ridare tensione ideale e slancio riformatore alla vita politica. Oggi i partiti, anche di sinistra, parlano solo di ordine pubblico, per persuadere che occorre sopprimere le libertà. E l'occupazione, le pensioni, il mezzogiorno, l'assistenza?
Per questo; per tutto questo i referendum: un potere che la Costituzione ci dà. Proclamare la legge il diritto la giustizia contro la violenza delle polizie, delle armi e degli eserciti, contro la violenza economica dello sterminio, contro l'arbitrio e la sopraffazione, contro il disinteresse per i bisogni di tutti.

AUTOFINANZIAMENTO
700.000 elettori per raccogliere 7.000.000 di firme.
Almeno un miliardo per l'informazione, negata dal regime.
Contribuisci e organizza raccolte di fondi. CCP: 44855005 intestato a Partito Radicale - 00186 Roma - via di Torre Argentina, 18

[VERSO]

PROGRAMMA ALTERNATIVO DI OPPOSIZIONE POPOLARE

1. Legge Cossiga sull'ordine pubblico
Vogliamo abrogare le recenti norme sull'ordine pubblico non per compiere un gesto di sfida, ma per una meditata convinzione. Aggravare le pene, allungare la carcerazione preventiva, reintrodurre il fermo di polizia non serve a combattere il terrorismo, anzi lo favorisce perché rafforza i legami degli emarginati con le organizzazioni clandestine. Non serve, come non servì la legge Reale. Serve solo a ritardare l'adozione delle misure effettive e indispensabili: creare una polizia civile investigativa moderna, riorganizzare la giustizia, emanare i nuovi codici penali: una giustizia rapida e sicura.

2. Reati di opinione, riunione e associazione
Nei fascisti che elaborarono il codice penale del 1930, gelosamente conservato - e peggiorato - dai partiti della nostra Repubblica, c'era la profonda convinzione che le idee si combattono con la forza, che certi valori (la proprietà, l'ordine pubblico, il corporativismo, il pudore, l'onore, la razza), devono essere comunque salvaguardati, contro opinioni e attività "sovversive". Il fascismo si nutrì profondamente della convinzione che per difendere l'ordine pubblico fosse necessario sopprimere la libertà e lo stato di diritto: la questione è ancora aperta.

3. Ergastolo
La reazione immediata di fronte alla barbarie degli eccidi: "pena di morte!", è sfruttata dalla reazione forcaiola, da quanti invocano repressione, leggi di guerra, tribunali militari. Per la giustizia democratica le pene non sono vendetta sociale, ma strumenti per reinserire il condannato nella vita associata. L'ergastolo, come la pena di morte, è la negazione di questo principio. Riflettiamo: le pene si applicano a soggetti già riconosciuti colpevoli. Ma le pene più feroci, questo occorre chiederci, aiutano a trovare i colpevoli? Servono ad assicurarli alla giustizia?

4. Caccia
La caccia è oggi una chiassata consumistica, un affare di migliaia di miliardi per distruggere centinaia di milioni di animali sostenuto dai fabbricanti di armi e dalla DC e PCI, con le associazioni venatorie. Per le irreparabili distruzioni del patrimonio pubblico, dell'ambiente in cui possiamo vivere, e per i morti che provoca la caccia è stata vietata in alcuni paesi, vista l'impossibilità della sorveglianza (un esperto poliziotto dietro ogni cacciatore?). I pollastri artificiali per il "ripopolamento" sono una caricatura degli animali selvaggi, tanto per dare qualcosa da sparare a milioni di sparatori.

5. Porto d'armi
Mercanti di armi e sostenitori della violenza, sfruttando l'illusione della difesa personale armata, mettono in gioco la convivenza civile: la democrazia, fondata sui principi della nonviolenza, è impossibile in un paese stracolmo di armi; il divieto generale di portarle è annullato dalla pratica illimitata delle licenze, che occorre abolire. Non sarà disarmata la polizia, (le restano le armi di ordinanza), la lo saranno le polizie private. Sarà così facilitata la riforma della polizia per metterla all'altezza dei suoi compiti, nella piena responsabilità, davanti al Parlamento, del Ministro dell'Interno.

6. Tribunali militari
I tribunali composti da ufficiali e generali, e non da giudici, sono una sconfitta per la nostra democrazia: la giustizia della casta dei militari è repressione e non giustizia e come tale viene invocata dai reazionari a fini di ordine pubblico (con la pena di morte e lo stato di guerra). I principi di disciplina e di gerarchia, di obbedienza e di onore militare sono l'esatto opposto di quelli della giustizia democratica, del giudice che è solo davanti alla sua coscienza e libero nell'interpretazione delle leggi: il cittadino in divisa deve conservare i diritti fondamentali.

7. Hashish e marijuana
Non sono droghe, perché non danno tolleranza né assuefazione, come accade invece per alcool e tabacco, che sono poi assai più dannosi. Che l'uso della "canapa" provochi pazzia o comportamenti criminali è leggenda sfatata da tempo; né esiste "passaggio" da essa all'eroina: i "fumatori" sono nel mondo centinaia di milioni, contro un limitato numero di utenti di vere droghe. Invece il proibizionismo ha creato un mercato nero unificato della canapa e dell'eroina, vero anello del passaggio dell'offerta e del consumo. Liberalizzare la "canapa" è misura indispensabile per isolare e combattere l'eroina.

8. Aborto
Non vogliamo abolire la nuova legge, ma togliere solo poche disposizioni per renderla operante. Anche dopo la legge 194 l'aborto nei più dei casi resta un reato, perché una disposizione obbliga ad eseguirlo quasi solo negli ospedali pubblici, che sono riusciti a praticarne 170.000 su un milione ogni anno. Per gli altri ancora clandestinità mammane e cucchiai d'oro; ferro da calza e prezzemolo... Con la disposizione citata ne vanno eliminate poche altre (limiti alla volontà della donna, obbligo di denuncia al medico provinciale", pene per fatti che non sarebbero più reati, ecc.).

9. Centrali nucleari
Sono una truffa: l'energia manca oggi e manca petrolio: le centrali fra dieci anni ci daranno elettricità. E poi l'uranio è assai scarso, e si dovrà usare il pericolosissimo plutonio. Incidenti sono sempre possibili; e i terremoti? I sabotaggi? I servizi segreti stranieri? Quali misure poliziesche ci vorranno per difendere le centrali e il trasporto dell'uranio? Quali restrizioni dei diritti sindacali del personale addetto? Ci sono altre fonti di energia (sole, vento, fiumi...), senza gli enormi sprechi consumistici dell'energia atomica e con un nuovo modello economico, democraticamente impostato.

10. Smilitarizzazione della Guardia di Finanza
La G.d.F. è una polizia a sé stante dati i suoi compiti particolarissimi: combattere le evasioni fiscali, le fughe di capitali, il contrabbando, il traffico di droga. Perché allora è composta di militari e comandata da un generale e non di ragionieri, di esperti di tasse e di tecnica bancaria? Perché si deve occupare anche di ordine pubblico (forse la PS è oggi meno affidabile?) e di difesa del territorio (non c'è l'Esercito?). Lo si spiega solo nel quadro di una politica antidemocratica, che sottopone i cittadini a poteri militari, a fini repressivi.



COMMISSIONE MORO - POLEMICA BERLINGUER-SCIASCIA

di Valter Vecellio NR 29 maggio 1980

Roma 29 maggio '80 - N.R. - Della discutibilissima iniziativa che il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, ha ritenuto di dover assumere nei confronti del deputato radicale e scrittore Leonardo Sciascia, nei giorni scorsi a più riprese abbiamo detto cosa pensavano. Lo ha dichiarato il segretario del Partito, Rippa, lo ha detto Pannella in televisione, lo ha dichiarato a più riprese Sciascia stesso attraverso noi, attraverso il "Mattino", e oggi attraverso "La Repubblica" (vedi l'intervista in altra pagina dell'agenzia) abbiamo anche detto che consideravamo estremamente goffa e infelice la sortita elettorale del segretario socialdemocratico Longo, il quale ha rivolto le sue domande sbagliando indirizzo. Abbiamo detto che consideriamo insolente e stupida, arrogante come costume dell'uomo, la risposta di Cossiga il quale invece di spedire la lettera di Longo al mittente, spiegando che lui non poteva e non doveva rispondere, trincia giudizi a destra e manca, afferma di credere a Berlinguer e dà del mentitore a Sciascia. Su tutto questo, su come giornali e giornalisti oggettivamente si siano prestati ad un gioco strumentale che mira a screditare e bloccare la commissione Moro, perché non sia fatta luce e chiarezza, abbiamo ampiamente riferito. E anche abbiamo denunciato come si voglia, dopo esserci riusciti con Giacomo Mancini, tappare la bocca all'unico, probabilmente, commissario scomodo della commissione. Un tentativo incredibile, inammissibile e intollerabile di intimidazione, lo definimmo a botta calda, quello di Berlinguer contro Sciascia. Non abbiamo ragione alcuna per mutare giudizio. Abbiamo, però elementi nuovi, per altre considerazioni.

1) L'ex presidente del consiglio di allora, Giulio Andreotti ha "parlato". E ha detto quel che tutto noi sappiamo. Ora certamente è credibile che Andreotti non abbia avuto le prove di collusioni e collegamenti eventuali tra terroristi italiani e servizi segreti o agenti di paesi stranieri. Lo possiamo benissimo credere, accettare. Ma Andreotti, chi pensa di riuscire a prendere in giro? Ci vuol far credere che per tutto questo tempo lui è vissuto dentro una campana di vetro, alieno di voci, sospetti, dichiarazioni autorevolissimo che da più d'una parte si venivano facendo?
Ma come fa Andreotti a dire che non ne sapeva nulla? A parte quello che ricorda Sciascia nelle sue interviste, Andreotti ci vuole dire che non mai saputo delle esplicite dichiarazioni del presidente della Repubblica, Pertini, che ripetutamente denuncia collegamenti con paesi stranieri? A prescindere che Pertini ora le sue dichiarazioni le fa anche "fuori casa" (in Spagna, ultimamente, per fare l'ultimo esempio), più d'una volta Pertini ha denunciato oscure manovre destabilizzanti. E i contatti che si diceva avessero Viel e gli elementi genovesi (gli "stalinisti"), delle Brigate Rosse, con i loro frequenti viaggi a Praga? E la famosa intervista a Damato? Andreotti non ci faccia più cretini di quanto non siamo, per favore.
Il fatto che esige una risposta pronta e immediata, è questa: il capo dello stato più volte denuncia legami tra i terroristi e centrali all'estero. Cossiga e Andreotti hanno nulla da riferire, su questo? Anche questo loro silenzio, è parecchio eloquente.
Al segretario del PCI, Berlinguer, possiamo concedere le attenuanti del caso. Siamo, come ha osservato, in periodo elettorale. Un'iniziativa sbagliata, ma "spiegabile".
Diciamo invece che Longo e Cossiga non hanno recato un grande servizio e all'accertamento della verità, e a Berlinguer e al PCI stesso. Elettoralmente parlando, questa sperticata dichiarazione di Cossiga, non la riterremo, se fossimo in Berlinguer, molto utile.
Quello che tuttavia è incredibile, e lo sottolineiamo con tutta la forza di cui siamo capaci, è l'iniziativa di Berlinguer, nella forma e nella sostanza, contro Sciascia. Ma è una cosa questa tutta da ridere se non fosse stata fatta con la solennità e l'austerità con cui il segretario del PCI accompagni i suoi gesti. Possibile che Berlinguer, i suoi consiglieri, i suoi avvocati, non si rendano, non si siano resi contro di quanto sia ridicolo l'aver sporto questa querela? Ridicolo e manovra, anch'essa, elettorale.
Ma al di là di tutto, vogliamo denunciare con forza e con chiarezza che sempre più appare un tentativo di sabotare la commissione. Sono questioni grosse, ma vanno dette. C'è grande polemica sul fatto che i verbali Peci sono stati divulgati, ma nessuno presenta attenzione a quello che Peci sostiene. Ebbene, dalla lettura di quei verbali si trae una cosa: che fino ad ora la magistratura e gli inquirenti hanno seguito una direzione sbagliata, nelle loro indagini. Si trae che con Moro, il prof. Negri, Piperno, Pace, gli arrestati del 7 aprile e del 21 dicembre non c'entrano nulla. Si trae che è scandaloso questo protrarsi della detenzione Negri e Piperno, ampiamente scagionati da Peci.
Ma si trae anche qualcosa d'altro.

Che Moro, nel periodo del suo sequestro, non era impazzito. Che era anzi uomo lucido, che le sue lettere non erano dettate da vigliaccheria, che anzi si doveva riconoscere (come invece non si è fatto), piena legittimità a quello che Moro sosteneva. Viene alla luce che le Brigate Rosse forse erano disposte a lasciare libero Moro; viene fuori che il comportamento dei partiti della cosiddetta "fermezza" era errato. E' questo che si trae dalla lettura dei verbali di Peci.
E allora è chiaro che si vuole bloccare la commissione d'inchiesta. Si vuole, per esempio, che Peci non sia interrogato dai commissari dell'inchiesta come Sciascia ha chiesto. Si vuole, in definitiva, screditare questa commissione, impedire che accerti la verità su quei terribili 55 giorni. E' questo che si teme, ed è per questo che si solleva, come si è sollevato, tanto polverone, strumentale e demagogico.



Vorrei che tu, Guttuso ed io

Colloquio con Leonardo Sciascia di Rita Cirio L'ESPRESSO, 13 maggio 1980

La querelle Sciascia-Berlinguer
Lo scrittore sicialiano dà un resoconto dettagliato del suo incontro con il segretario del Pci e della conversazione sui rapporti tra servizi segreti cecoslovacchi e terrorismo. Ha scritto inoltre una lettera a Guttuso di cui pubblichiamo i passi fondamentali

Palermo. "Ho preferito scriverti invece che parlarti per più nettamente spiegarti di quella faticosa giornata in cui per amore di verità sono stato costretto a fare il tuo nome". Comincia così una lunga lettera che Leonardo Sciascia ha scritto all'amico Renato Guttuso domenica 25 maggio, due giorni dopo la seduta della Commissione Moro. La lettera non verrà mai spedita. Sui temi di interesse pubblico di tutta la vicenda si intreccia, ma non è secondario, il tema privato di una lunga amicizia. Il codice dell'amicizia è inviolabile per lo scrittore siciliano, ma ancor più inviolabile è per lui quello della verità. Non a caso nella lettera all'amico è la parola che ricorre di più: "A me importa ribadire, di fronte a te, la verità di quello che ho detto e che sono disposto a ripetere, dovunque si voglia e quale ne sia il rischio: una volta sciolto dal segreto che la legge m'impone in quanto membro di una commissione d'inchiesta".

- Mentre cerca di spiegare all'amico il suo comportamento, Sciascia cerca anche di spiegarsi quello di Guttuso. "Te lo dico sinceramente senza ironia che mi aspettavo da te, come da Berlinguer, la "secca smentita". Ricordo quel passo in cui Bernanos, nel 1937, dialoga con il comunista Malraux: "Malraux si congratulò con me per la mia inflessibile sincerità. Ma scusate, Malraux - gli dissi - voi non avreste fatto come me? - Non è la stessa cosa - mi rispose - voi siete cristiano, voi agite da cristiano. Io invece sono comunista e non scriverò mai nulla che possa anche minimamente nuocere al partito -. - Va bene - gli risposi - ciò riguarda voi. Ma allora che conto debbo fare dei vostri elogi? Per voi non posso essere che un imbecille o un pazzo -". E Sciascia continua a spiegare all'amico: "Ho voluto trascriverti il passo a dimostrarti la mia comprensione: tu sei comunista e non farai mai nulla che possa nuocere al partito. Nel momento stesso in cui - in commissione - mi passavano il comunicato Ansa con la smentita di Berlinguer, io ero certo che sarebbe venuta la tua. A differenza di Malraux, tu non elogerai certamente la mia "inflessibile sincerità" (quella di Bernanos era allora utile al partito), e quindi non mi considererai nè un imbecille nè un pazzo. Forse un nemico. Ma lo sono davvero?". E lo scrittore continua ricordando nei dettagli a Guttuso come si svolsero veramente i fatti, e accenna anche al suo stupore per non aver trovato traccia, nei quotidiani dei giorni successivi al loro incontro con Berlinguer, dell'espulsione dei due diplomantici cecoslovacchi preannunciata dal segretario del Pci.
All'"Espresso" Sciascia ha rilasciato le seguenti dichiarazioni.

L'ESPRESSO. Quando avvenne l'incontro tra lei, Guttuso e Berlinguer? Dove vi incontraste? Di che cosa avete parlato? Se ne ricorda a memoria o ha conservato qualche appunto su un diario?
SCIASCIA. L'incontro avvenne in maggio, con tutta probabilità il 6. Ma esiste anche la possibilità che sia avvenuto dopo il secondo incontro tra Zaccagnini e Berlinguer. Ma fu comunque nel mese di maggio. Ci siamo incontrati alle Botteghe Oscure. Il colloquio era stato richiesto da me, tramite Guttuso. Abbiamo parlato soprattutto di cose che riguardavano l'industria estrattiva siciliana, sulla base di un memoriale che aveva scritto un mio amico e che io consegnai a Berlinguer. Non ho preso nessun appunto, non ne prendo mai. Ho finora avuto buona memoria. Esaurita la conversazione sul memoriale siamo passati a parlare del terrorismo. Ma ho già riferito in quali termini e non ho nulla da aggiungere o da modificare.

E.: Lei all'epoca era ancora un simpatizzante del Pci?
S.: All'epoca non ero simpatizzante del Pci. Avevo già abbastanza polemizzato dopo le mie dimissioni dal consiglio comunale di Palermo. Anche per questo ho apprezzato molto che Berlinguer parlasse davanti a me con tanta libertà del terrorismo e dei suoi possibili collegamenti con un paese dell'Est.

E.: Perché non ha parlato di queste rivelazioni di Berlinguer durante il caso Moro?
S.: Ho raccontato a molti amici di questo incontro con Berlinguer e di quello che mi aveva detto. Non l'ho scritto perchè ho sempre un certo ritegno a riferire in pubblico conversazioni private. Ne ho parlato nella commissione Moro perché mi sembrava un ambiente, almeno per il momento, privato e in cui la ricerca della verità pensavo fosse superiore a ogni regola di discrezione.

E.: Perché, a suo giudizio, oltre ad averla smentita, Berlinguer l'ha addirittura querelata? Se lo aspettava?
S.: Sono possibili tante ipotesi: per raggiungere effetti elettorali, per mettersi in regola con i paesi dell'Est, per pura e semplice ingenuità. Si capisce che il termine ingenuità è in questo caso un eufemismo. Insomma, non me lo aspettavo e non riesco a spiegarmelo a lume di intelligenza.

E.: Ma non potrebbe essere anche per un'altra ragione, per esempio di evitare di essere interrogato in commissione?
S.: E' pure possibile. Anzi, è un'ipotesi che è stata fatta. De Cataldo, che è il mio avvocato, a Radio Radicale ha parlato anche di tentativo di intimidazione.

E.: Lei è molto amico di Guttuso. Come ne spiega il comportamento in questa circostanza?
S.: Il comportamento di Guttuso lo giudicherò da quello che dirà ai giudici. Oggi come oggi mi rifiuto di credere che mi abbia decisamente smentito.

E.: Ha parlato in questi giorni con Guttuso?
S.: Ci siamo sentiti il 28 maggio nel pomeriggio. Si può dire che abbiamo parlato d'altro.

E.: Oltre che da Berlinguer, ha sentito mai in questi anni allusioni ai collegamenti fra terroristi italiani e servizi segreti dell'Est e da chi?
S.: Le ho sentite da Andreotti, appunto nel maggio del '77. Le ho sentite da Casardi, capo del Sid in quel periodo stesso. Le ho sentite da Craxi e soprattutto le ho sentite dal buon senso della gente. Tra l'altro un curioso personaggio, Andreola, alias Sanchez, implicato nel tentativo di sequestro di Graziano Verzotto, ha fatto delle interessanti dichiarazioni riguardo a un paese dell'Est, precisamente la Cecoslovacchia.

E.: Lei è membro della commissione parlamentare che indaga sul caso Moro. In quale direzione bisogna approfondire le indagini?
S.: Bisogna approfondire in questa direzione e in tante altre direzioni, perchè questa commissione sopravviva e vada avanti. Per il riserbo cui sono tenuto, non posso scendere in particolari.

E.: A suo parere, Berlinguer deve essere ascoltato in commissione?
S.: Certo, io ritengo che, se la commissione ha dei dubbi sulla verità di quello che ho detto, Berlinguer, Guttuso e tutti i testi di cui io dispongo debbono essere sentiti.

E.: Come spiega l'atteggiamento di Cossiga, così accondiscendente verso Berlinguer?
S.: Per dire una battuta, l'ho spiegato come una faccenda di famiglia. Ma siccome siamo sul un terreno in cui io do una cosa a te se tu dai una cosa a me, è possibile che Cossiga si aspetti una contropartita.

E.: Andreotti ha dichiarato che nessun cecoslovacco è stato espulso per terrorismo. Come lo spiega?
S.: Ecco, questo è il punto: quei due diplomatici cecoslovacchi, cui aveva accennato Berlinguer, erano sospettati ingiustamente? Oppure si è fatto tutto in silenzio, come di solito si usa in campo diplomatico? Se poi si è lasciato correre, la faccenda è gravissima.

E.: Come interpreta l'ultima improvvisa recrudescenza del terrorismo? Sono truppe sbandate di un esercito in rotta?
S.: Non sono dell'idea che questi siano colpi di coda. Certo, le bande eversive hanno ricevuto duri colpi. Ma la loro capacità di proliferazione è ancora abbastanza forte. Il problema è questo: che la politica italiana allontani il risultato a cui tendono e che si arrivi a quella che, per la mafia, è chiamata la testa del serpente.

E.: A quale risultato tendono?
S.: Il risultato che il buon senso della gente intravvede. Basta-un viaggio in treno o in autobus per conoscere le declinazioni del buon senso. Del resto è sintomatico che si colpiscano persone come Galli, come Alessandrini, come Tobagi.

E.: A questo punto della sua esperienza di deputato, come si sente. Stanco o stimolato?
S.: A questo punto mi sento meno stanco. Se in questo momento non stessi male per una piccola lesione a una vertebra (cosa che non imputo a una mano celeste in favore del compromesso storico) direi che sono addirittura divertito. Fino a questo momento mi ero visto piuttosto inutile come deputato. Ora comincio a credere che a qualcosa servo.



Elezioni, referenum, prospettive politiche

di Massimo Teodori AR/15 Febbraio-Maggio 1980

Era generale l'aspettativa per i risultati delle elezioni regionali e comunali dell'8 giugno e per il significato politico che avrebbero assunto. Il responso delle urne è stato certo importante in termini politici generali, ma probabilmente secondo un segno assai diverso da quello che la maggior parte delle forze politiche e degli osservatori si attendeva. Non sono infatti gli spostamenti fra un partito e l'altro a dare la chiave di lettura di questa prova elettorale, bensì da una parte il complesso delle fluttuazioni interpartitiche e dall'altra lo scarto fra i votanti e l'insieme delle manifestazioni di dissenso e di protesta dal sistema partitico.
I dati sono ben noti. La somma delle astensioni, del voto bianco e del voto nullo, che ha oscillato per un trentennio fino al 1976 fra il 9% e l'11%, e che era già aumentata al 13,4% nelle elezioni politiche del 1979, questa volta è arrivata ad oltre il 17%. si tratta quindi, in cifre assolute, di oltre due milioni e mezzo di elettori che questa volta deliberatamente hanno dato un segno di estraneità dal sistema politico. Dunque questa imponente massa di "non voti" è proprio quella che caratterizza le elezioni del 1980. Ma non solo e non tanto per quello che sta a significare in termini di rivolta antipartitica, ma soprattutto per un'altra ragione. Perché dà il segno dell'ormai crescente e definitivo tramonto della vecchia caratteristica dell'elettorato italiano contrassegnata dalla mancanza di fluidità e dalla accentuata fedeltà, per ragioni ideologiche o clientelari, al proprio partito tradizionale. Dapprima con le elezioni del 1975 e 1976, messe in moto dal referendum del 1974, e poi con le elezioni del 1979 influenzate dai referendum del 1978, ed ancor più con queste del 1980, è divenuto ormai clamorosamente evidente che ci troviamo di fronte ad una crescente parte del paese che giudica di volta in volta, progressivamente perde ogni fedeltà aprioristica, si "laicizza", ed è disponibile a spostarsi rapidamente da questo a quel partito; o anche, come nel caso attuale, quando non ci sono partiti soddisfacenti, passa dai partiti al rifiuto stesso della politica proposta dai partiti. Altri hanno detto e diranno che si tratta di un fenomeno negativo, di "americanizzazione", di montante "qualunquismo". A noi pare, al contrario, che prima ancora del modo in cui queste preferenze elettorali si sono indirizzate e si indirizzeranno, il fenomeno risponda a tratti tipicamente "moderni", capaci di imprimere nel prossimo futuro delle svolte davvero significative se le forze politiche saranno in grado di offrire prospettive e sbocchi a questa massa di insodisfatti. Si fa sempre più numerosa la schiera di coloro che scelgono di volta in volta senza farsi intimidire dal ricatto e dalla paura dell'effetto del proprio voto nei confronti di quelli che sono considerati gli avversari. Ciò significa che nonostante che la partitocrazia regni sovrana si manifestano abbondanti segni di svincolo dalla sua morsa. Da tale movimento è stato oggi reso vincente il partito dell'astensione e della protesta ma domani possono riservare sorprese formazioni politiche capaci di interpretare genuinamente le domande di libertà e di trasformazioni che percorrono la società.

Mobilità, le vere novità elettorali

In questo senso mi pare che vadano riletti tutti i risultati elettorali. Certo è di grande importanza lo stallo che entrambe le forze maggiori, DC e PCI, hanno dovuto registrare nonostante il ricatto che l'una e l'altra forza hanno effettuato sugli elettori servendosi dello spettro della forza avversa. Certo, di grande importanza è anche l'avanzata senza ombra di dubbio di un PSI che da venticinque anni ha visto progressivamente diminuire la propria influenza elettorale. Certo, è tanto più significativo l'inizio di un processo di riequilibrio fra PCI e PSI in quanto complessivamente la sinistra ha tenuto quella soglia del 46%-47% che costituisce quasi un apice storico, pur in presenza di un massiccio partito della protesta. Non saremo certo noi a sottovalutare queste dinamiche elettorali, ben consapevoli che ormai, per quel che riguarda la DC e il PCI, non si tratta di temporanee fluttuazioni congiunturali, ma di tendenze alla decadenza elettorale corrispondenti ad un processo di trasformazione culturale profondo di ampi settori del paese nel loro stesso rapporto con la politica. Tutto questo è vero. Ma è ancora più vero che i risultati assoluti e le crescite o diminuzioni in percentuale nascondono dei movimenti molto più intensi con flussi in entrata ed in uscita per ciascun partito: i quali flussi, nel complesso, connotano una tendenza ormai irreversibile al voto che si sposta e che non è più prevedibile se non in base agli specifici comportamenti delle singole forze politiche e quindi al giudizio che possono raccogliere in un determinato momento.

Referendum: alcune ipotesi delle difficoltà

A fronte della scelta di una non presenza diretta sul fronte elettorale, i radicali hanno condotto nei tre mesi corrispondenti la campagna referendaria. Nel momento in cui scriviamo (15 giugno) si può dire che la raccolta delle firme è andata a buon esito superando la soglia necessaria per la riuscita costituzionale dell'iniziativa. Certo è ancora presto per valutare la natura delle difficoltà incontrate quest'anno nell'adesione dei cittadini a confronto con la maggiore facilità del 1977. Per i commentatori superficiali ed interessati val subito la pena di riaffermare quella che è un'ovvietà: che cioè in ogni caso l'impresa della raccolta di 500.000 firme per 10 referendum, cioè di 5 milioni di firme, è di per sé, comunque, un'impresa politicamente eccezionale. Ciò detto, ci sembra che quest'anno alcuni fattori hanno contribuito a rendere più difficoltoso il raggiungimento dell'obiettivo. Proviamo ad ipotizzarli. Il primo è stato sicuramente rappresentato dal clima generale di sfiducia nelle possibilità di generare cambiamento, conseguenza, in termini generali, del fallimento della politica comunista nel triennio 1976-1979 e, in termini specifici, del tentativo condotto su diversi fronti di vanificare i meccanismi referendari compiuto tra il 1977 ed il 1979 (corte costituzionale, leggi bidone...). Il terzo è stato probabilmente rappresentato da una maggiore identificazione del rapporto referendario con il Partito Radicale, avendo assunto il PR, nell'ultimo anno, con la sua quintuplicata rappresentanza parlamentare, un'immagine più forte e quindi una più corposa presenza nel paese. Il quarto fattore lo si può rintracciare nel fatto che un qualsiasi strumento politico ha minore carica dirompente, e quindi minore attrattiva, per l'uso ripetuto. Il quinto, ed ultimo, elemento che vogliamo sottoporre alla comune riflessione è dato dalla mancanza di specifici referendum trainanti tutto il pacchetto. Questa volta il referendum nucleare, che avrebbe potuto assolvere quella funzione guida che nel 1977 fu svolta da quello sul finanziamento pubblico dei partiti, probabilmente per ragioni di mancanza di conoscenza, di informazione e di dibattito sul tema non ha assolto lo stesso ruolo.
E' ormai acquisito che soltanto grazie all'intervento socialista, che ha preso corpo soprattutto nelle ultime settimane di raccolta, l'obiettivo delle firme necessarie è stato perseguito. Questo è un fatto politico che non va né rimosso né sottovalutato. Quella socialista è stata una scelta, forse mossa in parte da motivazioni di carattere elettorale, ma che nel momento stesso in cui ha preso corpo è andata ben al di la delle molteplici ragioni iniziali. Si è concretata in un'azione puntuale e con obiettivi definiti quella convergenza di progetto che certamente rappresenta ed interpreta appieno un'anima libertaria ed antidogmatica del PSI, ampiamente presente nella sua base. Ci spingiamo oltre nelle nostre riflessioni affermando che se la dirigenza socialista nelle sue più qualificate sedi, segreteria, direzione e comitato centrale, non avesse colto che lo spirito e la lettera dei referendum andavano nel senso delle profonde aspirazioni dei socialisti, sicuramente si sarebbe approfondita quella divaricazione fra naturale tendenza dei socialisti a partecipare a movimenti politici di libertà e di liberazione e la concreta possibilità di realizzarla. Si è trattato, dunque, di un atto di intelligenza politica, che è servito ai radicali per non dovere più affermare la propria solitudine nel progettare il cambiamento e ai socialisti per poter ricongiungere aspirazioni e comportamenti politici.

La prossima stagione densa di nodi da sciogliere

Siamo in periodo di riflusso, si dice. Al di là della evidente banalità dell'affermazione, sono le cose stesse a smentire questo giudizio, a cominciare dai comportamenti elettorali, come abbiamo cercato di evidenziare nella prima parte di questo editoriale. E' invece vero che siamo nel bel mezzo di una crisi di fondo per la sinistra. Ben oltre la metà del paese (se si considerano oltre i voti della sinistra, anche tutta la massa di protesta, certamente "da sinistra") vorrebbe che prendesse corpo una politica nel senso di maggiore libertà e di un qualche cambiamento, senza essere intimidita dalle vicende pur altamente drammatiche del terrorismo, del disastro economico e del caos sociale. A fronte di tutto ciò stanno i partiti di sinistra privi di idee, di prospettive e di politica.
Nell'ultimo quinquennio è andata crescendo la massa dei comportamenti elettorali che ha cercato nel PCI, ora con il voto referendario, ora con l'indicazione radicale, ora con le manifestazioni di dissenso e di protesta antipartito, uno sbocco anticonservatore ed antiregime democristiano. Un numero sempre maggiore di voti è fluttuante e non riesce a trovare uno sbocco adeguato. Infatti il PCI è impotente e piegato su se stesso. Il PSI riesce a mala pena ad aggrapparsi alla "governabilità" pur tra le sue positive contraddizioni libertarie. La stagione che ci sta di fronte rischia così di risolversi in un vero vuoto pneumatico. Altro che riflusso! Si tratta semmai di riflusso di questa politica.
Con l'operazione elettorale radicale (astensionismo attivo) che ha saputo cogliere e provocare lo spirito del tempo, e poi con il coinvolgimento socialista nel progetto stesso e per l'apertura di feconde contraddizioni all'interno dello stesso PSI che non casualmente è stato premiato in termini elettorali, i radicali hanno contribuito ad aprire una stagione di possibile ripresa dell'iniziativa politica a sinistra. Nei prossimi mesi, fino alla primavera 1981, il parlamento ed il paese saranno impegnati a discutere i dieci temi proposti con i referendum ed a trovare comunque delle soluzioni. E' un nutrimento offerto alla classe politica, all'opinione pubblica ed alle istituzioni. La "governabilità" è anche, e soprattutto, fatta della scelta dei temi sui quali la classe dirigente deve decidere per dare leggi adeguate al paese. A noi sembra che i temi dello Stato del diritto e quelli della qualità della vita che sottendono i dieci specifici referendum sono certamente momenti qualificanti per riconvertire la stessa sinistra o, in mancanza di un suo riallineamento, per un suo scavalcamento. Saprà il PCI scrollarsi di dosso le pesantezze accumulate da lunghi anni di negoziati con la DC? Saprà il PSI imboccare decisamente la strada a cui lo spinge la sua anima riformatrice e libertaria deprimendo la componente sottogovernativa e accomodante? Sapranno le istituzioni essere all'altezza di una moderna democrazia fondata sul vero confronto delle grandi opzioni piuttosto che sul compromesso sistematico? Questi gli interrogativi a cui dovrà essere data una risposta nei prossimi mesi e su cui riposerà l'avvenire stesso della nostra democrazia.



IL NUOVO PATTO RADICALE - LA MOZIONE DEL CONGRESSO DI ROMA

di Lorenzo Strik Lievers AR/15 Febbraio-Maggio 1980

"Ricordando Walter Tobagi"

Come se niente fosse. Continuiamo a occuparci, ognuno, delle solite cose, del nostro quotidiano; degli interessi, dei piaceri, del lavoro, degli affetti, delle affermazioni di sé. Ma con un disagio che cresce, con un'angoscia a tratti pienamente consapevole e acuta, più spesso sommersa dalle dinamiche, dalle urgenze dell'agire e del vivere; eppure sempre presente al fondo, mai cancellata del tutto.
E' un'angoscia di morte. Altra, seppure dello stesso segno, di quella che ciascuno si porta dietro, più o meno rimossa, relativa al proprio, personale, esser destinato a morire, suprema obiezione alla libertà e alle speranze dei singoli. Si tratta di un'angoscia di morte generale; se non dell'umanità in assoluto, di "una" umanità, di un modo di essere uomini, che è il solo che conosciamo e sappiamo in realtà concepire.
Si torna, dopo decenni, a parlare della guerra come di una delle opzioni possibili; ciò che basta a renderla probabile, e perciò stesso allora, un po' prima, un po' dopo, forse inevitabile. E se nessuno sa davvero immaginarsela, la guerra, si sa comunque che non sarà simile a nulla di conosciuto, che sarà peggiore di ogni realtà immaginabile. Così, rendendosi conto di quanto il pericolo sia reale e riguardi non qualche parte remota della terra, ma noi stessi, il nostro mondo, si è indotti a guardare con altri occhi l'epoca che stiamo vivendo e abbiamo vissuto a partire dal 1945. Si comincia, o si è aiutati, a prendere coscienza davvero, non solo in astratto, che la guerra non è mai scomparsa dal mondo; che il mostro del massacro non è mai morto, che invano ci illudevamo di averlo sepolto, esorcizzato una volta per tutte. Tutto il peggio è possibile oggi e domani: per poco che apriamo gli occhi dobbiamo riconoscerlo. La tragedia indicibile della Cambogia ha appena rinnovato, e se possibile ingigantito, fra la nostra distrazione colpevole, connivente, complice, l'orrore senza nome dei campi di sterminio nazisti o staliniani, che non possiamo più fingerci, allora, appartenenti a un'umanità altra dalla nostra, fatta di mostri alieni, e comunque consegnata definitivamente a un passato concluso. Del resto, continuiamo pur sempre a convivere, accettandolo di fatto, fondandovi i nostri privilegi, con lo sterminio più immane, quello per fame - noto, previsto, programmato.
Difficile dire quanto di ciò vi sia coscienza chiara; ma certo ne derivano inquietudini, incertezze, ansie che penetrano a fondo in sentimenti e pensieri. Inquietudini che si mescolano con quelle per le minacce che la rivolta preannunciata, possibile, anzi inevitabile, giusta e necessaria del terzo mondo contro l'infame distribuzione delle risorse planetarie, insieme alla prospettiva dell'esaurimento di tante fra quelle risorse, fa gravare sul benessere opulento cui le nostre società si sono assuefatte. Immagini che non possono non incontrarsi con il modo di sentire e vivere le vicende interne del paese; e fan crescere allora il disgusto, l'indignazione, la stanchezza per il degradarsi continuo, cui assistiamo e partecipiamo, della vita pubblica - e insieme, perciò, delle vite private.

Soprattutto, la tragedia del terrorismo, che della guerra reca in sé tutte le stimmate funeste e tutta la logica inumana, acquista in questa luce un senso se possibile ancora più angoscioso, come di segno: sintomo, ammonimento, preannuncio. Ogni singola morte, giorno dopo giorno, ce lo richiama; e quanto più ci coinvolge, ci tocca da vicino, quanto più chi è stroncato e scompare è persona che direttamente o indirettamente sentiamo vicina o conosciamo - un amico, magari - tanto più lo smarrimento e lo strazio che sono in noi, mettendo in discussione tutta la nostra umanità, si fanno anche (mi pare, almeno) lucidità più chiara in questo senso.
Ma poi, il senso di impotenza. E allora, in modo schizofrenico continuiamo a vivere "normalmente", applichiamo la logica solita, perseguiamo gli obiettivi soliti - quasi a rassicurarci; quasi che fossero davvero quelli importanti. E tuttavia non possiamo non sentire al fondo che per i singoli e per i gruppi la necessità vitale è quella di misurarsi con i problemi veri, di assumersi rispetto ad essi le proprie responsabilità culturali, politiche, morali; ed è questa interna tensione a segnare di una sua singolare impronta oggi la vita del paese.

La schizofrenia dei radicali

Considerazioni generalissime, quelle che precedono; tuttavia utili forse per inquadrare anche molte vicende recenti del movimento radicale; e in particolare per cogliere il senso del fatto nuovo che, pur passato in genere sotto silenzio, sommerso dal clamore delle vicende elettorali e referendarie, si prospetta come una svolta di importanza cruciale per le sorti e la funzione del PR: la mozione del congresso straordinario del 7-9 marzo. La schizofrenia, tensione, polarità di cui s'è parlato - fra l'illusione del quotidiano, del "realistico", e l'urgere di quel che davvero conta - infatti marca significativamente oggi anche l'ambiente e il modo di essere dei radicali.
Bisogna pur cominciare a dirlo, fuori dalle miopi carità di partito. Nel PR, nel gruppo parlamentare, abbiamo assistito in questi mesi, e tutti ne siamo stati in qualche misura coinvolti, a fenomeni preoccupanti e deprimenti; quasi riflessi, verrebbe fatto di osservare, non so se per trovare attenuanti o per deprimersi ulteriormente, del clima generale del paese. Rivalità, tensioni, scontri sordi che non riescono ad assurgere alla dignità di fecondi confronti tra linee politiche e culturali diverse; un immiserirsi così della vita interna del partito in un giustapporsi di unanimità ipocrite e distratte, che non nascono da una vera elaborazione comune, prive anche per questo di tensione ideale, a diatribe meschine, talora magari personalmente feroci. Piccoli interessi, piccole questioni che prendono il primo posto e assorbono attenzioni e passioni. Non certo solo questo, il PR oggi; ma anche questo, sì. Con il rischio allora, oltretutto, di disperdere a vanificare quella "diversità" che costituisce la sua ragion d'essere e la sua forza.
Di contro - ed è la ragione per cui in tanti, credo, rinnoviamo la fiducia nel progetto politico radicale - nell'ambito radicale riemergono con forza l'aspirazione a guardare alto e il senso che questa responsabilità i tempi impongono. Espressione vigorosa e compiuta di ciò, appunto la mozione del congresso di Roma (la si veda riprodotta più oltre in questo fascicolo).
Anche le circostanze in cui a quel documento si è giunti testimoniano delle contraddizioni, vitali contraddizioni, in cui siamo immersi. Il congresso, si ricorderà, era stato convocato per decidere dell'atteggiamento radicale nelle elezioni amministrative. E per due giorni di questo effettivamente vi si è discusso; con un dibattito però che non riusciva a prender quota, tutto legato a problematiche minori - quelle appunto "normali", "solite" nella lotta politica quotidiana, comuni un po' a tutte le persone e le forze che gestiscono la politica italiana: le attese dell'elettorato, il futuro e l'interesse del partito, gli schieramenti, gli equilibri, il ruolo possibile delle rappresentanze radicali in quest'ambito... E insieme, non enunciate ma ben avvertibili, tante attese e aspettative - in sé legittime e giuste per larga parte - di affermazioni elettorali personali e di gruppo; e tanti giochi svolti guardando agli equilibri interni di partito. Sensibilmente, si trattava di un congresso subalterno, nel senso che faticosamente si misurava con una scadenza "esterna", cui si era condotti dalle cose, non per autonoma scelta di priorità; e in cui quel che rischiava di sparire, non per nulla, era il modo di essere specifico e altro dei radicali, era la "cultura" radicale.

Una mozione che guarda alto e lontano

In quel contesto è piombato, davvero dall'alto, il documento proposto da Pannella. In nulla, si può dire, esso recepiva il senso del dibattito che si era svolto sin lì; eppure, attingendo alle ragioni profonde per cui si può essere radicali oggi, rispecchiava, rivelava in realtà sentimenti e pensieri che un po' tutti nutrivano ma che, come accade, in quel dibattito dominato da altre dinamiche non trovavano la via per esprimersi.
In effetti la mozione ribaltava l'ordine del giorno del congresso: in primo piano non le elezioni ma i compiti dei radicali, in quanto uomini e cittadini, nella società italiana ed europea, rispetto all'umanità - e solo in ultimo, come corollario contingente e di gran lunga secondario, quel che riguardava le elezioni. I radicali così ritrovavano se stessi e, con l'approvazione del documento, chiamandosi fuori da un campo che oggi non poteva essere il loro, compivano un gesto di grande forza di ampio respiro politico e ideale.
Il valore di quel che nel congresso è accaduto tuttavia va evidentemente molto oltre la contingenza, importante quanto si vuole, del momento elettorale, e della stessa campagna per i referendum. Pervasa com'è di elementi di ripensamento e bilancio dell'esperienza radicale, la mozione guarda avanti e lontano, alla qualità nuova e ai pericoli immani della situazione in cui ci troviamo; e allargando d'un tratto gli orizzonti segna con coraggio e rigore i compiti e le vie nuove della fase che si apre.
In che misura così si innovino ampliandoli i fondamenti dell'azione radicale appare chiaro se si considerano quanto meno tre aspetti che caratterizzano la mozione. Primo, il fatto che essa attribuisce - come mai era stato finora, in realtà - una posizione centrale nella prospettiva politica radicale alla dimensione della politica internazionale; andando ben oltre la generica indicazione antimilitarista tradizionale, collocando nell'ambito di una visione complessiva profondamente coerente la battaglia contro lo sterminio per fame, e ribaltando dalla base tanti criteri ormai invalsi circa la politica estera. Secondo, la rivendicazione e l'assunzione esplicita nell'orizzonte ideale di una forza radicalmente laica come il PR di valori propri della più alta religiosità cristiana (né questo ha mancato di scandalizzare qualcuno). Terzo, la ridefinizione della funzione del diritto, del suo rapporto con lo stato, con la società e con la coscienza individuale, espressa in quello che si è proposto divenga il preambolo allo statuto del partito.

Dalle nazioni alle ideologie

Il tema dello stato, degli stati: corre lungo tutta la mozione, e può essere forse quello che - come punto di incontro per eccellenza fra le dimensioni della politica estera e di quella interna - consente di avviarne meglio una prima, magari parziale, valutazione.
Lo si consideri in relazione al piano delle relazioni internazionali; nel quale non possiamo non prendere atto dell'affermarsi oggi di una dimensione qualitativamente nuova dei rapporti fra gli stati, o meglio forse dei modi in cui quei rapporti sono sentiti o vissuti dal senso comune collettivo, con quella che potremmo definire un'eclisse dei valori e degli ideali nella sfera della politica internazionale.
Si rifletta, da questo punto di vista, all'evoluzione che ha contrassegnato il nostro secolo. All'aprirsi di esso le nazioni, gli stati costituivano in quanto tali i soggetti politici primi: ed erano essi, i loro interessi, a offrire alle coscienze i punti di riferimento essenziali. Ci si sentiva inglesi, tedeschi o italiani prima e più che democratici, conservatori o socialisti; il dovere verso la patria, intesa come nazione e stato, rappresentava un cardine primario, spesso quello in assoluto prevalente, della morale pubblica e privata; gli "interessi nazionali" diventavano metro e criterio, in loro nome ci si sacrificava e si moriva, si opprimeva e si uccideva, sentendosi in pace con la coscienza. La prima guerra mondiale fu ancora in molta parte - ma ormai solo in parte; si pensi a miti come quello della "guerra democratica" - espressione e frutto di quel clima; che però ormai rapidamente veniva meno.

Tornano gli "interessi nazionali": la guerra come ipotesi

Della logica che voleva tutto, totalitariamente, subordinare alla ragion di potenza dello stato-nazione i fascismi che dilagarono in Europa negli anni venti e trenta furono l'esasperazione parossistica; ma insieme segnarono l'avvio della dissoluzione dello stato-nazione. Gli stati fascisti infatti in un certo senso non erano più "stati" nell'accezione tradizionale del termine, bensì regimi, organi non più della collettività nazionale ma di una sua parte, di un "partito" appunto: in Germania la croce uncinata nazista prese il posto della bandiera nazionale. Così, sul fronte opposto, anche l'URSS - persino nel nome - si pose come regime, non come stato. E la seconda guerra mondiale ebbe per molta parte dei paesi e degli individui in essa coinvolti carattere più di guerra civile che di guerra fra stati: al primo posto non tanto gli interessi nazionali, quanto le opposte visioni del mondo, ossia del bene dell'umanità, vissute semmai come coincidenti con l'interesse ultimo della patria. Sicché su ogni versante si ebbero uomini e gruppi che sentirono il "tradimento" come imperativo morale, e in nome di un "principio superiore" - la democrazia, il fascismo, il comunismo - si batterono accanto agli stranieri contro gli eserciti del loro paese.
Ancor più ampiamente fu questo il carattere della lotta politica nel mondo nel secondo dopoguerra. Molto dell'antico restava certo ancora; ma il confronto, lo scontro, le solidarietà erano sentiti riguardanti non tanto gli stati come tali quanto diversi sistemi politico-ideologici, ossia progetti complessivi di soluzioni per i problemi della convivenza umana. America, Russia, magari India e Jugoslavia, Cina più tardi, venivano amate o odiate in quanto guide e portatrici o insegne di quei progetti universali; i punti di riferimento si chiamavano mondo libero, mondo socialista, non allineamento in quanto via di emancipazione, rivoluzione "delle campagne"... La lotta politica internazionale si confondeva, in larga misura si identificava senz'altro con la contesa fra modelli di vita e fra ideali etico-politici complessivi, e connessi interessi sociali ed economici; stati, partiti e uomini si schieravano sulla scena internazionale prima di tutto in quest'ottica, solo in subordine alla quale gli "interessi nazionali" trovavano un loro posto.
A poco a poco però quelle ideologie e quei blocchi politici hanno subito un processo di usura e, in vario senso, di disgregazione. Fiduce e speranze si sono consumate. Anche a tanti che vi avevano creduto il "mondo libero" rivelava il volto dello sfruttamento infame, della degenerazione consumista; e il "campo socialista" quello del gulag e della sovranità limitata.
Le delusioni, le crisi di identità, rendendo sempre più difficile proiettare sulla dimensione internazionale un impegno politico fondato su valori etici, hanno lasciato libero il campo al dilagare di un cinismo al fondo disperato e lugubre. In mancanza d'altro da tutelare e da affermare, da ogni parte è riemersa e ha ripreso incontrastata il sopravvento la logica degli interessi nazionali, degli egoismi nazionali; che, vuoti di carica ideale e morale, non sanno neppure più diventare "sacri" egoismi, come quelli di un tempo. Sulla scena mondiale ormai agiscono solo gli interessi di potenza e di equilibrio degli stati, senza altri punti di riferimento: la politica estera della Cina è il segno emblematico di una condizione comune. E il dato più inquietante, qualitativamente nuovo, forse proprio di quest'ultimo anno, è che le opinioni pubbliche accettano tranquillamente come motivazione ovvia dei comportamenti degli stati la semplice e bruta difesa degli "interessi", senza neppure più sentire il bisogno che essi siano mascherati con ragioni di giustizia.
E' questo, non per nulla, il clima in cui si torna, come da decenni non accadeva, a considerare e ad accettare come normale, subordinato solo a criteri di opportunità, il ricorso alla forza militare per far valere i propri interessi: la resurrezione del primato degli stati e degli interessi nazionali fa tutt'uno con il ritorno della guerra come ipotesi possibile.

Una politica estera fondata sui valori: contro lo sterminio

A questa logica del "realismo", che è la logica del suicidio, la mozione di Pannella oppone il rifiuto più drastico. Denuncia e-condanna le politiche estere "di ricerca di continuo compromesso-e complicità con la politica dei campi di sterminio e degli sfruttamenti colonialistici, dei gulag e delle leggi d'eccezione, delle aggressioni e delle annessioni, per realizzare spartizioni del mondo ed equilibri di potenze e di potere"; contrappone cioè al criterio della politica estera degli interessi, dilagante ovunque, quello di una politica estera "di principi". Il richiamo è dunque alla sfera dei valori; che occorre, è tragicamente urgente riaffermare, in tanta parte su basi nuove, se le vecchie sono consunte: sola via possibile per ritrovare speranza, per arrestare la corsa verso il baratro.
In questo quadro si intende appieno, allora, il dato politico fondamentale della mozione: il fatto cioè che, rovesciando tutte le priorità cui da sempre ci hanno abituato i criteri delle politiche di stato e di partito - di tutti gli stati, di tutti i partiti, compreso il nostro fino a ieri - essa mette al primo posto assoluto nelle preoccupazioni e nella prospettiva politica dei radicali la questione tremenda dello sterminio per fame.
Si tratta della questione che più di ogni altra - per le sue dimensioni mostruose, per le responsabilità che comporta, collettive e perciò anche personali di ognuno - non può essere "scoperta" senza divenire tormentoso problema di coscienza. Con Pannella, grazie, bisogna dirlo, a Pannella, i radicali la vengono scoprendo, faticosamente magari, come quella che rende insostenibile moralmente rinchiudersi nei "nostri" interessi, di società italiana ed europea; come quella che, mettendo alla prova la dignità di ogni condizione umana, impone di rifarsi all'ambito che in definitiva è l'unico vero, soprattutto in un'epoca come la nostra: quello della comune umanità.
A questa stregua, il discorso è tutt'uno con quello sulla politica estera. La priorità al problema della fame si prospetta come il fondamento di una possibile diversa politica estera - o meglio, internazionale - volta a instaurare una qualità altra delle relazioni internazionali, una politica costruita, appunto, con riferimento a valori, affermando valori, quelli universali della persona umana. Ché se poi si pensa a quel che significano, rispetto agli equilibri del mondo, rispetto ai rischi di guerra, i nodi delle relazioni nord-sud e della tensione tra opulenza e fame, ci si rende conto di quanto un simile indirizzo sia anche quello del realismo autentico, che tutela gli interessi primari di tutti e di ognuno, contro la stupidità cieca delle politiche "realistiche" di interessi e di potenza che portano alla guerra come sbocco naturale.

Per il diritto, contro ogni guerra

La linea è dunque quella di una contestazione dello stato come strumento di potenza; ma non certo dello stato in quanto tale. Rispetto alla dimensione della politica interna (ma poi non solo di essa, in una prospettiva che non può non negare la scissione e la diversità qualitativa fra politica interna e politica estera), la mozione "proclama il diritto e la legge, diritto e legge anche politici del partito radicale; proclama nel loro rispetto fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni". Il PR ne esce definito come partito per eccellenza del diritto, della legge, dell'osservanza all'estremo della legge voluta con scelta consapevole, quale scelta di civiltà. E non c'è diritto, sistema di norme codificato, senza stato.
Nulla di più lontano dall'ottica radicale, in questo senso, di parole d'ordine come quella "né con lo stato, né con le BR". L'obiettivo del partito armato, quello che nutre l'illusione atroce dei suoi combattenti, è di giungere alla rivoluzione attraverso la disarticolazione e disintegrazione dello stato come effetto del terrorismo. La via scelta, non solo tatticamente (l'uso delle armi), ma anche strategicamente (la disintegrazione dello stato, garante di ogni diritto), è quella che passa attraverso lo stravolgimento dei modi della convivenza sociale: alla regola del diritto vuol sostituire quella barbara della guerra. Anche la guerra, certo, è cosa per eccellenza dello stato, degli stati: anzi, ne siamo ben consapevoli, la sola vittoria cui il partito armato può giungere è quella non del rovesciamento dello stato bensì, con il trionfo di una logica di guerra, quella di una trasformazione di esso che, facendone venir meno la dimensione del diritto, lo muti appunto in mero organo di guerra.
Qui in effetti sta il nodo. Se è vero che lo stato reca in sé due momenti, irriducibilmente contraddittori fra loro, quello del diritto e quello del potere e del dominio, la guerra esalta il secondo, comprimere fino ad annullarlo il primo: negando alla radice il diritto alla vita è, in sé, la negazione radicale di ogni diritto. La direttiva dei radicali sta all'estremo opposto, allora, di quella del partito armato - qui sì, davvero, opposti estremismi: fino in fondo per lo stato come sede e momento del diritto, per limitarne al possibile il momento del potere e del dominio.

Diritto naturale, primato della coscienza

Partito della legalità, il PR è anche il partito della disobbedienza, dell'obiezione di coscienza. Eppure, è proprio della legge essere uguale per tutti: come chiederne il rispetto nel momento in cui la si viola? Contraddizione solo apparente; ma cui occorre riflettere se non si vuole che possa diventare reale.

La disobbedienza cui i radicali si chiamano e chiamano è quella contro lo stato-potenza; ossia, anche, contro lo stato che, in virtù della propria forza, stabilisce una legge che violi un diritto superiore. Non solo, si badi, contro le violazioni della legge fondamentale dello stato, la costituzione: molte volte l'obiezione di coscienza radicale si è levata contro leggi costituzionalmente valide - per tutte, quella sull'obbligo militare. Non c'è dubbio: il riferimento ultimo è al diritto naturale, quale la libera coscienza, nella sua responsabilità, lo sente e lo stabilisce.
Il congresso ha proclamato "il dovere alla disobbedienza, alla non collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta non violenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto, della legge". Riprendendo i termini di un dilemma che ha corso i secoli e i millenni, i radicali rifiutano di riconoscere nello stato e nel suo potere la sola, o comunque la preminente, fonte di norma. Alla legge positiva, dello stato, arrivano così a contrapporre - con espressione certo "scandalosa" rispetto a tanta cultura storicista - una "legge storicamente assoluta".

Non uccidere, mai. Perché non possiamo non dirci cristiani

Diritto naturale, primato della coscienza: temi e valori che, nella cultura europea almeno, sono connessi indissolubilmente al patrimonio più alto della religiosità cristiana. Se vogliamo, come radicali, far davvero i conti con noi stessi, con quello che siamo, dobbiamo prenderne consapevolezza piena. Non opportunismo strumentale dunque, ma autentica scoperta di sé il laico richiamo a valori cristiani sempre più esplicito e frequente nell'azione del partito anticlericale che vanta Ernesto Rossi tra i suoi maestri (e che, significativamente, per primo credo nella storia dei partiti italiani, "partiti cristiani" compresi, usa in un proprio documento congressuale il termine "pietà").
A questa coscienza di sé e dei tempi si ispira, nella sua meditata formulazione, l'impegno solenne e sconvolgente con cui il nuovo patto radicale "dichiara di conferire all'imperativo cristiano e umanistico del "non uccidere" valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa". Il valore supremo è la persona umana in sé, la sua vita, non lo stato e il potere. Ne discende la scelta della non violenza assoluta: terribile, drammatica, ma la sola forse adeguata a contrastare la violenza, che da ogni parte avanza tra noi.
Tutto si tiene, così. Il congresso segna, vuole segnare un passo capitale nella storia dei radicali: l'acquisita consapevolezza che, se mai lo si è potuto, oggi non ci si può più limitare a un ambito nazionale; che il PR non può più essere solo, come è stato, forza "di governo" in Italia. Oggi a ognuno compete contribuire, come sa e può, al governo del mondo; in questa direzione, misurando l'esiguità risibile delle proprie forze, ma anche le possibilità che si aprono, il PR ha deciso di rivolgere il proprio impegno. Né poi è questione di calcolare le forze di un partito: negando la distinzione insuperabile fra le sfere della politica interna e della politica internazionale, il messaggio, l'appello a intervenire al livello anche delle relazioni internazionali, del governo complessivo dell'umanità, non è rivolto a gruppi, a "forze", a interessi - di stato, di classe, di partito. Come con i referendum all'interno, si investono direttamente i singoli del diritto e dovere di decidere anche su questo piano più ampio il richiamo è alla coscienza e alle responsabilità personali di ognuno in quanto cittadino del mondo, in quanto persona.



I conti con i referendum

di Giuseppe Rippa NR32, 28 giugno 1980

Se si considera l'ostilità profonda da sempre espressa dai vertici comunisti verso i referendum, allora c'è da dire che la calibrata e cauta presa di posizione di Giovanni Berlinguer sul n. 27 di Rinascita "Facciamo per tempo i conti politici con i referendum", è da registrare come un importante riscontro politico al successo della battaglia referendaria del pr, ovvero della sua prima fase, quella della raccolta delle firme. Portato a fare i conti con i fatti olitici che incidono sui rapporti di forza e gli schieramenti che da questi si producono, il pci sembra, a giudicare da quanto scritto dalla sua rivista teorica, molto più accorto e in definitiva meno propenso ad assumere di fronte alla prossima scadenza referendaria un atteggiamento di preconcetta ostilità, né tanto meno intende assumere posizioni di attacco per poi rischiare di essere "lasciato solo". "C'è bisogno di una riflessione più puntuale" - dice G. Berlinguer -. Vediamo: prima di tutto - afferma il parlamentare comunista - non è per la via referendaria che si può determinare un rinnovamento della società e dello Stato (vedi anche la relazione di Cossutta al Comitato Centrale); i referendum inoltre hanno un'"effetto destabilizzante". Subito una risposta su questo punto. Il referendum è a nostro giudizio il viatico attraverso cui può passare una salita di tono dell'intera vita politica italiana. Nessuno si illude che il rinnovamento istituzionale possa avvenire nel nostro paese grazie solo ai referendum. Ma c'è intanto l'azione stimolatrice all'immobilismo dei partiti, questo sì. Come pure il consolidarsi della praticabilità dell'istituto referendario può fornire ad una sinistra che si candida ad essere forza di governo un concreto modo per offrire all'avversario di classe un terreno di confronto e di scontro politico che non è quello del ricatto dello strangolamento economico o di un colpo di stato (il cosiddetto pericolo cileno) ma della democrazia e della prassi costituzionale. Anche in questa prospettiva il referendum si conferma non di destabilizzazione, ma anzi di correttivo al deterioramento delle istituzioni. Dare alla Dc la possibilità di tenere due o quattro referendum per volta è sicuramente una garanzia di crescita democratica effettiva e tangibile. A questo punto si aggancia il discorso del referendum che in prospettiva può e deve diventare non più un fatto traumatizzante, ma un normale istituto. L'inflazione del referendum va prevista, gestita e in una certa misura auspicata. Si tratta, d'altronde, d'un fatto naturale ed inevitabile. "I referendum sono avviati, e la politica italiana dovrà fare i conti con essi". Questa affermazione di Berlinguer conferma che avevamo visto giusto nelle nostre scelte congressuali. L'essere riusciti ad imporre la centralità delle nostre iniziative in un quadro politico sempre egemonizzato da un sistema di regime partitico su cui si è forzatamente tentato di incardinare la Costituzione materiale contro l'auspicata repubblica costituzionale, legittima il nostro ruolo di forza alternativa. Avevamo affermato che in linea generale il referendum, nel quadro istituzionale della Costituzione, è strumento fondamentale di iniziativa politica alternativa, che, in una società industriale matura, non può essere solo un fatto di opposizione parlamentare. Se il problema di fondo rimane quello di realizzare diverse forme di vita e di partecipazione istituzionale dei cittadini al potere, e di trovare il modo per cui queste diverse forme di vita politica siano effettivamente democratiche nel senso che abbiano protagonisti radicalmente diversi e associazioni di cittadini radicalmente diverse da quelle partitiche (i partiti totali, come li definisce Marconi su Mondoperaio n. 6) e allora il referendum è più che mai oggi il più sostanziale contributo alle istituzioni sempre più travolte da una profonda crisi di legittimazione. Altro che processo di tipo destabilizzante! Deve essere comunque rilevata l'indubbia positività dell'atteggiamento socialista nei confronti dei referendum, poiché è anche grazie alla posizione assunta dal vertice socialista che si è rotto il patto di unità di quello che è stato definito il Club dei partiti che in tutti i modi (disinformazione e censura prima di tutto) ha cercato di limitare la portata e l'incisività del referendum proprio perché legale, coinvolgente, privo di delega.

Nel merito poi la posizione del partito comunista di presenta più attenta e articolata di quanto si era potuto registrare prima che le forze fossero state consegnate in Cassazione, quando gli attacchi e gli insulti erano quotidiani e indiscriminati. Sui reati di opinione, i tribunali militari la posizione comunista è di evidente difficoltà poiché il mantenimento nei nostri codici di norme di dubbia incostituzionalità è sicuramente una responsabilità anche dei partiti di sinistra che in 35 anni non hanno fatto nulla per cancellare questa vergogna. Che nella V, VI e VII legislatura il pci abbia presentato proposte di legge per la soppressione dei reati di opinione senza poi farne nulla aggrava e non giustifica la sua posizione rendendo evidente una obiettiva complicità con un disegno autoritario che conservando questi reati in realtà mira a conservare gli strumenti per reprimere ogni forma di dissenso.

Sull'ergastolo si deve registrare, da quando scrive G. Berlinguer, una posizione importante che se sarà mantenuta avrà effetti significativi. "Vi è una lotta di principi, da condurre coraggiosamente". Era ora potremmo dire, se si pensa che in tempi recenti, da sinistra vi è stato un lento assecondare una reazione forcaiola rispondente ai peggiori stimoli di vendetta sociale, e l'abbandono dei valori della civiltà giuridica, dello sviluppo della coscienza e della consapevolezza collettiva per lasciare spazio alla barbarie giuridica che è bene ricordarlo affonda le sue radici anche nella cultura di certa sinistra stalinista e totalitaria. Dopo le violente polemiche contro i radicali e i gruppo protezionistici, polemiche che non hanno risparmiato lo stesso Umberto Terracini, emerge, sotto il peso delle 850 mila richieste di abrogazione della caccia una posizione certamente imprevedibile solo qualche mese fa: "non vedo perché il pci debba costringere a votare pro o contro l'uccisione della selvaggina". Il che detto da un partito che pretende di rappresentare tutto dei suoi iscritti e dei suoi elettori non lasciando nessuna libertà di scelta alle singole opzioni che si presentano al cittadino, volendo mediare tutto e tutti non è cosa di poco conto. Credo che in misura significativa in questo caso si confermi la positività dello strumento referendario e la sua capacità di rompere la vocazione paternalistico-manipolatoria con cui la società politica, i vertici dei partiti, pretendono di monopolizzare e lottizzare tutti gli spazi, politici, economici, culturali e sociali in nome di opzioni sempre più generiche e di vere proprie deleghe in bianco.

I referendum sulle centrali nucleari e sull'hashish e la marijuana vengono affrontati in modo problematico senza false certezze il che è già un aspetto importante per avviare un serio dibattito su questi temi fondamentali riguardanti le scelte del nostro futuro e il modo di affrontare i problemi della nostra società.

In margine alcune annotazioni: Berlinguer dice il referendum sul divorzio ha costituito il primo rovescio della DC per responso delle urne. Perché allora non interrogarsi su come quel successo si concretizzò e quale fu l'atteggiamento del pci che fino all'ultimo tentò di scongiurare la consultazione popolare affermando che saremmo andati incontro ad una grave spaccatura nel paese?
L'altra precisazione è sui rapporti tra radicali e socialisti e su questi potranno produrre miglioramenti di rapporti fra tutta la sinistra. Su questo si può affermare che proprio sui dieci temi referendari si potrà determinare nella concretezza e nella importanza che hanno una prima base di discussione su cui misurare la reale volontà di tutte le forze della sinistra per un programma alternativo e di unità di azione di legislatura della sinistra.



Sterminio per fame nel mondo

Intervento di Marco Pannella al PE - 16.9.80

"Signor Presidente, colleghe e colleghi, dieci mesi fa avete votato tutti concordi tranne noi, una risoluzione con la quale chiedevate immediatamente ai vostri governi almeno lo 0.7 per cento. Era la vostra risoluzione, l'avete votata contro di noi.
Vi accingete adesso a votare una mozione stilata dal compagno, amico e collega eurocomunista Ferrero, per conto della Commissione per lo sviluppo. E' una relazione che giustamente Sir Fred Warner ha sottolineato essere di suo gradimento. Giustamente trova, mi pare, anche il plauso, non solo di stile- se ho ben capito- del presidente Poniatowski, ma anche di adesione culturale. Si celebra, signor Presidente, in quest'aula, il mistero della salvezza attraverso l'interclassismo, il modernismo tecnocratico e l'illusione tecnicistica, con l'accordo del prestigioso ex rivoluzionario a riposo, compagno Pajetta, con l'accordo di Poniatowski e di voi tutti.
Quante persone in meno morranno, dopo questi vostri accordi nelle prossime settimane e mesi? Io temo neanche una, se è vero com'è vero, Commissario Cheysson, che, secondo le unanimi previsioni delle Agenzie specializzate, nei prossimi mesi, nel prossimo anno, se non vi saranno mutamenti radicali, il tasso di mortalità aumenterà ulteriormente.
Questa risoluzione è arretrata in ordine alle indicazioni politiche concrete che l'opinione pubblica si attende. Il gioco delle parti sembra che vi consenta di reclamare qui immediatamente lo 0,7, salvo poi votare, nei vostri parlamenti, a favore dello 0,1 o dello 0,2.
Purtroppo ben faceva il collega Pajetta a rimproverare a Brandt di aver scritto, in compagnia di altre prestigiose personalità e per conto di quella Banca mondiale- che dopo aver finanziato detto libro, adesso lo avversa nella sua economia complessiva- quando la stessa socialdemocrazia tedesca che ci presenta questo bellissimo libro, annuncia poi a New York di volere ritirare ulteriormente i suoi aiuti e le sue sovvenzioni allo sviluppo. Non è questa la politica dello sviluppo, bensì la politica della "distensione", che di fatto significa corsa agli armamenti, sicché in questo gioco delle parti veramente non si comprende dove finisca il vaudeville e inizi la tragedia. La tragedia inizia dove vi sono morti, assassini, stermini.
Noi abbiamo detto la scorso anno che "sapevamo di non sapere" (e questa non era scienza gaia, ma sicura) cosa si dovesse fare. Sapevamo però che la vostra via era illusoria. Voi assumete la contemplazione della realtà per meglio viverla; voi avete la coscienza a posto a buon mercato; voi predicate quasi foste angeli o demoni, estranei alla sfera della politica. Il problema è però di volontà politica quindi di volontà vostra, dei vostri partiti, dei vostri leader, ma voi nulla fate per mutarla.
Noi diciamo che lo 0,7 certo non risolve i problemi e che si deve parlare di trasferimento di ricchezze e cominciare in qualche misura a metterle a disposizione. Avevamo detto fin dall'inizio che se il problema è di volontà politica occorre armare la volontà politica della forza del diritto, senza la quale ogni volontà politica è velleità, è pretesto o protesta sterile, come quella del compagno Pajetta che rimprovera qui a Brandt le sue fortissime e gravi contraddizioni e che parla a nome di un partito che ha sostenuto per due anni in Italia un governo che è stato l'unico- da 35 anni a questa parte- a fare scendere il contributo pubblico italiano allo 0,032%. Il governo comunista-democristiano italiano ha così portato la nostra percentuale all'ultimo posto della graduatoria per paese industrializzato.
Per noi il problema principale è quello di procedura. Dicemmo già lo scorso anno che l'autorità dell'ONU e del Segretario generale dell'ONU ed il Consiglio di Sicurezza dovevano, in termini di procedura, essere investiti della questione e che le procedure teoriche di consensus andavano irrobustite e fatte convergere nelle sedi tecnocratiche e diplomatiche, perché senza il recupero e la formazione della dottrina giuridica del consensus, non si può sperare di rendere i paesi adempienti ai loro impegni, più di quanto non lo sia stato rispetto alla famosa risoluzione sullo 0,7%.

Signor Presidente, nel 1936 la Società detta delle Nazioni- come direbbe il Presidente Poniatowski- aveva dichiarato testualmente: "il mondo ha tutte le capacità tecniche e finanziarie per sconfiggere la miseria e battere le prospettive della guerra".
Anche allora c'era la politica della distensione. Mussolini ed Hitler vedevano onorata la loro struttura di guerra e di assassinio con la politica di Monaco, della quale sono oggi cantori stonati, ma convergenti, i Pajetta e i Poniatowski, tutti quelli che oggi in Europa credono davvero che sia stato per la "cattiveria" di Stalin o di Hitler o di questo o di quello, che il mondo debba affrontare le grandi tragedie.

Signor Presidente, avevamo anche indicato come un'utopia quella di Brandt, la vostra, di continuare a dire: bisogna ridurre le spese militari. Abbiamo tecnicamente proposto una diversa politica di conversione della spesa militare; abbiamo detto: usiamo anche gli eserciti per creare forze straordinarie di intervento, sia per quanto riguarda i trasporti, sia per gli interventi d'urgenza, che devono essere anche strutturali e non solo alimentari. La carestia di un momento può essere l'occasione, con la sua logica perversa, per formulare piani, per costruire ponti, avvalendosi della tecnologia degli eserciti. La quale è, per il momento, pienamente adeguata a questo scopo, e non già le tecnologie delle grandi imprese capitalistiche stradali europee che vanno a costruire grandi dighe disastrose lì dove invece c'è bisogno di piccoli ponti- probabilmente di fortuna- per tre o quattro anni.
Avevamo fornito molte indicazioni di questo genere, Signor Presidente; noi contestiamo le analisi che sono fatte. Pur rispettando pienamente le tesi altrui, riteniamo che anche una famiglia politica quantitativamente poco numerosa, come la nostra, abbia il diritto e il dovere di potere contrapporre le proprie analisi, affinché questo Parlamento vada fiero di avere compreso quanto le minoranze possono a loro volta proporre.
Peraltro, questo non è un Parlamento, signor Presidente- come ha ricordato il Presidente Debré- a termini di trattato questa è un'Assemblea e aggiungo un'Assemblea unica nel suo genere perché è un'Assemblea retta sul qualunquismo della relazione Ferrero, retta su questa illusione tecnicistica, senza onorare le idee e gli ideali per i quali siamo qui, senza avere il coraggio delle differenze, senza avere il coraggio delle diverse buone fedi che sono le nostre.
Un'Assemblea che discute in questo modo mutilo e mutilato è un'Assemblea che potrà concorrere solo, signor Presidente, a quello sterminio al quale essa già concorre. Chi sono infatti i signori della terra? Chi sono i signori della politica in questo mondo? Chi ha prodotto questo disordine economico e morale stabilito nel mondo? Sono i vostri partiti, sono le vostre idee e sempre di più, signor Presidente, saranno anche i tentativi gretti di dominare una Assemblea attraverso regole da pizzicagnolo e da salumiere, come quelle che usate per disciplinare- per così dire- i dibattiti, ai quali partecipiamo per essere fedeli non solo a chi ci ha eletto, ma innanzitutto, signor Presidente, per essere coerenti con le nostre coscienze e anche per rispettare il diritto dei nostri avversari di essere onorati fino in fondo con la nostra attenzione e con la nostra critica. Ciò non ci è consentito. Siete i personaggi marginali della tragedia dello sterminio. Verrebbe qualche volta voglia di dire che siamo in un boulevard piuttosto che in un emiciclo, e dirvi allora: arrivederci, parleremo sempre di meno, arrangiatevi da soli. Gandhi ha insegnato che nella storia esistono momenti nei quali la democrazia e la libertà devono essere servite con metodi diversi che non siano quelli di istituzioni senz'anima, capaci solo di uccidere corpi e distruggere le ragioni per le quali sono state create.



Pannella impuso sus tesis en el congreso del Partito Radical Italiano

Juan Arias, "EL PAIS" miércoles 5 de noviembre de 1980

El Partido Radical italiano ha concluido su 24° Congreso Nacional con la sorpresa de la elección como nuevo secretario general de un joven de 26 años, Francesco Rutelli, estudiante de Arquitectura, y que era, hasta ayer, secretario del partido en la región del Lazio, y codirector, con el famoso escritor Cassola, de la revista antimilitarista El Asno. Pero, en realidad, el gran vencedor del congreso ha sido su líder carismático Marco Pannella, que ha vuelto a coger las riendas del partido.
Pannella anunció durante el Congreso su dimisión como diputado para poder trabajar con dedicación plena en la refundación del partido, que ha anunciado para 1982.
El ex secretario general Rippa ocupará el puesto de Pannella en el Parlamento. El mismo anunció su dimisión como secretario general para dejar el puesto al jovencísimo Rutelli, que es una creación de Pannella, el cual se reserva su elección al frente del partido para 1982, cuando el partido se vista con el nuevo traje de la reforma.

El congreso acabó con una moción unitaria de sólo veinte líneas para anunciar la refundación del partido y el empeño de los radicales en la defensa de los diez referendos que han presentado y que piensan ganarlos todos, porque "esperamos", han observado, "en la ayuda que nos vendrá de los socialistas".
El congreso se cerró ayer con una marcha antimilitarista, y las acusaciones de un pequeño grupo a Pannella por su autoritarismo.
Los radicales, que tienen toda la voluntad de "crecer" y la preocupación de convertirse, con ese crecimiento, en un partido burocratizado, como los demás, que tanto han criticado, han anunciado ayer que se presentarán a las próximas elecciones municipales de Roma de junio próximo, "solos o con los socialistas". Y es este acercamiento a los socialistas la nota que más resaltan todos los observadores.
Los radicales de la base están aún muy perplejos y han afirmado durante el congreso que ellos no desean separar esta aproximación a los socialistas de un diálogo serio con los comunistas, pero muchos observadores aseguran que existe ya un "pacto de hierro" entre Pannella y Craxi.


SI VA A LETTO CON IL NEMICO PIUTTOSTO CHE UCCIDERLO

di Rosa Montero. Intervista a Marco Pannella - "EL PAIS" 7 dicembre 1980

Marco Pannella, cinquanta anni, giornalista di mestiere, politico per convinzione, è uno dei dirigenti del Partito Radicale italiano e deputato al Parlamento Europeo. Protagonista di numerosi scioperi della fame per svariate cause, non solo italiane. Il suo partito è, probabilmente, il più sensibile ai nuovi problemi delle società industrializzate. In questa intervista spiega la sua condotta ideologica ed etica, nella quale la felicità costituisce il grande anelito.
Nell'Hotel Ritz di Madrid c'è un salotto tiepido e solitario con particolari ornamenti murali. Ci sono alcune scrivanie, con lampade di fine mussolina pieghettata, carta assorbente, calamai e raccoglitori, in inutile attesa di un casuale scrittorello. Forse fu un salone di molto successo prima del trionfo delle comunicazioni telefoniche, ma oggi non c'entra nessuno in questa stanza di sapore epistolare, occupata soltanto da due poliziotti armati - presumibilmente sorveglianti di membri della CSCE albergati nell'hotel - che portano a spasso la loro noia dal camino spento alla vetrata, dalla vetrata al calamaio sulla scrivania a sinistra. Questo è il posto che Marco Pannella sceglie per l'intervista. Imbrunisce, e questa stanza dolciastra e decadente, con un contenuto colpetto di tosse di un poliziotto giù in fondo, è una pennellata di irrealtà sulle parole del leader del Partito Radicale italiano.

- Quasi mi stupisce che Lei non abbia un'aria sciupata dopo tanti scioperi della fame che ha fatto. Più di venti, o sbaglio?
- Sì, non so di preciso quanti, ma diversi. Noi non ci mettiamo in sciopero della fame per ottenere dei benefici per noi stessi, cosa che altri fanno e che io rispetto in assoluto. Noi li facciamo per richiamare il Potere al suo ordine, anche se quell'ordine non è il nostro.

Descrivere l'aspetto di Pannella potrebbe sembrare cosa superflua, dato che il suo fisico è stato fatto oggetto di tanti commenti quanto le sue idee. E si sa, dunque, che è il proprietario di una carrozzeria importante. E' alto e ben fatto, e si muove con la facile sicurezza di chi non ha patito complessi con il suo corpo: neanche per i brufoloni purulenti dell'adolescenza. Indossa un vestito grigio talmente perla che ti viene la tentazione di dire che si accosta benissimo al colore degli occhi, anche se questi, in realtà, sono molto blu. Nonostante la sobrietà dei suoi capi d'abbigliamento, ha un tono indefinibile di lusso: lussuosi sono i suoi capelli bianchissimi e folti, lussuose le sue mani, che muove sapientemente. A volte, in qualche varco inaspettato del volto, gli si afferra una espressione di uccello rapace o di satiro greco-romano, ma si scioglie al volo per riprendere l'aria pacata e affettuosa, il suo sorriso caldo. E' un maestro della seduzione.

- E' curioso che proprio a Lei, uomo proveniente dalla borghesia intellettuale, venisse in mente di utilizzare il ricorso agli scioperi della fame. Non è un metodo di lotta molto comune.
- In primo luogo, è vero che provengo dalla media borghesia, ma sociologicamente non ho mai partecipato della borghesia intellettuale, tranne all'università in un certo periodo. Io sono stato presidente degli studenti universitari italiani, insieme abbiamo creato le organizzazioni universitarie dopo il fascismo. Ma gli universitari, in realtà, erano più militanti che intellettuali. Allora mi sono convinto che bisognava creare dei mezzi propri di espressione. Pensavamo che bisognava dare corpo alla speranza, poiché, si voglia o no, si dà forma alla "speranza" e alla "disperanza", in fin dei conti mi sembra più difficile vivere la disperanza che la speranza, una speranza ragionevole. Noi non eravamo d'accordo sul fatto che i mezzi giustifichino i fini, bensì che i fini prefigurano i mezzi. E qui abbiamo spezzato una tradizione sia politica che culturale o religiosa. Da allora, abbiamo cercato di esprimerci anche attraverso mezzi che siano anche una immagine di ciò che vogliamo ottenere. A Lei sembrano mezzi di lotta poco comuni, strani? Più strano sembra a me che gli altri perseverino su mezzi di lotta che non servono neanche ai loro obiettivi. E' la stessa differenza che esiste fra il senso comune e il buon senso. Io credo che il senso comune non sia buon senso, esattamente.

- E lei ha buon senso, è ovvio.
- Proviamo ad averlo, proviamo a ragionare.

- Osservo che Lei se la gode facendo dei giochi di parole: sottolinea la differenza fra buon senso e senso comune, e spesso ha dichiarato che si ritiene rivoluzionario e non rivoluzionista, riformatore e non riformista...
- Sì, credo di aver inventato la parola rivoluzionista, che non esisteva prima. Ma esisteva riformista che è colui incapace di fare la riforma che dice di volere, e che non va oltre le piccole cose. Allo stesso modo, i rivoluzionisti non riescono a fare la rivoluzione né la lasciano fare.

- Lei si definisce anche come "credente laico": sempre questi giochi di parole.
- Sì, ma tutto ciò non è solo un gioco di parole, come Lei dice. Credo che ci sia bisogno di rispettare le parole, che vada evitato il consumo della parola per non dire nulla. Per esempio, la parola rivoluzione è capita come presa della Bastiglia, distruzione, tabula rasa .... Come risultato di tutto ciò, e dall'apparizione dei rivoluzionaristi, non vi sono state delle vere rivoluzioni. Se uno guarda sul dizionario, rivoluzione è esattamente il contrario, un atto fisico, un movimento che un corpo fisico esegue intorno a sé stesso o intorno ad un punto fisso: è un movimento perpetuo, è la continuità, non la rottura. Bisogna, dunque, riappropriarsi della parola, bisogna cercare la precisione nel linguaggio.

- E' un altro metodo di lotta, quindi.
- Sì, è la lotta semantica, ed è molto importante. Perciò abbiamo insistito sempre nel chiamare partito il nostro partito nonostante tutti dicessero che era un movimento. Ma noi ci rifiutavamo di abbandonare la parola partito, che rappresenta l'elemento necessario della democrazia politica, nella quale crediamo. Non volevamo abbandonare questa parola a un monopolio. Considero molto pericoloso accettare, per pigrizia, che le parole diventino semplici sassi, e che vengano utilizzate in modo indiscriminato, senza significazione. Credo che fu Silone a dire che la vittoria della società totalitaria incominciò il giorno in cui un uomo stanco, che viaggiava in treno, si incontrò con un'altro individuo che chiacchierava incessantemente dicendo immense sciocchezze. Allora il nostro uomo gli disse di sì, gli diede la ragione soltanto per toglierselo di mezzo, e lì incominciò la resa alla violenza. Avrebbe dovuto dire: "Non voglio parlare", oppure "Non sono d'accordo".

- Allora Lei propone la lotta perpetua.
- Sì, una lotta non violenta, il dialogo. L'unica lotta che conosco che valga la pena è il dialogo. E quasi sempre è drammatica.

- E Lei è capace di discutere in tutti i treni?
- Io non vorrei servire di esempio: si dice che il saggio o il santo pecchi sette volte al giorno, io ne pecco settanta. Di modo che rischio, probabilmente, di fare la stessa cosa che fece il nostro uomo sul treno. Ma dentro di me mi propongo di non farlo, e ci riesco abbastanza spesso.

- Non è stancante essere sempre in continuo combattimento?
- La verità è che è più faticoso non combattere, credere che sia meglio non rispondere. Perché così stai coltivando la tua fatica anziché la tua forza.

Pannella parla un francese perfetto - sua madre era francese - e poco meno che emorragico, per abbondanza e fluidità. La sua conversazione è ricca, piena di suggerimenti e di immagini, ma si limita strettamente alla teoria. In svantaggio per il mio francese insufficiente e balbettante, constato con sgomento la mia incapacità di spezzare la torrenzialità del suo discorso perfetto, del suo discorso politico. E, nonostante tutto, diffido di quelle persone che non sono capaci di tartagliare neanche una volta nell'arco di due ore: diffido di coloro che sembrano sapere in anticipo le risposte.
Mi impappino su una parola per la quinta volta nell'arco della intervista, chiedo scusa per la poca proprietà di linguaggio.

- Non si preoccupi - dice lui -. Lei parla bene il francese.
- Ma no - rispondo, credendo che la sua frase sia mera cortesia.
- Sì, sì, parla bene. Capisce tutto, si esprime appropriatamente.
- No - ripeto incespicando - Capisco bene ma non parlo.
- Come non parla? Lei sta parlando in francese in questo esatto istante. - si incaponisce.
- Non è che una apparenza - dico scherzando.
- Allora le mie parole sono anche apparenza. Insisto, Lei parla bene il francese - ripete combattivo.
- No. Mi impunto, visto come stanno le cose.
- O Lei accetta che parla bene il francese o non rispondo più alle domande - dice assolutamente serio.
- Osservo che Lei mette in pratica il discutere in ogni singolo treno
- Le avevo già detto che cerco di farlo - e sorride.

Come leader di un partito che include rivendicazioni femministe, Pannella ha acquistato una gradevole naturalezza sociale davanti alla donna: non fa il pappagallo (quanto meno, non nello scontato stile classico), è gentilissimo, ma non si sente costretto a togliermi o a mettermi il cappotto, a volte mi fa accendere la sigaretta, altre no, a seconda della logica delle circostanze, neanche batte ciglio quando allungo la mano verso il suo pacchetto di sigarette, che era caduto più vicino a me che a lui.

- Lei sembra un uomo ottimista.
- No, non lo sono.
- Ma è un uomo con speranza.
- Ho speranza, sì, ma non illusioni. Gli ottimisti hanno illusioni. Io ho e cerco di avere speranze, e in più queste speranze devono essere ragionevoli.

- Ma, Lei crede al progresso dell'Umanità?
- Non necessariamente. Non sono un positivista di fine secolo. So che lo sviluppo della storia umana è drammatico e spesso tragico. La grandezza umana è sempre simile a sé stessa. Non c'è progresso, e comunque può esservi regresso, questo dipende dalla persona. Io lotto per il disarmo unilaterale, contro il nucleare... Se credessi nel progresso, non mi darebbe fastidio; se fossi ottimista aspetterei che tutto si sistemasse da solo. Io credo che, allo stesso modo che è possibile il suicidio in una vita individuale, questo sia anche possibile nella storia, nella civiltà. L'Umanità può suicidarsi...., o può essere assassinata. E credo che la nostra grandezza storica risieda nel fatto che l'Umanità non può ridursi alla ragione, ma senza la ragione può anche morire.

E' giornalista e ha cinquanta anni. E' stato deputato al Parlamento Italiano e adesso lo è al Parlamento Europeo. Da trenta anni circa lotta nelle file del Partito Radicale. Ed è una lotta immaginativa e sorprendente: dagli scioperi della fame e della sete (ve ne fu uno nel 1977 in protesta per l'incarcerazione di diversi obiettori di coscienza spagnoli), che lo hanno fatto dimagrire fino a venticinque chili in quaranta giorni, con principi di insufficienza renale ed altre incrinature, fino ai tavoli che mettono i radicali per le strade raccogliendo firme per chiedere i referendum: contro la caccia, per esempio, ma anche contro la legge Cossiga sull'Ordine Pubblico, contro l'ergastolo, contro la legge sui delitti di opinione, contro il nucleare. Così, a furia di firme e di fame, i radicali annoverano notevoli successi: l'apertura delle istituzioni psichiatriche, la vittoria del divorzio e dell'aborto, e perfino l'influenza decisiva nelle dimissioni del presidente Leone. Pannella, nel frattempo, ha tempo di scandalizzare le masse: va in carcere per aver invitato il procuratore generale e la polizia a farsi una canna per chiedere la depenalizzazione dei drogati, compare in televisione imbavagliato per protestare contro il boicottaggio e il dirigismo nell'informazione o dice "merde" al presidente del Parlamento Europeo, e con una azione così candida provoca collassi. Celibe, non ha macchina, abita in uno studio senza riscaldamento e si compiace nel considerare sé stesso e il suo partito come i successori del temperamento socratico.

- I radicali sono duramente attaccati sia dalle destre che dalle sinistre. Le destre dicono di voi che siete dei drogati e....
- E traditori della patria, e terroristi, e omosessuali, e pagliacci, e infine, schifosi, sì.
- E le sinistre vi tacciano di fascisti.
- Di radical-fascisti, sì. Il fascismo è stata una pagina terribile, grandiosa, della nostra storia, e in questo senso è tragicamente nobile, come tutto ciò di cui si può far uso nella storia. Si potrà dire di tutto sul fascismo, tranne che non faccia parte di noi stessi: non si può dire che sia il demone degli altri, ma il nostro. Il fascismo ha dei valori che combatto senza tregua, ma che rispetto, poiché furono i valori che ci uccisero, che ci schiacciarono, che ci ridussero a sconfitti durante gran parte di questo secolo. Si è detto che la borghesia italiana aveva dato il peggio al fascismo, che tutto quello era grottesco, ma è una bugia. Come ministro all'Educazione Pubblica c'era il miglior filosofo italiano, Giovanni Gentile, per esempio. La borghesia italiana ha dato il meglio di sé al fascismo, purtroppo. Adesso bisognerebbe chiedersi chi siano gli eredi del fascismo: e sono coloro che si autodenominano antifascisti: il clero, che stava dalla parte del fascismo; gli stalinisti, che spesso stavano col fascismo - come negli accordi contro la Polonia... -. Il Partito comunista, il socialista, i liberali e la Democrazia Cristiana difendevano ancora nel 1968 il codice Rocco, mussoliniano, e siamo stati noi i soli a lottare per farlo sparire. Tutte queste forze politiche, come fecero i fascisti, hanno deciso di criminalizzare gli antichi fascisti, e dichiarano: libertà per tutti, ma non per l'estrema destra. La differenza fra un fascista e un antifascista è che l'antifascista dice all'altro: finché tu non mi tocchi il codice penale, hai diritto a dire tutte le stupidaggini che ti vengano in mente. Io ho provato spesso vergogna antifascista degli "antifascisti". Ma questa lotta contro il fascismo e la lunga traversata del deserto.

- Perché?
- Perché nel 1968 gli antifascisti dicevano che bisognava uccidere i fascisti. Perché quelli che si credevano libertari passeggiavano per le città con il pugno in alto, insultando, devastando, sentendosi molto virili, molto maschi, sentendosi un esercito. Non avevano altra divisa che i loro capelli lunghi, ma erano un esercito. Parlavano di morte, e con la morte incomincia il fascismo. Era l'ideologia di eroi e martiri, la necrofilia. La sinistra italiana è stata sempre divisa, ma la vecchia e la nuova sinistra si sono sempre unite nei funerali. E' la sinistra del funerale, mentre noi vogliamo essere la sinistra della felicità. Di una felicità ragionevole, non rousseauniana. Noi crediamo di essere antifascisti perché i fascisti collocano i loro demoni in posti concreti, e noi no. Per noi il male è l'assenza del bene ma non ha una presenza propria. Possediamo cose nemiche, ma non nemici. E quindi non vale la pena ammazzare il peggior nemico possibile, è meglio andare a letto con lui, perché si potranno sempre ottenere migliori risultati.

- Lei non ha mai manifestato sentendosi parte di un "esercito", come Lei dice? Non ha sentito mai quei valori marziali?.
- No. Ho vissuto la guerra molto giovane, e per me l'esercito è la guerra, e la guerra, la morte. Tutto questo mi ha portato a riflettere. Non ho mai sentito il bisogno di innestare la baionetta. Soltanto gli impotenti hanno bisogno del potere.

- E tuttavia, voi radicali salite a posti di potere, vi presentate alle elezioni, siete deputati....
- Io sono libertario, ma la maggior parte degli anarchici credono che l'uomo sia buono e che il male si trovi nella società. Io non lo credo. Credo che il bambino può essere più perverso, più malvagio che un adulto. Credo che la verginità sia l'opposto dell'innocenza... Perché l'innocenza è una possibile conquista, non è uno stadio di partenza. Per cui, io direi ad alcuni dei miei compagni che la legge della giungla è sterminare il più debole, e che preferisco la legge del taglione piuttosto che la legge della giungla, anche se barbara. Credo in una concezione socratica della legge, e vado oltre Socrate: la legge deve essere giusta, e se non lo è questo fatto non può essere ignorato, bisogna disubbidirla ufficialmente per sottolineare la sua ingiustizia con lo scandalo di un processo e di una condanna. Il problema di salire a un posto ufficiale dipende da ciò che si fa da quel posto. Se si lavora perché diminuisca la violenza della struttura, va bene.

- Lei ha detto che un radicale può arrivare a essere ministro, per esempio.
- E perché no? E a papa, e a re.
- O a regina.
- A regina, in primo luogo, perché siamo un partito matriarcale.
- So che il 55% dei militanti sono donne.
- Non è solo una questione di quantità ma di qualità.
- Accetterebbe Lei adesso un portafoglio di ministro?

- Certamente. Potrei anche diventare il leader della ETA basca se così potessi diminuire la percentuale di violenza. Perché i violenti rassomigliano tanto alla gente che uccidono. I terroristi credono che la paura sia un valore, e io penso che da quel punto di vista sia lo stesso stare nell'Opus Dei che in un gruppo di estrema sinistra.

-Lei sembra molto sicuro delle sue teorie. Le farò una domanda che in realtà è un po' retorica, perché quasi sicuramente mi risponde di sì ....
- In quel caso Le rispondo di no.
- Non si sente a volte scoraggiato, non arriva a pensare in certe occasioni che tutto sia inutile, a perdere quel volontarismo della speranza?
- No
- No, certo.
- No, è che è diverso. Io a volte soffro di grossi dolori, e credo che ci sia bisogno di fare una distinzione fra la malinconia e la sofferenza, la noia e il dolore. Quando conosco delle persone, soprattutto se sono uomini, spesso mi chiedo: questo tipo sarà di quelli che piangono o di quelli che non piangono? E se deduco che è di quelli che non piangono, mi dico: povero uomo, ha smesso di essere vivo. E questa domanda è per me molto importante. Poiché soltanto se siamo vivi, molto vivi, possiamo arrivare a possedere una grande felicità. Ma una grande felicità può comportare anche un grande dolore. Non voglio dire con questo che essere vivo sia soffrire, ma che è la capacità di essere toccato dall'esistenza in un senso gradevole o doloroso. Io ho avuto dei momenti in cui ho detto perfino: questo è atroce, è come se non avessi più voglia di andare avanti. Ma sempre mi dico "è come se" poiché so che non è vero.

- E, nonostante tutto, la vita è qualcosa di assolutamente irragionevole. Non esiste nessuna ragione obiettiva perché sia vissuta.

- Ma neanche una ragione per non viverla. E in più, esiste un fatto ed è lo stare vivo. Ad ogni modo, io non dico che tutto sia razionale. Credo che l'emotività sia un'enorme ricchezza. Nonostante adesso esista una retorica, una demagogia sull'emotività che mi sembra pericolosa.

- E' questo che intendevo dire, appunto. Conosco molti uomini, soprattutto uomini, che costruiscono discorsi perfetti sull'amore e l'emotività che, come Lei dice, è di moda. Parlano e parlano sul recupero delle emozioni e sull'amore e, nonostante tutto, sono incapaci della minima tenerezza reale....
- Sì, è una specie di schizofrenia, parlano dell'amore e non sanno amare. Io, personalmente, ritengo che una carezza vincente sia un momento di una importanza politica enorme. Credo che se si ama i geni, forse cambi una milionesima parte il corso dell'antropologia, della trasmissione: ciò che fai per amore, per fantasia, per intelligenza, ha una importanza tremenda. A volte ho la sensazione di aver creato ed espresso politicamente qualcosa di estrema importanza quando finisce o incomincia un momento di grande ed intenso amore. A volte mi è successo di aver scelto di non dormire una notte, e di aver fatto la scelta con grande convinzione, con molta, con molta convinzione, con certezza. Scegliere di non dormire una notte quando la mattina dopo dovevo fare, alle nove, un discorso importante. Ed ho preferito rimanere senza dormire in assoluto per dialogare con un'altra persona. E non ho letto niente, e non ho preparato il discorso. E lo facevo perfettamente conscio che la fatica mi avrebbe fatto parlare in un modo più disordinato, per associazione e non per logica formale, ma che sarei arrivato li più intenso, più integro, più profondo, più forte. Più capace di creare. Perciò dico che bisogna mantenere e attuare le cose che si credono. E, certamente, se un politico ritiene che bisogna lasciare da parte una possibilità di amore, di dialogo che nasce, perché deve preparare un discorso, è un cattivo politico, credo io...

Non ha guardato l'orologio una sola volta, e riesce a convincerti che la conversazione gli interessa, cosa gradita, anche se se ne dubita. In realtà è un uomo capace di convincere di qualsiasi cosa, ed è facile immaginarlo vendere la Torre Eiffel a Onassis. Alla fine dell'intervista chiede cortesemente di vederla, [perché è molto facile confondere un 'ne' con un 'nous' per esempio "solo per quello", e impone con ferrea amabilità una agenda di consegna, "perché a "EL PAIS"" spiega, "mi hanno detto che l'intervista uscirà il 7 dicembre, e a me interessa che venga pubblicata proprio quel giorno, perché torno in Spagna l'8 e mi conviene che sia già uscita". Le conviene solo per affanno proselitista, per amor di partito, di speranze, di credenze? In fin dei conti, Pannella è un politico, cosa che lui non nega. Anche se è un politico socratico.