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Cronologia del Partito Radicale -
1985


"RADICALI ERAVAMO, RADICALI SIAMO"

di Marco Pannella ‘Il Manifesto’, 13 luglio 1985

Caro Paissan, mi felicito con il Manifesto per il dibattito che sembra voler aprire sul partito radicale. Dal 1960 in poi non ricordo che un numero estivo nel 1979 di Rinascita in cui due o tre intellettuali del Pci sembrarono volerlo avviare, senza seguito. E da un quarto di secolo, regolarmente, cerco di ammonire sulla dannosità per tutti di questa mancanza di analisi e di dibattito su una delle componenti politiche, sociali e civili che ha certo marcato con la sua presenza la nostra storia comune di tutti. Lo seguirò con molta attenzione e molto rispetto: se ci sarà, naturalmente.
Consentimi, come contributo e testimonianza di interesse, di metterti in guardia contro la "disinformazione" che fa vittime spesso proprio fra chi magari non ha mai mancato di essere attento alla vicenda del Pr, e che non ha però sufficientemente prestato attenzione al problema delle "fonti" della sua informazione.
Un esempio è quanto tu, con sicura, sicurissima buona fede, affermi, credi di sapere, e dai per scontato ("il manifesto", 11 luglio). "Marco Pannella che offre il suo appoggio alla giunta pentapartito a Napoli"; così esordisci. Ora è assolutamente vero che ho incessantemente annunciato il mio voto favorevole nel consiglio comunale di Napoli a qualsiasi forza partitica e di schieramento che, a Roma, avviasse a soluzione legislativa la nostra richiesta programmatica di "una grande Napoli" e di una "elezione diretta del sindaco", avendo in primo luogo esortato il Pci in questa direzione. Ma è almeno altrettanto certo che - non avendo ottenuto quanto richiesto - mai, in nessun caso, e per nessuna delibera, ho dato il mio voto, o il mio sostegno, al pentapartito e alla giunta. E sono il solo consigliere comunale napoletano a poterlo affermare.
La " stretta alleanza con Piccoli per la fame nel mondo", prosegui. Hai ragione, ma quanto abbiamo operato, patito, per anni e anni, per concludere quella alleanza con il Pci; e quante difficoltà incontrate anche da Berlinguer in questa direzione, con perfino la censura da parte dell'Unità a sue dichiarazioni al riguardo e il suo secco confermarla (abbiamo la registrazione a Radio Radicale). Ci si può criticare per il nostro obiettivo, dunque, non per aver valorizzato al massimo l'adesione ad esso del presidente della Dc. E quanti ricordano che in realtà la legge Piccoli è stata massacrata proprio grazie al Pci e che quella ora in vigore è stata votata dal Pci e da Piccoli, mentre noi esprimevamo contro di essa una dichiarazione di voto contraria? o che la "legge Piccoli", nel suo enunciato fondamentale non era che una proposta legislativa di 3.000 sindaci, a cominciare da Novelli, Zangheri, Valenzi, Vetere?
"E' sempre Pannella che si autocandida a membro del governo Craxi (sic)..." Certo. Ma questo sarebbe indice di cosa? Del non essere più di "sinistra"? E cosa mai dovevo fare se ritenevo in coscienza di poter forse riuscire a far vivere alcune centinaia di migliaia di persone in più, avendo da e per sei anni con tutto il mio partito, strenuamente e ovunque, lottato per fare, capire, preparare, rendere possibile un certo intervento? C'è metodo più radicale, storicamente parlando, di questo? E non ti risulta che solamente in tal modo riuscimmo ad imporre giorno dopo giorno, ancora una volta con digiuni, con denunce alla magistratura ("concorso in genocidio", tra l'altro, contro Craxi e Andreotti) con questa iniziativa ed altre di stesso tipo la pressione necessaria perché il ritardo non divenisse ancora più grave, indefinito?
Certo, potete far vostre le tesi di Petrucci, dell'Ipalmo, del Dipartimento, dei Matteucci, dei Calchi Novati; o no. Potete legittimamente criticarci e attaccarci per la nostra scelta di fondo, non per la coerenza con cui la portiamo avanti, e non - per questo! - ritenere che siamo contro "la sinistra" contro di noi. Ti assicuro che sul divorzio, negli anni in cui la battaglia la si impostò e la si vinse, fino al 24 marzo 1974, (a volte anche dal "manifesto" di allora) fummo attaccati costantemente e con ferocia dalla "sinistra" molto più di quanto non accadde da qualche anno; e lo fummo da tutti fino dal 1965 al 1970.
"Sostegno al decisionismo craxiano", continui. Dal 1956, all'incirca, sono stato convinto dal Maurice Duverger al sistema maggioritario. Da allora non ho mai cambiato opinione. Ritengo che la democrazia tragga vantaggio dal voto "per il governo", piuttosto che "per la rappresentanza" istituzionale e parlamentare di qualsiasi forza politica. Governo forte, Parlamento forte. Quando nel 1977, nel 1978 e nel 1980 governi Andreotti e Cossiga posero la fiducia contro la sola nostra opposizione ai loro decreti, noi dichiarammo reiteratamente la perfetta legittimità di questa procedura, che "ci onorava", "onorava il parlamento e il governo", "esaltava la responsabilità e il valore dello scontro politico". In polemica con il democraticismo, non di rado strumentale, ipocrita e trasformista del resto della sinistra. Anche qui, in che cosa saremmo mutati? Ora come allora, possiamo certo sbagliare; o no. Ma eravamo "decisionisti Andreottiani" allora; e "Craxiani" oggi?
Sul costo del lavoro, sulla scala mobile, con nostre riserve, si era sempre agito attraverso decreti. Non siamo né siamo stati dei "neocorporativisti". Siamo tendenzialmente sulla linea salvemiana, di Ernesto Rossi, o anglosassone, anche su questo fronte. Per questo saremmo "mutati" contro o fuori della sinistra?
E ancora; "l'egemonismo" contro le liste verdi. Caro Paissan, è vero che anche a caval donato è bene guardare in bocca, ma a condizione che non si dimentichi il dono e il cavallo. Cosa resterà fra qualche anno di questa pagina? Quel che abbiamo voluto, contro quasi tutti: cioè che il "soggetto verde", elettoralmente parlando, nascesse e si affermasse. Che ci fosse al computo finale dei voti "nazionali".
Che il maggior numero di elettori radicali le votasse. Che avessero spazio elettorale nelle televisioni. Che gli eletti fossero, alla fine, "i verdi". Che non si rinviasse a domani, sempre con l'alibi di un paese o di un movimento immaturo, la nascita di questo soggetto politico, "nazionale".
Ora, personalmente, da militante cercherò di impedire che si impedisca alle prossime elezioni politiche che questo stesso soggetto si presenti, in concorrenza con quello radicale; e dò per scontato che anche in questa occasione molti degli eletti sentiranno il bisogno di ricambiarci l'attenzione in modo polemico. Quel che importa è che ci sia, ci siano.
E' un "nostro" obiettivo politico. Lo si può criticare, certo. Ma perché non cercare di comprendere in nome di quale strategia ci muoviamo, anziché continuare con il linciaggio fondato su episodi marginali, nei momenti essenziali con falsità grossolane. Tony Negri ora ci disprezza: è un suo diritto. Ma torneremmo a candidarlo e ad eleggerlo, nel quadro di allora, perché necessario alla nostra strategia in tema di difesa del diritto e della libertà. Questo è l'essenziale, e su questo andiamo compresi e giudicati.
Potrei continuare, ma non voglio abusare della vostra ospitalità; poiché scrivo, invece, per tentare di onorarla, una volta di più; di assecondarla in una direzione, anziché nell'altra. Come, mi pare, sia già riuscito egregiamente a fare Luigi Manconi.
Se in un dibattito "sul" partito radicale si dà per scontato proprio quello che deve essere oggetto del dibattito e della ricerca di comprensione, difficilmente potrebbe avere il successo che tutti ci auguriamo.
Auguri di buon lavoro, a te e a tutti voi. 6099


UNA LEGGE EUROPEA PER L'AFFERMAZIONE DI COSCIENZA

di Olivier Dupuis NR16 luglio 1985

Riassumere in poche righe quello che è stato il dibattito di tutta una giornata di lavori non è cosa facile. Erano infatti quasi 200 gli obiettori/affermatori di coscienza, antimilitaristi e pacifisti di tutti i paesi della Comunità europea, compresa Spagna e Portogallo, presenti all'appuntamento del 10 luglio a Lussemburgo. Alla riunione hanno partecipato anche una ventina di parlamentari europei e il commissario europeo per "l'Europa dei cittadini", Carlo Ripa di Meana.
Nella sua relazione introduttiva, Roberto Cicciomessere ha posto al centro del dibattito la questione della difesa. Alzare il tiro per non continuare in rivendicazioni di tipo strettamente sindacale, le quali (bisogna prenderne coscienza) hanno segnato la morte o almeno il letargo del o dei movimenti di obiettori di coscienza in tutta Europa.
Interrogarsi sulle minacce alla sicurezza che gravano oggi sulle nostre società e quindi interrogarsi sulla fame e la miseria nel Sud del mondo, sulle ingiustizie presenti ovunque nel mondo e in particolare sulla privazione di libertà civili, politiche e sindacali in tutti i paesi a regime totalitario, soprattutto in quelli dell'Est europeo, è il punto di partenza per una nuova riflessione sull'obiezione di coscienza.
Numerosi partecipanti riconoscevano la necessità di uscire dal dibattito ristretto sull'obiezione di coscienza come manifestazione di una scelta individuale, poiché una tale scelta non porta più con sé i germi di un'"altra" difesa ma diventa sempre di più espressione di una facilitazione o di una deroga concessa dallo Stato, dagli Stati.
Si è dunque riconosciuta l'indispensabilità di un passaggio al livello politico, o meglio di un ritorno.
Tendenza all'accordo quindi sulla necessità di fare del diritto all'obiezione di coscienza un diritto a pieno titolo, senza alcuna discriminazione con coloro che svolgono il servizio militare.
Ma sulla necessità di promuovere una legislazione europea uniforme si sono manifestate le prime divergenze di fondo. I "Gruenen" tedeschi, per la voce di Frank Schwalba-Hoth, eurodeputato di questo partito, si dichiaravano ostili a tutte le azioni in questo senso. I percorsi storici sono spesso sorprendenti. Nell'intervento di Schwalba-Hoth si sono ravvisate tutte le vecchie analisi neutraliste, vecchie, come la sconfitta del grande movimento pacifista degli anni trenta: una Germania "fuori del mondo", una Germania nella quale il fine dell'azione politica si limiterebbe al vecchio sogno di una Germania riunificata, neutrale e denuclearizzata.
Alcuni interventi si sono persi nel labirinto della difesa di domani. Ossessionati dallo spettro di una futura distruzione nucleare, sacrificando gli sterminati e gli sterminandi sull'altare di una difesa popolare e nonviolenta avvenire.
Questo convegno è stato dunque la prima occasione di dibattito e di confronto su modi diversi di intendere la difesa all'interno dello stesso movimento "antimilitarista" o "pacifista".
Oggi la difesa, una nuova difesa per l'Europa, passa per il riconoscimento dell'abisso che separa i valori di vita, di diritto e di democrazia che essa proclama e la negazione obiettiva di quei valori di vita nel Sud del mondo, di diritto e di democrazia all'Est, abisso che è nient'altro che un nuovo e mostruoso nazismo.
Ciò non basta. Senza ingerenza, senza mobilitazione delle coscienze e delle risorse degli Stati cosiddetti "ricchi", siamo condannati a fare la contabilità degli sterminati. Questo comporta la morte parallela dei valori della nostra società e quindi la morte della società stessa. Il vero dibattito oggi non può non essere quello tra una politica di intervento per il diritto alla vita, per la giustizia e la democrazia ovunque nel mondo, quindi per una politica di sicurezza e una politica neutralistica, eurocentrista, di "non-guerra" in Europa, ovvero una politica di pace. 4715


Non possiamo non dirci radicali

di Alexander Langer IL MANIFESTO, 7 agosto 1985

Confesso che a volte sento un certo imbarazzo a confessare che sono "amico dei radicali" (calma, non lo sono sempre e ad ogni costo...). A tanti nella sinistra, ed anche tra i verdi o altri abitanti del pianeta politico, viene subito un po' di puzza sotto il naso. Anche "il manifesto" sembra aver cambiato atteggiamento di fondo solo da quando ha sperimentato in un momento esiziale della propria storia la decisiva solidarietà radicale, che ha costretto tanti altri a sganciare quattrini in favore della sopravvivenza di un giornale non certo filo-radicale.
Eppure, da qualche tempo in qua, mi sembra di scorgere molti "pentiti" che da antiradicali che erano stati una volta, ora tentano di diventarne emuli - contenti poi che le scelte tattiche contingenti del Pr permettano loro di prenderne ugualmente le distanze. Valga per tutti l'esempio un po' patetico di Mario Capanna che fa ostruzionismo in parlamento ed occupa la Camera, si è convertito ai sit-in non-violenti ed ai referendum, esalta l'obiezione di coscienza e si batte contro il finanziamento ai partiti.
L'articolo di Filippo Gentiloni sul manifesto del 25 luglio ("Il radicale di poca fede") sembra quasi una professione di tardivo e mai espresso amore e di occasione mancate: "sero te amavi...". Succede a molti, mi pare. I pacifisti finiti nel vicolo cieco della battaglia tutta imperniata contro gli euromissili ora cominciano a diventare più seriamente antimilitaristi ed apprezzano la battaglia contro le spese militari, che per lungo tempo i radicali avevano condotto da soli. E dalle secche dello stallo est-ovest ora sono in molti a volgere finalmente la loro attenzione all'asse prioritario nord-sud (come la battaglia radicale "contro lo sterminio per fame" da anni intende proporre). Gli ecologisti scoprono, talvolta con stupore, che i radicali da anni avevano proposto un referendum antinucleare (giudicato, allora, da molti come una fuga in avanti) ed erano in prima fila contro la vivisezione, la caccia, il tiro al piccione e così via. I "verdi" che cominciano a fare politica si trovano a riprodurre metodi di azione diretta e di iniziativa non-violenta che ormai anche nel linguaggio comune si chiamano "radicalate" (o "pannellate"), ed i cattolici non si vergognano più di esprimere qualche apprezzamento per certe azioni radicali: contro il concordato e la scuola confessionale i cattolici del dissenso, contro la fame nel mondo quelli del consenso. Operai, comunisti e demoproletari ormai hanno imparato ad impugnare l'arma del referendum, a lungo disprezzata ed anche ora forse usata a sproposito, e non trovano più ridicolo il digiuno, anzi, vi ricorrono. Ed un po' tutti quanti parlano di diritti civili, apprezzano la libertà, sessuale e le battaglie contro, le discriminazioni in proposito e protestano contro la partitocrazia. Insomma: pare quasi che oggi si scopra il "perché non ci si possa non dire radicali"...
Bisognerà dunque ammettere che i radicali hanno, nel corso di quest'ultimo decennio (ma a volte anche prima: contro i reati di opinione, contro il Concordato, per il divorzio...), "bene meritato", trovandosi spesso a condurre isolate battaglie di avanguardia che solo parecchio tempo dopo sono diventate patrimonio comune di più ampi settori di opinione e nelle quali hanno saputo usare magistralmente delle piccole forze per ottenere grandi effetti: perché anche questa è una caratteristica radicale importante, di non puntare solo sulla testimonianza, sul "l'avevamo detto", ma sulla concreta efficacia istituzionale delle iniziative, chiamando tutti con petulanza a misurarcisi. Valga per tutti l'esempio delle battaglie contro le leggi di emergenza e "per una giustizia giusta" (processo Tortora e caso Negri compresi).
Perché allora l'apprezzamento di cui i radicali godono sulla piazza (specie di sinistra) è così scarso e la collaborazione con loro appare così difficile? Perché tante volte si ha davvero l'impressione che certa opinione di sinistra i radicali li abbia abrogati, tanto che persino una persona di grande equilibrio e serenità come Laura Conti, in un famoso articolo sul "manifesto" del 29 maggio, veda in loro dei verdi d'accatto privi di consistenza e prospettiva? C'è da meravigliarsi se poi si sviluppano manie di persecuzione?
Certamente in parte vi influiscono delle questioni che definirei "quasi epidermiche". I radicali non hanno mai accettato l'egemonia comunista sulla sinistra e si battono anzi con vigore e spesso con acrimonia per demolirla. Non sono marxisti, e talvolta - pur nella relativa vaghezza della loro impostazione culturale - fanno i militanti anti-marxisti. Non amano e quindi disattendono (anzi, più spesso denigrano) tutto il convenzionale "strumentario unitario" della sinistra che va dai "dibattiti unitari" ai "cortei unitari". Cercano la provocazione, anche nella e contro la sinistra (e con particolare e talvolta senz'altro ingiustificato accanimento contro il Pci), e lavorano per confondere gli schieramenti - anche se poi a loro volta ed a loro modo ne ricreano, purtroppo.
I radicali hanno una (non infondata) fama di essere "inaffidabili", nel senso che possono cambiare tono ed alleanza, a seconda degli obiettivi e delle polemiche, senza tanti complimenti. Ne sanno qualcosa Flaminio Piccoli (partner nella legge sulla fame, denunciato per i suoi rapporti con Pazienza), Marco Boato (ex-eletto nelle liste radicali, querelato da Pannella) e lo stesso "manifesto".
Persino il successo dei radicali, che a volte riescono a costruire ponti ed alleanze dove altri ne dissertano soltanto (con i socialisti, con i democristiani, con i "laici", con certi paesi africani...), può diventare motivo di risentimento e di livore anti-radicale.
Per sintetizzare: la sinistra - ben al di là di singole iniziative o di linea politica oggi attaccate, ma poi riabilitate ed apprezzate anni dopo - ai radicali finora non perdona di non emanare lo stesso suo "Stallgeruch" (questa parola tedesca, che mi pare Cacciari non usi, vuol dire "fetore di stalla": quel caldo ed umido odore di intimità che fa distinguere "i nostri" dagli "altri").
Bene: io non credo che si possa e si debba continuare a far politica con lo "Stallgeruch". Neanche nei rapporti fra radicali e non. Bisogna avere l'onestà di dirlo apertamente, anche a sinistra, anche fra i verdi. Tanti intellettuali, sindacalisti, opinion-makers, politologi, giornalisti, politici e militanti dovrebbero, a mio parere, rivedere finalmente (anche se è tardi, forse troppo tardi) il loro atteggiamento di fondo verso i radicali. Senza lasciarsi sviare dalle loro intemperanze e dai loro vittimismi.
"Non demonizzare" (per usare una parola cara al Pr, i radicali non significa santificarli ad occhi chiusi. Né disconoscere la realtà. Che ci indica un partito radicale sostanzialmente identificabile nel suo gruppo dirigente, assai compatto e con una dialettica interna assolutamente impercepibile, nonostante le "dirette" di Radio radicale dai consigli federativi. E questo è sicuramente un vantaggio sotto il profilo del Pr come "forza di pronto intervento", ma umilia e disperde tante intelligenze "di periferia" (che però potrebbero trovare - ed in parte hanno trovato - un utile terreno di impegno nelle liste verdi) e consentirà difficilmente una crescita ed un'articolazione democratica del partito. Da tempo poi il Pr non riesce ad integrare persone nuove e significative, a livelli di rilievo, ed ha perso gran parte di quell'allargamento che nel 1979 l'aveva portato al 3 per cento alla Camera; anche alcuni significativi pezzi di storia e di militanza radicale oggi se ne sono andati.
Il Pr è un corpo politico estremamente "partitista": che agisce da partito, cerca in ogni momento l'affermazione di partito: come dei soggetti politici, tendenzialmente responsabili di tutto, che agiscono a tutto campo e con le logiche della politica partitica (a questo proposito continueranno ad esserci delle tensioni con i "verdi": non tanto per la "prevaricazione radicale" quanto per la fortissima pressione radicale perché i "verdi" diventino - nella sostanza, il nome poco importa - un partito).
Il Pr sotto questo profilo tende davvero a voler strumentalizzare tutto, e non si vergogna di proporre a destra ed a manca di "strumentalizzare" anche il partito radicale stesso (per i detenuti, per i verdi, per gli omosessuali...): la traduzione "in politica" di ogni cosa è la suprema strumentalizzazione, giustificata dalla necessità e dalla possibilità di vincere, di affermare degli obiettivi, di conseguire degli effetti.
Anche per questa ragione il Pr - soprattutto per chi non è e non vuole diventare un partito - è un partner assai difficile. "Chi non è con me, è contro di me", sembra il motto della sua politica di alleanze - anzi, come tempo fa l'Europeo (mi pare) aveva efficacemente sintetizzato, sotto l'immagine di Marco Pannella: "chi non è con me, è contro di sé". Potrebbe essere davvero definita così la quintessenza della "presunzione" (senza voler dare un connotato tutto negativo a questo concetto) e della politica radicale.
Può darsi che tra qualche tempo il Pr abbia esaurito la sua spinta propulsiva e possa, di conseguenza, accontentarsi di avere ormai "sfondato" su tanti fronti e disseminato tutto il campo politico di spunti, iniziative, idee, effetti, in una sorta di irradiazione "ellenistica" della propria cultura politica che potrebbe consentire ai radicali di sparire dalla scena in quanto tali. A volte mi pare che Marco Pannella veda un futuro già abbastanza ravvicinato senza un partito radicale a sé stante, autonomo e provocatorio soggetto politico. Ed infatti non è escluso che anche su un nuovo fronte, che presto sarà di attualità generale, i radicali possano tornare a sorprendere. Non è immaginabile che i cambiamenti prossimi venturi nella società e nella politica italiana possano passare attraverso la cruna dell'ago dell'attuale configurazione partitica. Chissà se il Pr non darà per primo il via ad un rimescolamento trasversale, che dovrà coinvolgere e travolgere collocazioni politiche, funzionamenti "interni", forme di aggregazione e di azione, culture politiche e pratiche della democrazia - e la stessa nozione ed esistenza di "partiti" quali li conosciamo oggi. Il privilegio di non aver una numerosa e stabile base e di non disporre di un grande apparato, insieme all'inventiva di cui finora ha sempre dato prova, potrebbero predestinare il Pr ad aprire nuove strade sul terreno della grande riforma del sistema dei partiti. Con prevedibile beneficio per tutti coloro che non si rassegnano a stanche riedizioni o aggiustamenti ottici dell'universo politico deja vu.
Questo quanto ad un futuro non lontano. Ma per il presente - perché lasciare ai soli socialisti il monopolio di rapporti seri e reciproci con i radicali? 6093


Un governo ombra di nome Rai

di Marco Pannella IL MANIFESTO, 13 agosto 1985

Mi si consenta di porre, con qualche urgenza interiore ed obiettiva, una pubblica domanda al mondo politico, ed a quelli del diritto e dell'informazione.
Cosa sarebbe accaduto in italia, nei giorni scorsi, se la Televisione di Stato non avesse deciso di censurare gli incidenti di Palermo e di disinformare, contro l'informazione della carta stampata, l'opinione pubblica? Cosa sarebbero stati sollecitati a fare il Governo e tutte le istituzioni, in tal senso?
Notizie, immagini, senza precedenti, gravissime, inedite; il Presidente della Repubblica in più momenti accerchiato da gruppi di persone dall'aria violenta ed esasperata, come teppisti; il Ministro degli Interni, il capo della Polizia, altissime autorità dello Stato aggrediti, insultati, sputati. Operatori televisivi e fotografi brutalizzati, con rullini e pellicole gettati in terra e calpestati, taccuini di appunti strappati dalle mani dei giornalisti, parlamentari e Segretari di Partito aggrediti anch'essi.
I cittadini sanno che per due parole sgarbate si può andare in galera per oltraggio; che due fischi o cartelloni di protesta in manifestazioni ufficiali comportano l'allontanamento brusco e la denuncia per manifestazione non autorizzata; i disoccupati, i pensionati, gli invalidi, i lavoratori hanno appreso che una manifestazione che comporti anche solo qualche insulto rispetto a qualche agente comporta reazioni in definitiva eccessive ma pur sempre legittime. Dinanzi a quelle immagini in molti avrebbero probabilmente pensato che cosa sarebbe potuto accadere se la mafia avesse voluto, in quei momenti, tornare all'attacco, effettuare una strage, colpire il Presidente Cossiga: e quali atroci dubbi sarebbero per di più circolati. Insomma : quelle scene "non" censurate, "non" rubate alla riflessione degli italiani avrebbero aiutato e spinto il Governo e le forze politiche nella direzione giusta, gli avrebbero dato coraggio e forza democratica, e sarebbero stati premiati tutti coloro che dinanzi alla barbarie di un nemico qualsiasi, oggi la mafia, agiscono e reagiscono responsabilmente, non (sia pure per un momento) passando ad operare nella stessa direzione di quello. Penso anche alla immensa maggioranza dei membri delle forze dell'ordine, ed alle loro famiglie, ancor più che agli altri.
E, ancora, se qualche giorno prima la Televisione di Stato avesse mostrato, con tutta la pietà e la discrezione del caso, e come ha pur osato fare qualche televisione privata palermitana, lo stato del corpo di Salvatore Marino, quale sarebbe stata la reazione della immensa maggioranza degli italiani? Vi sarebbe stato spazio per le polemiche contro le rispettose e civili parole del Ministro degli Interni, che presentava come atti dovuti anche ai funzionari sollevati dai loro specifici incarichi i tre provvedimenti cautelativi presi dal Governo?
Risponda ciascuno come crede, in coscienza. A me preme indicare come la responsabilità assunta dalla Rai-Tv (in particolare dai telegiornali di massimo ascolto della Rai1) è ed è stata di enorme rilievo e peso politico; si è trattato di un atto che pesa quanto un vero e proprio atto di Governo (e di Governo autoritario), letteralmente irresponsabile e senza appello, ad un tempo palese ed occulto, e che ha condizionato e condiziona, deliberatamente, il Governo legale e responsabile, stravolgendo la realtà, negandone la conoscenza ai cittadini, predeterminandone con la negazione della verità le scelte e le opinioni. In questo caso ci si è associati a quanti hanno reso il compito dei colleghi giornalisti della carta stampata difficile, pericoloso, rimproverandogli d'aver fatto con coraggio e con prudenza il loro mestiere; ed a questi giornalisti tutti dobbiamo gratitudine e solidale riconoscenza, perchè davvero hanno in genere fatto per la verità più di quanto l'atmosfera concedesse.
In realtà questo Governo - occulto ed irresponsabile - nella direzione del condizionamento del funzionamento delle istituzioni e del formarsi della volontà popolare, è fatto di ogni giorno, da anni. Porterò in altra sede, quella opportuna e necessaria, personali testimonianze di quanto statisti e politici ai vertici dello Stato abbiano in questi anni a volte tentato di correggere le più proterve o appariscenti degenerazioni di questo centro di potere; e tentato inutilmente. Esistono, comunque, numerose delibere della Commissione di Vigilanza parlamentare, controllatissima dalla Dc e dal potere partitocratico, che rimproverano e denunciano il mancato rispetto di leggi e di indirizzi regolamentari.
Unico risultato: l'anonimo "potere di Governo" di un pugno di funzionari e giornalisti di Stato s'accresce ogni giorno di più, usurpa quello del governo istituzionale, del Parlamento, della legge.
Ora c'è da chiedersi se tutto questo può davvero continuare a non riguardare la giustizia. Non solamente il pur prestigioso "Centro di iniziativa giuridica Piero Calamandrei", ma molti altri, cominciano ad indicare nel perimetro delle previsioni del codice penale l'indiscutibile, vero attacco ai diritti politici e costituzionali del cittadino, l'indiscutibile reato associativo, persistente e in corso, che si compie per poter violare in modo sistematico e continuato leggi perentorie, ma che non contengono in se' stesse la previsione di sanzioni specifiche. In tal senso, da anni e in crescendo, esistono denunce ed esposti che sembrano dormire in alcune Procure e Procure Generali, a cominciare da quella di Roma. Denunce infondate? Si abbia almeno il coraggio e l'onestà di dichiararlo...
Comunque ci sembra incauto negare che questo problema esista, o far come se non esistesse. Perchè in tal modo il Paese, cui si nega di vedere, sapere, ascoltare quando scoppia un grave caso di ammutinamento proprio mentre il nemico spara ed è all'attacco, si troverebbe a doverlo inconsapevolmente subire ogni ora di ogni giorno, sotto i suoi occhi, nelle sue case, e proprio a partire dai grandi "Palazzi di vetro" dell'informazione di Stato. 2083


Con le riforme pace e libertà in Sudafrica

  di Marco Pannella "AVANTI" 6 settembre 1985

SOMMARIO: Tutti i democratici "tifano" per la rivolta e lo scontro violento delle opposizioni sudafricane senza alcuna riflessione sulle conseguenze "iraniane" che potrebbero prodursi. E' necessario invece comprendere quali sono le ragioni e le fonti di forza del regime sudafricano (i livelli di vita decisamente superiori rispetto al resto dell'Africa; la sua volontà di essere, nonostante l'apartheid, uno "Stato di diritto") per utilizzarle al fine di concepire "un assetto e una civiltà federale, di interdipendenza, fondata sulla tolleranza, la libertà e la giustizia".

Non è una "provocazione", ma l'espressione di "riflessioni" che qualcuno di noi radicali va facendo da anni e che io stesso ho avuto modo di fare ufficialmente, quale membro del Comitato Paritario CEE - ACP anche a Roma, due anni or sono, con l'ascolto denso di rispetto e anche di fiducia delle delegazioni dei 61 (allora) paesi di Africa, Caraibi, e Pacifico che vi parteciparono. Dunque è ancor più grave.
Solamente per timore, forse viltà, o forse per la necessaria virtù di prudenza (e non di "calcoli"), non l'ho fatto con particolare puntualità o vigore, sinora, nel dibattito politico nazionale. Ma, nelle prossime settimane, in Parlamento italiano ed in quello europeo, il dibattito non potrà mancare. Tanto vale, allora, iniziarlo subito e nei sacri santuari.
Le immagini che ci giungono ormai quotidianamente da Città del Capo e dall'intero Sudafrica sono di manifestazioni che non sarebbero tollerate in nessuna capitale occidentale (se non, a quanto pare, a Santiago del Cile). La Televisione del mondo intero (come già per Sabra e Chatila, o per qualsiasi anche minore delitto "attribuibile" ad Israele; ma non per i Sabra e Chatila quotidiani o settimanali "dovuti" a questa o quella fazione libanese-siriana) è libera e capace di trasmetterci queste immagini. Dopo due mesi di incidenti sappiamo che si tratta ormai di oltre un migliaio di morti, ivi inclusi i "neri", "meticci", "indiani" traditori e collaboratori.
Nei prossimi giorni avremo grandi prove di forza; probabilmente con molte vittime e una progressione dello stato di guerra civile. Anche il vescovo Tutu ha ritenuto ormai di dover abdicare dalla scelta non violenta, che Mandela ritiene di dover escludere dalle possibilità stesse di lotta contro l'apartheid. Il presidente Reagan, pur fra contraddizioni e estemporanee dichiarazioni "moderate", eleva anche lui la bandiera della abolizione dell'"apartheid". Non c'è quasi persona democratica o seria, o che tale è ritenuta e si ritiene, al mondo che non "tifi" per la rivolta delle opposizioni, ed il loro successo.
I "liberals" sud-africani è come se non esistessero: è il risultato ottenuto dopo decenni, finalmente, dagli intransigenti fra gli oppressori e fra gli oppressi.
Venticinque, venti anni fa era possibile ad alcuni radicali tentare di accreditare i rappresentanti "politici" della maggioranza buddista-non violenta dell'Indocina, ben presto travolti con loro in un quadro di lotta in cui l'opinione pubblica "internazionale" diveniva in realtà l'unica fonte di investitura e forza di sopravvivenza per le fazioni in lotta ed in guerra. Oggi sembra non esserci nemmeno questa possibilità. Comunque non siamo in grado di coltivarla.
Allora, come ora, tutto doveva essere interno ad una ideologia borghese divenuta da cultura civiltà, quindi nella sua essenza stessa totalitaria e terroristica. I parametri di giudizio sono univoci: il regime dell'"apartheid" è barbaro, i regimi che lo combattono sono civili, o civili quanto è possibile nelle situazioni date.
I diritti civili e politici dei cittadini neri sono negati, conculcati. La legge è razzista; fondata su guerra di razze è quindi fondata sulla paura, la paura che prova la razza privilegiata, dominante, oppressiva e che vuole incutere in quella dominata e oppressa. Lo dicono le leggi. "Leggi che sono rispettate". Che non hanno fonte democratica se non, e con quali ipoteche culturali e morali, all'interno della razza bianca. La ricchezza del Sudafrica è spartita in modo scandalosamente ingiusto. Il lavoro dei neri, da più di un secolo, ne ha consentito l'accumulazione. Nelle miniere di diamanti e di rame le condizioni di lavoro sono state bestiali, i tassi di mortalità dei minatori erano da eccidio continuo. Le leggi non riconoscevano le malattie professionali, o le riconoscevano solamente per pochi privilegiati. E quando le leggi sono mutate, l'amministrazione dello stato che aveva il compito di attuarle non ha più funzionato, molto a lungo e ancora funziona in modo intollerabile. Il principio del "una testa, un voto" non è ancora accolto nemmeno in linea di principio...
Che vale continuare? Venature di pensiero nazista irrorano l'intero sistema sudafricano. Come nella Germania del 1930? Come nella nostra Europa? L'interrogativo non è retorico.
Occorre dunque, e subito (è necessaria - almeno qui - una rivoluzione, un processo rivoluzionario: cioè un millimetro al giorno, magari, ma sempre e ferreamente nel tentativo di andare nella direzione giusta), edificare una alternativa. A partire dall'esistente, qual è, altrimenti si rischia di ripeterlo, peggiorato, nell'illusione di distruggerlo tutto e subito, per modificarlo sin dalle radici. Cioè si tratta di fare storia, di concepirla, con tutta la follia, ragionevole e necessaria in situazioni del genere (e magari anche in altre).
E' quindi necessario far coincidere analisi e anche riflessioni con una necessità teorica ormai riconosciuta da tutti, credo. Occorre comprendere (e non limitarsi a deprecare) quale sia la ragione o quali siano le fonti della forza di questo sistema e di questo regime. Altrimenti non li si batteranno mai; gli si potrà, tutt'al più, come in Cambogia, o in tanta parte dell'ex-Indocina, come in Iran, come in Uganda o in Centrafrica (e lasciatemi bestemmiare: forse a Cuba) succedere, divenirne i legittimi eredi; non altro se non nel peggio.
Una ragione di oggettiva forza storica è da ricercarsi, penso, nel fatto che i tassi di mortalità delle popolazioni nere del Sudafrica, il loro livello di vita sono incommensurabilmente migliori rispetto a quelli della stragrande, immensa maggioranza delle popolazioni africane. Non v'è rapporto se non quello che intercorre fra una vergognosa condizione di ingiustizia interna al vivere, ed al vivere civile, come nelle terre nere del Sudafrica, da una parte, ed una vita assolutamente affamata, irregistrabile ed irregistrata, letteralmente volta alla morte precoce, senza rapporto con il vivere ed il vivere civile, non solamente per l'80% delle popolazioni ammucchiate a Lagos, o disperse e distrutte nel Sahel o nel Corno d'Africa, o "autogovernate" in Uganda, in Centrafrica, dall'altra. V'è qualche oasi: e la più vicina è quella del Ruanda, dopo che la pratica dell'apartheid radicale, e non scritto in nessun luogo, ha assicurato l'ordine con gli stermini dei ruandesi da parte dei burundesi e dei burundesi da parte dei ruandesi.
L'aiuto delle televisioni, in questo caso in Sudafrica, è grande: quando arrivano i "nostri", in rivolta in nome dei diritti civili, e per conquistarli per sè e per gli altri, essi ci appaiono nelle strade, nelle sommosse, davvero "nostri", fisicamente, per gli abiti, per le tattiche di strada, per gli atteggiamenti nei processi. Ed è un orrore pensare che a volte sono condannati a morte, come a decine di migliaia lo saranno stati negli anni ottanta, altri, in prevalenza neri, ma non solo in quegli USA che giustamente vengono addebitati a molti di noi radicali come la società cui guardiamo con interesse estremo, a volte con amore.
Il figlio di Tutu è stato arrestato per un giorno, e deve esser processato per direttissima subito, e rischierà di dover subito scontare mesi di prigione: ha urlato ai giudici che - in applicazione delle leggi Cossiga o Reale del luogo - interrogavano imputati di dieci anni, l'invettiva di "buffoni!". Io, invece, sono ancora a piede libero, malgrado la puntuale ottenuta autorizzazione a procedere, perchè ero deputato e non poterono arrestarmi nemmeno in flagranza, quando gridai ai giudici del Tribunale Militare che si erano impossessati del capitano Margheritò, malgrado appartenesse sicuramente alla giustizia penale ordinaria :"Felloni!". Ma cosa sarebbe accaduto ad un mio ipotetico figlio? Quanto avrebbe atteso in galera il processo? A quanto sarebbe stato condannato?
Inoltre, ho l'impressione che l'ignoranza sulla effettiva realtà sudafricana (assieme ad altre, molto più vicine e per noi "nobili" come quella medio-orientale) sia da noi massima. Nessuna idea sull'assetto effettivo del "sistema" costituzionale e istituzionale sudafricano, sulla formale, ma ipocrita (ora) pluralità degli assetti territoriali e statuali, sulle vie immaginate dal pensiero liberal sudafricano, non di rado pi percorse, anche se stravolte nel loro effettivo assetto, negli ultimi anni , dai partiti autoritari e non democratici al potere. Nessuna riflessione o valutazione sul fatto che il Sudafrica è e intende essere Stato di diritto, essendo "Stato etico", gentiliano, come l'Italia per venti, la Germania per oltre dieci, le "democrazie popolari" di stampo e dominio sovietico. Il che comporta mi sembra valutazioni diverse di quelle che si ritengono "buone" (per il solito razzismo eurocentrico e progressista) in Iran o in gran parte del Terzo Mondo.
Può forse accadere, se si impone lo scontro e la strategia violenta, in Sudafrica anche "molto di più" di quel che è accaduto in Iran. Si può distruggere, forse, ma a un prezzo immane (e non a quella che la Corte di Teheran e pochi suoi fedeli consentirono), la "ricchezza", l'"ordine", l'"ingiustizia", l'"oppressione" sudafricana.
Scusate la volgare verità che segue: il Sudafrica per vent'anni, come e più che il Medio Oriente o il Corno d'Africa, per vent'anni e più "in guerra", costituirebbe/costituisce la prospettiva (e forse la necessità) più allettante e da Bengodi per il mondo della produzione e del commercio delle armi. Forse è lì che questo è stato deciso, anche lì.
Significherebbero spaventose epoche in cui la "linea del fronte" sarebbe davvero di sterminio e di follia.
Lo Scià non ha offerto nemmeno un millesimo di quel che si è offerto di profitti ai mercanti di cannoni e di sterminio dei due popoli, con la guerra Iran-Iraq, con la cura continua della polveriera arabo-israeliana. E la guerra Somalia-Etiopia s'è rivelata di corto respiro e profitto ....
Occorre dirsi ben chiaro che se è giusto quel che si è scoperto (pare!) per la gestione di Stati e società dopo tutto organizzati e esistenti da secoli nell'area del mondo industrializzato e ora del post-industriale, non può che valere ancor più per paesi e popolazioni del Terzo Mondo. E' sempre necessario conquistare il potere in alternativa a chi lo detiene avendo idee e capacità e forza di governo migliori, se non per l'immediato, almeno - "ma certamente" - per il medio-lungo periodo.
Qual è il progetto, (e c'è?), di governo della società sudafricana di Mandela, di Tutu, delle forze progressiste, delle forze di liberazione sociale, di noi loro alleati "oggettivi" o consapevoli o determinati?
Quali siano le linee possibili di sviluppo, di benessere, di giustizia, di libertà, in termini di assetti istituzionali, etnici (l'etnia bianca è una delle etnie sudafricane, africane, dopo oltre tre secoli di vita, tanto quanto l'etnia nera è una delle etnie nord-americane, al pari di quella irlandese, italiana, francese nel Quebec, ecc.), statuali sociali? Applicarsi a questo mi sembra doveroso.
Questo è il contributo urgente, necessario, vitale, umanistico, (e non eurocentristico, intimamente razzistico come quello del progressismo tradizionale, cripto-marxista e cripto-liberale), politico che occorrerebbe forse fornire.
Divenire "sudafricani", farsi carico razionale e ragionevole del governo della speranza per concepire quel che ancora appare impossibile anzichè consumare avventatamente e prodigalmente le ultime cartucce del possibile.


ENZO SCEGLIE LA GALERA PER SENTIRSI PIU' LIBERO

di Sergio De Gregorio OGGI, ottobre 1985

"Una sola sua parola dal carcere", dice il leader radicale, "varrà mille parole di chi lo ha giudicato." Questa decisione è una vera testimonianza di intelligenza, di vigore e di onestà che lo renderà ancora più forte e più libero.
"Sapevamo che si sarebbe comportato diversamente da Toni Negri, uno sciagurato da noi trasformato in un simbolo di battaglia" - "Sulla magistratura napoletana ho sospetti che mi fanno venire la pelle d'oca".
"Bruxelles, ottobre"
L'appuntamento è al civico 3 del Boulevard de l'Empereur, sede distaccata del Parlamento europeo, a due passi dalla stazione centrale.
Marco Pannella è alla macchina da scrivere, impegnato in una attività frenetica nelle stanze del gruppo politico del Partito Radicale. C'è aria di grande mobilitazione: si è appena spento l'eco della conferenza stampa con cui Enzo Tortora, deputato europeo, ha annunciato le dimissioni dalla carica parlamentare e la decisione di tornare in carcere per "onorare" la sentenza del tribunale di Napoli che lo a condannato a dieci anni.
"L'Europa deve sapere", esordisce Pannella con piglio deciso, mentre mette a punto i dettagli di una nuova "uscita pubblica" con Tortora e il segretario radicale Giovanni Negri, questa volta a Parigi. E aggiunge: "Il caso Tortora è il frutto di una ``macelleria giudiziaria'' attuata per incapacità e per dolo".
Il leader rischia di travolgere il suo interlocutore con una valanga di parole. D'altronde, la foga e l'oratoria forbita sono due delle principali prerogative del "personaggio" Pannella. Meglio allora incanalare la discussione su binari precisi, botta e risposta.
"Cominciamo dal futuro di Tortora, onorevole Pannella. La notizia delle dimissioni le è giunta inaspettata, o si trattava di un passo deciso di comune accordo col Partito Radicale?"
"Ne abbiamo parlato con Enzo fin dal giorno in cui è stato eletto nelle nostre file. Queste battaglie politiche si fanno con estrema responsabilità, per cui la decisione di eventuali dimissioni dopo una probabile condanna è maturata giorno dopo giorno, da un anno e mezzo a questa parte.
"Nell'ultimo mese, poi, eravamo certi che non ci sarebbe stata giustizia, sopratutto quando abbiamo raggiunto la convinzione che i giudici prescelti (e sottolineo il ``prescelti'') per fare questo processo erano arroccati sulle stesse linee del procuratore capo della Repubblica Cedrangolo, ideatore e ispiratore del maxiblitz di Napoli".
"Eppure si è scritto di dissensi nati all'interno del suo partito rispetto alla decisione di Tortora."
"Macché. E' ridicola questa storia di dissensi, l'hanno inventata alcuni giornali. Enzo, forse meno ``politico'' di noi per esperienza, è stato indubbiamente il primo ad annunciare ``farò questo'', ma naturalmente ha anche detto che all'interno del partito avremmo dovuto discuterne. Noi abbiamo sviluppato una riflessione, per cui oggi le motivazioni di Tortora ci appaiono profondissime. Da questo momento grazie all'atto ``radicale'' di Tortora - una vera testimonianza di pulizia, di intelligenza, di vigore e di forza - non sarà difficile essere ancora più forti di quando si è liberi. Tortora ha detto: ``Sarò più libero io in carcere che i miei carcerieri o i giudici che mi ci hanno mandato''. E non è solo un'espressione metaforica: una sola parola di Enzo Tortora dal carcere varrà mille parole del presidente Sansone o del pubblico ministero Marmo dalla loro libertà".
"Che cosa né sarà adesso, dell'ex presentatore?"
"Le dimissioni di Tortora arriveranno in tempi tecnici brevi, ma studiati: queste cose le discutiamo con serietà cinque ore al giorno e quindi la nostra riflessione abbraccerà un arco di tempo che va dal 6 ottobre al 30 dicembre. Man mano che la riflessione va avanti, i tempi si restringono. Intanto, nel momento stesso in cui il Parlamento europeo accetterà le dimissioni, la magistratura napoletana dovrà prendere un suo provvedimento conseguente alla notizia che Tortora non è più ``coperto'', per che riguarda gli arresti, dalle funzioni parlamentari. Presumibilmente i giudici decideranno di riportare Tortora nelle condizioni precedenti: nuovo arresto, carcere per poche ore, smistamento agli arresti domiciliari. Ma i magistrati potrebbero anche decidere una visita fiscale al carcere in cui Tortora si presenterà spontaneamente, non sappiamo ancora quale, e stabilire che per loro, invece, i motivi di salute che giustificarono gli arresti domiciliari non esistono più. In questo caso Enzo resterebbe in galera".
"Non le sembra, Pannella, che l'"affaire Tortora" richiami, anche se sotto altra forma, l'esperienza vissuta dal suo partito col caso Toni Negri?"
"Certo totalmente. Il caso Tortora, la vicenda Negri, così come quella di Adele Faccio ai tempi delle battaglie per l'aborto, sono alcune delle armi non violente e democratiche che il partito ha usato per la sua battaglia di giustizia. Quando abbiamo candidato Toni Negri, che non era Radicale mentre Tortora lo è, abbiamo detto a chiari lettere e ne abbiamo le prove che noi non avevamo niente in comune politicamente col professore padovano, leader dell'autonomia. Io stesso, nei comizi elettorali di quel periodo, ho sempre ripetuto che ritenevo Negri colpevole, gravissimamente colpevole, ma non delle ignominie e delle imbecillità che gli venivano imputate, e che con la sua candidatura al Parlamento intendevo ottenere tre obiettivi. Primo, scarcerare per decorrenza dei termini una persona che da 5 anni era in carcere senza giudizio. Secondo, evitare che l'Italia avesse il primato delle barbarie con 12 anni di carcerazione preventiva e stimolasse l'approvazione della riduzione dei termini di carcere preventivo. Terzo, fare esplodere il problema dell'impunità parlamentare".
"E invece che cosa ha ottenuto?"
"Toni Negri, al contrario di Tortora, è stato l'oggetto di decisioni sovrane del Partito Radicale. Gli dissi: ``Ti candidiamo alle elezioni, non puoi esprimere pareri, ma solo firmare e non firmare (e figuriamoci se non accettava!), e sarai eletto. Sta a te dire se poi intende agire da radicale oppure no''. Lui disse sì, ma ciò non fu determinante perché Negri era un mero oggetto. La sua fortuna è stata restare in carcere: fin quando è rimasto detenuto, si è diffusa nuovamente l'immagine positiva di un maestro, cattivo o buono, non importa, martire di una barbara giustizia.
"E non dimentichiamo che, per quanto repellenti siano il volto e i connotati storici di Negri, ancora più repellente è stata la sua vicenda giudiziaria, attraversata da 5 anni di carcere preventivo. Negri era l'emblema dello scandalo del ``7 aprile'', dove un teorema medioevale come quello dell'istruttoria Calogero trasformava la giustizia in un gioco di accanimento fanatico. Poi, secondo gli impegni pubblici che avevamo preso, il nostro comportamento è stato determinante perché a Negri il Parlamento non concedesse l'immunità dell'arresto: non volevamo che il professore padovano fosse un deputato ``champagne e donne'' in trasferta di divertimento a Parigi, ma un latitante simbolo di una battaglia.
"Ecco la nostra forza storica: abbiamo fatto di uno straccio, di uno sciagurato, l'arma di una grande battaglia terminata con successo. Quando apparve chiaro che lui non aveva capito nulla, che restava il Toni Negri violento, quando rifiutò dopo due o tre incontri a Parigi il progetto di arresto che l'avrebbe riportato in galera ma con maggiore dignità verso la gente e i suoi compagni del ``7 aprile'' ai quali aveva promesso che sarebbe rimasto per difenderli, allora gli dissi: ``Purtroppo il tuo dramma è che adesso sei libero e puoi fare quello che vuoi''. E adesso, quando finirà di essere un latitante di stato e quando dopo il secondo processo di appello contro l'Autonomia, i paesi si metteranno d'accordo per arrestarlo e estradarlo, tornerà in prigione dove rischierà di essere sepolto di sputi e massacrato moralmente. Resteremo come al solito solo noi a difenderlo come difendiamo tutti gli imputati. Noi abbiamo vinto con Negri in nome del diritto e contro la violenza; lui è uno straccio".
"Qual è per lei, onorevole Pannella, la differenza con Tortora?"
"Il rapporto personale, intanto. Tortora lo conosco dai tempi della lotta per il divorzio: nel '67-68, lui faceva parte della Lega italiana per il divorzio mentre gli altri intellettuali se la facevano sotto. Ricordo un episodio: Pertini, allora Presidente della Camera, venne a Milano per una commemorazione. Tortora gli porse una lettera della Lega dei divorzisti, ed il buon Sandro diede in escandescenza. Tortora è anche quello che nel 1969 se ne andò dalla Rai denunciando la partitocrazia, arroccato su posizioni liberali vere".
"Come venne al suo partito l'idea di candidarlo?"
"Nel maggio dell'84 discutevamo i criteri delle elezioni Europee, la situazione del Partito, i temi da affrontare, e ricordo che a un certo punto si parlò del caso Tortora. Parecchi compagni si erano tenuti in contatto con lui, anche dopo l'arresto. Dal carcere, nell'agosto dell'83, per un atto di amicizia e rispetto dell'antico rapporto personale, Enzo mi mandò una lettera. Aveva saputo dai giornali della morte di mia madre ed esprimeva solidarietà con toni e affermazioni stupende nonostante le sofferenze che la carcerazione gli imponeva. In quel periodo, Tortora per la maggioranza degli Italiani era l'insospettabile dimostratosi camorrista, drogato, trafficante di stupefacenti. Discutemmo molto della possibilità di offrirgli una candidatura.
"Avevamo timore che la gente non capisse, che storcesse il naso dicendo: ``Rieccoli, dopo Toni Negri adesso arriva Tortora. A chi toccherà dopo?'', e via di questo passo. Decidemmo lo stesso di rischiare. Ricordo che l'ultimo giorno utile per la firma dei candidati. Partivo per Trieste, dove avevo un comizio: chiamai Enzo al telefono, e lui rispose che avrebbe sottoposto la cosa, per correttezza, ai suoi legali. Quella sera stessa, Emma Bonino prese l'aereo per Milano e lo raggiunge per concretizzare la cosa".
"Che idea vi eravate fatti della vicenda giudiziaria di Tortora?"
"Mah, dopo l'arresto restammo sconcertati. Anche noi pensammo: ``Qualche cosa deve pur esserci''. Quando uno vede esibito Tortora come il capo nascosto della Camorra, non può non restare sconcertato. Qualcuno di noi, tuttavia, già cominciava ad occuparsi del caso giudiziario di Napoli, con la prudenza necessaria. In questo siamo assai accorti, non partiamo mai sull'onda dell'emotività. Ma quando avemmo notizia che la stampa censurava la scarcerazione di decine di omonimi perché un gang di magistrati li occultava; quando ci accorgemmo che fra i mille arrestati del maxiblitz non c'era nessuno che richiamasse il ``terzo livello'' della camorra; quando ci accorgemmo che i giudici di Napoli avevano usato il clamore degli arresti in massa per non fare il processo sull'affare Cirillo e per togliere ai magistrati di Avellino l'inchiesta sul costruttore Sibilia che si avviava a risultati clamorosi; allora cominciammo a drizzare le orecchie.
"Nonostante tutto, fino a sei mesi fa non abbiamo mai fatto una battaglia sull'innocenza di Enzo tortora, ma una lotta di diritto su come si procedeva a Napoli e sulla logica del pentitismo. Io subivo l'affettuosa critica di Leonardo Sciascia che già dallo scorso anno diceva: ``Non bisogna fermarsi al principio, ma combattere anche per l'innocenza di Tortora'', perché aveva visto lontano.
"Ma raccomandavo prudenza. Nel frattempo a Napoli si compiva una bestemmia, si cercava di confondere il lavoro di un gruppo di giudici napoletani (preoccupati insieme con il loro capo Cedrangolo di distogliere l'attenzione dalle inchieste scottanti sui miliardi della ricostruzione, su Senzani, su Cirillo) con quello dei magistrati di Palermo e dei giudici antiterrorismo che dei pentiti avevano fatto un uso misurato. I napoletani con Palermo non centrano nulla: Tommaso Buscetta è prezioso perché fornisce col suo racconto il riscontro a cose già provate dall'inchiesta dei giudici palermitani, mentre a Napoli era il contrario.
"A parte il fatto che i magistrati di Palermo si fanno ammazzare e lottano dietro un'angolazione al di là della quale nessuno può sospettare connivenze con la classe politica o con centri di potere; mentre invece tra i giudici napoletani vi sono collaudatori assunti dal potere politico a decine di milioni al mese, pagati dagli stessi inquisiti dei processi che stazionano nei cassetti delle scrivanie, c'è a Napoli una cosca di Magistrati che ha il monopolio delle lezioni private per gli esami d'ammissione ai concorsi in magistratura (per cui un giudice importante di Avellino che vuole entrare in commissione d'esame ha ricevuto minaccia di morte per sé e i suoi familiari); a Napoli, non è processato, inspiegabilmente, il brigatista Senzani; non si procede per l'affare Cirillo, ci sono insomma ombre pesantissime sull'operato di un gruppo di esponenti della giustizia.
"Ho sospetti che mi fanno venire la pelle d'oca, sopratutto quando il presidente Sansone assolve il fratello di Cutolo e Salvatore La Marca, ex sindaco di Ottaviano (gente che perlomeno aveva dei trascorsi giudiziari e che comunque secondo noi andava assolta perché non c'erano prove nell'inchiesta) e condanna invece Tortora, Nadia Marzano ed altri solo perché non si sono pentiti."
"Come intende procedere nell'ambito di questa "guerra aperta" dichiarata alla magistratura di Napoli? Non le sembra eccessivo accanirsi così tanto?"
"Noi in base agli atti giudiziari, su fatti specifici di rilevanza penale, abbiamo il dovere di denunciare la ``notizia criminis'': e di fatti su cui procedere ne abbiamo trovati, in questo processo, tanti. Dall'altra parte invece c'è il tentativo di proteggere una banda di manigoldi (alcuni magistrati, alcuni cronisti giudiziari, due o tre superpentiti) che ha violato tutta l'economia processuale perché copriva di fatto interessi immensi e doveva tutelare il ``sacrario'' del terzo livello della camorra, rimasto intatto. La nostra polemica su Napoli è la stessa aperta dal giudice Imposimato a Milano, quando pubblicamente disse: ``Non solo non bastano 14 pentiti (quelli che accusano Tortora), ma non ne bastano neanche 30 per giustificare l'arresto di una persona''. Quando a Napoli, violando la legge, si offre una premialità costante, quotidiana, ai pentiti (promesse, immunità, libri, nutrimenti...) e noi la denunciamo, non siamo a priori contro il pentitismo, ma puntiamo il dito su cose che con la questione dei pentiti non hanno nulla a che vedere. La guerra non siamo noi a farla, sono loro che difendono un operato illegale".
"I socialisti sembrano spiegati al suo fianco in questa battaglia per la giustizia. Eppure, finora, a esporsi è stato solo Claudio Martelli: lo ritiene un isolato?"
"Non è vero. Pubblicamente si sono pronunciati sul caso Tortora, oltre a Martelli, in conferenze stampa, il presidente della Commissione giustizia del Senato, Giuliano Vassalli; il presidente del gruppo senatoriale Fabio Fabbri, Salvo Andò, Dino Felisetti, e altri ancora. Lo steso Craxi, quando prese posizione con un comunicato sull'iniziativa radicale e socialista per l'istituzione di una commissione d'inchiesta sullo stato della giustizia a Napoli, ribadì la sua fiducia nei magistrati giudicanti. Quando mai uno precisa, in un comunicato ufficiale, di avere fiducia, ma solo dei magistrati giudicanti? Era un segnale preciso che la stampa ha fatto finta di non vedere: la nostra battaglia era in quel momento contro i magistrati inquirenti, non contro i giudicanti... Craxi quindi si era chiaramente messo sulla linea di Martelli, nonostante fosse Presidente del Consiglio".
"Vi accusano di aver voluto politicizzare il processo di Napoli."
"Sono loro che l'hanno buttata in politica. Io a Napoli ho fatto delle accuse scritte contro i guasti della giustizia, loro hanno violato, con il silenzio sulle mie denunzie, tutte le regole del gioco democratico". 2579


Armare le coscienze, difendere i valori

di Olivier Dupuis NR271 5 dicembre 1985

Prima di tentare di spiegare le diverse ragioni che mi hanno condotto a compiere il gesto per il quale compaio avanti questa Corte, vorrei fare una premessa senza la quale il senso stesso del mio gesto non potrebbe, a mio avviso, essere compreso.
Ho concepito il mio gesto non come una sfida alla giustizia, quella militare in particolare, né come una sfida alle forze armate belghe, ma come un tentativo reale di dialogo, fondato, per quel che mi riguarda, su una sincera volontà di pervenirvi. Tentativo di dialogo rivolto alle nostre istituzioni politiche, e in primis al Parlamento europeo e ai Parlamenti dei diversi Stati membri della Comunità, rivolto poi alla commissione della Comunità europea e ai governi degli Stati membri; ma anche rivolto al terzo potere, nella sua qualità di guardiano delle leggi e spesso anche di creatore del diritto.
Il mio è, voglio ricordarlo, un gesto "europeo": io affermo che la sola esistenza di condizioni drammatiche di "obiezione di coscienza" in paesi come la Grecia, ma anche la Spagna e il Portogallo, costituisce già una ragione sufficiente per rifiutare di sanzionare ancora il vuoto giuridico che circonda la questione al livello europeo, soprattutto di fronte alla risoluzione Macciocchi, votata da una maggioranza schiacciante del Parlamento europeo nel 1983, che richiedeva un'immediata armonizzazione delle legislazioni nazionali sulla base di alcuni principi fondamentali.
Io sono convinto che la pace possa essere garantita meglio dal diritto che attraverso la forza. Questo potrebbe sembrare quasi un assioma, se la storia non ci avesse insegnato il prezzo crescente -una crescita peraltro esponenziale- che si paga per stabilire, o ristabilire, la pace con le armi, con la forza.

Il diritto civile alla difesa
Il punto di partenza del mio itinerario è dunque la mia volontà di partecipare a questa difesa fondata sul diritto, sulla difesa e la promozione del diritto per assicurare la pace e la difesa di tutti. In questa prospettiva, e stante l'organizzazione attuale della difesa, in Europa e in Belgio, una difesa fondata esclusivamente sul ricorso alla forza e/o sulla minaccia del ricorso all'uso della forza, il mio primo impegno è stato quello di rifiutare l'esclusione della difesa.
Se adottiamo un ordine cronologico, all'inizio sono stato portato a rifiutare il servizio civile e quindi lo statuto degli obiettori di coscienza. Questo soprattutto perché il servizio civile non costituisce un mezzo per partecipare alla difesa della società, ma è fondato sulla necessità di "occupare", di "inquadrare" coloro che "pretendono" un non ricorso alla forza e alla violenza, e che pure devono svolgere un servizio finché esiste il servizio nazionale obbligatorio. E' dunque attraverso il rifiuto di una discriminazione "positiva", quella cioè di esonerare dal servizio quelli che non si riconoscessero nella difesa armata, che è stato concepito il servizio civile. Questa interpretazione corrobora la giustezza del termine di servizio "sostitutivo" applicato da lungo tempo al servizio civile. E nello stesso tempo spiega il perché del termine "obiezione di coscienza". Si obietta a qualche cosa, ciò che è molto differente da una "affermazione", come espressione di una libera scelta. E' incontestabile che il servizio civile non è mai stato concepito come un mezzo differente, alternativo, di partecipare alla difesa; anzi, i compiti, le funzioni assunte da coloro che prestano servizio civile sono considerate dai più come funzioni che sono o dovrebbero essere "normalmente" assunte dallo Stato.

Il servizio civile privilegio di classe
Se dunque la prima ragione del mio rifiuto è nella discriminazione di merito (i militari partecipano a pieno titolo alla difesa, gli obiettori a un surrogato di difesa), la seconda ragione è nella discriminazione formale. Questa discriminazione "negativa" si manifesta in particolare nella durata dei tempi del servizio civile (spesso il doppio del servizio militare), nell'esistenza di una commissione "d'inquisizione" che giudica la coscienza dei pretendenti al "titolo" di obiettore (gli alti valori morali ed ideali necessari per beneficiare dello statuto di obiettore non sono richiesti invece per essere "militari") e, ancora, nelle condizioni ineguali di pubblicità.
Queste condizioni di svolgimento del servizio civile, e di ottenimento dello statuto di obiettore, fanno oggi del servizio civile un privilegio di classe. E' un segreto di Pulcinella che gli obiettori di coscienza si "reclutano" in maggioranza tra gli strati di persone con un istruzione media o superiore, giacchè essi godono del doppio vantaggio di questa istruzione: accesso facilitato all'informazione ed età più avanzata (gli studi permettono il rinvio). Tutto questo permette loro una riflessione impedita ai loro compagni di leva che non continuano gli studi, in mancanza dei rinvii necessari.
Sempre proseguendo l'ordine cronologico, non avendo richiesto lo statuto, sono stato convocato al Centro di reclutamento. Dopo essere stato riconosciuto idoneo, ho avuto l'opportunità di approfittare, in quanto membro di una famiglia numerosa (sei figli di cui tre maschi) dell'esonero. Ho rifiutato, notificando questa decisione all'ente preposto.
Appartenente dunque alle forza armate, sono stato chiamato alle armi il 15 febbraio scorso. Non ho raggiunto il mio battaglione: ho invece lasciato il Belgio per preparare, negli altri paesi d'Europa, questa campagna per l'affermazione di coscienza. Conformemente alle leggi, sono stato dichiarato disertore.

Solo le armi per la sicurezza
Se, dopo aver rifiutato sia lo statuto di obiettore sia l'esonero, ho ugualmente rifiutato il servizio militare, è perché credo che una difesa basata sul diritto sia l'unico mezzo per superare l'altra sola difesa coerente inventata dagli uomini fino a questo momento, cioè la difesa militare. Dico coerente, perché sono obbligato a constatare che, di fronte alle minacce oggettive costituite dall'accumulazione di armamenti da parte di un paese terzo, una risposta negli stessi termini ha costituito spesso la sola risposta atta a preservare la sicurezza.
Ho detto "ha costituito" perché, da una parte, mi sembra relativamente poco interessante sapere se il passato avrebbe potuto essere diverso, e d'altra parte perché le condizioni dell'informazione, e dunque del controllo, così come le regole del diritto internazionale, sono, almeno al livello del loro stesso sviluppo, caratteristiche proprie della società.
Infine perché la storia recente, e soprattutto la seconda guerra mondiale, ha largamente dimostrato che i nuovi sistemi d'arma e di comunicazione hanno di fatto rovesciato tutte le regole della guerra e hanno eliminato ogni possibilità di distinzione tra popolazione civile e popolazione combattente, quando non anche quella tra paesi belligeranti e non-belligeranti.
Se esistono dunque quelle ragioni di "necessità", largamente invocata dai cosiddetti pacifisti, esistono anche ragioni di "efficacia" che dovrebbero interessarci per prime, nel senso che senza questo elemento nessuna strategia di difesa è sostenibile, nemmeno quella militare. La linea Maginot è qui per ricordarcelo.

La giustizia la disobbedienza
I gesti che mi hanno condotto quest'oggi davanti a voi sono gesti di obiezione di coscienza, di disobbedienza civile. Obietto allo statuto di obiettore nella sua forma come nella sua essenza. nella forma perché è discriminatorio: nel merito perché istituzionalizzare, legalizzare gesti di obiezione, di obiezione "individuale", mi sembra un controsenso in democrazia. O lo Stato riconosce le ragioni di una messa in atto di una difesa civile come elemento del sistema di difesa (sia che ne costituisca la globalità, sia che coesista con un sistema di difesa militare), o non riconosce queste ragioni e continua allora a lasciar condannare coloro che disobbediscono, senza cambiare le leggi.
Il ruolo della giustizia, il vostro ruolo, signori giudici, mi sembra dunque estremamente importante, perché, qualunque sia il verdetto, le motivazione che ne darete costituiranno un modo di "dire il diritto", così come un interrogazione diretta degli organi legislativi, affinché essi modifichino, se è del caso, il quadro legale dell'organizzazione della difesa.
Io obietto al servizio militare, e cioè alla difesa quale è concepita e organizzata oggi, perché essa è potenzialmente fonte di morte, ma soprattutto perché, attraverso le risorse umane, finanziarie e tecniche che essa assorbe, partecipa allo sviamento delle risorse indispensabili alla risoluzione delle guerre in atto, la guerra alimentare innanzitutto, e quelle guerre che, in forza di uno stato d'assedio permanente, potremmo chiamare guerre "istituzionalizzate": quelle guerre che privano centinaia di milioni di esseri umani dei loro diritti fondamentali, dei diritti civili, politici e sindacali. E penso dunque all'Unione Sovietica, ai paesi del Patto di Varsavia in generale.

Tutto il problema è: quale difesa?
Credo che quando si parla della difesa della "patria", nella sua accezione non sciovinista o di bottega, si pensa non solo alla difesa di un territorio, ma anche alla difesa dei valori, di un sistema di valori, di una storia, di tradizioni, di linguaggi, tutto questo organizzato in un sistema politico, il solo che consente ad ogni individuo di tentare di vivere, di realizzarsi. Questo sistema è la democrazia.
Si parla di democrazia, si parla del diritto cioè degli individui contro i diritti o la ragion di Stato; questo è il fondamento di altri sistemi, quelli totalitari dai quali giustamente ci difendiamo.

300 milioni di oppressi
Diritti degli individui, diritti umani fondamentali, patrimonio delle grandi rivoluzioni borghesi, la rivoluzione americana e quella francese, patrimonio incessantemente minacciato ma anche poco a poco arricchitosi, nel corso dei passati due secoli, con successive riforme politiche e sociali. Diritti umani fondamentali: in primo luogo diritto alla vita, diritto al nutrimento e alla salute. Diritti umani fondamentali e quindi diritti alla libertà di pensiero, di espressione, di associazione, di circolazione...
Chi è il "nemico" se non colui che rimette o può rimettere in discussione all'interno come all'esterno del proprio territorio, della propria "patria", questi principi, questi diritti?
Non sono i missili sovietici che li minacciano, ma il sistema sovietico stesso.
Ad un sistema americano dove esistono e funzionano meccanismi di contropotere, di controllo, ad un sistema dove ha potuto svilupparsi e vincere il movimento contro la guerra in Vietnam, ad un sistema che può generare le cose più demenziali e le più belle, giustamente perché è un sistema democratico, corrisponde un sistema sovietico senza contropoteri e senza controllo, senza opposizioni tollerate a qualunque livello, un sistema che ha prodotto l'invasione dell'Afghanistan, e prima ancora, dal 1921, quella dell'Ucraina, per proseguire con la Georgia, la Lituania, la Lettonia, l'Estonia, e poi ancora la Polonia, l'Ungheria, la Cecoslovacchia, la Bulgaria, la Germania dell'Est: passando per la Mongolia e l'Armenia, e forse ce ne dimentichiamo qualcuna. Un sistema che genera demenzialità perché è demenziale per sua stessa essenza.
Un sistema fondato sull'oppressione quotidiana dei 300 milioni di persone, un sistema dove la ragion di Stato, i "diritti inalienabili della classe operaia" prevalgono sistematicamente sui diritti del cittadino. Un sistema fondato sulle purghe interne, sulle deportazioni, la schiavitù, lo sterminio di milioni di persone.
Ma oggi, di fronte al sorriso di Gorbaciov, parlare di queste cose significa essere tacciati di antisovietismo. Bene, allora, a rischio di urtare la sensibilità di qualcuno, in buona o in cattiva fede, io dico "sì, sono antisovietico". E peraltro, questo stesso Gorbaciov non rispetta forse i principi di non ingerenza? Certo, c'è l'Afghanistan; certo, è un po'' rude, ma lui, come hanno fatto i suoi predecessori, non si garantisce che la coesistenza pacifica.
Teheran e Yalta valgono bene Helsinki, le negoziazioni di Ginevra le assemblee dell'Onu, gli arrangiamenti a quattr'occhi valgono tutti i testi di diritto del mondo e Kabul non vale una messa tra supergrandi. Non oggi più di ieri, quando il diavolo nero e il diavolo rosso patteggiavano per concordare i reciproci appetiti. I francesi e gli inglesi allora si guardavano bene dal mostrare i denti, nell'illusione di ritardare di qualche settimana o di qualche mese la guerra che ritenevano, in tutto e per tutto, ineluttabile.
Oggi la non-ingerenza non è più un'idea vaga, è un principio solidamente stabilito con i suoi riti e i suoi rituali, i suoi summit e le sue riunioni preparatorie.
Certo, qualche volta è penoso rimanere seduti e muti, a un tavolo con simili truffatori. Allora Mitterand reclama Sacharov, Reagan brandisce le minacce economiche, s'immischia nel dominio "riservato" dello sport. Gesti che non salvano niente, che non cambiano niente, se non darci un po'' di più il sapore della nostra impotenza.
Oggi, non meno che negli anni 30, il problema non può essere di arzigogolare sugli abusi di questo sistema mostruoso. Non più che negli anni 30, il problema non è quello di massacrare ogni giorno migliaia di ebrei, ma quello di tollerare che a qualche centinaia di chilometri da noi esista un sistema che permette che anche un solo ebreo sia ucciso.
Ma contro questa guerra d'oggi, non esiste la minima idea di una strategia di difesa. Le sue vittime continuano ad essere immolate sugli altari di una sempre più ipotetica pace futura.

Io sogno che si insegni il russo
Abbiamo dimenticato Norimberga, abbiamo dimenticato la condanna della non-ingerenza individuale, la responsabilità anche per omissione, la non sottomissione dell'individuo a ordini contrari alla coscienza.
Abbiamo dimenticato l'alleanza tedesco-sovietica, abbiamo dimenticato gli stermini staliniani di un regime che peraltro non è cambiato, che continua ogni giorno a spedire milioni di individui nei gulag. Abbiamo dimenticato Helsinki, che i sovietici hanno peraltro liberamente approvato.
Nulla di paradossale allora nella nostra politica di difesa. Essa è veramente intransigente, ferma; missili e sottomarini nucleari, carri armati contro carri armati, Nato contro Patto di Varsavia, le eterne negoziazioni di Ginevra dove si programmano le riduzioni dei sistemi di arma giudicati obsoleti.
E, nello stesso tempo, il grande commercio continua e si intensifica. Tutto si cambia e tutto si vende, non dispiaccia alle vittime. La tecnologia militare e quella nucleare...
L'Italia arma Gheddafi e si prepara a difendersi contro di lui. "Business is business". Il Belgio vende condotte per il gasdotto transiberiano, costruito dagli schiavi di un regime che dopotutto, in affari, è abbastanza corretto. E poi, in certi casi, il lavoro a qualunque prezzo.
Qualche mese fa, la Francia vendeva all'Urss 150.000 tonnellate di grano grazie al concorso del milionario rosso, Doumang; ogni anno, è istituzionalizzato, gli Stati Uniti vendono decine di milioni di tonnellate di grano all'Urss, la Cee fa lo stesso con milioni di tonnellate di burro spesso a prezzi inferiori della metà rispetto al loro prezzo reale. Neanche il Terzo mondo riceve simili regali. Ma la politica agricola comunitaria viene prima di tutto.
Gli ambienti liberali europei dell'inizio del secolo urlavano contro le esazioni degli zar, contro il loro regime repressivo che pure non reggerebbe il confronto con quello sovietico di oggi. E non parliamo di Stalin. Si urlava meno, all'epoca, contro il famoso indebitamento russo. Solo Juarés aveva capito che portava alla guerra. Oggi nulla è cambiato, i debiti del blocco orientale portano e continueranno a portare con sé la guerra. Nulla è cambiato se non la sorte di alcuni, lontani, ben lontani da noi, in Afghanistan...
E io sogno che si insegni il russo nelle nostre scuole.

Abbiamo dimenticato Norimberga
Contro un tale nemico, e non solo contro una simile minaccia, quali armi possiamo opporre se non quelle della coerenza, che possiamo fare se non mettere in opera una politica di aggressione democratica, con una politica di aggressione nonviolenta, per restituire l'Est alla democrazia e sopprimere con ciò il principale fondamento della minaccia e dello stato di guerra, per non ripetere gli errori di ieri, per accordare infine i violini dei fini e dei mezzi.
Politica per l'informazione, organizzata e messa in opera dagli Stati (e non da radio libere), o meglio dall'unione degli Stati, perché si tratta, si tratterà di un'arma del nostro sistema di difesa, comune alle nostre democrazie.
Informare, cosa è altro se non far sapere ai russi, ai polacchi, a tutti i popoli dell'Est, che non ci sottomettiamo a tutto questo che ci viene presentato come ineluttabile. Informarli per convincerli e per convincerci che un futuro differente è possibile per noi e per loro, come avrebbe potuto essere possibile per i tedeschi degli anni trenta, se glielo avessimo fatto sapere.
Ritrovare la forza della parola, dell'informazione. Ritrovare la forza della "Voce della Francia libera", di "Radio Londra", del "Falsosera", dei volantini che i nazisti temevano ben più che gli attentati.
Inventare, creare politiche di boicottaggio, esigere il rispetto degli accordi liberamente sottoscritti, esigere di controllare.
E' in qualche misura ciò che siamo condannati a fare se non vogliamo sempre più rinforzare l'alleanza ogni giorno più obiettiva, ogni giorno più mostruosa tra l'Est e l'Ovest, del Nord contro il Sud, al prezzo della perpetuazione della guerra per fame, dello sterminio per malnutrizione e per sottosviluppo che fa ogni anno più di trenta milioni di morti. In nome del diritto all'autodeterminazione dei popoli -che non è una riformulazione del principio di non-ingerenza, adattato ai paesi del Terzo mondo, eredità la più ipocrita della decolonizzazione perché consacra e perpetua l'impossibilità a disporre di se medesimi- in nome di questo diritto i nostri Stati ricchi violano ogni giorno il diritto fondamentale, il diritto alla vita, perpetuano i conflitti locali, detti nazionali, garantendo così sbocco e banco di prova alle loro industrie belliche, controllano il prezzo e l'approvvigionamento delle materie prime, assicurano la pace al Nord.
Ci si mantiene così nell'illusione che i diritti fondamentali sui quali si fondano le nostre democrazie non possano, non saprebbero, essere imposti da queste nazioni più giovani, senza tradizione di diritto. Si è anche inventata la specificità africane e quella musulmana, le tradizioni tribali o altro per tentare di dimostrare che la democrazia, nata in Occidente, non corrisponde a queste culture differenti, e dimentichiamo d'un colpo le nostre origini, la nostra storia, tribale, dispotica.
Beneficiamo dunque della coesistenza pacifica. Il sorriso di Hitler a Daladier e Chamberlain è stato rimpiazzato da quello di Gorbaciov a Reagan. Gli oppositori del regime di Hitler, gli ebrei, i polacchi hanno lasciato posto a centinaia di cittadini sovietici senza diritti, di africani e di asiatici, di sudamericani ogni anno sterminati.

Avremo ancora valori da difendere?
L'aereo di Gorbaciov aveva 15 minuti di ritardo, la signora era molto elegante, Reagan sembrava in forma. I giornalisti erano tutti lì, gli articoli sono stati esaurienti. Il summit non ha prodotto niente di nuovo. Ma torniamo in un clima di fiducia. Dieci cittadine sovietiche, mogli di americani, potranno emigrare. L'anno prossimo si farà qualche sforzo per alcune migliaia di ebrei. Il principio della libera circolazione degli uomini e delle idee non è dunque un principio vuoto.

Prima della guerra, non c'è guerra.
Ma ci sarà ancora qualcosa da difendere? Ci sarà qualcuno da difendere contro l'ipotetica aggressione per la quale gli Stati affilano le armi a colpi di migliaia di miliardi?
Ci sarà ancora qualcosa da difendere se la necessaria austerità resta il solo ideale della nostra società, se le sole risposte alle tragedie del Sahel, dell'Africa e dell'Asia in preda alla fame restano quelle dell'inazione degli Stati, dell'impotenza degli individui, se le immagini di Beirut in fiamme o dell'Africa del sud restano il solo mezzo per farci gustare il prezzo della pace, della nostra pace, se emarginiamo ogni giorno sempre più vecchi, sempre più disoccupati, stranieri, drogati, che hanno come unico orizzonte la disperazione, se lo, sport e la televisione sono ogni giorno sempre più violenza e sfollamento, se, se, se...
Se bisogna oggi fare la guerra alla guerra per fame, per il diritto e per il primo dei diritti, il diritto alla vita, se bisogna fare la guerra al totalitarismo, e a quello sovietico per primo, per evidenti ragioni strategiche e geopolitiche, guerra al non-diritto, guerra alla ragion di Stato contro il diritto dell'individuo, se bisogna fare la guerra alle guerre regionali che hanno accumulato 20 milioni di morti dal 1945, è soprattutto per preservare, per difendere i valori fondamentali sui quali riposare le nostre democrazie, e senza i quali esse sarebbero condannate a consumarsi e infine a scomparire.

La conquista quotidiana di un gesto europeo
Il termine di "difesa" è peraltro inesatto, almeno incompleto. Come per certe strategie di difesa militare, anche in questo caso la miglior difesa è l'attacco, perché la difesa delle democrazie non deve essere limitata a respingere le aggressioni che ne minacciano i fondamenti, perché la democrazia non è una conquista definitiva, realizzata nel 1789 o nel 1848, o in un momento preciso della storia, la democrazia è conquista e riconquista quotidiana, riconquista dei diritti antichi, consumati talvolta dall'uso, conquista di diritti nuovi nati dalla necessità di organizzare la produzione del genio o della follia dell'uomo, creazione incessante sulla tela dei diritti fondamentali.
Questa campagna sull'affermazione di coscienza vuol dunque essere "annunciatrice" di nuovi diritti, per iscriversi nel diritto positivo, per dare forza di legge al dovere di ingerenza nonviolenta, per il rispetto, dappertutto, del diritto alla vita, dei diritti umani fondamentali, anche se questo dovrà misurarsi con profonde revisioni di certe concezioni giuridiche, per creare meccanismi di sanzione contro le omissioni dei responsabili politici, contro ciò che si potrebbe definire "mancata assistenza dello Stato a persona in stato di pericolo"...
Questa campagna per l'affermazione di coscienza è enunciatrice di un nuovo perimetro del diritto. Contro l'Europa solo del burro e del latte, dei regolamenti e dei sistemi di compensazione e contro la nuova Europa multiforme della cooperazione industriale, per l'Europa fondata sull'abbandono delle sovranità... una direttiva europea per regolamentare l'organizzazione della partecipazione alla difesa, e, perché no, l'intera organizzazione della difesa civile. Un piccolo passo in questa direzione dell'Europa fondata sul diritto.
L'abbiamo fatto al Parlamento europeo, al Parlamento belga e italiano, dove risoluzioni e leggi sono state votate, e in genere con maggioranze schiaccianti. Risoluzioni e leggi che prevedano la realizzazione d'urgenza ai piani di intervento massicci, per attaccare simultaneamente, in zone determinate, i tassi di mortalità, per rimediare all'inefficacia strutturale della politica di cooperazione, largamente dimostrata da due decenni di cooperazione allo sviluppo.
Lo abbiamo fatto con personalità del mondo intero, con oltre 80 premi Nobel, con centinaia di vescovi, con migliaia di sindaci di tutta Europa, con decine di migliaia di cittadini d'Italia, in Francia, in Belgio, con le parole di Giovanni Paolo II, di Sandro Pertini, di Cheysson e di altri, con i rapporti Brandt e Carter, con i consigli e gli incoraggiamenti di organizzazioni internazionali e spesso, troppo spesso, con l'opposizione delle burocrazie europee e nazionali della cooperazione, Pisani in testa, contro i terzomondisti e tutti coloro che vogliono perpetuare il sacrificio di generazioni intere sull'altare di uno sviluppo futuro, sull'altare di uno sviluppo a lungo termine. E a medio termine, nei prossimi 25 o 30 anni, un miliardo di persone saranno state sacrificate, se nulla sarà fatto.

La spada di bronzo, la spada di ferro
E queste risoluzioni, queste leggi non sono state applicate. Il Re Baldovino, nel dicembre '83, davanti al consiglio della Fao e all'indomani del voto della "Loi Survie", vantava il nuovo approccio e l'importanza dei mezzi impegnati, parlando di 200 milioni di dollari, ma il governo belga in generale e il ministero della Cooperazione in particolare, si ostinano a non capire cosa sia l'urgenza. Su 10 miliardi di franchi belgi, nemmeno 300 milioni sono stati spesi e non 1 franco è stato speso nell'ottica di salvare delle vite. Nel frattempo il Sahel conosce una siccità senza precedenti.
Sul fronte dell'Est, abbiamo ugualmente tentato di resistere, d'inventare, di proporre, anche davanti all'accettazione del socialismo realizzato. E' stata una resistenza antica: già nel 1968 Marco Pannella e altri manifestavano contro l'invasione della Cecoslovacchia. Nell'82 in cinque capitali dell'Est manifestavamo per ricordare a questi paesi le loro responsabilità nell'olocausto per fame, per ricordare loro le Carte e le Convenzioni dei diritti dell'uomo che avevano approvato. In questa occasione, io stesso ho passato alcuni giorni in carcere a Praga con un compagno italiano e uno francese, e abbiamo ricevuto 5 anni di espulsione dalla Cecoslovacchia. Nell'83 altri compagni tornavano a manifestare a Praga. Nell'agosto '85 in 14 capitali del mondo, a Mosca, Praga, Varsavia, Ankara, manifestavamo ancora perché il giorno dell'anniversario di Hiroshima non fosse solo pretesto per la commemorazione ma occasione per ricordare le guerre in atto e il dovere dei nostri Stati di farsene carico. E a settembre abbiamo distribuito volantini in 14 città yugoslave, "Per una Yugoslavia fondata sul diritto, sulla democrazia, sulla libertà, aderente alla Cee". Perché la Comunità europea renda ufficialmente nota la sua volontà di vederla un giorno aderente a pieno titolo a questa futura Unione europea. Noi respingiamo sia questo anticomunismo ipocrita sia il pacifismo fondato sulla paura, sull'equivoco "russi o americani, è la stessa cosa" e questa strategia allo stesso tempo minimalista e irrealista, con il suo rifiuto dell'armamento nucleare "moderno", il suo sì a tutto quello che costa, alla struttura militare e alle fabbriche di armi, sì all'armamento convenzionale. No ai missili. E perché? Ce ne sono, come il generale Rogers, che arrivano a provare che tutto è necessario, che la risposta deve essere graduale, potremo telefonarci prima di lanciare i nostri missili e i loro. E allora perché tutto fuorché i missili? Per permettere la carica eroica della cavalleria polacca contro i blindati tedeschi, ci sarà ben stato qualche ufficiale polacco che avrà convinto gli altri della risposta graduale della Wermacht e della cortesia degli ufficiali tedeschi?
Ma, certamente, non siamo per i missili. La sola cosa che io constato, è che in una logica di difesa militare, da cui i pacifisti sfuggono senza uscirne, la sola strategia possibile passa attraverso una superiorità qualitativa dell'armamento. Storia vecchia come quella della spada di bronzo contro la spada di ferro. E non si risolve questo problema facendo credere che è possibile rifugiarsi nell'illusione, nella dimissione neutralista, ritirarsi dal gioco.
La storia recente è piena di queste illusioni. La guerra del 1914 consacrò lo scacco della politica pacifista di Guesde, malgrado i tentativi di Juarés di trasformare queste alleanze di rifiuto in un movimento europeo per la conquista di più diritto al lavoro, di maggiori diritti sociali. La guerra del '40 ha consacrato la disfatta dei differenti movimenti pacifisti europei, disfatta infatti già consumata nell'accettazione dell'eliminazione di migliaia di oppositori tedeschi, di ebrei, di "devianti", zingari, omosessuali, dell'annessione dei Sudeti, dell'Austria, della Polonia...
Solo il neutralismo bancario sopravvive alla prova dei tempi. Ma il tributo in termini di moralità politica è sempre più elevato, così greve di egoismo, conservatorismo e provincialismo sfrenato. Avviso agli amatori.
Sì a questa nuova difesa, difesa e promozione del diritto, del diritto alla vita innanzitutto, difesa e promozione della democrazia. No al pacifismo e al militarismo così opposti, differenti e nonostante questo così simili nel medesimo sacrificio del presente in nome del futuro.
Abbiamo bisogno di più difesa, di più sicurezza. Dobbiamo riarmarci unilateralmente, nelle nostre coscienze. Bisogna disarmare per meglio riarmarsi.
Un nuovo Eureka non chiede che di essere messo in opera. Una risoluzione del Parlamento europeo dell'82 non chiede che di essere attuata perché siano salvate 3 milioni di persone, 5, 10... minacciate dalla morte per fame, mentre la Yugoslavia non attende che una richiesta per entrare nella Comunità, la risoluzione Macciocchi non attende che una direttiva europea che la renda obbligatoria nei paesi membri, il rapporto Spinelli attende anch'esso nient'altro che una volontà politica, le leggi non attendono che di essere effettivamente applicate...
Sperando di essere riuscito a comunicarvi il mio pensiero, le ragioni del mio gesto fondato sullo "stato di efficacia" prima ancora che sullo stato di necessità, sperando dunque di non avere abusato della vostra pazienza, signori giudici, vi assicuro della mia serenità, qualunque sia il vostro verdetto. 293


LA GALLERIA DEI RITRATTI DI MARCO PANNELLA

a cura di Adriano Sofri FINE SECOLO, 2/3 novembre 1985

Occorre farsi venire un'idea per parlare dei radicali a congresso. L'idea è di intervistare Pannella. Ma va', direte voi. Un momento, possono esserci cose che Pannella non aveva ancora detto, e altre che voi non avevate sentito. Qui di seguito, ha deciso di rivendicare i suoi antenati prossimi e remoti, e altri più giovani congiunti, senza disdegnare di passare attraverso la cruna dell'ago dell'attualità e degli affari politici correnti. Del congresso, non si è parlato. Ancora ventiquattr'ore, e saprete com'è andata. Dagli altri giornali.

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"Si decide di dedicare un "Fine secolo'' ai radicali e al loro congresso. Si cerca un'idea originale. Poi, si va a intervistare Pannella. Toccherà a lui evitare di ripetersi.
Lo incontro a Montecitorio, a governo vacante, e di sabato mattina. Il palazzo è deserto, e Pannella ci sta con la disinvoltura impaziente del padrone di una casa avita costretto a far posto per la stagione a inquilini grossolani o impacciati, e a vedere le suppellettili in malora e i cimeli più sacri adibiti agli usi più sconvenienti.
Non è sorprendente che Pannella, arrivato in Parlamento così tardi, abbia subito maneggiato magistralmente leggi e regolamenti? Mentre mi guida attraverso il palazzo, Pannella si ferma davanti alla galleria di ritratti dei presidenti della Camera dei Deputati, facce e nomi a me nella gran parte ignoti, e mi dice di averli mandati tutti a memoria. A casa sua, racconta, c'erano carte manoscritte di personaggi risorgimentali, custodite gelosamente, e che lui ragazzino decifrava con passione. Sento di star ricevendo la rivelazione della formazione di un Maestro della Procedura.
La visita comprende i gabinetti e la barbieria, recentissimo e temerario esempio di art déco in stile caro estinto. Pannella mi spiega quanto è costato, tanto. Poi passiamo dalle cassette per la corrispondenza, ciascuna col nome del titolare. Su buona parte delle serrature è infilata la chiave, e Pannella mi spiega con soddisfazione che fino a pochi anni fa tutti se la portavano dietro: finché lui ce la lasciò, e piano piano anche gli altri. Un'iniezione di fiducia.
Fine della visita guidata, inizio della conversazione. E' appena uscito il nostro inserto dedicato a Pasolini, è inevitabile cominciare da lì. Dico a Pannella che pubblicherò l'intervento di Pasolini al congresso radicale di Firenze di dieci anni fa, un po' il suo testamento. E' gran tempo, mi dice, di raccontare i rapporti col partito radicale di uomini come Pasolini, o Vittorini".

Vittorini
Quanti sanno oggi che Vittorini era presidente del partito? Nel marzo 1965, a Bologna, chiesi a Vittorini: "Siamo 150 in tutto, non contiamo niente, alle nostre iniziative non mandano neanche i cronisti, perché accetti?" "Perché siete gli unici copernicani della nostra politica tolemaica". Si toglie qualcosa a noi, ma anche a Vittorini quando si tace tutto questo. Nel '68, mi pare, intellettuali come Di Carlo, Carocci, Einaudi, tentarono un'operazione elettorale di indipendenti di sinistra a Milano, e Vittorini mi mandò un telegramma: "Ti comunico di aver posto come condizione alla candidatura la dizione di radicale o indipendente radicale". Bastò ad affossare l'operazione.
C'era un periodo in cui lo si vedeva poco, gli mandai una lettera di protesta, e ne ricevetti una da lui: "Mi sono reso conto della mia vecchiaia, perché fino a poco fa ti avrei risposto con 80 o 100 pagine".

Pasolini
Così con Pasolini: le lettere luterane hanno per un buon terzo i radicali come interlocutori. Soprattutto negli ultimi tre o quattro anni, Pasolini ci ha lanciato segnali umani e politici formidabili. Secondo De Mauro Pasolini non usava mai la locuzione "ti amo". Ma Pasolini ha scritto, sul Corriere, "Pannella sa quanto lo amo". Lui era disperato dove noi avevamo la speranza. Niente è peggio degli sforzi "di sinistra" per dimostrare il complotto contro Pasolini, del bisogno di ammazzare l'immagine vera per nobilitarne la morte e la vita. Hanno ricordato che nelle dieci pagine che avrebbe dovuto leggere da noi, nel novembre 1975, diceva di votare Pci. Ci fosse stato, si sarebbe candidato per noi, prima di Sciascia. Sono passati dieci anni, ed è giusto dargli quel che è suo, e a noi quel che è nostro. C'era stata quella prima pagina sul Corriere, nel 1974, in cui a un certo punto dell'articolo scriveva "per lealtà avverto che da qui in poi l'articolo diventa anche formalmente un volantino", e concludeva dando gli indirizzi e le altre indicazioni utili per mettersi in contatto con noi.
Ora si può ricordare tutto questo: ancora fino a poco fa avrebbe significato, nell'opinione comune, dargli un quoziente di violenza, di indegnità, a lui, a Ernesto Rossi, a Vittorini - oggi non è più così.
Sai come nasce la storia del Processo di Pasolini? Era l'estate '74, lui era attonito per i comportamenti della stampa, e degli altri, verso di noi - ne soffriva, era angosciato. Alla fine di agosto Michele Tito, vicedirettore del Corriere, mi pubblica un articolo striminzito in cui dicevo che i sondaggi ci davano un risultato elettorale del 3 per cento. Era un lungo articolo tagliato, ma riusciva a dire che l'inveramento storico della nostra azione non sarebbe venuto dal Processo, un processo penale contro tutti i responsabili del potere. Un mese dopo Pasolini, rientrato dall'estero, mi telefona per sapere come sto - mi aveva lasciato nel pieno di un digiuno dei più impegnativi - io gli segnalo l'articolo sminuzzato sul Corriere. All'indomani mi telefona sconvolto, mi chiede che cosa è successo dopo quella proposta, si scandalizza del silenzio che l'ha accolta, dice che almeno nel fascismo c'era l'invettiva, la polemica. Gli dico: "prova tu, tu non sei riducibile a un'organizzazione, vedrai che scoppia il casino". Era come una scommessa, che con lui avrebbe funzionato. E lui scrisse le cose che sappiamo.
Oppure la storia del fascismo-antifascismo: Pasolini ne fu colpito leggendo la mia prefazione al libero di Valcarenghi, e scrisse che quello era il manifesto del radicalismo che mancava. E Pasolini non era smodato, eccessivo, paradossale magari, ma molto misurato, soprattutto quando scriveva da critico. E chiamò quella prefazione - ti ricordi, era quella in cui parlavo della linea antifascista Parri-Sofri - Manifesto del radicalismo. Subito dopo scrisse un articolo in cui si immaginava pedagogo di uno scugnizzo napoletano, e gli spiegava per la prima volta il
rapporto fra fascismo e antifascismo, e a piè di pagina mi citava. E guarda che citarmi in una sede "seria" era una vera coquetterie, perché nel mondo dei dotti io non esisto. Ricordo che gli raccomandai, quando diceva che l'antifascismo postfascista era erede del fascismo, di precisare `e non dell'antifascismo', senza di che si sarebbe esposto all'incomprensione e al linciaggio.
Nel 1964 facevamo i salti mortali per far uscire "Agenzia radicale", te lo ricordi, una ventina di pagine al giorno in 800 copie tirate al ciclostile, e i ragazzini dei bar intorno che venivano ad aiutarci a impaginare, bene, un giorno apro il Tempo, il settimanale, e trovo un articolo di Paolini che dice che ormai sempre più spesso è via dall'Italia, e anche quando torna si sente straniero, e lo sarebbe ancora di più "se non esistesse questo foglietto".
E' stato un dialogo continuo. Pensa alla "affermazione di coscienza", sai che noi diciamo affermazione, e non obiezione. Pasolini scrisse a proposito di un agente di custodia, che violando le consegne aveva permesso a un detenuto di stare con la fidanzata, e quello era scappato: l'agente di custodia si suicidò. Pasolini scrisse che la sua morte era un'affermazione, di umanità contro l'obbedienza formale, una proposta di vita (vedi che la poesia su Valle Giulia non era estemporanea) e concluse: "vedi dunque, caro Pannella, che bisogna mobilitarsi per il sì e non per il no" - e non si ricordava che due anni prima eravamo stati noi a dire "no al no".
Ricordo certi processi. Il mio grande cruccio, sai, è di non aver fatto l'avvocato - anzi ho due crucci, l'altro è di non avere una terrazza. Vedi che non sono cose così fuori portata. Anzi, domani mattina forse, grazie alla legge belga, potrò difendere in tribunale un giovane obiettore: devo sentirmi preparato, io sono un secchione, non credo alla difesa politica. Insomma, ricordo la viglia di un'udienza a Torino, eravamo incriminati io, Pasolini, tu, "e altri"; ricordo il terrore di Pier Paolo, un'angoscia kafkiana pura e semplice, non sapeva se venire, poi restò a Roma. Io scrissi al tribunale che l'imputazione era un'offesa alla magistratura, e che sarei stato presente in aula per volantinare il testo della mia lettera, ma contumace.
Si apre il processo, quando chiamano il mio nome il presidente dice "sì, sì, sappiamo dov'è", e dopo neanche un'ora rispedisce tutto al PM col pretesto di un espediente procedurale, ma di fatto bocciando l'istruttoria. Anche per questo non ci sto quando si parla indistintamente di anni di piombo - si poteva far altro anche allora, e si poteva trovare un ignoto presidente di tribunale come quello. E al tempo stesso, quelli che prendono la difesa postuma di Pasolini negando che fosse com'era, li ho avvertiti che si guardino, se anch'io ``finissi male'', dall'andare alla scoperta postuma delle centinaia di denunce e di processi che avevo ricevuto.

Gli ultimi dieci mesi
"Breve sosta, Pannella esce un momento, io mi affaccio alla finestra, alta sulla piazza: non avrà la terrazza, ma di qui la vista è straordinaria, con i profili successivi delle cupole e, bellissima, la cuspide di Sant'Ivo alla Sapienza, e lontano sul fondo, proprio di fronte, la magnifica struttura tubolare del gasometro ai piedi del quale sta la nostra redazione, fuori mano anche in questo. Rientro di Pannella, e accostamento all'attualità".
Qualcosa si è fatto davvero, è vero che l'Italia è uscita dagli esercizi provvisori, ma loro non credono neanche nei loro risultati, li ritengono marginali. Così Bettino rischia di avere come misura il confronto con Spadolini. Spadolini poi lo devi tenere, non farne marmellata, dopo che l'ha già fatto Reagan. Andreotti, un ministro degli esteri che, a parte l'eredità d'infanzia di Evangelisti, ha un cuore che batte per gente come Sindona e Caltagirone da noi, e all'estero per Assad (neanche Arafat, troppo romantico) e i sovietici. Gli piacciono, sono uomini di cui non si sa nulla, come di Sindona, l'inesistenza privata gli garantisce quell'integrità da barocco romano. Satana compreso, barocco anche lui, che è il suo modello. La politica come braccio secolare, e poi la schizofrenia di Dio e della messa alla mattina.
Sai chi è una persona che dovresti conoscere, senz'altro scopo, così come si va agli Uffizi? Il capitano Sankarà, il dittatore del Burkina Fasu, l'Alto Volta, un quarantenne accompagnato dalla tragedia, uno che ha chiamato i due figli Philippe e Auguste, forse saranno presto orfani, e all'Onu cita l'Enrico di Ofterdingen di Novalis, o Victor Hugo; una cultura tra Francia e Scolopi, uno sguardo grave, buono, non è un Savonarola, è un mite, e ingenuo anche. Burkina Fasu vuol dire "paese degli uomini giusti" - gli ho chiesto "e allora gli ingiusti, i diversi? Faremo rinascere ariani ed ebrei come giusti e ingiusti?" Eppure ha una forte passione per la giustizia. Fa fare ginnastica ai ministri, come faceva Starace, però lì sono anche compagni di scuola. Se un giorno, dopo avere ammazzato, non sarà stato ammazzato, e sarà in carcere, gli spedirò Voltaire, o qualche lettera di Giovanni XXIII, il primo a far arrivare Voltaire al mondo contadino.

Altiero Spinelli
Mi sono ritrovato alla fine con la gente con cui avevo cominciato, i vecchi elefanti che ho amato e che mi hanno voluto bene fino all'ultimo, Ernesto Rossi, Terracini, Fausto Gullo, Fidali. E, ben vivo, Altiero Spinelli - l'hai letto il suo bellissimo libro? Altiero voleva mandarlo in carcere a Franceschini, dopo aver visto l'intervista con Biagi.
In questi mesi può diventare irreversibile la nascita dell'Europa, o il suo affossamento. I nostri giornali non se ne accorgono neanche. Non solo loro: i repubblicani non dovevano poi faticare molto per vedere che se salta la politica europea salta anche quella mediorientale. Nessuno ha informato che, contro i governi, il parlamento europeo ha votato ancora per Spinelli. Là perfino i conservatori inglesi che, con tutto il sussiego e l'isolazionismo insulare, sono conservatori seri, si impegnano sul federalismo. La questione è semplice: se continuare coi vecchi Trattati, o varare un nuovo Trattato, che è la via scelta dal Parlamento europeo. Un organo senza potere, e tuttavia rappresentante di 300 milioni di persone. Il nuovo trattato prevede l'Unione Europea (delle repubbliche ecc., si poteva aggiungere, se non ci fossero le monarchie; noi volevamo chiamarli Stati Uniti d'Europa). Un'ora prima del voto europeo, la nostra Camera approvò una mozione che impegnava a ratificarlo. Fu abbastanza straordinario. Io annunciai in aula, prima che fosse avvenuto, la soddisfazione di undici deputati non votanti che avevano visto approvato pressoché all'unanimità il mandato imperativo di dare attuazione al progetto che stavamo anche qua per approvare: il parlamento votò, e ratificò al buio un deliberato europeo che era ancora da venire!
All'inizio del suo semestre di presidenza, gennaio-luglio, il governo sembrò marciare, Craxi, e soprattutto il segretario generale della Farnesina, Ruggero, uno che conosceva il problema, era stato a Bruxelles, non è una mezza figura. Poi le cose si sono insabbiate, e la posizione degli Stati si è orientata verso la semplice riforma dei trattati esistenti. A Milano, in luglio, si votò che la riforma dovesse comunque avvenire sulla base del testo del parlamento europeo, e che una Conferenza intergovernativa la proponesse entro tre mesi ai parlamenti nazionali. Di fatto invece di dare autorità alla Conferenza l'hanno delegata alla diplomazia, preferendo ancora una volta la logica delle cose alla logica degli uomini.
L'altro giorno il Parlamento Europeo ha votato una mozione di deplorazione e di appello contro il mandato tradito - in Italia nessuno l'ha saputo, stavano tutti pensando ad Abbas. Dunque ora bisognerà passare alla non violenza per la Federazione europea.
("Mi fermo un momento, per sottoporre questo passaggio all'attenzione di chi si interroga sui prossimi bersagli dell'attività radicale").
Ma era di Altiero che volevo parlare, patriarca per volto, amori, figlie, adamantino, uno dei pochissimi veri timidi - pensa al pudore del libro, alla discrezione, così forti perché inavvertiti, non dichiarati - per la prima volta dal 1948, quando mi propose di dirigere la Gioventù Federalista Europea, e non accettai, per la prima volta mi dice ora con un'ombra di imbarazzo: "Marco, ma io ormai ho poco tempo: e allora, chi lo farà se non lo fai tu?"
Ecco, a distanza di quarant'anni io vedo dipanarsi ancora quel filo forte, degli anni '30, fatto di innocenza, di laicità intransigente e antisettaria. Rivedo anche tutto il repertorio delle accuse, quelle che già il Pci rivolgeva ignobilmente ai Rosselli: esibizionisti, vittimisti, attivisti, vitalisti, marionette dei servizi segreti, più pericolosi dei fascisti... Penso ai testi di educazione civica che non hanno mai conosciuto i nomi di Mario Ferrara, o di Niccolò Carandini, di Arrigo Cajumi, di Mario Paggi, di Achille Battaglia, altrettanti nomi che alla Camera non mi stanco mai di citare, a futura memoria, perché un giorno forse qualcuno verrà a frugare, e li troverà. Era una generazione che ha creduto alla forza della cultura, pronta a stare a corte - ma anche ad andare in galera - ed estranea e ignara del potere, che resta del sovrano, o del governo.
Sapevano di contare sulla forza personale, e di essere altro. I figli hanno scelto la mortificazione di idee e persone in cambio di potere, di potere sulle persone. I figli stanno ai padri come l'antifascismo secondo sta al primo. De Ruggiero, De Caprariis - pensa se Ingrao avesse letto, non dico chissà che, ma De Ruggiero. E invece crociani, anticrociani, ha prevalso acriticamente questo vincolo che ingiustamente si rinfacciava a Pasolini, con il mondo rurale, cattolico. Ma la conservazione è un'attività, una moralità, un fare, mentre per quindici anni non si poteva vedere se non la terra che tremava, e la gente che per esser vera doveva urlare in modo assordante.

Non è facile, arrivare agli ultimi tempi
E veniamo agli ultimi dieci mesi, e alle loro scansioni istituzionali: elezioni amministrative, referendum, elezioni presidenziali, e ora la crisi di governo. E' dal '67, a Firenze, che diciamo che siamo (non che dobbiamo essere) partito di governo. Allora era uno stratagemma semantico - come si parla di governare i sentimenti, le speranze, le leggi e le notti e le cucine, insomma tutto il lessico del radicalese. Ora la vecchia questione del governo e dell'opposizione è solo più in evidenza. Noi abbiamo `governato' i singoli problemi sui quali ci siamo di volta in volta impegnati. Quando digiunammo per l'applicazione dell'art. 81 alla Camera, e poi nel '67 riuscimmo, col solo appoggio di "ABC", ad avere il voto, la pregiudiziale di costituzionalità del divorzio - per 10 voti vinse una maggioranza che andava dai liberali al Pci, e aveva contro da Almirante alla Dc, sinistra dc compresa, invertendo maggioranze e minoranze politiche. Eravamo gli unici a conoscere il regolamento, ciò che si è ripetuto nel Parlamento europeo: e che vale a maggior ragione per l'economia, perché l'economia a livello dello stato è il diritto, e sappiamo quale ventaglio di rapporti possibili esiste fra diritto e società.
"C'è qui una breve interruzione, il tempo di ricevere un'agenzia che informa dell'ultimo sondaggio sulla popolarità rispettiva di Craxi e Spadolini".
Quest'anno, se abbiamo vinto sul referendum, è stato in buona parte perché avevamo costretto a fare le elezioni sul referendum, a mostrare il nesso fra le due scadenze. La sconfitta di quest'anno del Pci è stata più grave di quella della Dc nel '74, perché la Dc era più `cosa'. Carniti si scatenò, e non era sospetto: per vent'anni avevo accusato la Cgil di stare con Carniti, e per una volta la Cisl si affiancava alla CFDT, al sindacalismo neofabiano.
Alle elezioni, il punto da imporre era che le liste verdi venissero computate nella questione del sorpasso. Ci dicevano, diceva Alexander Langer, che il movimento verde non era maturo: ma si è sempre immaturi. Anche in politica conta il concepimento, l'attimo di impetus da cui deriva la vita, e noi l'abbiamo dato alla luce questo Verde, che non è detto che resti nella casa paterna, e non se ne vada per una sua miglior strada. E guarda che è grottesco ma non meno vero che il sorpasso si giocava su un uno e mezzo per cento in più o in meno: bastava quello a fare di una sconfitta clamorosa una quasi affermazione, con le conseguenze che ne potevano derivare per il referendum. Dopo di che, oggi i Verdi esistono, e magari i più antiradicali diventano pentapartito.
"Ce ne fossero..."
Ma non così. Ecco comunque un altro caso in cui abbiamo coinvolto tutti. E se fossimo davvero in democrazia, se io a Carniti avessimo potuto esprimerci al TG1, sarebbe passata l'astensione a furor di popolo.
E guarda che cosa succede con la democrazia lottizzata che ha sostituito la monarchia alla Rai: che prima, se riuscivi ad arrivare a Bernabei, al sovrano, 20 milioni di ascoltatori li trovavi; oggi, anche quando riesci a costringere i tenutari del bordello a darti la tua fiche, sono poi gli impiegati e gli uscieri a bloccarti.
Noi non intendiamo vivere di rimproveri e risentimenti contro la fisiologia partitocratica. Alla Camera, per un anno abbiamo indicato la luna, e guardavano il dito: "eh, voi non votate". Ora non più. Potremmo al limite andare al governo e continuare a non votare. Da questa esperienza, oltre che da quella storia antica, può venire la quadratura del cerchio fra Aventino e subalternità. Non è per amore degli slogan che diciamo che è possibile l'impossibile, non il possibile. Per la fame, sapevamo bene che saremmo dovuti passare anche attraverso il rischio dello sperpero per arrivare alla spesa ragionevole. Il punto è di legittimare il valore pratico della vita, di farne moneta corrente, contro la valorizzazione della morte, l'idea della morte giusta, che può servire. La legge sulla fame, ora c'è, e c'è Forte, e noi non l'abbiamo votata.
Nelle elezioni, è stata grave la sconfitta, non importante la vittoria. A quel punto hai Craxi che accetta Cossiga. Cossiga è uomo al quale non si può voler male. Ma il modo, quell'elezione consociativa, è una pessima ipoteca sul settennato. Bisognava rischiare il meglio, per la presidenza, Craxi non se l'è sentita. Carniti poi, sulla presidenza della repubblica, ha dimostrato definitivamente la propria incapacità, perché ha sbagliato di due mesi la data di nascita, e io sono sicuro che ce l'avremmo fatta a eleggerlo. E' un uomo laico, non è ricco, è arso di cristianesimo...
Gente come De Benedetti e Scalfari pensa da anni al commissionamento della repubblica, e sono perciò destabilizzatori: appena uno va bene gli danno addosso. Chiamano alla coscienza del nero a causa del nero della loro coscienza. Noi dobbiamo dimostrare che la democrazia può fare non sanguinosamente quello che si propone di fare il commissionamento. Io sono dal '64 uninominalista, maggioritario assoluto, antiproporzionalista, e oggi sempre più. Langer l'ha scritto sul Manifesto, in un articolo affettuoso, questo ci prepara una legge maggioritaria. In un certo senso è vero.
Il problema è il diritto. Tutti sanno che i risultati elettorali dipendono dall'informazione. C'è una commissione di vigilanza i cui interventi sono costantemente violati. Si dice che la legge non prevede sanzioni. Ma c'è una legge comune, e c'è in Italia l'obbligo dell'azione penale di fronte a un fatto criminoso notorio, basta intendere che la violazione della legge è un fatto sovversivo. Se io turbo la libertà elettorale assaltando un seggio o distribuendo alcoolici, sono colpevole di sovversione esattamente come quando diffondo informazione falsa, che è il fine comune delle dittature e dei colpi di stato. A questa magistratura per cui ogni reato è associativo, noi forniamo le prove, in senso proprio, e non si vorrà negare che ci si siano messi almeno in cinque a violare il diritto di conoscere per deliberare. Si troverà prima o poi un pretore che li arresti - magari sia spazzato via dopo.
Il PR muore, viva il PR...
Guarda, il Partito Radicale sta morendo, e forse è il suo trionfo. Pasolini aveva messo in guardia dal giorno in cui gli intellettuali si sarebbero buttati sui diritti civili, e li avrebbero trasformati in diritti contro le minoranze, i diversi, che poi insieme sono in realtà la grande maggioranza della società. Baget una volta ha detto di noi che siamo una minoranza che rappresenta le grandi maggioranze sociali. A questo punto, è innaturale il proseguimento della vita del Partito, e non della sembianza, di una morte non dichiarata e senza neanche gli onori. Io so che cosa devo fare da grande, e forse non lo farò mai, e forse rinuncerò a diventare grande. (Ti voglio dire dell'unica volta che ho visto Andreotti smarrito, è stato alla fine del giorno in cui gli mandammo tutto all'aria, e all'uscita gli dissi "non c'è malanimo da parte nostra, solo rammarico che lei continui a non chiedersi che cosa fare da grande", per un attimo l'ho visto turbato). Non è vero che gli uomini muoiono e le idee vivono. Quando morì Che Guevara, all'Università di Roma io citai Garcia Lorca, "tu sei morto per sempre ed è perciò che siamo qui" . E l'avevamo detto per Grimau garrotato, quando si tenevano dappertutto grandi manifestazioni ufficiali, e noi andammo a parlare a Centocelle, con un camioncino, insieme al vecchio Armando Borghi, il grande anarchico. Per questo gli anarchici erano temuti, per il libero amore e i canti della vita, contro la linea della sinistra, nera, dei funerali.
L'importanza che noi possiamo avere, che abbiamo, è un piccolo miracolo laico, ai limiti dell'ingiusto. Se io ti posso raccontare cose così, e ignorare pudori sbagliati, perché possono finire col togliere qualcosa agli altri, davvero chiunque, concretamente, può. Giovanni Negri, quando voglio insultarlo gli dico che è più vecchio di me: quest'anno che il mestiere politico ce l'hanno riconosciuto tutti, spero che abbia imparato anche che col mestiere non costruisci niente, se non hai un concetto della professionalità - una volta si diceva serietà - come valore autonomo.
"Qui finiamo, e andiamo a pranzo, Marco, Giovanni e io. Nomi di evangelisti, tranne il mio. A pranzo non si prendono appunti, e si parlerà dei prossimi referendum, e di chi diventerà segretario al congresso: cose che leggerete sugli altri giornali" 2586.


Risoluzione approvata dal XXXI Congresso del PR

  Firenze 30, 31 ottobre, 1, 2 e 3 novembre 1985

SOMMARIO : A far da contraltare alla mozione generale, il 31° Congresso del partito radicale approva anche una risoluzione presentata da Marco Pannella (le risoluzioni sono un tipo di documento congressuale che, a partire dal 1982, ha talora affiancato il documento generale). La risoluzione, vista l'impossibilità di esercizio dei diritti democratici, dà un anno di tempo per proporre al prossimo congresso un progetto di cessazione delle attività del partito. Non si tratta di un'esasperazione vittimistica, o di un'accelerazione massimalistica, ma del riproporre la consapevolezza che la lotta politica radicale non può ridursi alla semplice conservazione del proprio esistente, e debba accompagnarsi ad una compiuta laicizzazione e democratizzazione della vita politica italiana.

Il 31 Congresso federale del Partito radicale, riunito in Firenze, il 30, 31 ottobre, l'uno, il 2 e il 3 novembre 1985, nel trentennale della propria fondazione, constatato il venir meno, per sè ma anche per il comune cittadino della Repubblica:
a) di elementari garanzie costituzionali;
b) di ogni certezza del diritto;
c) dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge;
d) dei diritti di cui agli artt. 21 e 49 della Costituzione ed alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, relativi alla libertà di opinione, di manifestazione delle proprie idee, e di organizzazione politica;
e) del rispetto e delle applicazioni delle norme che regolano il gioco democratico e la dialettica delle istituzioni, e che garantiscono un corretto processo democratico formativo delle volontà e delle scelte attribuite al suffragio popolare;
f) della difesa dalla violenza di chi ha realizzato e realizza dall'interno e dai massimi livelli dell'organizzazione della informazione e della comunicazione la sovversione dell'ordinamento repubblicano, con la perpetuazione di gravissimi reati associativi a tutti noti; e questo con il rifiuto sistematico dell'esercizio dell'attività giurisprudenziale;
g) del diritto alla propria immagine ed alla propria identità, aspetti essenziali alla vita stessa, diritto praticamente vanificato dall'ordine giudiziario che viola la legge per praticare un rito illegittimo in luogo di quello per direttissima, ritenuto dalla dottrina e dalle norme dei nostri codici assolutamente necessari per la verità e la giustizia;
Constata, denuncia, proclama la conseguente impossibilità di esercizio dei diritti democratici e della prosecuzione stessa della propria attività in questo contesto, se non accettando di fare apparire democraticamente minoritari o marginali, sconfitti, i valori, gli ideali, gli obiettivi del partito e nel contempo legittimando il gioco antidemocratico, e i suoi esiti, cui si partecipa;
Affida quindi agli organi statutari il mandato di proporre al prossimo Congresso straordinario un progetto di cessazione delle attività di partito. Il 31 Congresso individua quindi in un anno il limite oltre il quale si passerebbe da una risposta atta a colpire la violenza che si subisce ad una fallimentare connivenza con il regime e i portatori dei "valori" di ingiustizia, di violenza, di antidemocrazia. Anche per questo, che sia un anno di straordinario impegno per tutti.


Il realismo della putrefazione e lo spartiacque federalista

di Marco Pannella REPORTER, 4 dicembre 1985

"Estenderne i poteri? - ha esclamato in Consiglio la signora Thatcher a proposito del Parlamento Europeo - Occorre invece finirla con la sua elezione diretta!" La Dama di ferro vede giusto: per salvaguardare le putrefazione dell'Europa, e i colpi di coda degli Stati nazionali, occorre tornare a lavorare e a non discutere più nè di politica nè di alta strategia. Occorre che le diplomazie tornino ad essere i servi-padroni degli Statisti, indisturbate. Com'è accaduto ora, quando l'errore politico gravissimo di aver affidato i lavori della Conferenza Intergovernativa a dei funzionari, errore purtroppo commesso anche per responsabilità italiana, l'ha ridotta ad una farsa, distruggendo in sei mesi tutto l'acquisito del Parlamento Europeo, della Commissione Dodge, della Presidenza italiana, per arrivare all'ottusa situazione di questi due giorni.
Mentre scrivo queste righe non conosciamo ancora l'esito del vertice lussemburghese; non sappiamo se l'Italia avrà tenuto o ceduto. Ma già stamattina, a Bruxelles, comunque, la Commissione Istituzionale del Parlamento Europeo, presieduta da Altiero Spinelli, tornerà a riunirsi, e in questa sede prepareremo la risposta che il Parlamento dovrà dare nella sua prossima sessione, l'11 dicembre, a Strasburgo. E, per quanto mi riguarda, se l'Italia avesse ceduto, malgrado la posizione equivoca di Andreotti, a Roma sarebbe crisi: se abbiamo approvato la fermezza a Sigonella, pur in un contesto torbido e sospetto, non era per approvare o tollerare il nullismo e la mollezza in Europa. Tanto più che il Parlamento si è espresso all'assoluta unanimità della Commissione Esteri, nei giorni scorsi, proprio per scongiurare tale eventualità.
Le notizie, d'altra parte e per fortuna, sono per ora diverse: una cascata di riserve e di opposizioni viene apposta dalla delegazione italiana, da Craxi, contro la sequela indecorosa di parziali aggiustamenti di settore, qualche volta addirittura peggiorativi, sul monetario, sulla concertazione, sui poteri del Parlamento, sulla tecnologia e via dicendo.
Comunque, veniamo al sodo. La mia convinzione è che: "ce n'e qu'un début", a partire dalla ultima spiaggia, il progetto di Trattato proposto dal Parlamento Europeo, nella sostanza appoggiato dal Comitato Dodge, espressione politica dei Governi, liquidata da questa indecorosa Conferenza Intergovernativa, convocata su richiesta del Parlamento, era ed è sicuramente buono. Può essere migliorato, e lo miglioreremo: ma per arrivare in tempi politici all'Unione Europea, agli stati uniti di Europa.
Lo spartiacque è ormai chiaro: v'è chi continua a proporre il "realismo" della putrefazione nell'oggi, e della redenzione attraverso misure economiche e finanziarie nel 1996 o nel 2000 (non scherzo: registro proposte e progetti), e chi, invece, ritiene che senza una autorità politica europea, democratica e giuridicamente garantita, diverremo prima del 2000 area "mediterranea", più o meno libanese, da Dublino a Copenaghen, da Lisbona ad Atene, passando per Londra, Parigi, Bonn e Roma. La concretezza di "Eureka" (per di più extracomunitaria) è quella di un bidone; la politica agricola comune ci rende già oggi vassalli delle multinazionali dell'arma alimentare, la nostra politica Nord-Sud inesistente, sicchè restiamo in balia di quella Est-Ovest nella quale non abbiamo nulla da fare e tutto da subire.
Ieri mattina, a Nantes, un militante radicale, Jean-Paul Sultaut, è stato condannato a 6 mesi di carcere: è obiettore di coscienza, che "oltre al resto" pretende di essere "soggetto di diritto europeo"; per gli stessi motivi è in carcere a Bruxelles, condannato a 24 mesi, Olivier Dupuis. A Lussemburgo, ieri, v'erano le bandiere della federazione del PCI di Ferrara e dei democristiani di Trapani.
Se qualcuno dubita che, in Italia, si stia pensando ad una grande Riforma politica e istituzionale, fondata su un assetto anglosassone di elezioni su basi uninominali ha ragione: ma metta sin d'ora nel conto che lo spartiacque sarà federalista europeo, con di là gli "europeisti" della tragicommedia dei "piccoli passi", piccoli passi verso la catastrofe, internazionale e nazionale.
Di "catastrofe" ho udito parlare, ieri, nella riunione della Presidenza del Parlamento Europeo, da sir Fred Caterwood, che pur vi rappresentava il gruppo conservatore, all'unisono i giudizi di Spinelli e con alcune delle esigenze che in quella sede avevo prospettato. E tranne alcuni gruppi francesi, l'attenzione di Reporter e dell'Unità, e l'ostilità appena mascherata di Repubblica, sono altri sintomi che ci paiono ottimi, sulla strada di una "nuova" chiarezza politica; di una politica, oltre che di una "sinistra" possibile, che hanno innanzitutto bisogno di una informazione nuova e europea...
Mitterrand, Kohl, sono l'ombra di se stessi, come i loro oppositori: non propongono nulla, e cercano di mascherarlo. Sono la drammatica e - in parte - dolorosa testimonianza del nullismo con cui cercano di conservare il potere contro le urgenze politiche che premono e non consentono scelte di mera conservazione nazionale, corporative, di sicurezza e di difesa fondate sul potere loro "militare".
Craxi ed Andreotti, se reggono, potrebbero accorgersi che l'"isolamento" loro rimproverato oggi ben presto sarà quello degli altri: in definitiva "interessi" e "popoli" europei, oggi, si trovano a dover marciare insieme proprio nella direzione che sembra la loro, e di larga unità "italiana" 2088.