RAPPORTO
CARTER: L'ARITMETICA DELLA POVERTA'
Prefazione
di Aldo Ajello Quaderni radicali, gennaio 1980
Questa è un'ampia sintesi
del rapporto preliminare predisposto da una speciale Commissione incaricata
dal Presidente Carter di studiare i problemi della fame e della denutrizione
e di indicare le priorità della politica estera americana in questa
materia.
Il dato che più ci ha impressionato in questo rapporto e che ci ha indotto
a divulgarlo, è che esso approda alle stesse conclusioni alle quali
noi siamo arrivati e che propone soluzioni analoghe a quelle che noi
proponiamo.
La fame e la denutrizione non sono il risultato di una maledizione biblica,
ma la conseguenza di una iniqua distribuzione delle risorse e della
ricchezza alla quale è possibile porre rimedio con un atto di umana
volontà.
La lotta contro la fame, la denutrizione e il sottosviluppo non è solo
un imperativo morale, ma anche un imperativo economico e politico.
Su questo concetto io insisto da anni e ne ho fatto il filo conduttore
di tutti i miei interventi al Senato, alla Camera e in tutte le sedi
dove la questione è stata dibattuta.
Secondo il nostro punto di vista, l'imperativo morale dovrebbe essere
di per sé sufficiente per fare della lotta contro la fame la nostra
prima priorità. L'indifferenza o la scarsa attenzione a questa tragedia
o, peggio ancora, il suo sfruttamento, sono in netta contraddizione
con tutti i principi etico-politici ai quali si ispira quella che chiamiamo
pomposamente la "civiltà occidentale".
Ma nella fattispecie l'imperativo morale non è il solo: c'è anche un
imperativo economico che ha come suo presupposto il concetto di interdipendenza.
Interdipendenza fra paesi industrializzati detentori di tecnologia e
carenti di materie prime e di fonti energetiche, e paesi in via di sviluppo
produttori di materie prime e di energia e carenti di tecnologia; interdipendenza
tra Paesi industrializzati i cui mercati sono ormai saturi e non sono
più in grado di stimolare il processo produttivo, e paesi in via di
sviluppo i cui mercati conservano intatte enormi potenzialità sia di
animare un autonomo processo produttivo più che di vivificare le economie
stanche dei paesi industrializzati. E numerose altre interdipendenze
sono riscontrabili, talché il tema della interdipendenza economica fra
paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo è diventato la questione
centrale di tutto il dialogo nord-sud, in tutte le sedi in cui esso
si svolge e segnatamente in sede UNCTAD.
E' ormai opinione diffusa e consolidata che la crisi economica che oggi
interessa i paesi occidentali è una crisi strutturale che potrà essere
superata solo contribuendo massicciamente allo sviluppo dei paesi terzo
e del quarto mondo. L'aiuto allo sviluppo, quindi, non è un atto filantropico,
ma una scelta di politica economica lungimirante, compiuta nella consapevolezza
di difendere un comune interesse e di promuovere il comune vantaggio.
C'è infine un imperativo
politico che si aggiunge a quello morale e a quello economico e che
certamente non è meno importante. Nessuna pace stabile e durevole può
essere garantita a lungo in un mondo in cui un quarto dell'umanità vive
in condizioni di relativo benessere, con scandalose punte di opulenza,
mentre gli altri tre quarti soffrono per la fame e la denutrizione.
Se pensiamo che nel 2000 ci saranno sulla terra circa 7 miliardi di
esseri umani a fronte dei quattro miliardi di oggi, possiamo facilmente
comprendere quale tremenda carica destabilizzatrice rappresenta questo
esercito di affamati.
Ecco il senso dello slogan della marcia di Pasqua dell'anno scorso:
"Salviamoli e salviamoci". Non ci sarà salvezza per noi se
non ci sarà salvezza per loro.
Questi dati, sui quali si
è fondata l'iniziativa radicale contro lo sterminio per fame, trovano
puntuale e singolare riscontro nel rapporto americano. Ne deriva una
scelta di priorità che interseca le nostre priorità e le avvalora fornendo
loro un autorevole supporto tecnico.
La lotta contro la fame, la denutrizione, il sottosviluppo, le malattie;
l'impegno per costruire un nuovo ordine etico, economico e politico
mondiale devono essere la priorità delle priorità.
Per anni le relazioni internazionali si sono sviluppate lungo l'asse
est-ovest. Oggi, la via della salvezza passa per l'asse nord-sud. Prima
il dialogo est-ovest bastava garantire la pace ma oggi pace vuol dire
sviluppo.
In questo contesto il dialogo nord-sud acquista una importanza ben maggiore
di quella che gli hanno assegnato le diplomazie occidentali.
Per anni abbiamo depredato i paesi in via di sviluppo delle loro risorse
umane con l'ignominia dello schiavismo, delle materie prime e dell'energia,
con il colonialismo, e le deprediamo ancora della quota di sviluppo
cui hanno diritto, con il neocolonialismo, imponendo inique ragioni
di scambio e condannandoli alla fame e alla denutrizione.
Tutto questo è costato e costa ogni anno milioni di vite umane. Tutto
questo non è soltanto moralmente inaccettabile, è economicamente stupido
e politicamente suicida.
Tutto questo deve finire prima che sia troppo tardi. Non si può più
trattare di assistenza, ma di partnership: di un rapporto paritario
fra soggetti aventi pari dignità, diretto al perseguimento del ben comune.
E quindi tutto il modo di affrontare il problema deve cambiare. Quello
che appare dissennato in un'ottica filantropica, si rivela saggio in
un ottica di cooperazione imposta dagli imperativi categorici dell'interdipendenza
economica, della politica della sicurezza e della questione morale.
E' anche qui i suggerimenti del rapporto americano incontrano le proposte
radicali: soddisfare immediatamente la richiesta dell'ONU dello 0,70%
del P.N.L. destinandolo effettivamente alla cooperazione allo sviluppo
e stanziare altri fondi per interventi straordinari. Ma il fatto più
rilevante è che la Commissione ci dà ragione su un punto fondamentale.
Non esiste la politica dei due tempi.
La tesi secondo cui bisogna prima rimediare alle carenze strutturali
e poi salvare chi muore di fame, è assassina.
In nome di questa tesi i comunisti hanno snobbato le nostre iniziative,
le hanno accusate di improvvisazione, le hanno sostanzialmente boicottate.
In nome di questa tesi tutti i chierici dello sviluppo, i cultori della
materia, gli acrobati del realismo ci hanno definito irresponsabili,
ci hanno additato alla pubblica esecrazione, hanno irriso alle nostre
proposte.
Ebbene il rapporto americano
dà torto a questi chierici e a questi esperti e dà ragione a noi. Bisogna
condurre - affermano i commissari - due distinte azioni: una ordinaria,
destinata allo sviluppo e una straordinaria diretta al salvataggio di
vite umane da strappare alla morte e da conservare alla vita. Queste
due azioni - continua il rapporto - devono essere contemporanee e parallele.
Tutte e due si devono concentrare sul soddisfacimento prioritario dei
bisogni fondamentali.
E qui si individuano giustamente le responsabilità delle classi dirigente
dei paesi del terzo mondo che hanno seguito una politica di prestigio
disperdendo enormi ricchezze in armamenti e in una politica di sviluppo
industriale che ha concentrato in poche aree urbane impianti spesso
ad alta tecnologia, e quindi ad alta dipendenza dal paese fornitore,
lasciando il resto del paese a vivere e a morire di una agricoltura
eufemisticamente definita di sussistenza.
E qui si riscontra uno dei frutti più amari del colonialismo: l'esportazione
di modelli di sviluppo e di modelli culturali totalmente estranei alle
potenzialità economiche e alla cultura dei paesi che li importano, acquisendoli
acriticamente.
Su questo fronte, che spesso è inquinato da complicità, connivenze e
da gravi fenomeni di corruzione, la nostra azione deve essere altrettanto
severa, come sul fronte dei governi occidentali.
Ma c'è un ultima considerazione,
non direttamente connessa al rapporto americano, che vale la pena di
fare: liberare i paesi del terzo e del quarto mondo dal ricatto alimentare
significa creare nuovi spazi di libertà e di autonomia che sono la condizione
necessaria per il rilancio di un nuovo processo di distensione.
Una distensione dinamica che superi la logica bipolare dei blocchi contrapposti
egemonizzati dalle due superpotenze, e crei un nuovo equilibrio multipolare
fondato sul consenso e non sul terrore atomico.
Questo, il rapporto americano non può dirlo, perché mette in discussione
l'egemonia degli Stati Uniti nell'occidente, come quella sovietica in
oriente, e prefigura un ruolo autonomo per un Europa che avesse il coraggio
di essere soggetto di iniziativa politica. Ma siamo persuasi che all'esito
di questo modello di distensione è legato il futuro della pace nel mondo,
non essendo possibile immaginare un ritorno al passato: al grande negoziato
diretto tra le due superpotenze e alla diplomazia segreta nel chiuso
delle cancellerie.
E anche in questa prospettiva la questione prioritaria è la lotta contro
la fame e la denutrizione, la rimozione del ricatto alimentare.
E allora la battaglia che ci ha visti impegnati nel corso di questo
anno e che riprendiamo ora con nuovo vigore in occasione della prossima
Pasqua non è una delle priorità, è la nostra suprema priorità.
Dobbiamo fare tutto il necessario per farla diventare la suprema priorità
della nostra politica estera.
Cominceremo a denunciare le responsabilità del Governo italiano che,
con le sue inadempienze, si è reso complice dello sterminio. Del pari
denunceremo tutti i Governi dei paesi industrializzati e di quelle in
via di sviluppo che hanno una qualche responsabilità in questa gigantesca
Buchenwald.
E per tutti chiederemo una nuova Norimberga, con i suoi giudici, i suoi
testimoni, i suoi imputati e le sue vittime. Davanti ad un tale tribunale
il rapporto americano potrebbe essere un efficace atto di accusa.
L' APPELLO: SUBITO UNA LEGGE PER NON MORIRE
AR14
Novembre 1979/Gennaio 1980,
"Il problema dell'eroina
rischia, come qualcuno prevedeva e molti temevano, di diventare un problema
marginale: se n'è parlato molto, non si è fatto niente per risolverlo,
e infine non se ne parla più. Il ministro della Sanità dopo le sensazionali
dichiarazioni di fine estate continua a "studiare" il problema
senza avere il coraggio di affrontarlo seriamente. La stessa stampa
dopo l'allarme autunnale dedica ormai alla questione scarni bollettini
di guerra annunciando le morti sempre più numerose.
L'opinione pubblica e i partiti tendono a dimenticare e ad esorcizzare
il problema nascondendosi dietro altre e più gravi preoccupazioni: la
questione dell'eroina così passa fra i mali minori, endemici.
In realtà uno Stato che si dimostra indifferente (ma forse non è impotente)
nei confronti di un fenomeno che riguarda più di centomila persone e
comincia ad uccidere non più a decine ma a centinaia, si rivela anche
su questo "piccolo" problema, incapace di essere al servizio
dei cittadini, soprattutto dei più deboli.
Per questo crediamo che l'attuale legge 685 vada subito sostituita o
radicalmente modificata; e riteniamo importante l'iniziativa presa da
un gruppo di deputati radicali e socialisti.
Tale iniziativa lacera in modo concreto il silenzio che intorno al problema
della droga si vuole creare: e lo lacera con un fatto capace di mettere
in moto un cambiamento della situazione, con una proposta di legge.
Il progetto di legge presentato, aperto a modifiche e a contributi costruttivi,
contiene alcuni principi originali e sostanziali: la difesa contro la
morte; l'attacco al mercato nero; il diritto alla salute e alla libera
scelta; la liberazione di centinaia di giovani condannati per l'uso
di sostanze (quali i derivati della cannabis) assai meno nocive di altre,
pure legali.
Chiediamo che le forze politiche si assumano la loro responsabilità.
Chiediamo, indipendentemente dal giudizio di merito, che il Parlamento
discuta subito la proposta di legge sulla droga.
I primi cento firmatari
dell'appello
"Leonardo Sciascia,
Adriano Buzzati Traverso, Giorgio Benvenuto (segretario generale UIL),
Enzo Mattina (segretario nazionale FLM), Franco Ferrarotti, Luigi Pintor
(Il Manifesto), Giancarlo Arnao, Hayr Terzian, Marco Margnielli, Rosalba
Terranova, Pierluigi Cornacchia, Guido Blumir, Roberto Pizzò, Marco
Lombardo Radice, Maria Lizza, Michele Risso, Luigi Del Gatto, Luigi
Bonito, Miretta Cugli, Graziana Delpierre e Matteo di Capua (dell'Associaziane
Autoregolamentazione Stupefacenti); Carlo Fiordaliso (segretario generale
UIL-sanità); magistrati: Michele Coiro, Gaetano Dragotto, Gabriele Cerminara,
Aurelio Galasso, Franca Marrone, Franco Misiani, Riccardo Morra, Giuseppe
Salmé, Luigi Saraceni, Aldo Vittozzi, Gianni Vattimo, Angelo Pezzana
(FUORI), Angiolo Bandinelli (cansigliere comunale radicale di Roma),
Giuseppe Ramadari (consigliere provinciale radicale di Roma), Francesco
Rutelli (segretario PR Lazio), Franco Corleone (segretario PR Lombardia),
Enzo Francone (segretario PR Piemonte), Rita Cenni (segretario PR Emilia),
Sandra Dionisio (segretario PR Campania), Paolo Manzi (segretario PR
Puglie), Aligi Taschera, Angelo Foschi (coordinamento nazionale droga
del PR): Angelo Panebianco, Lorenzo Strik Lievers, Mercedes Bresso,
Enzo Belli Nicoletti (Argomenti Radicali); Paolo Hutter (Radio popolare
di Milano), Federico Mancini, Guido Martinotti, Paolo Flores D'Arcais
(centro Mondoperaio, Roma), Giaime Pintor, Ernesto Galli della Loggia,
Tina Lagostena Bassi, Nina Marazzita, Roberto Villetti (Avanti!) Enrico
Boselli (segretario nazionale FGS), Enrico Mentana (vice-segretario
FGS), Beppe Attene (vice-segretario nazionale ARCI); della redazione
de L'Europeo: Lauretta Colonielli, Letizia Maraini, Lauro Ballio, Fiamma
Arditi, Alvise Sapori, Maria Giulia Minetti, Ludovico Ripa di Meana,
Pasquale Chessa, Angelo Virdò, Antonella Riccio, Barbara Palombelli,
Roberto Chiodi, Giuseppe Catalano, Corrado Incerti, Michele Dzieduszycki,
Gioncarlo Mazzini, Paolo Oietti, Maria Adele Teodori, Franco Scaglia
(Radiocorriere), Borbara AIberti (scrittrice), Amedeo Pagani, Monique
Husson (ANSA ), Marina Mogaloi (GR3), Margareta Steinby, Francesco Dambrosio,
Elena Marinucci, la redazione di Lotta Continua, Felice Piersanti, Lidia
Ravera, Mariella Gramaglia, Massimo Miniero e Gruppo di intervento sulle
farmaco-dipendenze di Napoli; Fiamma Nirenstein, Silvio Pergameno, Gianpiero
Borella (giornalista)".
Decreti antiterrorismo: ostruzionismo?
Noi dobbiamo farlo.
Intervista
a Leonardo Sciascia "Panorama" gennaio 1980
Domanda: "Ostruzionismo:
la sola parola evoca un clima drammatico, una questione di vita o di
morte per il gioco democratico. Ma è davvero in gioco la democrazia
con i decreti antiterrorismo?"
Risposta: "Credo proprio di sì, che questa legge sia pericolosa
per l'avvenire della democrazia. Non riesco a concepire un sistema democratico
che si ripari dal diritto, dalla giustizia. Quando una legge arriva
a contemplare una detenzione di una dozzina d'anni prima che si arrivi
a una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione, non so dove
sia andato a finire il diritto, dove la democrazia".
D.: "L'accusa agli ostruzionisti
è questa: prevaricazione della minoranza sulla maggioranza..."
R.: "L'ostruzionismo è il forzare le regole del gioco, non il negarle,
da parte di una minoranza che sta per essere sopraffatta dalla maggioranza.
Da una maggioranza che ha torto: che ha torto di fronte al diritto.
In questo caso: il diritto, i diritti che la Costituzione sancisce".
D.: "Non credete però
che la vostra campagna trovi scarsa eco nell'opinione pubblica? Ormai
c'è gente che chiede perfino la pena di morte..."
R.: "Lo credo senz'altro. Ma ci sono momenti in cui le minoranze
debbono assumersi penose e impopolari responsabilità; e anche il peso
della possibile sconfitta. E' bene non dimenticare che così è stato
in Italia tra il 1922 e il 1925".
D.: "Non teme che, semplificando
al massimo, il messaggio che arriva da Montecitorio alla gente sia questo:
il governo vuole fare qualcosa contro il terrorismo; i radicali glielo
impediscono; quindi i radicali sono amici dei terroristi?"
R.: "Sì, lo temo. Me ne dispiace. L'importante è che non sia vero.
E che anzi è vero il contrario".
D.: "Sottoscriverebbe
ancora lo slogan: "Né con lo Stato né con le BR?"
R.: "Ha mai visto in un mio scritto questo slogan? E non crede,
rileggendo i miei scritti dalla polemica con Giorgio Amendola in poi,
che quel che volevo dire non aveva niente a che fare con questo slogan?
La mia polemica non è stata, né è, contro le istituzioni: ma contro
quello che le istituzioni contengono di marcio".
D.: "Al di là della
vicenda dei decreti, c'è un'impressione crescente di impotenza del Parlamento,
di paralisi. Si immaginava così Montecitorio, prima di diventare deputato?
Non si è pentito della sua decisione?"
R.: "La immaginavo così, la Camera: e non era poi difficile immaginarla.
In quanto alla mia decisione: ero pentito nel momento stesso di prenderla".
Una
nuova Buchenwald - Lettera al Messaggero
di
Marco Pannella IL MESSAGGERO 1 marzo 1980
SOMMARIO: Il Presidente
della Repubblica dice che contro i terroristi siamo in guerra. Si perde
il conto delle vittime. Ma c'è un'altra strage che procede: quella silenziosa
dello sterminio per fame, con le sue decine di milioni di vittime. Si
muore non per mancanza di cibo, ma per mancanza della volontà politica
di procurarlo, mentre le eccedenze alimentari del Nord industrializzato
costituiscono un problema economico. Il Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite deve essere investito del problema della sicurezza alimentare
di milioni di persone. Gli Stati devono immediatamente stanziare almeno
l'1.40% dei loro bilanci per lo stesso scopo. Il Partito radicale impegnato
a promuovere una mobilitazione generale su questo obiettivo, e i suoi
militanti impegnati in una non solo simbolica azione di denutrizione.
Il leader radicale Marco
Pannella, deputato alla Camera, ci ha inviato la seguente, lettera,
che siamo lieti di pubblicare.
Signor Direttore,
la strage continua. Si perde
ormai il conto dei morti, assassinati dai terroristi: due, trecento?
Non se ne può più. Il Presidente della Repubblica, all'inizio dell'anno,
dichiara che contro i killer noi siamo in guerra. Da allora le leggi
stravolte, il bilancio dello Stato, l'aumento delle vittime, lo stato
della giustizia e delle carceri sembrano testimoniare davvero di una
sorta di stato di guerra, contro la persistente infamia di alcune decine
o centinaia di persone inermi. Per costoro non v'è più nulla di sacro,
nemmeno la vita.
Per costoro? Solo per costoro?
Chi scaglierà la prima pietra? Se questa strage continua, lo sterminio
- ancor più scientifico, puntuale - di decine di milioni di persone
ogni anno, per denutrizione e fame, dilaga. Decine di milioni di sterminati
nei mesi scorsi, decine di milioni nei mesi prossimi. Dov'è lo scandalo?
La morte, non la vita: lo sterminio, l'assassinio, sembrano sacri.
L'Onu, la Fao, il Consiglio
Mondiale dell'Alimentazione, la Commissione Carter, la Commissione Brandt,
il Club di Roma, l'Uncted, il Papa, il Presidente della Repubblica,
il Presidente Giscard d'Estaing, l'Ambasciatore Gardner, il Parlamento
Europeo, quello italiano, tutti, tutti, in documenti e dichiarazioni
ufficiali, che abbiamo raccolto, tutti sono concordi nell'affermare
che non si muore per mancanza di cibo, ma per "volontà politica"
- o per la sua mancanza, il che fa lo stesso.
Quest'anno saranno spesi
all'incirca 650 miliardi di dollari in armamenti circa 1.600 miliardi
di lire al giorno. E v'è nel mondo già tanto esplosivo da assicurare
trenta volte la morte di ogni essere umano, la scomparsa totale dell'umanità.
Quest'anno il tasso di mortalità per denutrizione e fame non solamente
subirà un ulteriore aumento, ma suo tasso di crescita sarà il maggiore
degli ultimi anni. La Fao lo aveva già previsto. Il 19 febbraio scorso,
a Bruxelles, in una "hearing" pubblica che abbiamo organizzato
al Parlamento Europeo, ad una mia precisa domanda, il Presidente del
Consiglio Mondiale dell'Alimentazione Tanko, il vice Presidente della
Commissione Carter, e il Presidente della Commissione "Nord-Sud"
Willy Brandt, lo hanno concordi confermato.
Queste previsioni sono al
di sotto della realtà. In genere non viene calcolato il collasso, lo
sfascio che incombe ormai irreversibile sulle "economie" dei
paesi del terzo e del quarto Mondo a causa della situazione energetica
e della politica di investimenti e dei prezzi dei paesi dell'Opec, che
viene pagata innanzitutto dai paesi poveri, da quelli del quarto Mondo.
Gli "aiuti" che ancora giungono in quei luoghi, nella Buchenwald
cui riduce l'intero mondo del sottosviluppo la nostra generazione, vengono
assorbiti dalle classi dirigenti, "rivoluzionarie" o "conservatrici"
che siano, con poche esenzioni, per nutrire le minoranze cittadine e
per armare eserciti. Spesso i governanti degli affamati appartengono
al mondo degli affamatori, dei nuovi nazisti-stalinisti, al nostro.
La Commissione Carter ha documentato che la quantità di cereali sufficiente
in un anno perché non vi sia denutrizione nel mondo equivarrebbe al
costo di 5 (cinque!) sottomarini attualmente in costruzione negli Usa.
Ma è inutile ch'io continui
a scrivere di questo: delle "eccedenze" di cui rigurgitiamo,
signor direttore, quelle alimentari fanno pace con quelle del nostro
"sapere". Progetti, programmi, "food strategy",
impegni internazionali e nazionali, agenzie specializzate, tecnici e
volontari, missionari e mercenari, crescono in modo esponenziale. Il
da fare è arcinoto. Quel che si fa è lo sterminio.
A Roma, come e forse più
che altrove. Occorre cambiare volontà politica, occorre imporre una
politica della vita, della pace, del disarmo, della nonviolenza. E'
l'unica realistica, l'unica non impossibile nei suoi risultati. L'unica
che viene rifiutata, censurata. Occorre che si diventi tutti donne e
uomini di speranza, contro il deserto della disperazione cui ci rassegniamo.
Da più di un anno lo andiamo
dicendo, andiamo lottando. Da ogni angolo del mondo ci si comincia a
dar ragione. Non vorremmo soddisfarcene. Dopo un anno di impegno, di
studio, di digiuni e di azioni parlamentari, dopo esser stati impegnati
a Roma o in Cambogia, o Ottawa o a Strasburgo sappiamo ora che erano
giusti gli obiettivi che ci portarono alla prima grande Marcia pasquale,
da Porta Pia al Quirinale, dal Quirinale a Palazzo Chigi, da Palazzo
Chigi a Montecitorio, a Palazzo Madama, per giungere a S. Pietro, da
papa Giovani Paolo II.
Il Consiglio di sicurezza
dellONU deve immediatamente essere investito dell'imperativo di
salvare decine di milioni di bambini, di persone che sono già in agonia,
o stanno inesorabilmente per entravi.
Gli Stati devono immediatamente versare l'1,40 (0.70 x 2) del loro prodotto
nazionale lordo per lo stesso scopo, per l'aiuto allo sviluppo. Trattati
internazionali aventi valore di diritto positivo nei nostri paesi non
solamente lo consentono ma lo esigono. Il nostro paese deve prendere
l'iniziativa, mentre è restato - di fronte ai 15 milioni di bambini
che morivano - fermo all'ultimo posto nello schieramento dei paesi industrializzati,
dunque al primo di quello dello sterminio neo-nazista.
Occorre una mobilitazione
generale, non più di chiacchiere o di tragici e suggestivi mottetti
pacifisti, ma di opere. Dobbiamo dar corpo, non solo parola, alla vita,
alla salvezza di questo mondo. Con i nostri compagni nonviolenti, cristiani,
socialisti, del PR siamo già impegnati in un'azione non solamente simbolica
di sottonutrizione. Il 30 marzo inizieremo un digiuno di massa, il primo
satyagraha gandhiano in occidente, il primo da quasi cinquant'anni.
Dalla Domenica delle Palme a quella di Pasqua organizzeremo, con gente
che verrà da ogni parte d'Europa e non solo d'Europa, una serie di manifestazioni
pubbliche, per ritrovarci tutti, speriamo, in una seconda marcia della
Vita, della Pace, del Disarmo, in piazza S. Pietro il giorno di Pasqua.
Proponiamo che immediatamente, nelle famiglie, nelle scuole, negli uffici
e nelle fabbriche, nei paesi, nelle Chiese e nelle sedi pubbliche e
in quelle sindacali e politiche, ci si organizzi per dar vita (letteralmente)
alla speranza, per dar vita a chi stiamo invece sterminando.
Anche quest'anno il comitato
per la Vita, la Pace e il Disarmo, aperto a tutti, potrà costituire
il punto di incontro e di coordinamento. Malgrado che il suo obiettivo
dello scorso anno sia stato - come qualcuno di noi prevedeva - atrocemente
mancato. O proprio per questo. Tutto deve esser subordinato a questa
speranza. Se la stampa ci aiuterà, signor direttore, se potrà compiere
il suo compito di informazione fino in fondo, da Roma potrà accendersi
una scintilla che farà divampare questa guerra alla guerra e alla morte
che tutti deve unirci.
Ci si scriva, per ora, presso la Camera dei Deputati, o, se lei lo ritiene
possibile, presso "Il Messaggero".
Con il nostro digiuno, quest'anno, legheremo le nostre esistenze a quella
di milioni di altri. Salvi con quelle, sconfitti con quelle. Ma al di
là delle scelte consapevoli questo - credo - è il destino di tutti.
E ora attendiamo. Con trepidazione, ma con speranza.
Fame
nel mondo: grazie per il silenzio di Giovanni Paolo II
di
Marco Pannella IL MESSAGGERO, 9 aprile 1980
Marco Pannella ha dato
l'avvio con una lettera al "Messaggero" alla marcia contro
lo sterminio per fame nel mondo che si è svolta a Pasqua, con la partecipazione
di decine di migliaia di cittadini. Ora, con questo scritto, tira le
somme e commenta il silenzio del Papa e del "Palazzo".
Giovanni Paolo, Giovanni
Paolo ha davvero taciuto? Il suo silenzio ci insegue. Non è forse che
ci parli? Non avevamo forse noi denunciato gli uomini di lamento, gli
uomini la cui parola non diviene verità e vita, ma quasi meglio sospinge
verso la morte, verso la disperazione?
Una parola che non salvi, che non sia annuncio di salvezza e di resurrezione,
può essere ripetuta, deve essere pronunciata, o non deve essere piuttosto
taciuta? Pronunciarla, non sarebbe menzogna, quasi bestemmia?
Della Buchenwald di oggi,
del tremendo sterminio, questa volta, i Papi hanno parlato. Incessantemente,
da venti anni. La "Populorum progressio" è del 1976. Giovanni
Paolo II lo scorso anno, a Pasqua, e fino a poche settimane fa, non
ha mancato di denunciarlo con forza. A dicembre, anche lui, come andavamo
facendo da tempo, non si è limitato a dire "fame", ma ha evocato
con parole solenni lo "sterminio", ha scongiurato i potenti
della terra di porvi termine. Questa volta, questa volta è il mondo
comunista, il mondo socialista, è il mondo "libero" e democratico
che tace, o mente. Che stermina.
Perché, altrimenti, proprio per Pasqua, per la prima volta, dopo anni,
mentre lo sterminio dilaga, s'accresce, tremendo e inimmaginabile ancor
ieri, Giovanni Paolo avrebbe dovuto tacere? Proprio quando una marea
di popolo, festante, fiduciosa, di credenti, era giunta lì non per esortarlo
a parlare, ma per applaudire la Parola che era attesa? Attesa; o forse
scontata? La Parola, può essere scontata?
No. Giovanni Paolo in questa Pasqua ha annunciato solo la Resurrezione
dei morti. E' stato uomo, testimone di verità. Altro, questa volta,
egli non poteva. Per il resto, per gli affamati, per gli assetati, per
gli agonizzanti, per il popolo di Dio degli umili, degli oppressi, degli
sfruttati, per decine e decine di milioni di donne e di uomini condannati
egli s'è mostrato inerme, come loro. Egli ci ha mostrato le sue mani:
vuote, povere anch'esse.
"Pace. O guerra. Ordine. O terrore". E oggi infatti c'è guerra
e terrore. Grazie per questo suo silenzio. Grazie per aver ricordato
che è dall'interno del sepolcro in cui si rinchiudono i vivi che la
pietra va rimossa, e rimossa da loro. Anche il Papa non può più che
tacere. Anch'egli è ridotto al silenzio. Io so che ieri molti hanno
pregato anche per lui.
Ed è anche per lui, penso,
che altri hanno parlato, "Vox populi, vox Dei". E la marea
di popolo di credenti e di non (o diversamente) credenti che è giunta
festante, in nome della Vita, della Pace e del disarmo, contro lo sterminio
per fame e la preparazione della guerra, in piazza San Pietro, da Porta
Pia, a Pasqua, con i gonfaloni di Milano e Pavia con i radicali, con
Terracini, con Petroselli, con Veltri, con Susanna Agnelli, con centinaia
di digiunatori del Satyagraha 1980, con i miti ed emblematici Hare-Krishna,
con gli infermi, i vecchi e i bambini, con cartelli e striscioni, con
itinerari e storie diverse e a volte opposte, con i fiori, questa marea
era davvero un popolo.
Popolo dolce e forte, inerme e nonviolento, ma non inerte o rassegnato,
irresponsabile: sicché, quest'anno, i portoni del Palazzo, tutti, gli
erano sprangati: o aperti come per meglio sottolineare il deserto che
contenevano. Gli abitanti del Palazzo tacciono, ormai, per ragioni opposte
a quelle del Papa. Nei prossimi giorni devono, ciascuno al suo posto
e con le sue funzioni, decretare più sterminio e meno pace. Così vuole
la (loro) politica. I granai siano dunque sempre più vuoti, gli arsenali
sempre più pieni. Così pensano. Così noi non siamo d'accordo, come persone,
come cittadini, come deputati non di un Partito ma della nazione, del
popolo. Così noi non taceremo nemmeno nel Palazzo. Così, prima di votare
Governo e Legge finanziaria dello Stato, faremo tutto quanto ci sarà
possibile perché il denaro dei cittadini italiani non sia speso per
demagogiche e pretese "necessità", per assassinare, per preparare
la guerra anziché la pace.
Geno Pampaloni, e con lui
molti dei migliori, sbagliano. Occorre studiare e aver studiato il problema
della fame del mondo prima di decretarne l'insolubilità, quanto meno
nel presente. Non è per imprudenza interiore o per avventatezza o per
massimalismo che noi diciamo che o lo sterminio cessa, comincia a cessare,
subito, o ci sterminerà in breve, noi, sterminatori compresi. Non è
umanamente impossibile evitarlo. E' umanamente impossibile compierlo,
lasciarlo compiere.
Se il Consiglio di Sicurezza dell'Onu sarà indotto a prendere le decisioni
che gli competono, se anche un solo stato comincia (ma subito!) a dare
il dovuto, se la volontà politica viene acquisita, in poche settimane
e mesi è possibile, è perfettamente immaginabile e realizzabile che
milioni e decine di milioni di persone siano salvate dalla fame e dalla
morte.
In coscienza, è quanto credo.
Non posso imbracciare un mitra, impugnare una pistola, non posso nemmeno
minacciare, per ottenere che la legge suprema della vita, il diritto
- negati - siano rispettati dallo stesso potere che li ha imposti e
impone a tutti noi. Chi ci comanda, i potenti della terra, i signori
della guerra, sono di nuovo impazziti. E i più saggi e onesti ai nostri
occhi diventano i più pericolosi.
In queste condizioni non
ci resta, per affermare la speranza e la pace, che la più assoluta delle
azioni di nonviolenza: rischiare la vita contro che continua invece
a scegliere, impazzito, la certezza della guerra e della morte.
FIRMA
SUBITO PER I DIECI REFERENDUM
Fermali
con una firma VOLANTINO aprile 80
[RECTO]
FIRMA
SUBITO PER I DIECI REFERENDUM
Mancano solo pochi giorni!
Una grande domanda di libertà;
la vita che esige una nuova qualità. E, di fronte partiti sempre più
incapaci di capire, chiusi nei soliti giochi che non interessano nessuno,
attenti solo alla spartizione del potere.
C'è la rabbia contro i signori della politica; c'è la consapevolezza
che le scelte di oggi incideranno nel futuro: l'energia nucleare; la
violenza nella lotta politica; le delusioni verso la sinistra; natura,
ambiente risorse di tutti distrutte dalla "civiltà" industriale;
i deboli nel mondo condannati dai forti allo sterminio per fame; lo
spreco criminale delle spese di guerra; l'invadenza dei militari nella
vita civile; la difesa delle libertà e dei diritti civili, la risposta
democratica e la lotta effettiva al terrorismo; la volontà di ridare
tensione ideale e slancio riformatore alla vita politica. Oggi i partiti,
anche di sinistra, parlano solo di ordine pubblico, per persuadere che
occorre sopprimere le libertà. E l'occupazione, le pensioni, il mezzogiorno,
l'assistenza?
Per questo; per tutto questo i referendum: un potere che la Costituzione
ci dà. Proclamare la legge il diritto la giustizia contro la violenza
delle polizie, delle armi e degli eserciti, contro la violenza economica
dello sterminio, contro l'arbitrio e la sopraffazione, contro il disinteresse
per i bisogni di tutti.
AUTOFINANZIAMENTO
700.000 elettori per raccogliere 7.000.000 di firme.
Almeno un miliardo per l'informazione, negata dal regime.
Contribuisci e organizza raccolte di fondi. CCP: 44855005 intestato
a Partito Radicale - 00186 Roma - via di Torre Argentina, 18
[VERSO]
PROGRAMMA
ALTERNATIVO DI OPPOSIZIONE POPOLARE
1.
Legge Cossiga sull'ordine pubblico
Vogliamo
abrogare le recenti norme sull'ordine pubblico non per compiere un gesto
di sfida, ma per una meditata convinzione. Aggravare le pene, allungare
la carcerazione preventiva, reintrodurre il fermo di polizia non serve
a combattere il terrorismo, anzi lo favorisce perché rafforza i legami
degli emarginati con le organizzazioni clandestine. Non serve, come
non servì la legge Reale. Serve solo a ritardare l'adozione delle misure
effettive e indispensabili: creare una polizia civile investigativa
moderna, riorganizzare la giustizia, emanare i nuovi codici penali:
una giustizia rapida e sicura.
2.
Reati di opinione, riunione e associazione
Nei fascisti che elaborarono il codice penale del 1930, gelosamente
conservato - e peggiorato - dai partiti della nostra Repubblica, c'era
la profonda convinzione che le idee si combattono con la forza, che
certi valori (la proprietà, l'ordine pubblico, il corporativismo, il
pudore, l'onore, la razza), devono essere comunque salvaguardati, contro
opinioni e attività "sovversive". Il fascismo si nutrì profondamente
della convinzione che per difendere l'ordine pubblico fosse necessario
sopprimere la libertà e lo stato di diritto: la questione è ancora aperta.
3.
Ergastolo
La reazione immediata di fronte alla barbarie degli eccidi: "pena
di morte!", è sfruttata dalla reazione forcaiola, da quanti invocano
repressione, leggi di guerra, tribunali militari. Per la giustizia democratica
le pene non sono vendetta sociale, ma strumenti per reinserire il condannato
nella vita associata. L'ergastolo, come la pena di morte, è la negazione
di questo principio. Riflettiamo: le pene si applicano a soggetti già
riconosciuti colpevoli. Ma le pene più feroci, questo occorre chiederci,
aiutano a trovare i colpevoli? Servono ad assicurarli alla giustizia?
4.
Caccia
La caccia è oggi una chiassata consumistica, un affare di migliaia
di miliardi per distruggere centinaia di milioni di animali sostenuto
dai fabbricanti di armi e dalla DC e PCI, con le associazioni venatorie.
Per le irreparabili distruzioni del patrimonio pubblico, dell'ambiente
in cui possiamo vivere, e per i morti che provoca la caccia è stata
vietata in alcuni paesi, vista l'impossibilità della sorveglianza (un
esperto poliziotto dietro ogni cacciatore?). I pollastri artificiali
per il "ripopolamento" sono una caricatura degli animali selvaggi,
tanto per dare qualcosa da sparare a milioni di sparatori.
5.
Porto d'armi
Mercanti di armi e sostenitori della violenza, sfruttando l'illusione
della difesa personale armata, mettono in gioco la convivenza civile:
la democrazia, fondata sui principi della nonviolenza, è impossibile
in un paese stracolmo di armi; il divieto generale di portarle è annullato
dalla pratica illimitata delle licenze, che occorre abolire. Non sarà
disarmata la polizia, (le restano le armi di ordinanza), la lo saranno
le polizie private. Sarà così facilitata la riforma della polizia per
metterla all'altezza dei suoi compiti, nella piena responsabilità, davanti
al Parlamento, del Ministro dell'Interno.
6.
Tribunali militari
I tribunali composti da ufficiali e generali, e non da giudici,
sono una sconfitta per la nostra democrazia: la giustizia della casta
dei militari è repressione e non giustizia e come tale viene invocata
dai reazionari a fini di ordine pubblico (con la pena di morte e lo
stato di guerra). I principi di disciplina e di gerarchia, di obbedienza
e di onore militare sono l'esatto opposto di quelli della giustizia
democratica, del giudice che è solo davanti alla sua coscienza e libero
nell'interpretazione delle leggi: il cittadino in divisa deve conservare
i diritti fondamentali.
7.
Hashish e marijuana
Non sono droghe, perché non danno tolleranza né assuefazione,
come accade invece per alcool e tabacco, che sono poi assai più dannosi.
Che l'uso della "canapa" provochi pazzia o comportamenti criminali
è leggenda sfatata da tempo; né esiste "passaggio" da essa
all'eroina: i "fumatori" sono nel mondo centinaia di milioni,
contro un limitato numero di utenti di vere droghe. Invece il proibizionismo
ha creato un mercato nero unificato della canapa e dell'eroina, vero
anello del passaggio dell'offerta e del consumo. Liberalizzare la "canapa"
è misura indispensabile per isolare e combattere l'eroina.
8.
Aborto
Non vogliamo abolire la nuova legge, ma togliere solo poche disposizioni
per renderla operante. Anche dopo la legge 194 l'aborto nei più dei
casi resta un reato, perché una disposizione obbliga ad eseguirlo quasi
solo negli ospedali pubblici, che sono riusciti a praticarne 170.000
su un milione ogni anno. Per gli altri ancora clandestinità mammane
e cucchiai d'oro; ferro da calza e prezzemolo... Con la disposizione
citata ne vanno eliminate poche altre (limiti alla volontà della donna,
obbligo di denuncia al medico provinciale", pene per fatti che
non sarebbero più reati, ecc.).
9.
Centrali nucleari
Sono una truffa: l'energia manca oggi e manca petrolio: le centrali
fra dieci anni ci daranno elettricità. E poi l'uranio è assai scarso,
e si dovrà usare il pericolosissimo plutonio. Incidenti sono sempre
possibili; e i terremoti? I sabotaggi? I servizi segreti stranieri?
Quali misure poliziesche ci vorranno per difendere le centrali e il
trasporto dell'uranio? Quali restrizioni dei diritti sindacali del personale
addetto? Ci sono altre fonti di energia (sole, vento, fiumi...), senza
gli enormi sprechi consumistici dell'energia atomica e con un nuovo
modello economico, democraticamente impostato.
10.
Smilitarizzazione della Guardia di Finanza
La G.d.F. è una polizia a sé stante dati i suoi compiti particolarissimi:
combattere le evasioni fiscali, le fughe di capitali, il contrabbando,
il traffico di droga. Perché allora è composta di militari e comandata
da un generale e non di ragionieri, di esperti di tasse e di tecnica
bancaria? Perché si deve occupare anche di ordine pubblico (forse la
PS è oggi meno affidabile?) e di difesa del territorio (non c'è l'Esercito?).
Lo si spiega solo nel quadro di una politica antidemocratica, che sottopone
i cittadini a poteri militari, a fini repressivi.
COMMISSIONE MORO - POLEMICA BERLINGUER-SCIASCIA
di
Valter Vecellio NR 29 maggio 1980
Roma 29 maggio '80 - N.R.
- Della discutibilissima iniziativa che il segretario del PCI, Enrico
Berlinguer, ha ritenuto di dover assumere nei confronti del deputato
radicale e scrittore Leonardo Sciascia, nei giorni scorsi a più riprese
abbiamo detto cosa pensavano. Lo ha dichiarato il segretario del Partito,
Rippa, lo ha detto Pannella in televisione, lo ha dichiarato a più riprese
Sciascia stesso attraverso noi, attraverso il "Mattino", e
oggi attraverso "La Repubblica" (vedi l'intervista in altra
pagina dell'agenzia) abbiamo anche detto che consideravamo estremamente
goffa e infelice la sortita elettorale del segretario socialdemocratico
Longo, il quale ha rivolto le sue domande sbagliando indirizzo. Abbiamo
detto che consideriamo insolente e stupida, arrogante come costume dell'uomo,
la risposta di Cossiga il quale invece di spedire la lettera di Longo
al mittente, spiegando che lui non poteva e non doveva rispondere, trincia
giudizi a destra e manca, afferma di credere a Berlinguer e dà del mentitore
a Sciascia. Su tutto questo, su come giornali e giornalisti oggettivamente
si siano prestati ad un gioco strumentale che mira a screditare e bloccare
la commissione Moro, perché non sia fatta luce e chiarezza, abbiamo
ampiamente riferito. E anche abbiamo denunciato come si voglia, dopo
esserci riusciti con Giacomo Mancini, tappare la bocca all'unico, probabilmente,
commissario scomodo della commissione. Un tentativo incredibile, inammissibile
e intollerabile di intimidazione, lo definimmo a botta calda, quello
di Berlinguer contro Sciascia. Non abbiamo ragione alcuna per mutare
giudizio. Abbiamo, però elementi nuovi, per altre considerazioni.
1) L'ex presidente del consiglio
di allora, Giulio Andreotti ha "parlato". E ha detto quel
che tutto noi sappiamo. Ora certamente è credibile che Andreotti non
abbia avuto le prove di collusioni e collegamenti eventuali tra terroristi
italiani e servizi segreti o agenti di paesi stranieri. Lo possiamo
benissimo credere, accettare. Ma Andreotti, chi pensa di riuscire a
prendere in giro? Ci vuol far credere che per tutto questo tempo lui
è vissuto dentro una campana di vetro, alieno di voci, sospetti, dichiarazioni
autorevolissimo che da più d'una parte si venivano facendo?
Ma come fa Andreotti a dire che non ne sapeva nulla? A parte quello
che ricorda Sciascia nelle sue interviste, Andreotti ci vuole dire che
non mai saputo delle esplicite dichiarazioni del presidente della Repubblica,
Pertini, che ripetutamente denuncia collegamenti con paesi stranieri?
A prescindere che Pertini ora le sue dichiarazioni le fa anche "fuori
casa" (in Spagna, ultimamente, per fare l'ultimo esempio), più
d'una volta Pertini ha denunciato oscure manovre destabilizzanti. E
i contatti che si diceva avessero Viel e gli elementi genovesi (gli
"stalinisti"), delle Brigate Rosse, con i loro frequenti viaggi
a Praga? E la famosa intervista a Damato? Andreotti non ci faccia più
cretini di quanto non siamo, per favore.
Il fatto che esige una risposta pronta e immediata, è questa: il capo
dello stato più volte denuncia legami tra i terroristi e centrali all'estero.
Cossiga e Andreotti hanno nulla da riferire, su questo? Anche questo
loro silenzio, è parecchio eloquente.
Al segretario del PCI, Berlinguer, possiamo concedere le attenuanti
del caso. Siamo, come ha osservato, in periodo elettorale. Un'iniziativa
sbagliata, ma "spiegabile".
Diciamo invece che Longo e Cossiga non hanno recato un grande servizio
e all'accertamento della verità, e a Berlinguer e al PCI stesso. Elettoralmente
parlando, questa sperticata dichiarazione di Cossiga, non la riterremo,
se fossimo in Berlinguer, molto utile.
Quello che tuttavia è incredibile, e lo sottolineiamo con tutta la forza
di cui siamo capaci, è l'iniziativa di Berlinguer, nella forma e nella
sostanza, contro Sciascia. Ma è una cosa questa tutta da ridere se non
fosse stata fatta con la solennità e l'austerità con cui il segretario
del PCI accompagni i suoi gesti. Possibile che Berlinguer, i suoi consiglieri,
i suoi avvocati, non si rendano, non si siano resi contro di quanto
sia ridicolo l'aver sporto questa querela? Ridicolo e manovra, anch'essa,
elettorale.
Ma al di là di tutto, vogliamo denunciare con forza e con chiarezza
che sempre più appare un tentativo di sabotare la commissione. Sono
questioni grosse, ma vanno dette. C'è grande polemica sul fatto che
i verbali Peci sono stati divulgati, ma nessuno presenta attenzione
a quello che Peci sostiene. Ebbene, dalla lettura di quei verbali si
trae una cosa: che fino ad ora la magistratura e gli inquirenti hanno
seguito una direzione sbagliata, nelle loro indagini. Si trae che con
Moro, il prof. Negri, Piperno, Pace, gli arrestati del 7 aprile e del
21 dicembre non c'entrano nulla. Si trae che è scandaloso questo protrarsi
della detenzione Negri e Piperno, ampiamente scagionati da Peci.
Ma si trae anche qualcosa d'altro.
Che Moro, nel periodo del
suo sequestro, non era impazzito. Che era anzi uomo lucido, che le sue
lettere non erano dettate da vigliaccheria, che anzi si doveva riconoscere
(come invece non si è fatto), piena legittimità a quello che Moro sosteneva.
Viene alla luce che le Brigate Rosse forse erano disposte a lasciare
libero Moro; viene fuori che il comportamento dei partiti della cosiddetta
"fermezza" era errato. E' questo che si trae dalla lettura
dei verbali di Peci.
E allora è chiaro che si vuole bloccare la commissione d'inchiesta.
Si vuole, per esempio, che Peci non sia interrogato dai commissari dell'inchiesta
come Sciascia ha chiesto. Si vuole, in definitiva, screditare questa
commissione, impedire che accerti la verità su quei terribili 55 giorni.
E' questo che si teme, ed è per questo che si solleva, come si è sollevato,
tanto polverone, strumentale e demagogico.
Vorrei che tu, Guttuso ed io
Colloquio
con Leonardo Sciascia di Rita Cirio L'ESPRESSO, 13 maggio 1980
La querelle Sciascia-Berlinguer
Lo scrittore sicialiano dà un resoconto dettagliato del suo incontro
con il segretario del Pci e della conversazione sui rapporti tra servizi
segreti cecoslovacchi e terrorismo. Ha scritto inoltre una lettera a
Guttuso di cui pubblichiamo i passi fondamentali
Palermo. "Ho preferito
scriverti invece che parlarti per più nettamente spiegarti di quella
faticosa giornata in cui per amore di verità sono stato costretto a
fare il tuo nome". Comincia così una lunga lettera che Leonardo
Sciascia ha scritto all'amico Renato Guttuso domenica 25 maggio, due
giorni dopo la seduta della Commissione Moro. La lettera non verrà mai
spedita. Sui temi di interesse pubblico di tutta la vicenda si intreccia,
ma non è secondario, il tema privato di una lunga amicizia. Il codice
dell'amicizia è inviolabile per lo scrittore siciliano, ma ancor più
inviolabile è per lui quello della verità. Non a caso nella lettera
all'amico è la parola che ricorre di più: "A me importa ribadire,
di fronte a te, la verità di quello che ho detto e che sono disposto
a ripetere, dovunque si voglia e quale ne sia il rischio: una volta
sciolto dal segreto che la legge m'impone in quanto membro di una commissione
d'inchiesta".
- Mentre cerca di spiegare
all'amico il suo comportamento, Sciascia cerca anche di spiegarsi quello
di Guttuso. "Te lo dico sinceramente senza ironia che mi aspettavo
da te, come da Berlinguer, la "secca smentita". Ricordo quel
passo in cui Bernanos, nel 1937, dialoga con il comunista Malraux: "Malraux
si congratulò con me per la mia inflessibile sincerità. Ma scusate,
Malraux - gli dissi - voi non avreste fatto come me? - Non è la stessa
cosa - mi rispose - voi siete cristiano, voi agite da cristiano. Io
invece sono comunista e non scriverò mai nulla che possa anche minimamente
nuocere al partito -. - Va bene - gli risposi - ciò riguarda voi. Ma
allora che conto debbo fare dei vostri elogi? Per voi non posso essere
che un imbecille o un pazzo -". E Sciascia continua a spiegare
all'amico: "Ho voluto trascriverti il passo a dimostrarti la mia
comprensione: tu sei comunista e non farai mai nulla che possa nuocere
al partito. Nel momento stesso in cui - in commissione - mi passavano
il comunicato Ansa con la smentita di Berlinguer, io ero certo che sarebbe
venuta la tua. A differenza di Malraux, tu non elogerai certamente la
mia "inflessibile sincerità" (quella di Bernanos era allora
utile al partito), e quindi non mi considererai nè un imbecille nè un
pazzo. Forse un nemico. Ma lo sono davvero?". E lo scrittore continua
ricordando nei dettagli a Guttuso come si svolsero veramente i fatti,
e accenna anche al suo stupore per non aver trovato traccia, nei quotidiani
dei giorni successivi al loro incontro con Berlinguer, dell'espulsione
dei due diplomantici cecoslovacchi preannunciata dal segretario del
Pci.
All'"Espresso" Sciascia ha rilasciato le seguenti dichiarazioni.
L'ESPRESSO. Quando avvenne
l'incontro tra lei, Guttuso e Berlinguer? Dove vi incontraste? Di che
cosa avete parlato? Se ne ricorda a memoria o ha conservato qualche
appunto su un diario?
SCIASCIA. L'incontro avvenne in maggio, con tutta probabilità il 6.
Ma esiste anche la possibilità che sia avvenuto dopo il secondo incontro
tra Zaccagnini e Berlinguer. Ma fu comunque nel mese di maggio. Ci siamo
incontrati alle Botteghe Oscure. Il colloquio era stato richiesto da
me, tramite Guttuso. Abbiamo parlato soprattutto di cose che riguardavano
l'industria estrattiva siciliana, sulla base di un memoriale che aveva
scritto un mio amico e che io consegnai a Berlinguer. Non ho preso nessun
appunto, non ne prendo mai. Ho finora avuto buona memoria. Esaurita
la conversazione sul memoriale siamo passati a parlare del terrorismo.
Ma ho già riferito in quali termini e non ho nulla da aggiungere o da
modificare.
E.: Lei all'epoca era ancora
un simpatizzante del Pci?
S.: All'epoca non ero simpatizzante del Pci. Avevo già abbastanza polemizzato
dopo le mie dimissioni dal consiglio comunale di Palermo. Anche per
questo ho apprezzato molto che Berlinguer parlasse davanti a me con
tanta libertà del terrorismo e dei suoi possibili collegamenti con un
paese dell'Est.
E.: Perché non ha parlato
di queste rivelazioni di Berlinguer durante il caso Moro?
S.: Ho raccontato a molti amici di questo incontro con Berlinguer e
di quello che mi aveva detto. Non l'ho scritto perchè ho sempre un certo
ritegno a riferire in pubblico conversazioni private. Ne ho parlato
nella commissione Moro perché mi sembrava un ambiente, almeno per il
momento, privato e in cui la ricerca della verità pensavo fosse superiore
a ogni regola di discrezione.
E.: Perché, a suo giudizio,
oltre ad averla smentita, Berlinguer l'ha addirittura querelata? Se
lo aspettava?
S.: Sono possibili tante ipotesi: per raggiungere effetti elettorali,
per mettersi in regola con i paesi dell'Est, per pura e semplice ingenuità.
Si capisce che il termine ingenuità è in questo caso un eufemismo. Insomma,
non me lo aspettavo e non riesco a spiegarmelo a lume di intelligenza.
E.: Ma non potrebbe essere
anche per un'altra ragione, per esempio di evitare di essere interrogato
in commissione?
S.: E' pure possibile. Anzi, è un'ipotesi che è stata fatta. De Cataldo,
che è il mio avvocato, a Radio Radicale ha parlato anche di tentativo
di intimidazione.
E.: Lei è molto amico di
Guttuso. Come ne spiega il comportamento in questa circostanza?
S.: Il comportamento di Guttuso lo giudicherò da quello che dirà ai
giudici. Oggi come oggi mi rifiuto di credere che mi abbia decisamente
smentito.
E.: Ha parlato in questi
giorni con Guttuso?
S.: Ci siamo sentiti il 28 maggio nel pomeriggio. Si può dire che abbiamo
parlato d'altro.
E.: Oltre che da Berlinguer,
ha sentito mai in questi anni allusioni ai collegamenti fra terroristi
italiani e servizi segreti dell'Est e da chi?
S.: Le ho sentite da Andreotti, appunto nel maggio del '77. Le ho sentite
da Casardi, capo del Sid in quel periodo stesso. Le ho sentite da Craxi
e soprattutto le ho sentite dal buon senso della gente. Tra l'altro
un curioso personaggio, Andreola, alias Sanchez, implicato nel tentativo
di sequestro di Graziano Verzotto, ha fatto delle interessanti dichiarazioni
riguardo a un paese dell'Est, precisamente la Cecoslovacchia.
E.: Lei è membro della commissione
parlamentare che indaga sul caso Moro. In quale direzione bisogna approfondire
le indagini?
S.: Bisogna approfondire in questa direzione e in tante altre direzioni,
perchè questa commissione sopravviva e vada avanti. Per il riserbo cui
sono tenuto, non posso scendere in particolari.
E.: A suo parere, Berlinguer
deve essere ascoltato in commissione?
S.: Certo, io ritengo che, se la commissione ha dei dubbi sulla verità
di quello che ho detto, Berlinguer, Guttuso e tutti i testi di cui io
dispongo debbono essere sentiti.
E.: Come spiega l'atteggiamento
di Cossiga, così accondiscendente verso Berlinguer?
S.: Per dire una battuta, l'ho spiegato come una faccenda di famiglia.
Ma siccome siamo sul un terreno in cui io do una cosa a te se tu dai
una cosa a me, è possibile che Cossiga si aspetti una contropartita.
E.: Andreotti ha dichiarato
che nessun cecoslovacco è stato espulso per terrorismo. Come lo spiega?
S.: Ecco, questo è il punto: quei due diplomatici cecoslovacchi, cui
aveva accennato Berlinguer, erano sospettati ingiustamente? Oppure si
è fatto tutto in silenzio, come di solito si usa in campo diplomatico?
Se poi si è lasciato correre, la faccenda è gravissima.
E.: Come interpreta l'ultima
improvvisa recrudescenza del terrorismo? Sono truppe sbandate di un
esercito in rotta?
S.: Non sono dell'idea che questi siano colpi di coda. Certo, le bande
eversive hanno ricevuto duri colpi. Ma la loro capacità di proliferazione
è ancora abbastanza forte. Il problema è questo: che la politica italiana
allontani il risultato a cui tendono e che si arrivi a quella che, per
la mafia, è chiamata la testa del serpente.
E.: A quale risultato tendono?
S.: Il risultato che il buon senso della gente intravvede. Basta-un
viaggio in treno o in autobus per conoscere le declinazioni del buon
senso. Del resto è sintomatico che si colpiscano persone come Galli,
come Alessandrini, come Tobagi.
E.: A questo punto della
sua esperienza di deputato, come si sente. Stanco o stimolato?
S.: A questo punto mi sento meno stanco. Se in questo momento non stessi
male per una piccola lesione a una vertebra (cosa che non imputo a una
mano celeste in favore del compromesso storico) direi che sono addirittura
divertito. Fino a questo momento mi ero visto piuttosto inutile come
deputato. Ora comincio a credere che a qualcosa servo.
Elezioni, referenum, prospettive politiche
di
Massimo Teodori AR/15 Febbraio-Maggio 1980
Era generale l'aspettativa
per i risultati delle elezioni regionali e comunali dell'8 giugno e
per il significato politico che avrebbero assunto. Il responso delle
urne è stato certo importante in termini politici generali, ma probabilmente
secondo un segno assai diverso da quello che la maggior parte delle
forze politiche e degli osservatori si attendeva. Non sono infatti gli
spostamenti fra un partito e l'altro a dare la chiave di lettura di
questa prova elettorale, bensì da una parte il complesso delle fluttuazioni
interpartitiche e dall'altra lo scarto fra i votanti e l'insieme delle
manifestazioni di dissenso e di protesta dal sistema partitico.
I dati sono ben noti. La somma delle astensioni, del voto bianco e del
voto nullo, che ha oscillato per un trentennio fino al 1976 fra il 9%
e l'11%, e che era già aumentata al 13,4% nelle elezioni politiche del
1979, questa volta è arrivata ad oltre il 17%. si tratta quindi, in
cifre assolute, di oltre due milioni e mezzo di elettori che questa
volta deliberatamente hanno dato un segno di estraneità dal sistema
politico. Dunque questa imponente massa di "non voti" è proprio
quella che caratterizza le elezioni del 1980. Ma non solo e non tanto
per quello che sta a significare in termini di rivolta antipartitica,
ma soprattutto per un'altra ragione. Perché dà il segno dell'ormai crescente
e definitivo tramonto della vecchia caratteristica dell'elettorato italiano
contrassegnata dalla mancanza di fluidità e dalla accentuata fedeltà,
per ragioni ideologiche o clientelari, al proprio partito tradizionale.
Dapprima con le elezioni del 1975 e 1976, messe in moto dal referendum
del 1974, e poi con le elezioni del 1979 influenzate dai referendum
del 1978, ed ancor più con queste del 1980, è divenuto ormai clamorosamente
evidente che ci troviamo di fronte ad una crescente parte del paese
che giudica di volta in volta, progressivamente perde ogni fedeltà aprioristica,
si "laicizza", ed è disponibile a spostarsi rapidamente da
questo a quel partito; o anche, come nel caso attuale, quando non ci
sono partiti soddisfacenti, passa dai partiti al rifiuto stesso della
politica proposta dai partiti. Altri hanno detto e diranno che si tratta
di un fenomeno negativo, di "americanizzazione", di montante
"qualunquismo". A noi pare, al contrario, che prima ancora
del modo in cui queste preferenze elettorali si sono indirizzate e si
indirizzeranno, il fenomeno risponda a tratti tipicamente "moderni",
capaci di imprimere nel prossimo futuro delle svolte davvero significative
se le forze politiche saranno in grado di offrire prospettive e sbocchi
a questa massa di insodisfatti. Si fa sempre più numerosa la schiera
di coloro che scelgono di volta in volta senza farsi intimidire dal
ricatto e dalla paura dell'effetto del proprio voto nei confronti di
quelli che sono considerati gli avversari. Ciò significa che nonostante
che la partitocrazia regni sovrana si manifestano abbondanti segni di
svincolo dalla sua morsa. Da tale movimento è stato oggi reso vincente
il partito dell'astensione e della protesta ma domani possono riservare
sorprese formazioni politiche capaci di interpretare genuinamente le
domande di libertà e di trasformazioni che percorrono la società.
Mobilità, le vere novità
elettorali
In questo senso mi pare che
vadano riletti tutti i risultati elettorali. Certo è di grande importanza
lo stallo che entrambe le forze maggiori, DC e PCI, hanno dovuto registrare
nonostante il ricatto che l'una e l'altra forza hanno effettuato sugli
elettori servendosi dello spettro della forza avversa. Certo, di grande
importanza è anche l'avanzata senza ombra di dubbio di un PSI che da
venticinque anni ha visto progressivamente diminuire la propria influenza
elettorale. Certo, è tanto più significativo l'inizio di un processo
di riequilibrio fra PCI e PSI in quanto complessivamente la sinistra
ha tenuto quella soglia del 46%-47% che costituisce quasi un apice storico,
pur in presenza di un massiccio partito della protesta. Non saremo certo
noi a sottovalutare queste dinamiche elettorali, ben consapevoli che
ormai, per quel che riguarda la DC e il PCI, non si tratta di temporanee
fluttuazioni congiunturali, ma di tendenze alla decadenza elettorale
corrispondenti ad un processo di trasformazione culturale profondo di
ampi settori del paese nel loro stesso rapporto con la politica. Tutto
questo è vero. Ma è ancora più vero che i risultati assoluti e le crescite
o diminuzioni in percentuale nascondono dei movimenti molto più intensi
con flussi in entrata ed in uscita per ciascun partito: i quali flussi,
nel complesso, connotano una tendenza ormai irreversibile al voto che
si sposta e che non è più prevedibile se non in base agli specifici
comportamenti delle singole forze politiche e quindi al giudizio che
possono raccogliere in un determinato momento.
Referendum: alcune ipotesi
delle difficoltà
A fronte della scelta di
una non presenza diretta sul fronte elettorale, i radicali hanno condotto
nei tre mesi corrispondenti la campagna referendaria. Nel momento in
cui scriviamo (15 giugno) si può dire che la raccolta delle firme è
andata a buon esito superando la soglia necessaria per la riuscita costituzionale
dell'iniziativa. Certo è ancora presto per valutare la natura delle
difficoltà incontrate quest'anno nell'adesione dei cittadini a confronto
con la maggiore facilità del 1977. Per i commentatori superficiali ed
interessati val subito la pena di riaffermare quella che è un'ovvietà:
che cioè in ogni caso l'impresa della raccolta di 500.000 firme per
10 referendum, cioè di 5 milioni di firme, è di per sé, comunque, un'impresa
politicamente eccezionale. Ciò detto, ci sembra che quest'anno alcuni
fattori hanno contribuito a rendere più difficoltoso il raggiungimento
dell'obiettivo. Proviamo ad ipotizzarli. Il primo è stato sicuramente
rappresentato dal clima generale di sfiducia nelle possibilità di generare
cambiamento, conseguenza, in termini generali, del fallimento della
politica comunista nel triennio 1976-1979 e, in termini specifici, del
tentativo condotto su diversi fronti di vanificare i meccanismi referendari
compiuto tra il 1977 ed il 1979 (corte costituzionale, leggi bidone...).
Il terzo è stato probabilmente rappresentato da una maggiore identificazione
del rapporto referendario con il Partito Radicale, avendo assunto il
PR, nell'ultimo anno, con la sua quintuplicata rappresentanza parlamentare,
un'immagine più forte e quindi una più corposa presenza nel paese. Il
quarto fattore lo si può rintracciare nel fatto che un qualsiasi strumento
politico ha minore carica dirompente, e quindi minore attrattiva, per
l'uso ripetuto. Il quinto, ed ultimo, elemento che vogliamo sottoporre
alla comune riflessione è dato dalla mancanza di specifici referendum
trainanti tutto il pacchetto. Questa volta il referendum nucleare, che
avrebbe potuto assolvere quella funzione guida che nel 1977 fu svolta
da quello sul finanziamento pubblico dei partiti, probabilmente per
ragioni di mancanza di conoscenza, di informazione e di dibattito sul
tema non ha assolto lo stesso ruolo.
E' ormai acquisito che soltanto grazie all'intervento socialista, che
ha preso corpo soprattutto nelle ultime settimane di raccolta, l'obiettivo
delle firme necessarie è stato perseguito. Questo è un fatto politico
che non va né rimosso né sottovalutato. Quella socialista è stata una
scelta, forse mossa in parte da motivazioni di carattere elettorale,
ma che nel momento stesso in cui ha preso corpo è andata ben al di la
delle molteplici ragioni iniziali. Si è concretata in un'azione puntuale
e con obiettivi definiti quella convergenza di progetto che certamente
rappresenta ed interpreta appieno un'anima libertaria ed antidogmatica
del PSI, ampiamente presente nella sua base. Ci spingiamo oltre nelle
nostre riflessioni affermando che se la dirigenza socialista nelle sue
più qualificate sedi, segreteria, direzione e comitato centrale, non
avesse colto che lo spirito e la lettera dei referendum andavano nel
senso delle profonde aspirazioni dei socialisti, sicuramente si sarebbe
approfondita quella divaricazione fra naturale tendenza dei socialisti
a partecipare a movimenti politici di libertà e di liberazione e la
concreta possibilità di realizzarla. Si è trattato, dunque, di un atto
di intelligenza politica, che è servito ai radicali per non dovere più
affermare la propria solitudine nel progettare il cambiamento e ai socialisti
per poter ricongiungere aspirazioni e comportamenti politici.
La prossima stagione densa
di nodi da sciogliere
Siamo in periodo di riflusso,
si dice. Al di là della evidente banalità dell'affermazione, sono le
cose stesse a smentire questo giudizio, a cominciare dai comportamenti
elettorali, come abbiamo cercato di evidenziare nella prima parte di
questo editoriale. E' invece vero che siamo nel bel mezzo di una crisi
di fondo per la sinistra. Ben oltre la metà del paese (se si considerano
oltre i voti della sinistra, anche tutta la massa di protesta, certamente
"da sinistra") vorrebbe che prendesse corpo una politica nel
senso di maggiore libertà e di un qualche cambiamento, senza essere
intimidita dalle vicende pur altamente drammatiche del terrorismo, del
disastro economico e del caos sociale. A fronte di tutto ciò stanno
i partiti di sinistra privi di idee, di prospettive e di politica.
Nell'ultimo quinquennio è andata crescendo la massa dei comportamenti
elettorali che ha cercato nel PCI, ora con il voto referendario, ora
con l'indicazione radicale, ora con le manifestazioni di dissenso e
di protesta antipartito, uno sbocco anticonservatore ed antiregime democristiano.
Un numero sempre maggiore di voti è fluttuante e non riesce a trovare
uno sbocco adeguato. Infatti il PCI è impotente e piegato su se stesso.
Il PSI riesce a mala pena ad aggrapparsi alla "governabilità"
pur tra le sue positive contraddizioni libertarie. La stagione che ci
sta di fronte rischia così di risolversi in un vero vuoto pneumatico.
Altro che riflusso! Si tratta semmai di riflusso di questa politica.
Con l'operazione elettorale radicale (astensionismo attivo) che ha saputo
cogliere e provocare lo spirito del tempo, e poi con il coinvolgimento
socialista nel progetto stesso e per l'apertura di feconde contraddizioni
all'interno dello stesso PSI che non casualmente è stato premiato in
termini elettorali, i radicali hanno contribuito ad aprire una stagione
di possibile ripresa dell'iniziativa politica a sinistra. Nei prossimi
mesi, fino alla primavera 1981, il parlamento ed il paese saranno impegnati
a discutere i dieci temi proposti con i referendum ed a trovare comunque
delle soluzioni. E' un nutrimento offerto alla classe politica, all'opinione
pubblica ed alle istituzioni. La "governabilità" è anche,
e soprattutto, fatta della scelta dei temi sui quali la classe dirigente
deve decidere per dare leggi adeguate al paese. A noi sembra che i temi
dello Stato del diritto e quelli della qualità della vita che sottendono
i dieci specifici referendum sono certamente momenti qualificanti per
riconvertire la stessa sinistra o, in mancanza di un suo riallineamento,
per un suo scavalcamento. Saprà il PCI scrollarsi di dosso le pesantezze
accumulate da lunghi anni di negoziati con la DC? Saprà il PSI imboccare
decisamente la strada a cui lo spinge la sua anima riformatrice e libertaria
deprimendo la componente sottogovernativa e accomodante? Sapranno le
istituzioni essere all'altezza di una moderna democrazia fondata sul
vero confronto delle grandi opzioni piuttosto che sul compromesso sistematico?
Questi gli interrogativi a cui dovrà essere data una risposta nei prossimi
mesi e su cui riposerà l'avvenire stesso della nostra democrazia.
IL NUOVO PATTO RADICALE - LA MOZIONE DEL CONGRESSO DI
ROMA
di
Lorenzo Strik Lievers AR/15 Febbraio-Maggio 1980
"Ricordando Walter
Tobagi"
Come se niente fosse. Continuiamo
a occuparci, ognuno, delle solite cose, del nostro quotidiano; degli
interessi, dei piaceri, del lavoro, degli affetti, delle affermazioni
di sé. Ma con un disagio che cresce, con un'angoscia a tratti pienamente
consapevole e acuta, più spesso sommersa dalle dinamiche, dalle urgenze
dell'agire e del vivere; eppure sempre presente al fondo, mai cancellata
del tutto.
E' un'angoscia di morte. Altra, seppure dello stesso segno, di quella
che ciascuno si porta dietro, più o meno rimossa, relativa al proprio,
personale, esser destinato a morire, suprema obiezione alla libertà
e alle speranze dei singoli. Si tratta di un'angoscia di morte generale;
se non dell'umanità in assoluto, di "una" umanità, di un modo
di essere uomini, che è il solo che conosciamo e sappiamo in realtà
concepire.
Si torna, dopo decenni, a parlare della guerra come di una delle opzioni
possibili; ciò che basta a renderla probabile, e perciò stesso allora,
un po' prima, un po' dopo, forse inevitabile. E se nessuno sa davvero
immaginarsela, la guerra, si sa comunque che non sarà simile a nulla
di conosciuto, che sarà peggiore di ogni realtà immaginabile. Così,
rendendosi conto di quanto il pericolo sia reale e riguardi non qualche
parte remota della terra, ma noi stessi, il nostro mondo, si è indotti
a guardare con altri occhi l'epoca che stiamo vivendo e abbiamo vissuto
a partire dal 1945. Si comincia, o si è aiutati, a prendere coscienza
davvero, non solo in astratto, che la guerra non è mai scomparsa dal
mondo; che il mostro del massacro non è mai morto, che invano ci illudevamo
di averlo sepolto, esorcizzato una volta per tutte. Tutto il peggio
è possibile oggi e domani: per poco che apriamo gli occhi dobbiamo riconoscerlo.
La tragedia indicibile della Cambogia ha appena rinnovato, e se possibile
ingigantito, fra la nostra distrazione colpevole, connivente, complice,
l'orrore senza nome dei campi di sterminio nazisti o staliniani, che
non possiamo più fingerci, allora, appartenenti a un'umanità altra dalla
nostra, fatta di mostri alieni, e comunque consegnata definitivamente
a un passato concluso. Del resto, continuiamo pur sempre a convivere,
accettandolo di fatto, fondandovi i nostri privilegi, con lo sterminio
più immane, quello per fame - noto, previsto, programmato.
Difficile dire quanto di ciò vi sia coscienza chiara; ma certo ne derivano
inquietudini, incertezze, ansie che penetrano a fondo in sentimenti
e pensieri. Inquietudini che si mescolano con quelle per le minacce
che la rivolta preannunciata, possibile, anzi inevitabile, giusta e
necessaria del terzo mondo contro l'infame distribuzione delle risorse
planetarie, insieme alla prospettiva dell'esaurimento di tante fra quelle
risorse, fa gravare sul benessere opulento cui le nostre società si
sono assuefatte. Immagini che non possono non incontrarsi con il modo
di sentire e vivere le vicende interne del paese; e fan crescere allora
il disgusto, l'indignazione, la stanchezza per il degradarsi continuo,
cui assistiamo e partecipiamo, della vita pubblica - e insieme, perciò,
delle vite private.
Soprattutto, la tragedia
del terrorismo, che della guerra reca in sé tutte le stimmate funeste
e tutta la logica inumana, acquista in questa luce un senso se possibile
ancora più angoscioso, come di segno: sintomo, ammonimento, preannuncio.
Ogni singola morte, giorno dopo giorno, ce lo richiama; e quanto più
ci coinvolge, ci tocca da vicino, quanto più chi è stroncato e scompare
è persona che direttamente o indirettamente sentiamo vicina o conosciamo
- un amico, magari - tanto più lo smarrimento e lo strazio che sono
in noi, mettendo in discussione tutta la nostra umanità, si fanno anche
(mi pare, almeno) lucidità più chiara in questo senso.
Ma poi, il senso di impotenza. E allora, in modo schizofrenico continuiamo
a vivere "normalmente", applichiamo la logica solita, perseguiamo
gli obiettivi soliti - quasi a rassicurarci; quasi che fossero davvero
quelli importanti. E tuttavia non possiamo non sentire al fondo che
per i singoli e per i gruppi la necessità vitale è quella di misurarsi
con i problemi veri, di assumersi rispetto ad essi le proprie responsabilità
culturali, politiche, morali; ed è questa interna tensione a segnare
di una sua singolare impronta oggi la vita del paese.
La schizofrenia dei radicali
Considerazioni generalissime,
quelle che precedono; tuttavia utili forse per inquadrare anche molte
vicende recenti del movimento radicale; e in particolare per cogliere
il senso del fatto nuovo che, pur passato in genere sotto silenzio,
sommerso dal clamore delle vicende elettorali e referendarie, si prospetta
come una svolta di importanza cruciale per le sorti e la funzione del
PR: la mozione del congresso straordinario del 7-9 marzo. La schizofrenia,
tensione, polarità di cui s'è parlato - fra l'illusione del quotidiano,
del "realistico", e l'urgere di quel che davvero conta - infatti
marca significativamente oggi anche l'ambiente e il modo di essere dei
radicali.
Bisogna pur cominciare a dirlo, fuori dalle miopi carità di partito.
Nel PR, nel gruppo parlamentare, abbiamo assistito in questi mesi, e
tutti ne siamo stati in qualche misura coinvolti, a fenomeni preoccupanti
e deprimenti; quasi riflessi, verrebbe fatto di osservare, non so se
per trovare attenuanti o per deprimersi ulteriormente, del clima generale
del paese. Rivalità, tensioni, scontri sordi che non riescono ad assurgere
alla dignità di fecondi confronti tra linee politiche e culturali diverse;
un immiserirsi così della vita interna del partito in un giustapporsi
di unanimità ipocrite e distratte, che non nascono da una vera elaborazione
comune, prive anche per questo di tensione ideale, a diatribe meschine,
talora magari personalmente feroci. Piccoli interessi, piccole questioni
che prendono il primo posto e assorbono attenzioni e passioni. Non certo
solo questo, il PR oggi; ma anche questo, sì. Con il rischio allora,
oltretutto, di disperdere a vanificare quella "diversità"
che costituisce la sua ragion d'essere e la sua forza.
Di contro - ed è la ragione per cui in tanti, credo, rinnoviamo la fiducia
nel progetto politico radicale - nell'ambito radicale riemergono con
forza l'aspirazione a guardare alto e il senso che questa responsabilità
i tempi impongono. Espressione vigorosa e compiuta di ciò, appunto la
mozione del congresso di Roma (la si veda riprodotta più oltre in questo
fascicolo).
Anche le circostanze in cui a quel documento si è giunti testimoniano
delle contraddizioni, vitali contraddizioni, in cui siamo immersi. Il
congresso, si ricorderà, era stato convocato per decidere dell'atteggiamento
radicale nelle elezioni amministrative. E per due giorni di questo effettivamente
vi si è discusso; con un dibattito però che non riusciva a prender quota,
tutto legato a problematiche minori - quelle appunto "normali",
"solite" nella lotta politica quotidiana, comuni un po' a
tutte le persone e le forze che gestiscono la politica italiana: le
attese dell'elettorato, il futuro e l'interesse del partito, gli schieramenti,
gli equilibri, il ruolo possibile delle rappresentanze radicali in quest'ambito...
E insieme, non enunciate ma ben avvertibili, tante attese e aspettative
- in sé legittime e giuste per larga parte - di affermazioni elettorali
personali e di gruppo; e tanti giochi svolti guardando agli equilibri
interni di partito. Sensibilmente, si trattava di un congresso subalterno,
nel senso che faticosamente si misurava con una scadenza "esterna",
cui si era condotti dalle cose, non per autonoma scelta di priorità;
e in cui quel che rischiava di sparire, non per nulla, era il modo di
essere specifico e altro dei radicali, era la "cultura" radicale.
Una mozione che guarda alto
e lontano
In quel contesto è piombato,
davvero dall'alto, il documento proposto da Pannella. In nulla, si può
dire, esso recepiva il senso del dibattito che si era svolto sin lì;
eppure, attingendo alle ragioni profonde per cui si può essere radicali
oggi, rispecchiava, rivelava in realtà sentimenti e pensieri che un
po' tutti nutrivano ma che, come accade, in quel dibattito dominato
da altre dinamiche non trovavano la via per esprimersi.
In effetti la mozione ribaltava l'ordine del giorno del congresso: in
primo piano non le elezioni ma i compiti dei radicali, in quanto uomini
e cittadini, nella società italiana ed europea, rispetto all'umanità
- e solo in ultimo, come corollario contingente e di gran lunga secondario,
quel che riguardava le elezioni. I radicali così ritrovavano se stessi
e, con l'approvazione del documento, chiamandosi fuori da un campo che
oggi non poteva essere il loro, compivano un gesto di grande forza di
ampio respiro politico e ideale.
Il valore di quel che nel congresso è accaduto tuttavia va evidentemente
molto oltre la contingenza, importante quanto si vuole, del momento
elettorale, e della stessa campagna per i referendum. Pervasa com'è
di elementi di ripensamento e bilancio dell'esperienza radicale, la
mozione guarda avanti e lontano, alla qualità nuova e ai pericoli immani
della situazione in cui ci troviamo; e allargando d'un tratto gli orizzonti
segna con coraggio e rigore i compiti e le vie nuove della fase che
si apre.
In che misura così si innovino ampliandoli i fondamenti dell'azione
radicale appare chiaro se si considerano quanto meno tre aspetti che
caratterizzano la mozione. Primo, il fatto che essa attribuisce - come
mai era stato finora, in realtà - una posizione centrale nella prospettiva
politica radicale alla dimensione della politica internazionale; andando
ben oltre la generica indicazione antimilitarista tradizionale, collocando
nell'ambito di una visione complessiva profondamente coerente la battaglia
contro lo sterminio per fame, e ribaltando dalla base tanti criteri
ormai invalsi circa la politica estera. Secondo, la rivendicazione e
l'assunzione esplicita nell'orizzonte ideale di una forza radicalmente
laica come il PR di valori propri della più alta religiosità cristiana
(né questo ha mancato di scandalizzare qualcuno). Terzo, la ridefinizione
della funzione del diritto, del suo rapporto con lo stato, con la società
e con la coscienza individuale, espressa in quello che si è proposto
divenga il preambolo allo statuto del partito.
Dalle nazioni alle ideologie
Il tema dello stato, degli
stati: corre lungo tutta la mozione, e può essere forse quello che -
come punto di incontro per eccellenza fra le dimensioni della politica
estera e di quella interna - consente di avviarne meglio una prima,
magari parziale, valutazione.
Lo si consideri in relazione al piano delle relazioni internazionali;
nel quale non possiamo non prendere atto dell'affermarsi oggi di una
dimensione qualitativamente nuova dei rapporti fra gli stati, o meglio
forse dei modi in cui quei rapporti sono sentiti o vissuti dal senso
comune collettivo, con quella che potremmo definire un'eclisse dei valori
e degli ideali nella sfera della politica internazionale.
Si rifletta, da questo punto di vista, all'evoluzione che ha contrassegnato
il nostro secolo. All'aprirsi di esso le nazioni, gli stati costituivano
in quanto tali i soggetti politici primi: ed erano essi, i loro interessi,
a offrire alle coscienze i punti di riferimento essenziali. Ci si sentiva
inglesi, tedeschi o italiani prima e più che democratici, conservatori
o socialisti; il dovere verso la patria, intesa come nazione e stato,
rappresentava un cardine primario, spesso quello in assoluto prevalente,
della morale pubblica e privata; gli "interessi nazionali"
diventavano metro e criterio, in loro nome ci si sacrificava e si moriva,
si opprimeva e si uccideva, sentendosi in pace con la coscienza. La
prima guerra mondiale fu ancora in molta parte - ma ormai solo in parte;
si pensi a miti come quello della "guerra democratica" - espressione
e frutto di quel clima; che però ormai rapidamente veniva meno.
Tornano gli "interessi
nazionali": la guerra come ipotesi
Della logica che voleva tutto,
totalitariamente, subordinare alla ragion di potenza dello stato-nazione
i fascismi che dilagarono in Europa negli anni venti e trenta furono
l'esasperazione parossistica; ma insieme segnarono l'avvio della dissoluzione
dello stato-nazione. Gli stati fascisti infatti in un certo senso non
erano più "stati" nell'accezione tradizionale del termine,
bensì regimi, organi non più della collettività nazionale ma di una
sua parte, di un "partito" appunto: in Germania la croce uncinata
nazista prese il posto della bandiera nazionale. Così, sul fronte opposto,
anche l'URSS - persino nel nome - si pose come regime, non come stato.
E la seconda guerra mondiale ebbe per molta parte dei paesi e degli
individui in essa coinvolti carattere più di guerra civile che di guerra
fra stati: al primo posto non tanto gli interessi nazionali, quanto
le opposte visioni del mondo, ossia del bene dell'umanità, vissute semmai
come coincidenti con l'interesse ultimo della patria. Sicché su ogni
versante si ebbero uomini e gruppi che sentirono il "tradimento"
come imperativo morale, e in nome di un "principio superiore"
- la democrazia, il fascismo, il comunismo - si batterono accanto agli
stranieri contro gli eserciti del loro paese.
Ancor più ampiamente fu questo il carattere della lotta politica nel
mondo nel secondo dopoguerra. Molto dell'antico restava certo ancora;
ma il confronto, lo scontro, le solidarietà erano sentiti riguardanti
non tanto gli stati come tali quanto diversi sistemi politico-ideologici,
ossia progetti complessivi di soluzioni per i problemi della convivenza
umana. America, Russia, magari India e Jugoslavia, Cina più tardi, venivano
amate o odiate in quanto guide e portatrici o insegne di quei progetti
universali; i punti di riferimento si chiamavano mondo libero, mondo
socialista, non allineamento in quanto via di emancipazione, rivoluzione
"delle campagne"... La lotta politica internazionale si confondeva,
in larga misura si identificava senz'altro con la contesa fra modelli
di vita e fra ideali etico-politici complessivi, e connessi interessi
sociali ed economici; stati, partiti e uomini si schieravano sulla scena
internazionale prima di tutto in quest'ottica, solo in subordine alla
quale gli "interessi nazionali" trovavano un loro posto.
A poco a poco però quelle ideologie e quei blocchi politici hanno subito
un processo di usura e, in vario senso, di disgregazione. Fiduce e speranze
si sono consumate. Anche a tanti che vi avevano creduto il "mondo
libero" rivelava il volto dello sfruttamento infame, della degenerazione
consumista; e il "campo socialista" quello del gulag e della
sovranità limitata.
Le delusioni, le crisi di identità, rendendo sempre più difficile proiettare
sulla dimensione internazionale un impegno politico fondato su valori
etici, hanno lasciato libero il campo al dilagare di un cinismo al fondo
disperato e lugubre. In mancanza d'altro da tutelare e da affermare,
da ogni parte è riemersa e ha ripreso incontrastata il sopravvento la
logica degli interessi nazionali, degli egoismi nazionali; che, vuoti
di carica ideale e morale, non sanno neppure più diventare "sacri"
egoismi, come quelli di un tempo. Sulla scena mondiale ormai agiscono
solo gli interessi di potenza e di equilibrio degli stati, senza altri
punti di riferimento: la politica estera della Cina è il segno emblematico
di una condizione comune. E il dato più inquietante, qualitativamente
nuovo, forse proprio di quest'ultimo anno, è che le opinioni pubbliche
accettano tranquillamente come motivazione ovvia dei comportamenti degli
stati la semplice e bruta difesa degli "interessi", senza
neppure più sentire il bisogno che essi siano mascherati con ragioni
di giustizia.
E' questo, non per nulla, il clima in cui si torna, come da decenni
non accadeva, a considerare e ad accettare come normale, subordinato
solo a criteri di opportunità, il ricorso alla forza militare per far
valere i propri interessi: la resurrezione del primato degli stati e
degli interessi nazionali fa tutt'uno con il ritorno della guerra come
ipotesi possibile.
Una politica estera fondata
sui valori: contro lo sterminio
A questa logica del "realismo",
che è la logica del suicidio, la mozione di Pannella oppone il rifiuto
più drastico. Denuncia e-condanna le politiche estere "di ricerca
di continuo compromesso-e complicità con la politica dei campi di sterminio
e degli sfruttamenti colonialistici, dei gulag e delle leggi d'eccezione,
delle aggressioni e delle annessioni, per realizzare spartizioni del
mondo ed equilibri di potenze e di potere"; contrappone cioè al
criterio della politica estera degli interessi, dilagante ovunque, quello
di una politica estera "di principi". Il richiamo è dunque
alla sfera dei valori; che occorre, è tragicamente urgente riaffermare,
in tanta parte su basi nuove, se le vecchie sono consunte: sola via
possibile per ritrovare speranza, per arrestare la corsa verso il baratro.
In questo quadro si intende appieno, allora, il dato politico fondamentale
della mozione: il fatto cioè che, rovesciando tutte le priorità cui
da sempre ci hanno abituato i criteri delle politiche di stato e di
partito - di tutti gli stati, di tutti i partiti, compreso il nostro
fino a ieri - essa mette al primo posto assoluto nelle preoccupazioni
e nella prospettiva politica dei radicali la questione tremenda dello
sterminio per fame.
Si tratta della questione che più di ogni altra - per le sue dimensioni
mostruose, per le responsabilità che comporta, collettive e perciò anche
personali di ognuno - non può essere "scoperta" senza divenire
tormentoso problema di coscienza. Con Pannella, grazie, bisogna dirlo,
a Pannella, i radicali la vengono scoprendo, faticosamente magari, come
quella che rende insostenibile moralmente rinchiudersi nei "nostri"
interessi, di società italiana ed europea; come quella che, mettendo
alla prova la dignità di ogni condizione umana, impone di rifarsi all'ambito
che in definitiva è l'unico vero, soprattutto in un'epoca come la nostra:
quello della comune umanità.
A questa stregua, il discorso è tutt'uno con quello sulla politica estera.
La priorità al problema della fame si prospetta come il fondamento di
una possibile diversa politica estera - o meglio, internazionale - volta
a instaurare una qualità altra delle relazioni internazionali, una politica
costruita, appunto, con riferimento a valori, affermando valori, quelli
universali della persona umana. Ché se poi si pensa a quel che significano,
rispetto agli equilibri del mondo, rispetto ai rischi di guerra, i nodi
delle relazioni nord-sud e della tensione tra opulenza e fame, ci si
rende conto di quanto un simile indirizzo sia anche quello del realismo
autentico, che tutela gli interessi primari di tutti e di ognuno, contro
la stupidità cieca delle politiche "realistiche" di interessi
e di potenza che portano alla guerra come sbocco naturale.
Per il diritto, contro ogni
guerra
La linea è dunque quella
di una contestazione dello stato come strumento di potenza; ma non certo
dello stato in quanto tale. Rispetto alla dimensione della politica
interna (ma poi non solo di essa, in una prospettiva che non può non
negare la scissione e la diversità qualitativa fra politica interna
e politica estera), la mozione "proclama il diritto e la legge,
diritto e legge anche politici del partito radicale; proclama nel loro
rispetto fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni".
Il PR ne esce definito come partito per eccellenza del diritto, della
legge, dell'osservanza all'estremo della legge voluta con scelta consapevole,
quale scelta di civiltà. E non c'è diritto, sistema di norme codificato,
senza stato.
Nulla di più lontano dall'ottica radicale, in questo senso, di parole
d'ordine come quella "né con lo stato, né con le BR". L'obiettivo
del partito armato, quello che nutre l'illusione atroce dei suoi combattenti,
è di giungere alla rivoluzione attraverso la disarticolazione e disintegrazione
dello stato come effetto del terrorismo. La via scelta, non solo tatticamente
(l'uso delle armi), ma anche strategicamente (la disintegrazione dello
stato, garante di ogni diritto), è quella che passa attraverso lo stravolgimento
dei modi della convivenza sociale: alla regola del diritto vuol sostituire
quella barbara della guerra. Anche la guerra, certo, è cosa per eccellenza
dello stato, degli stati: anzi, ne siamo ben consapevoli, la sola vittoria
cui il partito armato può giungere è quella non del rovesciamento dello
stato bensì, con il trionfo di una logica di guerra, quella di una trasformazione
di esso che, facendone venir meno la dimensione del diritto, lo muti
appunto in mero organo di guerra.
Qui in effetti sta il nodo. Se è vero che lo stato reca in sé due momenti,
irriducibilmente contraddittori fra loro, quello del diritto e quello
del potere e del dominio, la guerra esalta il secondo, comprimere fino
ad annullarlo il primo: negando alla radice il diritto alla vita è,
in sé, la negazione radicale di ogni diritto. La direttiva dei radicali
sta all'estremo opposto, allora, di quella del partito armato - qui
sì, davvero, opposti estremismi: fino in fondo per lo stato come sede
e momento del diritto, per limitarne al possibile il momento del potere
e del dominio.
Diritto naturale, primato
della coscienza
Partito della legalità, il
PR è anche il partito della disobbedienza, dell'obiezione di coscienza.
Eppure, è proprio della legge essere uguale per tutti: come chiederne
il rispetto nel momento in cui la si viola? Contraddizione solo apparente;
ma cui occorre riflettere se non si vuole che possa diventare reale.
La disobbedienza cui i radicali
si chiamano e chiamano è quella contro lo stato-potenza; ossia, anche,
contro lo stato che, in virtù della propria forza, stabilisce una legge
che violi un diritto superiore. Non solo, si badi, contro le violazioni
della legge fondamentale dello stato, la costituzione: molte volte l'obiezione
di coscienza radicale si è levata contro leggi costituzionalmente valide
- per tutte, quella sull'obbligo militare. Non c'è dubbio: il riferimento
ultimo è al diritto naturale, quale la libera coscienza, nella sua responsabilità,
lo sente e lo stabilisce.
Il congresso ha proclamato "il dovere alla disobbedienza, alla
non collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme
di lotta non violenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto,
della legge". Riprendendo i termini di un dilemma che ha corso
i secoli e i millenni, i radicali rifiutano di riconoscere nello stato
e nel suo potere la sola, o comunque la preminente, fonte di norma.
Alla legge positiva, dello stato, arrivano così a contrapporre - con
espressione certo "scandalosa" rispetto a tanta cultura storicista
- una "legge storicamente assoluta".
Non uccidere, mai. Perché
non possiamo non dirci cristiani
Diritto naturale, primato
della coscienza: temi e valori che, nella cultura europea almeno, sono
connessi indissolubilmente al patrimonio più alto della religiosità
cristiana. Se vogliamo, come radicali, far davvero i conti con noi stessi,
con quello che siamo, dobbiamo prenderne consapevolezza piena. Non opportunismo
strumentale dunque, ma autentica scoperta di sé il laico richiamo a
valori cristiani sempre più esplicito e frequente nell'azione del partito
anticlericale che vanta Ernesto Rossi tra i suoi maestri (e che, significativamente,
per primo credo nella storia dei partiti italiani, "partiti cristiani"
compresi, usa in un proprio documento congressuale il termine "pietà").
A questa coscienza di sé e dei tempi si ispira, nella sua meditata formulazione,
l'impegno solenne e sconvolgente con cui il nuovo patto radicale "dichiara
di conferire all'imperativo cristiano e umanistico del "non uccidere"
valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella
della legittima difesa". Il valore supremo è la persona umana in
sé, la sua vita, non lo stato e il potere. Ne discende la scelta della
non violenza assoluta: terribile, drammatica, ma la sola forse adeguata
a contrastare la violenza, che da ogni parte avanza tra noi.
Tutto si tiene, così. Il congresso segna, vuole segnare un passo capitale
nella storia dei radicali: l'acquisita consapevolezza che, se mai lo
si è potuto, oggi non ci si può più limitare a un ambito nazionale;
che il PR non può più essere solo, come è stato, forza "di governo"
in Italia. Oggi a ognuno compete contribuire, come sa e può, al governo
del mondo; in questa direzione, misurando l'esiguità risibile delle
proprie forze, ma anche le possibilità che si aprono, il PR ha deciso
di rivolgere il proprio impegno. Né poi è questione di calcolare le
forze di un partito: negando la distinzione insuperabile fra le sfere
della politica interna e della politica internazionale, il messaggio,
l'appello a intervenire al livello anche delle relazioni internazionali,
del governo complessivo dell'umanità, non è rivolto a gruppi, a "forze",
a interessi - di stato, di classe, di partito. Come con i referendum
all'interno, si investono direttamente i singoli del diritto e dovere
di decidere anche su questo piano più ampio il richiamo è alla coscienza
e alle responsabilità personali di ognuno in quanto cittadino del mondo,
in quanto persona.
I conti con i referendum
di
Giuseppe Rippa NR32, 28 giugno 1980
Se si considera l'ostilità
profonda da sempre espressa dai vertici comunisti verso i referendum,
allora c'è da dire che la calibrata e cauta presa di posizione di Giovanni
Berlinguer sul n. 27 di Rinascita "Facciamo per tempo i conti politici
con i referendum", è da registrare come un importante riscontro
politico al successo della battaglia referendaria del pr, ovvero della
sua prima fase, quella della raccolta delle firme. Portato a fare i
conti con i fatti olitici che incidono sui rapporti di forza e gli schieramenti
che da questi si producono, il pci sembra, a giudicare da quanto scritto
dalla sua rivista teorica, molto più accorto e in definitiva meno propenso
ad assumere di fronte alla prossima scadenza referendaria un atteggiamento
di preconcetta ostilità, né tanto meno intende assumere posizioni di
attacco per poi rischiare di essere "lasciato solo". "C'è
bisogno di una riflessione più puntuale" - dice G. Berlinguer -.
Vediamo: prima di tutto - afferma il parlamentare comunista - non è
per la via referendaria che si può determinare un rinnovamento della
società e dello Stato (vedi anche la relazione di Cossutta al Comitato
Centrale); i referendum inoltre hanno un'"effetto destabilizzante".
Subito una risposta su questo punto. Il referendum è a nostro giudizio
il viatico attraverso cui può passare una salita di tono dell'intera
vita politica italiana. Nessuno si illude che il rinnovamento istituzionale
possa avvenire nel nostro paese grazie solo ai referendum. Ma c'è intanto
l'azione stimolatrice all'immobilismo dei partiti, questo sì. Come pure
il consolidarsi della praticabilità dell'istituto referendario può fornire
ad una sinistra che si candida ad essere forza di governo un concreto
modo per offrire all'avversario di classe un terreno di confronto e
di scontro politico che non è quello del ricatto dello strangolamento
economico o di un colpo di stato (il cosiddetto pericolo cileno) ma
della democrazia e della prassi costituzionale. Anche in questa prospettiva
il referendum si conferma non di destabilizzazione, ma anzi di correttivo
al deterioramento delle istituzioni. Dare alla Dc la possibilità di
tenere due o quattro referendum per volta è sicuramente una garanzia
di crescita democratica effettiva e tangibile. A questo punto si aggancia
il discorso del referendum che in prospettiva può e deve diventare non
più un fatto traumatizzante, ma un normale istituto. L'inflazione del
referendum va prevista, gestita e in una certa misura auspicata. Si
tratta, d'altronde, d'un fatto naturale ed inevitabile. "I referendum
sono avviati, e la politica italiana dovrà fare i conti con essi".
Questa affermazione di Berlinguer conferma che avevamo visto giusto
nelle nostre scelte congressuali. L'essere riusciti ad imporre la centralità
delle nostre iniziative in un quadro politico sempre egemonizzato da
un sistema di regime partitico su cui si è forzatamente tentato di incardinare
la Costituzione materiale contro l'auspicata repubblica costituzionale,
legittima il nostro ruolo di forza alternativa. Avevamo affermato che
in linea generale il referendum, nel quadro istituzionale della Costituzione,
è strumento fondamentale di iniziativa politica alternativa, che, in
una società industriale matura, non può essere solo un fatto di opposizione
parlamentare. Se il problema di fondo rimane quello di realizzare diverse
forme di vita e di partecipazione istituzionale dei cittadini al potere,
e di trovare il modo per cui queste diverse forme di vita politica siano
effettivamente democratiche nel senso che abbiano protagonisti radicalmente
diversi e associazioni di cittadini radicalmente diverse da quelle partitiche
(i partiti totali, come li definisce Marconi su Mondoperaio n. 6) e
allora il referendum è più che mai oggi il più sostanziale contributo
alle istituzioni sempre più travolte da una profonda crisi di legittimazione.
Altro che processo di tipo destabilizzante! Deve essere comunque rilevata
l'indubbia positività dell'atteggiamento socialista nei confronti dei
referendum, poiché è anche grazie alla posizione assunta dal vertice
socialista che si è rotto il patto di unità di quello che è stato definito
il Club dei partiti che in tutti i modi (disinformazione e censura prima
di tutto) ha cercato di limitare la portata e l'incisività del referendum
proprio perché legale, coinvolgente, privo di delega.
Nel merito poi la posizione
del partito comunista di presenta più attenta e articolata di quanto
si era potuto registrare prima che le forze fossero state consegnate
in Cassazione, quando gli attacchi e gli insulti erano quotidiani e
indiscriminati. Sui reati di opinione, i tribunali militari la posizione
comunista è di evidente difficoltà poiché il mantenimento nei nostri
codici di norme di dubbia incostituzionalità è sicuramente una responsabilità
anche dei partiti di sinistra che in 35 anni non hanno fatto nulla per
cancellare questa vergogna. Che nella V, VI e VII legislatura il pci
abbia presentato proposte di legge per la soppressione dei reati di
opinione senza poi farne nulla aggrava e non giustifica la sua posizione
rendendo evidente una obiettiva complicità con un disegno autoritario
che conservando questi reati in realtà mira a conservare gli strumenti
per reprimere ogni forma di dissenso.
Sull'ergastolo si deve registrare,
da quando scrive G. Berlinguer, una posizione importante che se sarà
mantenuta avrà effetti significativi. "Vi è una lotta di principi,
da condurre coraggiosamente". Era ora potremmo dire, se si pensa
che in tempi recenti, da sinistra vi è stato un lento assecondare una
reazione forcaiola rispondente ai peggiori stimoli di vendetta sociale,
e l'abbandono dei valori della civiltà giuridica, dello sviluppo della
coscienza e della consapevolezza collettiva per lasciare spazio alla
barbarie giuridica che è bene ricordarlo affonda le sue radici anche
nella cultura di certa sinistra stalinista e totalitaria. Dopo le violente
polemiche contro i radicali e i gruppo protezionistici, polemiche che
non hanno risparmiato lo stesso Umberto Terracini, emerge, sotto il
peso delle 850 mila richieste di abrogazione della caccia una posizione
certamente imprevedibile solo qualche mese fa: "non vedo perché
il pci debba costringere a votare pro o contro l'uccisione della selvaggina".
Il che detto da un partito che pretende di rappresentare tutto dei suoi
iscritti e dei suoi elettori non lasciando nessuna libertà di scelta
alle singole opzioni che si presentano al cittadino, volendo mediare
tutto e tutti non è cosa di poco conto. Credo che in misura significativa
in questo caso si confermi la positività dello strumento referendario
e la sua capacità di rompere la vocazione paternalistico-manipolatoria
con cui la società politica, i vertici dei partiti, pretendono di monopolizzare
e lottizzare tutti gli spazi, politici, economici, culturali e sociali
in nome di opzioni sempre più generiche e di vere proprie deleghe in
bianco.
I referendum sulle centrali
nucleari e sull'hashish e la marijuana vengono affrontati in modo problematico
senza false certezze il che è già un aspetto importante per avviare
un serio dibattito su questi temi fondamentali riguardanti le scelte
del nostro futuro e il modo di affrontare i problemi della nostra società.
In margine alcune annotazioni:
Berlinguer dice il referendum sul divorzio ha costituito il primo rovescio
della DC per responso delle urne. Perché allora non interrogarsi su
come quel successo si concretizzò e quale fu l'atteggiamento del pci
che fino all'ultimo tentò di scongiurare la consultazione popolare affermando
che saremmo andati incontro ad una grave spaccatura nel paese?
L'altra precisazione è sui rapporti tra radicali e socialisti e su questi
potranno produrre miglioramenti di rapporti fra tutta la sinistra. Su
questo si può affermare che proprio sui dieci temi referendari si potrà
determinare nella concretezza e nella importanza che hanno una prima
base di discussione su cui misurare la reale volontà di tutte le forze
della sinistra per un programma alternativo e di unità di azione di
legislatura della sinistra.
Sterminio per fame nel mondo
Intervento
di Marco Pannella al PE - 16.9.80
"Signor Presidente,
colleghe e colleghi, dieci mesi fa avete votato tutti concordi tranne
noi, una risoluzione con la quale chiedevate immediatamente ai vostri
governi almeno lo 0.7 per cento. Era la vostra risoluzione, l'avete
votata contro di noi.
Vi accingete adesso a votare una mozione stilata dal compagno, amico
e collega eurocomunista Ferrero, per conto della Commissione per lo
sviluppo. E' una relazione che giustamente Sir Fred Warner ha sottolineato
essere di suo gradimento. Giustamente trova, mi pare, anche il plauso,
non solo di stile- se ho ben capito- del presidente Poniatowski, ma
anche di adesione culturale. Si celebra, signor Presidente, in quest'aula,
il mistero della salvezza attraverso l'interclassismo, il modernismo
tecnocratico e l'illusione tecnicistica, con l'accordo del prestigioso
ex rivoluzionario a riposo, compagno Pajetta, con l'accordo di Poniatowski
e di voi tutti.
Quante persone in meno morranno, dopo questi vostri accordi nelle prossime
settimane e mesi? Io temo neanche una, se è vero com'è vero, Commissario
Cheysson, che, secondo le unanimi previsioni delle Agenzie specializzate,
nei prossimi mesi, nel prossimo anno, se non vi saranno mutamenti radicali,
il tasso di mortalità aumenterà ulteriormente.
Questa risoluzione è arretrata in ordine alle indicazioni politiche
concrete che l'opinione pubblica si attende. Il gioco delle parti sembra
che vi consenta di reclamare qui immediatamente lo 0,7, salvo poi votare,
nei vostri parlamenti, a favore dello 0,1 o dello 0,2.
Purtroppo ben faceva il collega Pajetta a rimproverare a Brandt di aver
scritto, in compagnia di altre prestigiose personalità e per conto di
quella Banca mondiale- che dopo aver finanziato detto libro, adesso
lo avversa nella sua economia complessiva- quando la stessa socialdemocrazia
tedesca che ci presenta questo bellissimo libro, annuncia poi a New
York di volere ritirare ulteriormente i suoi aiuti e le sue sovvenzioni
allo sviluppo. Non è questa la politica dello sviluppo, bensì la politica
della "distensione", che di fatto significa corsa agli armamenti,
sicché in questo gioco delle parti veramente non si comprende dove finisca
il vaudeville e inizi la tragedia. La tragedia inizia dove vi sono morti,
assassini, stermini.
Noi abbiamo detto la scorso anno che "sapevamo di non sapere"
(e questa non era scienza gaia, ma sicura) cosa si dovesse fare. Sapevamo
però che la vostra via era illusoria. Voi assumete la contemplazione
della realtà per meglio viverla; voi avete la coscienza a posto a buon
mercato; voi predicate quasi foste angeli o demoni, estranei alla sfera
della politica. Il problema è però di volontà politica quindi di volontà
vostra, dei vostri partiti, dei vostri leader, ma voi nulla fate per
mutarla.
Noi diciamo che lo 0,7 certo non risolve i problemi e che si deve parlare
di trasferimento di ricchezze e cominciare in qualche misura a metterle
a disposizione. Avevamo detto fin dall'inizio che se il problema è di
volontà politica occorre armare la volontà politica della forza del
diritto, senza la quale ogni volontà politica è velleità, è pretesto
o protesta sterile, come quella del compagno Pajetta che rimprovera
qui a Brandt le sue fortissime e gravi contraddizioni e che parla a
nome di un partito che ha sostenuto per due anni in Italia un governo
che è stato l'unico- da 35 anni a questa parte- a fare scendere il contributo
pubblico italiano allo 0,032%. Il governo comunista-democristiano italiano
ha così portato la nostra percentuale all'ultimo posto della graduatoria
per paese industrializzato.
Per noi il problema principale è quello di procedura. Dicemmo già lo
scorso anno che l'autorità dell'ONU e del Segretario generale dell'ONU
ed il Consiglio di Sicurezza dovevano, in termini di procedura, essere
investiti della questione e che le procedure teoriche di consensus andavano
irrobustite e fatte convergere nelle sedi tecnocratiche e diplomatiche,
perché senza il recupero e la formazione della dottrina giuridica del
consensus, non si può sperare di rendere i paesi adempienti ai loro
impegni, più di quanto non lo sia stato rispetto alla famosa risoluzione
sullo 0,7%.
Signor Presidente, nel 1936 la Società detta delle Nazioni- come direbbe
il Presidente Poniatowski- aveva dichiarato testualmente: "il mondo
ha tutte le capacità tecniche e finanziarie per sconfiggere la miseria
e battere le prospettive della guerra".
Anche allora c'era la politica della distensione. Mussolini ed Hitler
vedevano onorata la loro struttura di guerra e di assassinio con la
politica di Monaco, della quale sono oggi cantori stonati, ma convergenti,
i Pajetta e i Poniatowski, tutti quelli che oggi in Europa credono davvero
che sia stato per la "cattiveria" di Stalin o di Hitler o
di questo o di quello, che il mondo debba affrontare le grandi tragedie.
Signor Presidente, avevamo anche indicato come un'utopia quella di Brandt,
la vostra, di continuare a dire: bisogna ridurre le spese militari.
Abbiamo tecnicamente proposto una diversa politica di conversione della
spesa militare; abbiamo detto: usiamo anche gli eserciti per creare
forze straordinarie di intervento, sia per quanto riguarda i trasporti,
sia per gli interventi d'urgenza, che devono essere anche strutturali
e non solo alimentari. La carestia di un momento può essere l'occasione,
con la sua logica perversa, per formulare piani, per costruire ponti,
avvalendosi della tecnologia degli eserciti. La quale è, per il momento,
pienamente adeguata a questo scopo, e non già le tecnologie delle grandi
imprese capitalistiche stradali europee che vanno a costruire grandi
dighe disastrose lì dove invece c'è bisogno di piccoli ponti- probabilmente
di fortuna- per tre o quattro anni.
Avevamo fornito molte indicazioni di questo genere, Signor Presidente;
noi contestiamo le analisi che sono fatte. Pur rispettando pienamente
le tesi altrui, riteniamo che anche una famiglia politica quantitativamente
poco numerosa, come la nostra, abbia il diritto e il dovere di potere
contrapporre le proprie analisi, affinché questo Parlamento vada fiero
di avere compreso quanto le minoranze possono a loro volta proporre.
Peraltro, questo non è un Parlamento, signor Presidente- come ha ricordato
il Presidente Debré- a termini di trattato questa è un'Assemblea e aggiungo
un'Assemblea unica nel suo genere perché è un'Assemblea retta sul qualunquismo
della relazione Ferrero, retta su questa illusione tecnicistica, senza
onorare le idee e gli ideali per i quali siamo qui, senza avere il coraggio
delle differenze, senza avere il coraggio delle diverse buone fedi che
sono le nostre.
Un'Assemblea che discute in questo modo mutilo e mutilato è un'Assemblea
che potrà concorrere solo, signor Presidente, a quello sterminio al
quale essa già concorre. Chi sono infatti i signori della terra? Chi
sono i signori della politica in questo mondo? Chi ha prodotto questo
disordine economico e morale stabilito nel mondo? Sono i vostri partiti,
sono le vostre idee e sempre di più, signor Presidente, saranno anche
i tentativi gretti di dominare una Assemblea attraverso regole da pizzicagnolo
e da salumiere, come quelle che usate per disciplinare- per così dire-
i dibattiti, ai quali partecipiamo per essere fedeli non solo a chi
ci ha eletto, ma innanzitutto, signor Presidente, per essere coerenti
con le nostre coscienze e anche per rispettare il diritto dei nostri
avversari di essere onorati fino in fondo con la nostra attenzione e
con la nostra critica. Ciò non ci è consentito. Siete i personaggi marginali
della tragedia dello sterminio. Verrebbe qualche volta voglia di dire
che siamo in un boulevard piuttosto che in un emiciclo, e dirvi allora:
arrivederci, parleremo sempre di meno, arrangiatevi da soli. Gandhi
ha insegnato che nella storia esistono momenti nei quali la democrazia
e la libertà devono essere servite con metodi diversi che non siano
quelli di istituzioni senz'anima, capaci solo di uccidere corpi e distruggere
le ragioni per le quali sono state create.
Pannella impuso sus tesis en el congreso del Partito
Radical Italiano
Juan
Arias, "EL PAIS" miércoles 5 de noviembre de 1980
El Partido Radical italiano
ha concluido su 24° Congreso Nacional con la sorpresa de la elección
como nuevo secretario general de un joven de 26 años, Francesco Rutelli,
estudiante de Arquitectura, y que era, hasta ayer, secretario del partido
en la región del Lazio, y codirector, con el famoso escritor Cassola,
de la revista antimilitarista El Asno. Pero, en realidad, el gran vencedor
del congreso ha sido su líder carismático Marco Pannella, que ha vuelto
a coger las riendas del partido.
Pannella anunció durante el Congreso su dimisión como diputado para
poder trabajar con dedicación plena en la refundación del partido, que
ha anunciado para 1982.
El ex secretario general Rippa ocupará el puesto de Pannella en el Parlamento.
El mismo anunció su dimisión como secretario general para dejar el puesto
al jovencísimo Rutelli, que es una creación de Pannella, el cual se
reserva su elección al frente del partido para 1982, cuando el partido
se vista con el nuevo traje de la reforma.
El congreso acabó con una
moción unitaria de sólo veinte líneas para anunciar la refundación del
partido y el empeño de los radicales en la defensa de los diez referendos
que han presentado y que piensan ganarlos todos, porque "esperamos",
han observado, "en la ayuda que nos vendrá de los socialistas".
El congreso se cerró ayer con una marcha antimilitarista, y las acusaciones
de un pequeño grupo a Pannella por su autoritarismo.
Los radicales, que tienen toda la voluntad de "crecer" y la
preocupación de convertirse, con ese crecimiento, en un partido burocratizado,
como los demás, que tanto han criticado, han anunciado ayer que se presentarán
a las próximas elecciones municipales de Roma de junio próximo, "solos
o con los socialistas". Y es este acercamiento a los socialistas
la nota que más resaltan todos los observadores.
Los radicales de la base están aún muy perplejos y han afirmado durante
el congreso que ellos no desean separar esta aproximación a los socialistas
de un diálogo serio con los comunistas, pero muchos observadores aseguran
que existe ya un "pacto de hierro" entre Pannella y Craxi.
SI
VA A LETTO CON IL NEMICO PIUTTOSTO CHE UCCIDERLO
di
Rosa Montero. Intervista a Marco Pannella - "EL PAIS" 7 dicembre
1980
Marco Pannella, cinquanta
anni, giornalista di mestiere, politico per convinzione, è uno dei dirigenti
del Partito Radicale italiano e deputato al Parlamento Europeo. Protagonista
di numerosi scioperi della fame per svariate cause, non solo italiane.
Il suo partito è, probabilmente, il più sensibile ai nuovi problemi
delle società industrializzate. In questa intervista spiega la sua condotta
ideologica ed etica, nella quale la felicità costituisce il grande anelito.
Nell'Hotel Ritz di Madrid c'è un salotto tiepido e solitario con particolari
ornamenti murali. Ci sono alcune scrivanie, con lampade di fine mussolina
pieghettata, carta assorbente, calamai e raccoglitori, in inutile attesa
di un casuale scrittorello. Forse fu un salone di molto successo prima
del trionfo delle comunicazioni telefoniche, ma oggi non c'entra nessuno
in questa stanza di sapore epistolare, occupata soltanto da due poliziotti
armati - presumibilmente sorveglianti di membri della CSCE albergati
nell'hotel - che portano a spasso la loro noia dal camino spento alla
vetrata, dalla vetrata al calamaio sulla scrivania a sinistra. Questo
è il posto che Marco Pannella sceglie per l'intervista. Imbrunisce,
e questa stanza dolciastra e decadente, con un contenuto colpetto di
tosse di un poliziotto giù in fondo, è una pennellata di irrealtà sulle
parole del leader del Partito Radicale italiano.
- Quasi mi stupisce che
Lei non abbia un'aria sciupata dopo tanti scioperi della fame che ha
fatto. Più di venti, o sbaglio?
- Sì, non so di preciso quanti, ma diversi. Noi non ci mettiamo
in sciopero della fame per ottenere dei benefici per noi stessi, cosa
che altri fanno e che io rispetto in assoluto. Noi li facciamo per richiamare
il Potere al suo ordine, anche se quell'ordine non è il nostro.
Descrivere l'aspetto di Pannella
potrebbe sembrare cosa superflua, dato che il suo fisico è stato fatto
oggetto di tanti commenti quanto le sue idee. E si sa, dunque, che è
il proprietario di una carrozzeria importante. E' alto e ben fatto,
e si muove con la facile sicurezza di chi non ha patito complessi con
il suo corpo: neanche per i brufoloni purulenti dell'adolescenza. Indossa
un vestito grigio talmente perla che ti viene la tentazione di dire
che si accosta benissimo al colore degli occhi, anche se questi, in
realtà, sono molto blu. Nonostante la sobrietà dei suoi capi d'abbigliamento,
ha un tono indefinibile di lusso: lussuosi sono i suoi capelli bianchissimi
e folti, lussuose le sue mani, che muove sapientemente. A volte, in
qualche varco inaspettato del volto, gli si afferra una espressione
di uccello rapace o di satiro greco-romano, ma si scioglie al volo per
riprendere l'aria pacata e affettuosa, il suo sorriso caldo. E' un maestro
della seduzione.
- E' curioso che proprio
a Lei, uomo proveniente dalla borghesia intellettuale, venisse in mente
di utilizzare il ricorso agli scioperi della fame. Non è un metodo di
lotta molto comune.
- In primo luogo, è vero che provengo dalla media borghesia, ma
sociologicamente non ho mai partecipato della borghesia intellettuale,
tranne all'università in un certo periodo. Io sono stato presidente
degli studenti universitari italiani, insieme abbiamo creato le organizzazioni
universitarie dopo il fascismo. Ma gli universitari, in realtà, erano
più militanti che intellettuali. Allora mi sono convinto che bisognava
creare dei mezzi propri di espressione. Pensavamo che bisognava dare
corpo alla speranza, poiché, si voglia o no, si dà forma alla "speranza"
e alla "disperanza", in fin dei conti mi sembra più difficile
vivere la disperanza che la speranza, una speranza ragionevole. Noi
non eravamo d'accordo sul fatto che i mezzi giustifichino i fini, bensì
che i fini prefigurano i mezzi. E qui abbiamo spezzato una tradizione
sia politica che culturale o religiosa. Da allora, abbiamo cercato di
esprimerci anche attraverso mezzi che siano anche una immagine di ciò
che vogliamo ottenere. A Lei sembrano mezzi di lotta poco comuni, strani?
Più strano sembra a me che gli altri perseverino su mezzi di lotta che
non servono neanche ai loro obiettivi. E' la stessa differenza che esiste
fra il senso comune e il buon senso. Io credo che il senso comune non
sia buon senso, esattamente.
- E lei ha buon senso,
è ovvio.
- Proviamo ad averlo, proviamo a ragionare.
- Osservo che Lei se
la gode facendo dei giochi di parole: sottolinea la differenza fra buon
senso e senso comune, e spesso ha dichiarato che si ritiene rivoluzionario
e non rivoluzionista, riformatore e non riformista...
- Sì, credo di aver inventato la parola rivoluzionista, che non
esisteva prima. Ma esisteva riformista che è colui incapace di fare
la riforma che dice di volere, e che non va oltre le piccole cose. Allo
stesso modo, i rivoluzionisti non riescono a fare la rivoluzione né
la lasciano fare.
- Lei si definisce anche
come "credente laico": sempre questi giochi di parole.
- Sì, ma tutto ciò non è solo un gioco di parole, come Lei dice.
Credo che ci sia bisogno di rispettare le parole, che vada evitato il
consumo della parola per non dire nulla. Per esempio, la parola rivoluzione
è capita come presa della Bastiglia, distruzione, tabula rasa .... Come
risultato di tutto ciò, e dall'apparizione dei rivoluzionaristi, non
vi sono state delle vere rivoluzioni. Se uno guarda sul dizionario,
rivoluzione è esattamente il contrario, un atto fisico, un movimento
che un corpo fisico esegue intorno a sé stesso o intorno ad un punto
fisso: è un movimento perpetuo, è la continuità, non la rottura. Bisogna,
dunque, riappropriarsi della parola, bisogna cercare la precisione nel
linguaggio.
- E' un altro metodo
di lotta, quindi.
- Sì, è la lotta semantica, ed è molto importante. Perciò abbiamo
insistito sempre nel chiamare partito il nostro partito nonostante tutti
dicessero che era un movimento. Ma noi ci rifiutavamo di abbandonare
la parola partito, che rappresenta l'elemento necessario della democrazia
politica, nella quale crediamo. Non volevamo abbandonare questa parola
a un monopolio. Considero molto pericoloso accettare, per pigrizia,
che le parole diventino semplici sassi, e che vengano utilizzate in
modo indiscriminato, senza significazione. Credo che fu Silone a dire
che la vittoria della società totalitaria incominciò il giorno in cui
un uomo stanco, che viaggiava in treno, si incontrò con un'altro individuo
che chiacchierava incessantemente dicendo immense sciocchezze. Allora
il nostro uomo gli disse di sì, gli diede la ragione soltanto per toglierselo
di mezzo, e lì incominciò la resa alla violenza. Avrebbe dovuto dire:
"Non voglio parlare", oppure "Non sono d'accordo".
- Allora Lei propone
la lotta perpetua.
- Sì, una lotta non violenta, il dialogo. L'unica lotta che conosco
che valga la pena è il dialogo. E quasi sempre è drammatica.
- E Lei è capace di discutere
in tutti i treni?
- Io non vorrei servire di esempio: si dice che il saggio o il
santo pecchi sette volte al giorno, io ne pecco settanta. Di modo che
rischio, probabilmente, di fare la stessa cosa che fece il nostro uomo
sul treno. Ma dentro di me mi propongo di non farlo, e ci riesco abbastanza
spesso.
- Non è stancante essere
sempre in continuo combattimento?
- La verità è che è più faticoso non combattere, credere che sia
meglio non rispondere. Perché così stai coltivando la tua fatica anziché
la tua forza.
Pannella parla un francese
perfetto - sua madre era francese - e poco meno che emorragico, per
abbondanza e fluidità. La sua conversazione è ricca, piena di suggerimenti
e di immagini, ma si limita strettamente alla teoria. In svantaggio
per il mio francese insufficiente e balbettante, constato con sgomento
la mia incapacità di spezzare la torrenzialità del suo discorso perfetto,
del suo discorso politico. E, nonostante tutto, diffido di quelle persone
che non sono capaci di tartagliare neanche una volta nell'arco di due
ore: diffido di coloro che sembrano sapere in anticipo le risposte.
Mi impappino su una parola per la quinta volta nell'arco della intervista,
chiedo scusa per la poca proprietà di linguaggio.
- Non si preoccupi - dice
lui -. Lei parla bene il francese.
- Ma no - rispondo, credendo che la sua frase sia mera cortesia.
- Sì, sì, parla bene. Capisce tutto, si esprime appropriatamente.
- No - ripeto incespicando - Capisco bene ma non parlo.
- Come non parla? Lei sta parlando in francese in questo esatto istante.
- si incaponisce.
- Non è che una apparenza - dico scherzando.
- Allora le mie parole sono anche apparenza. Insisto, Lei parla bene
il francese - ripete combattivo.
- No. Mi impunto, visto come stanno le cose.
- O Lei accetta che parla bene il francese o non rispondo più alle domande
- dice assolutamente serio.
- Osservo che Lei mette in pratica il discutere in ogni singolo
treno
- Le avevo già detto che cerco di farlo - e sorride.
Come leader di un partito
che include rivendicazioni femministe, Pannella ha acquistato una gradevole
naturalezza sociale davanti alla donna: non fa il pappagallo (quanto
meno, non nello scontato stile classico), è gentilissimo, ma non si
sente costretto a togliermi o a mettermi il cappotto, a volte mi fa
accendere la sigaretta, altre no, a seconda della logica delle circostanze,
neanche batte ciglio quando allungo la mano verso il suo pacchetto di
sigarette, che era caduto più vicino a me che a lui.
- Lei sembra un uomo
ottimista.
- No, non lo sono.
- Ma è un uomo con speranza.
- Ho speranza, sì, ma non illusioni. Gli ottimisti hanno illusioni.
Io ho e cerco di avere speranze, e in più queste speranze devono essere
ragionevoli.
- Ma, Lei crede al progresso
dell'Umanità?
- Non necessariamente. Non sono un positivista di fine secolo.
So che lo sviluppo della storia umana è drammatico e spesso tragico.
La grandezza umana è sempre simile a sé stessa. Non c'è progresso, e
comunque può esservi regresso, questo dipende dalla persona. Io lotto
per il disarmo unilaterale, contro il nucleare... Se credessi nel progresso,
non mi darebbe fastidio; se fossi ottimista aspetterei che tutto si
sistemasse da solo. Io credo che, allo stesso modo che è possibile il
suicidio in una vita individuale, questo sia anche possibile nella storia,
nella civiltà. L'Umanità può suicidarsi...., o può essere assassinata.
E credo che la nostra grandezza storica risieda nel fatto che l'Umanità
non può ridursi alla ragione, ma senza la ragione può anche morire.
E' giornalista e ha cinquanta
anni. E' stato deputato al Parlamento Italiano e adesso lo è al Parlamento
Europeo. Da trenta anni circa lotta nelle file del Partito Radicale.
Ed è una lotta immaginativa e sorprendente: dagli scioperi della fame
e della sete (ve ne fu uno nel 1977 in protesta per l'incarcerazione
di diversi obiettori di coscienza spagnoli), che lo hanno fatto dimagrire
fino a venticinque chili in quaranta giorni, con principi di insufficienza
renale ed altre incrinature, fino ai tavoli che mettono i radicali per
le strade raccogliendo firme per chiedere i referendum: contro la caccia,
per esempio, ma anche contro la legge Cossiga sull'Ordine Pubblico,
contro l'ergastolo, contro la legge sui delitti di opinione, contro
il nucleare. Così, a furia di firme e di fame, i radicali annoverano
notevoli successi: l'apertura delle istituzioni psichiatriche, la vittoria
del divorzio e dell'aborto, e perfino l'influenza decisiva nelle dimissioni
del presidente Leone. Pannella, nel frattempo, ha tempo di scandalizzare
le masse: va in carcere per aver invitato il procuratore generale e
la polizia a farsi una canna per chiedere la depenalizzazione dei drogati,
compare in televisione imbavagliato per protestare contro il boicottaggio
e il dirigismo nell'informazione o dice "merde" al presidente
del Parlamento Europeo, e con una azione così candida provoca collassi.
Celibe, non ha macchina, abita in uno studio senza riscaldamento e si
compiace nel considerare sé stesso e il suo partito come i successori
del temperamento socratico.
- I radicali sono duramente
attaccati sia dalle destre che dalle sinistre. Le destre dicono di voi
che siete dei drogati e....
- E traditori della patria, e terroristi, e omosessuali, e pagliacci,
e infine, schifosi, sì.
- E le sinistre vi tacciano di fascisti.
- Di radical-fascisti, sì. Il fascismo è stata una pagina terribile,
grandiosa, della nostra storia, e in questo senso è tragicamente nobile,
come tutto ciò di cui si può far uso nella storia. Si potrà dire di
tutto sul fascismo, tranne che non faccia parte di noi stessi: non si
può dire che sia il demone degli altri, ma il nostro. Il fascismo ha
dei valori che combatto senza tregua, ma che rispetto, poiché furono
i valori che ci uccisero, che ci schiacciarono, che ci ridussero a sconfitti
durante gran parte di questo secolo. Si è detto che la borghesia italiana
aveva dato il peggio al fascismo, che tutto quello era grottesco, ma
è una bugia. Come ministro all'Educazione Pubblica c'era il miglior
filosofo italiano, Giovanni Gentile, per esempio. La borghesia italiana
ha dato il meglio di sé al fascismo, purtroppo. Adesso bisognerebbe
chiedersi chi siano gli eredi del fascismo: e sono coloro che si autodenominano
antifascisti: il clero, che stava dalla parte del fascismo; gli stalinisti,
che spesso stavano col fascismo - come negli accordi contro la Polonia...
-. Il Partito comunista, il socialista, i liberali e la Democrazia Cristiana
difendevano ancora nel 1968 il codice Rocco, mussoliniano, e siamo stati
noi i soli a lottare per farlo sparire. Tutte queste forze politiche,
come fecero i fascisti, hanno deciso di criminalizzare gli antichi fascisti,
e dichiarano: libertà per tutti, ma non per l'estrema destra. La differenza
fra un fascista e un antifascista è che l'antifascista dice all'altro:
finché tu non mi tocchi il codice penale, hai diritto a dire tutte le
stupidaggini che ti vengano in mente. Io ho provato spesso vergogna
antifascista degli "antifascisti". Ma questa lotta contro
il fascismo e la lunga traversata del deserto.
- Perché?
- Perché nel 1968 gli antifascisti dicevano che bisognava uccidere
i fascisti. Perché quelli che si credevano libertari passeggiavano per
le città con il pugno in alto, insultando, devastando, sentendosi molto
virili, molto maschi, sentendosi un esercito. Non avevano altra divisa
che i loro capelli lunghi, ma erano un esercito. Parlavano di morte,
e con la morte incomincia il fascismo. Era l'ideologia di eroi e martiri,
la necrofilia. La sinistra italiana è stata sempre divisa, ma la vecchia
e la nuova sinistra si sono sempre unite nei funerali. E' la sinistra
del funerale, mentre noi vogliamo essere la sinistra della felicità.
Di una felicità ragionevole, non rousseauniana. Noi crediamo di essere
antifascisti perché i fascisti collocano i loro demoni in posti concreti,
e noi no. Per noi il male è l'assenza del bene ma non ha una presenza
propria. Possediamo cose nemiche, ma non nemici. E quindi non vale la
pena ammazzare il peggior nemico possibile, è meglio andare a letto
con lui, perché si potranno sempre ottenere migliori risultati.
- Lei non ha mai manifestato
sentendosi parte di un "esercito", come Lei dice? Non ha sentito
mai quei valori marziali?.
- No. Ho vissuto la guerra molto giovane, e per me l'esercito è
la guerra, e la guerra, la morte. Tutto questo mi ha portato a riflettere.
Non ho mai sentito il bisogno di innestare la baionetta. Soltanto gli
impotenti hanno bisogno del potere.
- E tuttavia, voi radicali
salite a posti di potere, vi presentate alle elezioni, siete deputati....
- Io sono libertario, ma la maggior parte degli anarchici credono
che l'uomo sia buono e che il male si trovi nella società. Io non lo
credo. Credo che il bambino può essere più perverso, più malvagio che
un adulto. Credo che la verginità sia l'opposto dell'innocenza... Perché
l'innocenza è una possibile conquista, non è uno stadio di partenza.
Per cui, io direi ad alcuni dei miei compagni che la legge della giungla
è sterminare il più debole, e che preferisco la legge del taglione piuttosto
che la legge della giungla, anche se barbara. Credo in una concezione
socratica della legge, e vado oltre Socrate: la legge deve essere giusta,
e se non lo è questo fatto non può essere ignorato, bisogna disubbidirla
ufficialmente per sottolineare la sua ingiustizia con lo scandalo di
un processo e di una condanna. Il problema di salire a un posto ufficiale
dipende da ciò che si fa da quel posto. Se si lavora perché diminuisca
la violenza della struttura, va bene.
- Lei ha detto che un
radicale può arrivare a essere ministro, per esempio.
- E perché no? E a papa, e a re.
- O a regina.
- A regina, in primo luogo, perché siamo un partito matriarcale.
- So che il 55% dei militanti sono donne.
- Non è solo una questione di quantità ma di qualità.
- Accetterebbe Lei adesso un portafoglio di ministro?
- Certamente. Potrei anche diventare il leader della ETA basca se così
potessi diminuire la percentuale di violenza. Perché i violenti rassomigliano
tanto alla gente che uccidono. I terroristi credono che la paura sia
un valore, e io penso che da quel punto di vista sia lo stesso stare
nell'Opus Dei che in un gruppo di estrema sinistra.
-Lei sembra molto sicuro
delle sue teorie. Le farò una domanda che in realtà è un po' retorica,
perché quasi sicuramente mi risponde di sì ....
- In quel caso Le rispondo di no.
- Non si sente a volte scoraggiato, non arriva a pensare in certe
occasioni che tutto sia inutile, a perdere quel volontarismo della speranza?
- No
- No, certo.
- No, è che è diverso. Io a volte soffro di grossi dolori, e credo
che ci sia bisogno di fare una distinzione fra la malinconia e la sofferenza,
la noia e il dolore. Quando conosco delle persone, soprattutto se sono
uomini, spesso mi chiedo: questo tipo sarà di quelli che piangono o
di quelli che non piangono? E se deduco che è di quelli che non piangono,
mi dico: povero uomo, ha smesso di essere vivo. E questa domanda è per
me molto importante. Poiché soltanto se siamo vivi, molto vivi, possiamo
arrivare a possedere una grande felicità. Ma una grande felicità può
comportare anche un grande dolore. Non voglio dire con questo che essere
vivo sia soffrire, ma che è la capacità di essere toccato dall'esistenza
in un senso gradevole o doloroso. Io ho avuto dei momenti in cui ho
detto perfino: questo è atroce, è come se non avessi più voglia di andare
avanti. Ma sempre mi dico "è come se" poiché so che non è
vero.
- E, nonostante tutto,
la vita è qualcosa di assolutamente irragionevole. Non esiste nessuna
ragione obiettiva perché sia vissuta.
- Ma neanche una ragione
per non viverla. E in più, esiste un fatto ed è lo stare vivo. Ad ogni
modo, io non dico che tutto sia razionale. Credo che l'emotività sia
un'enorme ricchezza. Nonostante adesso esista una retorica, una demagogia
sull'emotività che mi sembra pericolosa.
- E' questo che intendevo
dire, appunto. Conosco molti uomini, soprattutto uomini, che costruiscono
discorsi perfetti sull'amore e l'emotività che, come Lei dice, è di
moda. Parlano e parlano sul recupero delle emozioni e sull'amore e,
nonostante tutto, sono incapaci della minima tenerezza reale....
- Sì, è una specie di schizofrenia, parlano dell'amore e non sanno amare.
Io, personalmente, ritengo che una carezza vincente sia un momento di
una importanza politica enorme. Credo che se si ama i geni, forse cambi
una milionesima parte il corso dell'antropologia, della trasmissione:
ciò che fai per amore, per fantasia, per intelligenza, ha una importanza
tremenda. A volte ho la sensazione di aver creato ed espresso politicamente
qualcosa di estrema importanza quando finisce o incomincia un momento
di grande ed intenso amore. A volte mi è successo di aver scelto di
non dormire una notte, e di aver fatto la scelta con grande convinzione,
con molta, con molta convinzione, con certezza. Scegliere di non dormire
una notte quando la mattina dopo dovevo fare, alle nove, un discorso
importante. Ed ho preferito rimanere senza dormire in assoluto per dialogare
con un'altra persona. E non ho letto niente, e non ho preparato il discorso.
E lo facevo perfettamente conscio che la fatica mi avrebbe fatto parlare
in un modo più disordinato, per associazione e non per logica formale,
ma che sarei arrivato li più intenso, più integro, più profondo, più
forte. Più capace di creare. Perciò dico che bisogna mantenere e attuare
le cose che si credono. E, certamente, se un politico ritiene che bisogna
lasciare da parte una possibilità di amore, di dialogo che nasce, perché
deve preparare un discorso, è un cattivo politico, credo io...
Non ha guardato l'orologio
una sola volta, e riesce a convincerti che la conversazione gli interessa,
cosa gradita, anche se se ne dubita. In realtà è un uomo capace di convincere
di qualsiasi cosa, ed è facile immaginarlo vendere la Torre Eiffel a
Onassis. Alla fine dell'intervista chiede cortesemente di vederla, [perché
è molto facile confondere un 'ne' con un 'nous' per esempio "solo
per quello", e impone con ferrea amabilità una agenda di consegna,
"perché a "EL PAIS"" spiega, "mi hanno detto
che l'intervista uscirà il 7 dicembre, e a me interessa che venga pubblicata
proprio quel giorno, perché torno in Spagna l'8 e mi conviene che sia
già uscita". Le conviene solo per affanno proselitista, per amor
di partito, di speranze, di credenze? In fin dei conti, Pannella è un
politico, cosa che lui non nega. Anche se è un politico socratico.
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