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Cronologia del Partito Radicale -
1988

DOCUMENTI

Senza Pannella: Intervista a Sergio Stanzani,
nuovo segretario dei radicali.
  di Carmine Fotia IL MANIFESTO, 8 gennaio 1988
Pannella: la realizzazione della "nazione" Cee va sostenuta in nome del nostro stesso futuro di Marco Pannella CORRIERE DELLA SERA, 8 febbraio 1988
Un presidente per l'Europa di Roberto Cicciomessere NR1 del 9 gennaio 1988
Mozione approvata dal Consiglio federale di Bruxelles 12/14, febbraio 1988
Mozione sul simbolo del Partito radicale 12/14, febbraio 1988
Ovunque fossimo, tranne in Italia ... Lettera di Marco Pannella a Renato Altissimo, Antonio Cariglia, Bettino Craxi, Giorgio La Malfa, Sergio Stanzani
A Spalato per la Jugoslavia nella CEE di Maria Teresa Di Lascia NR87 del 28 aprile 988
Responsabilità civile: rimettiamo la busta. E busta fu Mauro Mellini NR87 28/5
Polonia: niema wolnosci bez solidarnosci di G.i Negri e O. Dupuis NR107 24.5.88
Sul partito in Turchia, con paura di Massimo Lensi NR107 del 24 maggio 1988
Mozione del Consiglio federale di Madrid Madrid 5/9 maggio 1988
Fondazione Enzo Tortora: se queste ore bruciano di Enzo Tortora NR87 28.4.88
Tortora: Hai vissuto come non mai. Fino all'ultimo di M. Pannella NR107 27/588
35° Congresso: in Jugoslavia di Giovanni Negri NR122 del 15 giugno 1988
Stati Uniti d'Europa: L'appuntamento del vertice di G. Dell'Alba NR122 15.6.88
Mozione del Consiglio federale Grottaferrata 20/24 luglio 1988
A Praga, vent'anni dopo di Gabriele Paci NR180 del 25 agosto 1988
Abbiamo bisogno tutti della verità, anche i colpevoli di M.Pannella NR180 25.8
La Conferenza internazionale antiproibizionista del 1988 G. Arnao- Intervento - novembre 88
Mozione del Consiglio Federale Gerusalemme, 21/24 ottobre 1988
De Mita e Craxi isolati Di Marco Pannella NR262 del 30 novembre

Senza Pannella Intervista a Sergio Stanzani, nuovo segretario dei radicali.

di Carmine Fotia IL MANIFESTO, 8 gennaio 1988

Antipannella lui? Sentitelo: "Con Marco ci conosciamo dal 1947 - dice Sergio Stanzani, 64 anni, ingegnere, uno dei fondatori del Pr, nuovo segretario, sibilando la 'esse' da bolognese purosangue - io ero presidente dell'Ugi e lui aveva vent'anni. E rompeva le balle già allora". Nel momento in cui si crea una distanza tra il leader e il partito, diventa segretario un uomo della prima ora, anche se ignoto al grosso della opinione pubblica.
Bologna. E' lo stesso Stanzani a spiegare come mai sia toccato proprio a lui assumersi l'onore di guidare il partito dopo un congresso tra i più difficili, mentre il suo predecessore Negri si preoccupa di smentire le notizie sulla telefonata tra lui e Pannella in pieno congresso.
"Per come sono andate le cose - dice Stanzani senza rifiutare il paragone tra la sua elezione e quella di Natta a segretario del Pci del dopo - Berlinguer - in fondo era la scelta più giusta. Non che io lo pensassi prima del congresso: certo avevo dato, come altri, la mia massima disponibilità al partito, ma non immaginavo che ciò dovesse tradursi nell'assunzione della responsabilità del primo segretario. La scelta ritengo sia stata fatta perché, in un momento in cui si assommano diverse contraddizioni, solo chi riassume in sé tutti gli elementi di una storia (quando si deve fare a meno di Marco Pannella) può guidare il partito senza che si perda nulla del suo passato, mentre si acquisisce una nuova e diversa dimensione".
- Ecco, Stanzani, quale sia questa nuova dimensione non è risultato chiarissimo dal congresso. Che cosa è davvero successo nelle vostre assise?
Questo congresso ha realizzato, almeno potenzialmente, due grosse conquiste. In primo luogo, una legittima maggior libertà di Pannella, sempre condannato a far coesistere il suo essere politico con l'essere del partito. Ciò è stato un grosso fatto positivo per una fase, ma a mio avviso era divenuto una perdita per il partito e per Pannella. In secondo luogo, si è conquistata una maggiore autonomia da parte dei dirigenti del partito. Tutto ciò è un preciso risultato.
Come riusciremo ora a guidare il partito è un altro discorso, sono state disturbate abitudini e modi di essere, si è modificato un equilibrio, ma questa è una condizione necessaria per andare avanti e non invece un dato di conservazione di una realtà pur se fatta di cose stupende. Non è una sconfitta di Pannella, semmai una vittoria della sua intelligenza politica.
- Eppure è stato Pannella ad accusarvi di aver privilegiato l'unità del gruppo dirigente sulla chiarezza delle scelte, e poi non ha votato la vostra mozione. Allora come mai ha vinto?
Il gruppo dirigente è stato in grado di determinare una sua unità. Che ciò poi potesse avvenire, come voleva Marco, con un atto autonomo e al tempo stesso trovando la soluzione teoricamente più adeguata, forse era pretendere troppo. Se insieme all'autonomia fossimo riusciti anche a fare scelte più precise sarebbe stato sicuramente meglio, ma ciò non vuol dire, in questo sono in dissenso con Marco, che la nozione sia una pura "dichiarazione d'intenti". Malgrado certi "estremismi pannelliani" abbiamo chiesto vincoli più formali e le richieste che ci erano state poste sulla scelta del partito trasnazionale sono state esaudite.
Siamo tutti coscienti che in gioco c'è la vita del partito. Qualcuno proponeva di fissare l'obiettivo di 15mila iscritti, ma raccogliere quattro miliardi di autofinanziamento, com'è scritto nella mozione, vuol dire raccogliere un numero di iscritti anche maggiore. Vedremo in seguito se ha ragione Marco o se avevamo ragione noi.
- Non puoi negare però che c'è stata incomunicabilità tra Pannella e il resto del gruppo dirigente.
Comprendo bene chi ha avvertito duramente la sofferenza del rapporto con Marco, ma non capisco chi, nel momento in cui si fa una scelta di autonomia, esita poi ad assumere tutte le responsabilità conseguenti.
- Ti riferisci a quelli che Pannella chiama i "radical-democratici", cioè a quelli che lui definisce "i conservatori radicali"?
L'impatto individuale con quello che è stato definito "un salto nel buio" è stato pesante. Non era facile essere d'accordo, ma la difficoltà era dentro ciascuno di noi, a nessuno piaceva personalmente l'idea di accollarsi questi nuovi oneri, per chiunque è difficile mettere in gioco quel che si ha in nome di quel che si potrà avere. Tutto ciò ha prodotto esitazioni, ma alla fine la sfida è stata accettata da tutti.
- Dunque, si è chiuso un ciclo della politica radicale? Si volta pagina rispetto alla scelta "istituzionale" del 1976?
Siamo stati noi per primi ad avvertire il rischio di una perdita di originalità dell'esperienza radicale, è per questo che oggi, con la scelta trasnazionale, da tradurre operativamente, cerchiamo un ritorno alle radici.
- Vuol dire, come teme qualcuno anche al vostro interno, che ciò significa disertare la lotta politica in Italia?
Pensare che un partito che esiste e opera in Italia da trent'anni possa in un sol giorno diventare "trasnazionale" è certo un'idiozia: peccato, perché quanto più saremo "trasnazionali", tanto più saremo anche "nazionalmente" forti.
Il problema è come far vivere, anche in Italia, questa scelta di trasnazionalità. E ciò vuol dire dar vita e corpo a un processo di riforma. Da oggi, però, questo non lo potremo più fare con "il partito radicale-in quanto tale", partecipando con il suo simbolo alle competizioni elettorali. Se domani si andasse a votare noi avremmo di fronte diverse possibilità: dare indicazioni di voto per altri, o non darne affatto; sollecitare il non voto o, ad esempio, promuovere liste elettorali aperte all'insegna dell'uninominale. Tutto ciò sempre con un simbolo diverso da quello del Partito radicale. In fondo è un ritorno alla nostra concezione originale del partito secondo la quale la partecipazione diretta alle elezioni costituisce un mezzo a cui ricorrere solo in via del tutto eccezionale.
- E' vero che questo Pr 1988 è più distante dal Psi e più vicino al Pci?
Col Pci abbiamo da sempre un rapporto di non subordinazione e di scontro ma da sempre aperto al dialogo e al confronto. Fummo noi dell'Ugi ad aprire le nostre associazioni agli universitari comunisti, quando, con il maccartismo, l'anticomunismo era imperante: la nostra diversità ci ha sempre consentito una maggiore libertà di dialogo.
Il discorso con i socialisti è diverso: siamo più vicini per tradizione, storia e cultura; il confronto con loro pertanto è più diretto e immediato, come più dirette e immediate sono le possibilità di scontro. Le scelte compiute dal Psi dopo le elezioni, anzitutto con il rifiuto di sostenere la strada dell'eptapartito, con noi e i Verdi al governo, e poi svilendo l'esito dei referendum, hanno creato importanti elementi di dissenso. Resta tuttavia immutato il nostro più vivo interesse a ogni occasione di incontro e la nostra speranza di poter proseguire in un proficuo lavoro comune.


Pannella: la realizzazione della "nazione" Cee va sostenuta in nome del nostro stesso futuro

di Marco Pannella CORRIERE DELLA SERA, 8 febbraio 1988

Il costo della "non-Europa" è già storicamente immenso, e ipoteca l'avvenire di gran parte delle società europee, mediterranee e di gran parte dell'Africa.
E' un costo insopportabile per il mondo intero e per le sue prospettive: il mondo della democrazia politica, del diritto alla vita e della vita del diritto, non può continuare ed essere tributario e dipendente del solo popolo americano e delle sue istituzioni, pena la morte dei comuni valori.
La democrazia è anche una tecnologia, un mondo di essere delle trasformazioni e delle rivoluzioni tecnologiche e sociali, storiche e scientifiche. Essa richiede oggi mercati e istituzioni a dimensione dei problemi storici del mondo, e che si sappia pagare il prezzo apparentemente altissimo del rispetto dell'umanità e di tutti i suoi membri. Il mito "romantico" degli Stati nazionali è divenuto voragine mortale nella quale sta precipitando da decenni il nostro secolo.
Occorre che questa consapevolezza subito si traduca in coscienza e volontà politica, diventi costitutiva di una "parte", di un "partito": forse questo sta accadendo.
La mozione parlamentare che dovrà essere votata dopodomani, il 10 febbraio, che ha per primo firmatario il presidente della Commissione Esteri Flaminio Piccoli, già sottoscritta da quasi duecentocinquanta deputati, costituisce un passo fondamentale nella direzione giusta. Solamente la natura e la sottocultura di tanta parte del quinto potere, in particolare quello audiovisivo, hanno potuto ignorare tutto di questa iniziativa, cui il ministro degli Esteri Andreotti ha dato subito vigorosa e pronta adesione, pur alla vigilia di un "vertice europeo" nel quale temi e compromessi possibili sembrano costituire argini invalicabili alla costruzione, oggi, degli Stati Uniti d'Europa.
Siamo alle solite: come ai tempi della P2 parastatale gli eroi "negativi", eletti dal quinto potere, dall'"informazione", erano le altrimenti sgangherate bande terroristiche, così in queste settimane "i franchi tiratori" sono apparsi come gli antagonisti del potere riproponendo la mortale, menzognera alternativa fra acquiescenti e rivoltosi, conformisti e conformisti della rivolta, fra consumatori e distruttori violenti del possibile. Il "resto", che è l'essenziale, non deve esistere e, se esiste, non lo si deve sapere.
Non appena appresa la notizia di questo documento, nei giorni scorsi, ovunque in Europa, da membri della Commissione esecutiva e parlamentari europei, dalle organizzazioni federaliste ma anche da ambienti economici, degli ambienti vicini a Giscard d'Estaing e Karl Schmidt, sono giunti segnali di grande interesse, di sorpresa e anche di entusiasmo.
Forse il linguaggio del documento, almeno quanto al contenuto, mostra la sua forza: la richiesta di "Stati Generali dei popoli europei" con elezione dei Presidenti del Consiglio e della Commissione ad opera degli oltre seimila parlamentari dei dodici Paesi e di quelli del Parlamento Europeo, nel luglio del 1989, fornisce alla memoria storica e all'immaginario di tutti noi quel che Faure, nel suo messaggio di sostegno inviato al presidente Piccoli e alla Camera dei deputati, ricorda: che più di cento anni fa Auguste Comte affermò carattere "europeo" della Rivoluzione del 1789, e nella scarsa consapevolezza di questo i suoi limiti e i suoi relativi fallimenti.
La politica italiana è a volte molto più ricca e viva di quel che su di essa si riferisce e si conosce, e di questo rischia di morire. Speriamo che così non sia, almeno in questo caso. 2963


Un presidente per l'Europa

di Roberto Cicciomessere NR1 del 9 gennaio 1988

"Euro-pessimisti" ci chiamavano quando affermavano che la strategia dei piccoli passi, dei compromessi non avrebbe portato mai agli Stati Uniti d'Europa o all'Unione europea che dir si voglia.
Noi chiedevamo che fosse data attuazione al progetto di Trattato dell'Unione approvato dal Parlamento europeo sotto la sferza di Altiero Spinelli, loro, gli "euro-ottimisti", si accontentavano invece dell'Atto unico di Lussemburgo.
Noi dicevamo che senza passi avanti sostanziosi nella riforma delle istituzioni comunitarie e cioè verso la creazione di un unico governo democratico dell'Europa controllato da un unico Parlamento democratico, dotati rispettivamente dei pieni poteri esecutivi e legislativi nelle materie di competenza comunitaria, l'obiettivo dell'Atto di Lussemburgo, e cioè la completa integrazione e liberalizzazione del mercato interno prevista entro il 1992, o non si sarebbe realizzato o, peggio, avrebbe portato al dissesto democratico dell'Europa.
Gli interessi delle multinazionali europee dell'industria e della finanza sono infatti chiari: se da una parte invocano la liberalizzazione del mercato europeo e degli scambi, dall'altra preferiscono avere come controparte una Commissione e un Consiglio deboli e fortemente condizionabili, piuttosto che forti istituzioni democratiche capaci di un effettivo controllo ed intervento sull'economia, magari anche intenzionate a stabilire ferree norme antimonopolistiche.
Il fallimento del vertice di Copenaghen in cui i Dodici si sono dimostrati incapaci perfino di concordare il bilancio per il 1988 e i prezzi comunitari dei prodotti agricoli ha tolto ogni speranza anche agli euro-ottimisti più incalliti.
Ma non basta aver ragione, occorre saper inventare, creare i rimedi. Per far ciò è necessario individuare amici e nemici, proporsi obiettivi ambiziosi e ragionevoli, cercare possibili alleati.
I nemici sono ben conosciuti anche se spesso camuffati, dietro un europeismo da facciata, da amici. Innanzitutto i governi dei dodici paesi, ovvero le burocrazie nazionali e comunitarie che tutto hanno da perdere e niente da guadagnare dal processo d'integrazione politica: meno potere clientelare, meno possibilità di lucrare sulle strutture parassitarie nazionali, più controllo da parte del Parlamento europeo. Ma anche la Commissione esecutiva di Jacques Delors, apparentemente alleato del Parlamento europeo, ha dimostrato di voler sempre usare del sostegno parlamentare per compromessi di basso profilo per il Consiglio. Le stesse parole "riforme istituzionali" sono infatti scomparse dal vocabolario politico di Delors, nonostante i ripetuti e solenni impegni.
Il Parlamento europeo, dal canto suo, ha fatto con l'approvazione nella scorsa legislatura del Progetto di Trattato dell'Unione, tutto quello che gli era consentito dai poteri limitati, quasi inesistenti, concessi a questa istituzione pur eletta a suffragio universale. Il riflesso di rassegnazione dei deputati europei, controllati da gruppi politici burocratici e sclerotizzati, ha raggiunto del resto in questa legislatura livelli così alti da non consentire più alcun margine di iniziativa.
Fuori gioco anche i partiti nazionali, capaci di ricordarsi dell'esistenza delle speranze europeiste e federaliste solo ogni cinque anni, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo.
Degli industriali si è già detto, così come dei loro giornali e giornalisti che pretendono persino di essere pagati per recarsi, due o tre giorni al mese, a Strasburgo per le sessioni del Parlamento europeo.
Non resta che l'opinione pubblica, la gente che ogni volta che è interpellata, come dall'Eurobarometro, si esprime a larga maggioranza non solo per l'idea generale degli Stati Uniti d'Europa, ma anche per il trasferimento dei poteri nazionali alle istituzioni comunitarie.
Ma non può esservi rivolta democratica nel momento in cui la cultura dominante associa all'idea europeista e federalista tutt'al più qualche vantaggio economico, qualche fastidio in meno o, peggio, l'illusione di un'Europa terza grande potenza, industriale e militare, tra Urss e Usa.
Certo i vantaggi economici non sono disprezzabili. Certo è inconcepibile continuare a pagare l'assurdo, in termini economici e politici, di dodici bilanci della ricerca, di dodici bilanci della difesa, di dodici politiche monetarie.
Certo solo l'Europa unita ed integrata potrebbe reggere il confronto internazionale, potrebbe tutelare i propri interessi, soprattutto nel momento in cui gli Usa mostrano di essere incapaci di assumere una leadership economica e politica dell'occidente.
Ma l'idea europeista e federalista del Manifesto di Ventotene ha potuto crescere ed in qualche modo affermarsi con la prima realizzazione delle istituzioni comunitarie solo perché era espressione e portatrice di ideali politici consistenti e non solo di interessi mercantili. Si trattava cioè di concepire il nuovo assetto politico dell'Europa dopo secoli di guerre fraticide, dopo vent'anni di barbarie nazista e fascista, quando già si intravvedeva il fallimento della rivoluzione leninista.
L'Europa dei mercanti, delle nuove ricchezze costruite sulla distruzione insensata di milioni di tonnellate di eccedenze agricole, non potrà mai divenire qualcosa a cui il popolo possa affidare una sola briciola delle proprie speranze.
Ecco quindi che solo l'Europa dei radicali, quella che deve essere costruita per vincere il totalitarismo ed affermare lo Stato di diritto, per sconfiggere la fame ed affermare il diritto della persona contro il sopruso dello Stato, può essere l'Europa della gente, l'obiettivo e l'ideale per il quale vale la pena pagare di persona.
Una prima proposta in questa direzione è attualmente all'esame degli organi del partito:
1) Conferimento al Parlamento europeo che sarà eletto a suffragio universale nel giugno 1989 del compito di aggiornare, entro il 1989, la proposta di nuovi Trattati per l'Unione europea già approvati dal Pe. Tali Trattati dovranno essere sottoposti direttamente alla ratifica dei Parlamenti degli Stati membri.
2) Elezione del Presidente della Commissione da parte del Parlamento europeo eletto nel 1989 e dei dodici Parlamenti degli Stati membri secondo appropriate procedure.
Il Presidente della Commissione, che dovrà ottenere la fiducia nel suo programma da parte del Pe, resterà in carica per quattro anni non prorogabili.
3) Elezione del Presidente del Consiglio europeo, avente funzioni di copresidente permanente del Consiglio dei Ministri della Cee, da parte del Parlamento europeo eletto nel 1989 e dei Parlamenti dei dodici paesi membri, secondo le appropriate procedure. Il copresidente resterà in carica per quattro anni non prorogabili.
4) Esame della possibilità di associare alle due elezioni i membri dell'Assemblea del Consiglio d'Europa di Stati non facenti parte della Cee che ne facessero domanda.
5) Destinazione del 2% dei bilanci nazionali della difesa dei dodici Stati membri per la promozione e la difesa dei diritti civili ed umani nell'Europa dell'Est, previsti dal III paniere degli accordi di Helsinki, a partire dal 1990.
La caratteristica più importante di questa proposta è quella di coinvolgere direttamente i Parlamenti nazionali nel processo di costruzione degli Stati Uniti d'Europa, nel momento in cui appare evidente che né i governi degli Stati membri e neppure lo stesso Parlamento europeo hanno oggi la forza di attuare il progetto di Trattato dell'Unione che Altiero Spinelli riusci ad imporre, nella scorsa legislatura, al Parlamento europeo.
La proposta di convocazione degli "Stati generali d'Europa" per l'elezione del Presidente dell'Europa e del Presidente dell'esecutivo comunitario, s'incontra infatti con l'esigenza sempre più sentita che l'Europa possa parlare con una sola voce e che due autorità di prestigio, che traggano la loro legittimazione direttamente dal Parlamento europeo e dai Parlamenti nazionali, possano prevalere sugli interessi delle burocrazie nazionali e comunitarie che paralizzano ogni capacità decisionale del Consiglio e della Commissione.
Accanto a questi obiettivi principali si aggiunge la proposta, già avanzata con l'iniziativa referendaria del Gruppo parlamentare federalista europeo, di richiedere il conferimento di poteri costituenti al Parlamento europeo per la predisposizione dei nuovi trattati dell'Unione.
L'ultima proposizione, quella di destinare alla guerra al totalitarismo il 2% dei bilanci della difesa, nasce dalla convinzione, più volte espressa da Marco Pannella, che la proposizione e la difesa di un nuovo sistema politico, sociale, di potere per l'Europa non può prescindere dalla consapevolezza che questo deve poter costituire anche arma di sovversione e nuovo ordine possibile anche nel campo avversario.
E' questo, nel suo complesso, un progetto politico e una sfida che per avere forza deve poter sconvolgere assetti e dislocazioni nel Partito radicale e dei radicali. Nella cosiddetta classe dirigente come fra tutti i militanti.
Soprattutto è un progetto politico che può avere speranza di affermarsi solo se sarà capace di promuovere e di far crescere quella che per ora è solo una metafora radicale: il Partito radicale transnazionale. 175


Mozione approvata dal Consiglio federale di Bruxelles

12/14, febbraio 1988

Mozione generale

Il Consiglio Federale del Partito radicale, riunito a Bruxelles il 12, 13, 14 febbraio 1988, nel sottolineare il carattere e la forma transnazionale assunti dal partito con il Congresso di Bologna,
approva le relazioni del primo segretario e del tesoriere, in particolare per quel che riguarda le indicazioni di priorità politiche in esso contenute - iniziativa per gli Stati Uniti d'Europa; affermazione dei diritti umani e lotta al totalitarismo - e i precisi obiettivi in esse definiti e scadenzati circa la campagna di iscrizioni e di autofinanziamento;
rileva il valore straordinario della risoluzione parlamentare approvata il 10 febbraio scorso, grazie all'iniziativa radicale e al concorso di molteplici forze politiche, dalla Commissione esteri della Camera dei deputati italiana. Con tale risoluzione il governo di un Paese del nostro continente è finalmente impegnato ad ottenere dal Consiglio Europeo l'attribuzione di poteri costituenti al Parlamento Europeo che sarà eletto nel 1989 e la convocazione -nel luglio dello stesso anno- degli Stati generali dei popoli europei. La convocazione di questa Assemblea, composta dagli eletti nei parlamenti nazionali ed al Parlamento europeo, finalizzata all'elezione del Presidente del Consiglio Europeo e del Presidente della Commissione della Comunità, rappresenta oggi il decisivo progetto politico di rilancio del processo di integrazione europea, sulla linea del progetto di Trattato dovuto in particolare alla volontà di Altiero Spinelli. Tale risoluzione pr gli Stati Generali dell'Europa costituisce perciò uno strumento di mobilitazione e di iniziativa attorno al quale suscitare, in ogni Paese, schieramenti maggioritari sia di opinione pubblica che parlamentari e di governo.
Il Consiglio federale inoltre prende atto delle oltre 200 adesioni di parlamentari europei, giunte in pochi giorni e provenienti dai più disparati orizzonti politici e da tutti i Paesi della Comunità, a sostegno della risoluzione. E' sicuramente questa la risposta più forte e significativa che deve essere data alla crisi strutturale, politica e di prospettiva che attraversa l'Europa comunitaria, forse la crisi più grave -come anche gli esiti del vertice di Bruxelles confermano- dal dopoguerra ad oggi.
Nel ringraziare le centinaia di radicali provenienti da Paesi europei ed extraeuropei, che hanno in questi giorni manifestato nuovamente a favore della Riforma democratica e federalista del nostro continente, il Consiglio federale impegna gli organi esecutivi e gli iscritti -ovunque questi operino- a dare vita entro la prossima riunione del Consiglio federale, prevista per il mese di maggio, ad una campagna civile e popolare per la convocazione degli Stati Generali d'Europa, oltre che per lo svolgimento dei referendum popolari consultivi sull'attribuzione dei poteri costituenti al Parlamento Europeo.
Sottolineando le caratteristiche uniche assunte dal Partito radicale con le recenti scelte congressuali in direzione transnazionale e transpartitica, il Consiglio federale invita altresì ogni iscritto a legare la propria iniziativa e mobilitazione per gli Stati Uniti d'Europa alla campagna per il raggiungimento degli obiettivi di iscrizione e autofinanziamento, condizioni minime ed essenziali alla vita stessa del partito.

Mozione sul simbolo del Partito radicale

Il Consiglio federale del Partito radicale, riunito i giorni 12, 13 e 14 febbraio a Bruxelles, nel valutare come decisiva - in termini di identità, di immagine e di immediatezza di comunicazione del partito e delle sue lotte- la scelta relativa al simbolo del partito stesso,
esaminate le proposte avanzate in Congresso ed elaborate nel successivo periodo,
delibera di sospendere ogni decisione, rinviandola alla prossima riunione del Consiglio federale,
rivolge un appello a tutti i militanti radicali affinche riforniscano con ulteriori idee, suggerimenti e proposte la riflessione e il dibattito circa la definitiva scelta del simbolo,
affida agli organi esecutivi il compito di ulteriormente approfondire il dibattito relativo all'effige di Gandhi, non ritenendola in alcun modo pregiudicante o lesiva delle caratteristiche laiche, libertarie e nonviolente del partito, a maggior ragione ribadite con la scelta transnazionale compiuta dal Congresso di Bologna. 146


Ovunque fossimo, tranne in Italia ...

Lettera di Marco Pannella a Renato Altissimo, Antonio Cariglia, Bettino Craxi, Giorgio La Malfa, Sergio Stanzani

A Renato Altissimo ed ai membri della Direzione del PLI
A Antonio Cariglia ed ai membri della Direzione del PSDI
A Bettino Craxi ed ai membri della Direzione del PSI
A Giorgio La Malfa ed ai membri della Direzione del PRI
A Sergio Stanzani ed ai membri della Segreteria del PR
Ai membri dei Gruppi parlamentari PSI, PSDI, PRI, PLI e Federalista Europeo

Carissimo Renato,
ovunque fossimo, tranne in Italia e in qualche altro paese proporzionalista, sarebbe difficile spiegare, altro che con ragioni storiche e preistoriche, perché non costituiamo un solo partito, e perché i nostri aderenti non ne compongono, scomposti, "componenti" diverse.
Il guaio è che mi diventa sempre più sgradevole e difficile spiegarlo anche in Italia, e spiegarlo a me stesso, in termini politici, etico-politici e progettuali, di società e di Stato.
Per la verità, se ci fossimo uniti in un solo partito, diverrebbe subito difficoltà a molti comunisti e molti democristiani e molti apolitici spiegare a loro volta perché mai stiamo lì e non qui.
Sommando i nostri voti oltrepassiamo il 25% dei suffragi. Se ci presentassimo, prima politicamente e poi elettoralmente uniti, ne perderemmo molti, sic stantibus rebus; ma ne guadagneremmo certamente molti di più se ci presentassimo con qualche idea-forza, qualche proposta di tipo "referendario", di "civiltà", come ad esempio quella di una riforma elettorale che ci garantisse il passaggio a quella democrazia anglossassone che sempre più, mi sembra, è punto di riferimento obbligato, e agli Stati Uniti d'Europa "now", e non quando fossimo unificati dalla miseria, dalla marginalità, o da peggio ancora.
Poiché l'obiezione principale che mi viene opposta è che rischieremmo in siffatta ipotesi di scomparire e di assicurare l'eternità a DC e PCI, torno a ripetere che io propongo di proporre al Paese di darci il 30%, darci un grande successo, di dare per ora forza e iscritti ai nostri partiti, per poter proporre, poi, a livello istituzionale questa riforma.
Non rischieremmo dunque nulla; nulla di più di quel che rischiamo oggi. Che è moltissimo.
Se nel corso di questa crisi dovessimo vedersi delineare un "tavolo" PRI-PLI, uno PSI-PSDI-PR, con la DC al centro delle scelte e degli arbitrati, ciascuno può illudersi o magari anche ottenere qualche vantaggio immediato. Così come se se ne formassero altri, "extrapentapartito", uno PR-DP-Verdi, accanto a quello PCI-Indipendenti di sinistra. Il tutto con l'aggiunta del "tavolone" extragovernativo sulle riforme istituzionali.
E poi? E alle elezioni europee, alle amministrative, alle regionali, alla RAI-TV nella mendicità o nella rapina di spazi di sopravvivenza, nel sottogoverno e nella ricerca di finanziamento, di assessori e di mandati di comparizione?
E con quale Governo? Con quale forza interiore od esterna? Con la solita storia di stillicidi e di risse in vista del Congresso DC e dei nostri?
Sembra che la nuova soluzione della difficoltà si avvii a chiamarsi "pentapartito", perché - ho sentito - per Craxi è meglio semplificare, per Cariglia è meglio ascoltare - consentendo - De Mita, per Altissimo non so, anche se non poso mettere in dubbio che sappia.
E quasi tutti, tenendosi ben rasenti ai muri e ben seduti su poltrone e strapuntini perché "qui volano bassi", accettano e subiscono la bestemmia demitiana della "quasi-maggioranze istituzionali", mutilazione clamorosa di democrazia politica, pur di avere in cambio la garanzia che non ci facciano una legge che ci dia - all'uno o all'altro - all'uno contro l'altro o a spese dell'altro - qualche riformetta elettorale sgradita.
Spero che non ci si perda troppo tempo con l'arrière-pensée che da qualche mese sono colto da ministro mania, personale o di partito. A sessant'anni, e con il tipo di vita e di persona che sono stato e sono, vorrebbe semplicemente dire che l'arteriosclerosi è avanzatissima e da interdizione, anche per i miei compagni poco più che ventenni.
Ritengo semplicemente che l'ostracismo operato, voluto, subito, nemmeno calcolato, contro la forza radicale sul piano dei governi, delle maggioranze, e - fino ad alcuni anni fa - sul piano "laico" sia costato, e costato troppo a tutti. Non si è valutato quanto siamo ferocemente forza di aggregazione, di disciplina di settore, di lotta e di famiglia, duri e leali, ma anche capaci, nel fare, nel costruire, nel pesare nella vita civile e nazionale, e anche istituzionale.
Tutte le nostre battaglie hanno avuto altri nomi istituzionali dai nostri. Non ci siamo mai preoccupati un istante di amministrare o di rivendicare i successi riportati, con il nostro non marginale contributo; abbiamo vegliato a non divenire un "partito laico in più", e a non avere insediamento altro che di opinione o ideale, niente consiglieri comunali, assessori, sindaci, consiglieri di amministrazione, scrutatori, portieri alla RAI o da Berlusconi, dando tutti i nostri soldi pubblici a radio radicale, ogni volta discutendo, vagliando, e difficilmente ma recisamente deliberando.
Tutto questo in nome di un disegno consapevole, del quale oggi possiamo tutti valutare la concretezza e l'onestà.
Se, quindi, pongo, ripropongo senza complessi e solamente con una punta, ogni tanto, di nausea politica, questa proposta di un Governo a sette (se qualcuno si fa fuori da sé, il problema è un altro) e in esso della nostra presenza "piena", è perché non trovo altro, per ora, che possa efficacemente, in modo comprensibile anche alla gente, contrastare il peggioramento ulteriore dello "status quo", ed evitare di consumare tempo, e consumare la nostra forza, i nostri partiti, o affidarne a poveri disegni di potere e di sottopotere l'avvenire e il successo.
Aver ridotto tutto a nulla, è quello che ci colpisce come una maledizione; e non vi scrivo, credetemi, mosso da preoccupazioni verso e dal partito del quale ho la tessera, perché me la concede.
Ma vi sembra davvero possibile che ci siamo spaccati per Montalto o no? Per il "nucleare-di aggancio tecnologico" o no? O che ci siamo divisi fra "nemici" e "amici" dei magistrati e della "indipendenza" della magistratura, per poi votare quasi tutti un "si" al referendum ed ora, tutti tranne noi, una legge che va esattamente in direzione opposta al referendum ed ai suoi risultati? Mentre nella DC e nel PCI non queste posizioni laiche, ma posizioni e interessi quasi dogmatici convivono senza storie, grazie al trasformismo di tutti.
E noi che continuiamo a sperare nella speranza che "vada bene" - che so io? - per il "polo PRI-PLI", per quello del 20%, o per quello del 7%, riducendo il problema PCI a ingenui tentativi di utilizzo o di ricattini?
Eppure... Non è che io senta rivivere in me l'abate Seyes che spiegò con qualche fortuna al terzo stato che era nulla mentre poteva essere tutto, ma immaginate un solo istante cosa accadrebbe di "notevole", anche per gli aborriti "mass-media", se un giorno di questi ci riunissimo tutti noi, insieme, in assemblea comune, come i direttivi della DC e del PCI si riuniscono, magari solo per decidere che torneremo a farlo un'altra volta, ben presto, per due o tre giorni, e con qualche tema su cui prendere una delibera comune?
Sono anni che giriamo attorno a queste proposte. Poi non se ne fa nulla.
Dinanzi a giochi e giochetti di crisi, in cui ciascuno tira per conto suo (e - lasciatemelo dire - semmai per una volta la buona sorpresa torna a venire dai toni e dall'atteggiamento del PRI e non da noi altri magnifici quattro dello scorso anno, e della leadership che così volentieri assegnavamo a Craxi) se continua così, come fare a non "chiamarsi fuori"? Ed è possibile che non comprendiamo, tutti, che dobbiamo operare perché dalla crisi vengono aiuti sostanziali, politici, comuni, a quelli fra di noi che, come partiti (e non è il PR) siano in maggiore difficoltà? PLI e PSDI, per esempio?
Nel suo ultimo articolo sul giornale innominabile, Occhetto ha inserito due parole-chiavi: democrazia politica, e nonviolenza. Non "pacifismo", "unità popolare", "unità nazionale", o i tradizionali (da vent'anni, dal dopo-Togliatti), orrori del lessico populista e neocrispino. Vi par nulla? E in quel partito, e solo in quello, si sta discutendo, accettando di discutere della propria storia; noi, per le nostre, è come se non ci fossero. E continuiamo, in nome di quelle storie, separate che è come se non ci fossero (oggi: ed è giusto ed è vero), ad essere divisi, invece che uniti, deboli invece che forti.
Ma, per Dio, è proprio impossibile capire che abbiamo bisogno, che dobbiamo a quanti sono venuti prima di noi ed hanno sofferto la separatezza perché storicamente obbligata, e che per questo furono grandi civilmente, moralmente, e sostanzialmente battuti politicamente, ed abbiamo bisogno non che i destinatari primi di questa lettera comincino qualche volta a sentire l'interesse, la convenienza, la bellezza di farsi fotografare almeno una volta insieme, ad un tavolo di presidenza di qualcosa, di noi, d'altro, di quel che gli pare.
Che Pantheon di storie, di nomi, di foto, di vite e di morti, onoreremmo, resusciteremmo, mostreremmo finalmente quali preparatori, costruttori di un presente civile e grande, e non più come martiri e testimoni, come vinti e residui d'una nobiltà perduta, emblemi indebitamente usati per giustificare e consumare le nostre rassegnate, piccole separatezze.
Pu numerosi che ne siano i destinatari, questa lettera è personale, pienamente personale, da me a ciascuno che avrà avuto la bontà di leggermi, di cercare di capirmi, decifrarmi se necessario. Personale, fin nel pagamento dei francobolli, dove sono necessari.
C'è la crisi. Ma non può esserci solo la crisi. Il resto, importa di più. E deve trovare un segno, qualche volto, qualche gamba per camminare. Vi propongo di pensare, seriamente, di fare un viaggio a Roma, senza altro motivo che per stare insieme, e insieme ,farci vedere un istante. Magari il martedì 30 o il mercoledì 31 Marzo. O quando vorrete.
Quel che mi auguro, che spero, che vi prego, è di rispondermi; comunque, ma di trovare un attimo, o un'ora, per farlo. Grazie.

Fraterni saluti, Marco Pannella 2962


A Spalato per la Jugoslavia nella CEE

di Maria Teresa Di Lascia NR87 del 28 aprile 988

Siamo partiti da Roma in tre alle 6 del mattino con la macchina di Giachetti che guidava veloce e sicuro come una pubblicità della Michelin.
Ad Arezzo abbiamo caricato il quarto dell'equipaggio, Leonardo Moriani, che ha fatto un pallido tentativo di continuare con la sua macchina, ma subito ha ceduto alle nostre rimostranze (è famoso per la sua tabella di marcia che non supera i 60 all'ora).
Alle due eravamo a Trieste a prendere i volantini stampati da Ghersina che hanno superato il confine con un compagno di Trieste e il tesserino che i cittadini di frontiera usano per andare e venire dalla Jugoslavia.
Gli striscioni con le scritte "Jugoslavia nella Cee/Partito radicale" e "Iscriviti all'Europa, iscriviti al Partito radicale", erano invece nella nostra macchina. Alla domanda "Cosa andate a fare a Spalato?" abbiamo risposto come un sol uomo -nonostante io e Caterina Caravaggi fossimo donne- che il "tifo" ci chiamava. Non siamo stati perquisiti nè ulteriormente indagati e siamo entrati felicemente in territorio jugoslavo. Siamo arrivati in albergo a Spalato alle 4 di mattina e ci siamo informati dal portiere sulla sorte dell'altro equipaggio partito la mattina da Firenze e passato per l'Austria a causa della presenza contemporanea di Dentamaro e Tamburi. Voi capite che uno si sopporta ma che due sono troppi... Scherzi a parte, l'uno e l'altro non potevano passare se non dall'Austria perché Dentamaro non può uscire dall'Italia con il passaporto in quanto obiettore, Tamburi non poteva presentare il proprio documento in quanto espulso dalla Jugoslavia due anni fa per un'altra manifestazione radicale. I quattro, c'erano anche Massimo Lensi e Mario Cocozza, erano già a letto a dormire come angeli.
L'indomani di buon'ora abbiamo fatto un sopralluogo allo stadio per capire dove era meglio mettersi per far inquadrare gli striscioni durante le riprese del calcio d'angolo. Nel frattempo, Giachetti andava a prendere all'aereoporto Carlo Romeo che doveva filmare tutto, tutto, tutto...
Pochi minuti prima della partita ci diciamo le ultime cose: gli striscioni saranno aperti al primo calcio d'angolo, Giachetti dalla tribuna stampa seguirà i fatti e noi stessi nel caso che dovessero portarci via subito; se così non fosse i volantini sono nascosti fuori, sotto un albero, e chi arriva prima li distribuisce all'uscita della partita. OK; buona fortuna e buon divertimento a tutti.
All'ingresso dello stadio siamo Massimo Lensi, io e Gaetano Dentamaro, veniamo accuratamente perquisiti. Lo striscione fa bella mostra di sè a terra ma nessuno lo apre. E' talmente innocente! Ci allontaniamo indisturbati portandocelo sotto il braccio e andiamo ai nostri posti numerati. Tranquillamente lo apriamo avendo cura che non si legga, lo leghiamo agli spalti con le fettucce apposte con la spillatrice e aspettiamo.
Appena l'azione si svolge sotto la nostra porta, lo apriamo e guardiamo se anche gli altri hanno fatto lo stesso. Si, lo avevano fatto prima di noi e meglio di noi! Non facciamo in tempo ad aprire una discussione sulla nostra poca efficienza che già arriva la milizia alle nostre spalle. Come ci hanno visti, ci chiediamo. Lo sapremo solo il giorno dopo quando Ottoni, che da Roma segue le nostre vicende, apprenderà dal giornalista jugoslavo Mecilosek Robert che gli striscioni sono stati ripresi dalla tv nazionale slava. Evviva! Ma torniamo alla cronaca. La milizia è in difficoltà per ragioni diplomatiche giacchè la partita è in eurovisione e la circostanza del fermo troppo pubblica. Dopo avere trafficato a lungo via radio con la centrale, ci ordina di tornare a sedere fino alla fine della partita. All'uscita dovremo andare al cellulare.
Ci teniamo pronti per tentare il volantinaggio all'uscita. Alcuni slavi, dagli spalti vicini, ci chiamano e ci dicono parole amichevoli: "Bravi, fate bene".
A pochi minuti dalla fine della partita la milizia ci preleva. Dentamaro si infila nella folla e sfugge alla sorveglianza. Io e Lensi a fare lo specchio per le allodole. Gli altri quattro tutti a volantinare (sempre più bravi di noi!).
Infine sul cellulare siamo in quattro con Caterina, presa mentre volantinava, e Dentamaro.
Le reazioni della gente assolutamente meravigliose; abbiamo distribuito quasi tutti i volantini con l'aiuto dei tifosi.
In questura ci interrogano fino alle undici e mezzo di sera.
Prima Dentamaro, poi me. E' un interrogatorio niente affatto poliziesco ma, piuttosto, politico. A farlo è un giovane ispettore visibilmente a disagio che vuol sapere cosa pensiamo della violenza, se disapproviamo la democrazia jugoslava, se intendiamo aiutare il suo paese, se ne temiamo la concorrenza economica. Gli rispondo che siamo nonviolenti e che tutto quello che facciamo è pubblico, gli ricordo che i giornali jugoslavi hanno già scritto su manifestazioni di Marco Pannella fatte nel dicembre scorso; gli dico che non siamo in Jugoslavia per giudicare la loro democrazia ma per proporre l'ingresso del loro paese nella Cee. No, non temiamo la concorrenza economica.
Il giovane ispettore mi chiede anche se giudichiamo male la milizia per averci fermato e ritirati i documenti. Gli rispondo che era il loro dovere. Allora mi dice che possiamo tornare a dormire in albergo e che la mattina dopo subiremo un processo amministrativo. Alle nove siamo di nuovo in questura e veniamo condotti davanti al giudice. Il processo è molto burocratico. Veniamo condannati al pagamento di una multa e, con provvedimento di polizia, espulsi per due anni. Nel frattempo Giachetti continua a tenere i collegamenti con Radio Radicale perché non sappiamo se la rinnovata espulsione di Tamburi comporterà delle aggravanti. La sera prima il console italiano a Spalato, tempestivamente avvisato insieme al ministro degli Esteri, era venuto a "contarci" e ad assicurarsi che ci avessero presi e rilasciati tutti.
La presenza di Tamburi non aggiunge pene accessorie e veniamo espulsi tutti senza problemi! Il viaggio di ritorno è divertente e felice.
Siamo un po' delusi perché non sappiamo se la manifestazione ha avuto un qualche esito. Due giorni dopo la nostra partenza il più grande giornale croato, "Wjesnick", prenderà posizione a nostro favore scrivendo che molte personalità jugoslave hanno già preso posizione a favore dell'ingresso della Jugoslavia nella Cee senza per questo essere nè espulse nè multate. Sarà un piacere conoscere queste personalità e lavorare insieme in un futuro, speriamo, vicinissimo. 185


Responsabilità civile: rimettiamo la busta. E busta fu

di Mauro Mellini NR87 del 28 aprile 1988

Secondo De Mita l'approvazione della legge sulla responsabilità civile dei Magistrati ha chiuso per la giustizia la stagione del malessere.
Anche nell'ambiguità del linguaggio demitiano sembra evidente che il malessere sia rappresentato dal referendum, dalla chiarezza così poco contrattualistica e lottizzatoria delle scelte sottoposte al giudizio popolare, dal braccio di ferro con la corporazione dei magistrati, dalla necessità di barcamenarsi tra le spinte genuine dell'opinione pubblica e le pressioni caparbie dell'industria culturale ed editoriale. Che per la Democrazia Cristiana la questione della responsabilità civile dei magistrati fosse un "incidente" da chiudere il prima possibile e nel modo più indolore -indolore si intende, per gli interessi costituiti- era nella logica delle cose.
Ed era logico che il Partito comunista, una volta abbandonato il ruolo -difficile davanti a scelte precise- di partito del corporativismo oltranzista dei magistrati, avesse interessi più o meno analoghi. Ma tutto ciò, semmai, rappresentava un motivo in più per il Partito socialista e per il Partito liberale perché assumessero assieme ai radicali una linea coerente con l'iniziativa referendaria di cui erano promotori.
Come siano andate le cose è invece ben noto. Nel braccio di ferro tra Craxi e De Mita, tra scioglimento delle Camere, referendum, staffetta etc. etc. il Partito socialista mise in vendita il referendum, mostrando la sua disponibilità a trattarne la liquidazione sulla base della proposta Rognoni, che aboliva totalmente la responsabilità diretta, rendeva arbitro il CSM del diritto al risarcimento del cittadino verso lo Stato, impasticciava tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare, riduceva la eventuale rivalsa dello Stato verso il magistrato verso una misura simbolica (quella che fu battezzata "rivalsina"), ipotesi che tuttavia suscitò le ire della Associazione Magistrati.
Era evidente che a trattare su quel piano non poteva rimetterci che il Partito socialista e, quel che è peggio, in misura assai maggiore la credibilità e l'efficacia del referendum. Affermare che si potessero realizzare in qualche modo gli intenti del referendum con qualcosa di somigliante al progetto Rognoni: pensare che -mentre il popolo stava per essere chiamato a decidere se abrogare le norme del CPC che limitavano la responsabilità diretta dei magistrati- si potesse abolire del tutto la loro responsabilità diretta, significava svuotare di valore politico e normativo il referendum per il momento in cui si dovesse e potesse tenerlo.
Si dovrebbe anche aggiungere che, stranamente, nel corso di quelle trattative si diede per scontato che un altro referendum sulla giustizia, quello sul sistema elettorale correntocratico del consiglio Superiore della Magistratura non dovesse superare il vaglio di ammissibilità della Corte Costituzionale (il che era inconcepibile stando alla precedente giurisprudenza della corte in materia), ma che si dimostrò invece corrispondere ad informazioni del tutto esatte, ammesso che si trattasse di semplici informazioni.
Lo scioglimento delle Camere; l'approvazione di una "leggina" che consentiva lo svolgimento dei referendum già indetti senza che divenisse operante il rinvio di due anni; la fissazione della consultazione popolare per l'8 novembre; l'esito del voto, sono cose note. La presentazione di proposte di Legge -democristiana e comunista innanzi tutto- prima ancora dell'esito del voto, sono cosa nota. Con esse i due maggiori partiti intendevano sottolineare che la questione della responsabilità civile sarebbe stata sistemata indipendentemente dal voto popolare e, quindi, malgrado il voto popolare. Intanto la legge stessa che aveva consentito di tenere i referendum malgrado le elezioni anticipate, aveva previsto che l'effetto abrogativo del voto eventualmente positivo del referendum potesse essere riferito di centoventi giorni dalla proclamazione dei risultati e ciò allo scopo di "colmare il vuoto legislativo" prodotto dal referendum. Questa storia del vuoto legislativo è stata una delle più cialtronesche mistificazioni che siano state escogitate e che ha avuto un ruolo essenziale in questa vicenda.
In realtà il referendum non apriva alcun "vuoto legislativo" se non nel muro di impenetrabilità alla realizzazione di un precetto costituzionale, quello che vuole tutti i dipendenti statali direttamente responsabili per i danni arrecati in violazione di diritti dei cittadini.
La legge, uscita dapprima dalla Commissione Giustizia della Camera, poi dall'Aula, quindi passata al Senato che l'ha modificata, poi tornata alla Camera che assegnandola alla Commissione Giustizia in sede legislativa l'ha di nuovo modificata, poi ancora modificata dal Senato e quindi definitivamente approvata dalla Commissione Giustizia della Camera il 12 aprile (quattro giorni dopo l'entrata in vigore dell'abrogazione degli articoli del Codice di procedura civile sottoposti a referendum) è una legge pessima, farraginosa, sconclusionata, congegnata in modo da negare nei fatti ciò che proclama e promette.
Muovendosi nella logica del partito del "no" al referendum, che aveva sollevato tutte le possibili ed impossibili obiezioni alla responsabilità civile dei Magistrati, la legge si preoccupa di eliminarne essenzialmente i pretesi inconvenienti, e li elimina tanto da eliminare del tutto la responsabilità civile. Essa esclude che il cittadini possa agire direttamente contro il magistrato, imponendogli di chiedere il risarcimento allo Stato. La colpa grave viene circoscritta entro confini tali da renderne, oltre tutto, assai problematica anche la prova.
Il cittadino danneggiato non può chiedere il risarcimento prima che il giudizio sia esaurito in tutti i possibili gradi. Poi, l'azione contro lo Stato deve essere dichiarata "ammissibile", eventualmente arrivando fino in Cassazione per ottenere tale declaratoria di ammissibilità. Poi, il giudizio vero e proprio, sempre contro lo Stato. Infine, entro un anno dal momento in cui lo Stato ha pagato il danno (ma non è stabilito alcun termine perché, anche persa la causa, lo Stato paghi il disgraziato danneggiato), l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato che ha causato il danno. Rivalsa per modo di dire, perché lo Stato non può ripetere -quale che sia il danno risarcito al cittadino- se non una somma pari ad un terzo dello stipendio percepito dal magistrato al momento in cui il giudizio di danno è iniziato.
Ma il colmo del grottesco è stato raggiunto con la questione dei verbali di deliberazione collegiale da custodire in busta chiusa. Tali verbali dovrebbero garantire il magistrato che abbia votato contro, rimanendo in minoranza, per un provvedimento che abbia arrecato danno risarcibile.
Presente nel disegno di legge governativo, questo incombente era stato respinto dalla Camera. Introdotto dal Senato, la Camera lo aveva di nuovo cancellato. Fatto sta che ad un certo punto della trattativa per il nuovo governo, Craxi ha scoperto che la legge per la responsabilità civile era una "leggiaccia" ed ha detto che "bisognava rifarla".
Qualcuno gli ha fatto notare che ormai la maggior parte delle norme era stata approvata in testo conforme da Camera e Senato e pertanto, a norma di regolamento, non potevano essere "rifatte" né modificate.
Saputo che una deliberazione difforme restava sulla "busta chiusa", respinta dalla Camera, pare che Craxi abbia detto: bene, rimettiamo la busta! E busta fu.
Il bello è che, nella fretta, il Senato ha stabilito che le famose "buste" (per redigere e conservare le quali vi sarà un rallentamento del lavoro giudiziario e spese notevoli per armadi, registri, rubriche etc.) dovranno essere distrutte quando siano decorsi i termini per il giudizio di responsabilità del cittadino contro lo Stato: molti anni prima che possano servire a qualcosa nel giudizio di rivalsa nel quale soltanto possono essere utilizzate! E la Camera non ha voluto toccare il testo così che anche questa smarronata è divenuta legge.
Una legge, dunque, che abolisce la responsabilità del magistrato verso il cittadino danneggiato, anche quel pochissimo che ne esisteva con le norme sottoposte a referendum. Un tradimento scoperto ed arrogante della volontà popolare, un attentato all'istituto del referendum, una violazione patente dell'art. 28 della Costituzione. Si tenterà la strada del ricorso per conflitto di attribuzione tra referendum e Parlamento alla Corte costituzionale; e intanto, essendo la nuova legge applicabile solo ai casi futuri, ed essendo abrogato dal referendum l'obbligo dell'autorizzazione del Ministro, sono state proposte varie azioni per danni arrecati in passato da comportamento doloso di magistrati.
I magistrati si assicurano a centocinquantamila lire l'anno contro i rischi, in realtà inesistenti, nascenti da questa legge. E litigano. Scissioni si sono verificate nella corrente di Magistratura Indipendente ed in quella di Impegno Costituzionale.
Effetto della legge? Direi piuttosto effetto del referendum che, benché tradito vergognosamente anche da alcuni dei suoi promotori, ha pur sempre affermato a grande maggioranza la volontà del popolo italiano ad avere giustizia a misura del cittadino e non a misura del magistrato. E questo, tradimento o meno, è quello che resta. 251


Polonia: niema wolnosci bez solidarnosci

di Giovanni Negri e Olivier Dupuis NR107 del 24 maggio 1988

"La Polonia è un cratere. Adesso ti sembra calma, silenziosa. Ma sotto la sua superficie corre la lava, è già pronta una nuova esplosione. Questa è la Polonia".
Sorridente, ammiccante, il "vecchio giornalista" ha tutte le carte in regola per parlare a degli amici. Polacco di nascita, da vent'anni lavora per le agenzie di stampa occidentali, regolarmente inviato in tutti i punti caldi del grande scontro: un popolo intero, o la sua stragrande maggioranza, contro un regime che non sopporta, che umilia la sua storia e la sua cultura. Prima contro il partito comunista, poi contro Jaruzelsky, adesso verso Gorbaciov. Perché è lì che guardano tutti gli occhi, è quello il potere misterioso che si vuole sondare e mettere alla prova, il generale, l'uomo che ha persino accantonato con il suo golpe e le leggi marziali lo stesso apparato comunista, il "Pinochet che prova a fare il De Gaulle", altro non è che l'interlocutore formale, di facciata. La vera controparte è lui, il capo del Grande Vicino.
Siamo a Danzica, è la nostra seconda giornata polacca. Il vecchio giornalista getta uno sguardo di disprezzo verso le prostitute per occidentali o per "polacchi potenti" che affollano il bar del Grand Hotel e torna a squadrarci. "A un radicale la posso dire chiara. Potete capire quel che non capisce almeno la metà dei miei colleghi che scrivono per la stampa occidentale.
La verità è che il potere può aver vinto questo giro, ma sta nella merda fino al collo. Fra pochi mesi è la catastrofe. L'inflazione è alle stelle. La gente andrà a fare quelle che qui si chiamano vacanze, in autunno avrà meno soldi, a ottobre-novembre la morsa della crisi sarà terribile. Allora si che il vulcano tornerà a farsi sentire". Ci chiede quanti zloty abbiamo avuto in cambio di un dollaro al mercato nero. Sono 1400, sei mesi fa erano 950. Lo stesso vale per il taxi (la tariffa indicata dal tassametro lo scorso anno andava moltiplicata per tre, ora per cinque) e per il telefono (sui nuovi apparecchi ormai compare la dicitura "20 zloty", in luogo dei precedenti 5 e 10).
Eppure non è solo la tragica condizione economica del paese a spingere alla protesta diffusa, a tratti alla aperta rivolta.
E' proprio la gente così com'è, con un'ansia di libertà e una fede che la inducono a spezzare il cerchio della paura. Esiste una pressione consistente, diffusa soprattutto tra i giovani, che travalica gli stessi movimenti organizzati dell'opposizione e che non è neppure riconducibile all'interno del grande spazio e ruolo politico occupato dalla Chiesa.

Il divieto alla delegazione radicale

Si, la Polonia è un cratere. Una Varsavia placida, ancora inondata dal sole di una primavera continentale, ci ha accolto lunedì sera. Siamo in due: io e Olivier Dupuis, il giovane belga che fa parte della segreteria del Pr e ha recentemente manifestato in Polonia a favore degli obiettori di coscienza detenuti. Manca il senatore Lorenzo Strik Lievers: l'ambasciata polacca a Roma ha rifiutato a tutti e tre, come delegazione radicale, il visto per entrare nel paese. Una scelta ottusa.

Avevamo persino chiesto di poter incontrare una delegazione del Poup e una rappresentanza della Dieta. Proprio noi, i radicali, gli unici a organizzare le manifestazioni di piazza a Roma in occasione della visita del generale Jaruzelsky. Un gesto sicuramente non apprezzato dal generale, così calorosamente accolto da tanti politici e industriali italiani, al punto che, per ben tre volte, dagli schermi televisivi polacchi il portavoce del governo, Jerzi Urban, ha ritenuto necessario informare il suo popolo dell'esistenza di questo partito, attaccandolo con una aggressività inconsueta.

Avevamo previsto questo viaggio da tempo ed era nostra intenzione capire, dialogare anche con gli uomini del generale.
Non solo non ci è stato possibile, ma sbarchiamo in condizioni semi-clandestine grazie a due visti turistici fortunosamente ottenuti all'ultimo momento. La città si stende al centro della grande pianura, con la sua architettura brutta e moderna, una monotonia interrotta solo dai grandi palazzi del "neo-soz-classicismus", formula che sta a indicare gli obbrobriosi edifici del periodo stalinista. Ma due ore ci sono più che sufficienti per capire quanto è ingannevole la sua apparente tranquillità. Non riusciamo a trovare un amico, un contatto. I due più noti fra i circa quaranta iscritti al Partito radicale (ve ne sono ormai in Polonia ed anche negli altri paesi dell'Est) sono stati arrestati la sera precedente, durante una festa universitaria: per almeno 48 ore -tanto dura il provvedimento minimo del fermo di polizia- sono fuori gioco. I tre quarti della direzione politica di Solidarnosc sono anch'essi o in prigione o ospiti provvisori delle celle dei commissariati; gli altri hanno il telefono tagliato; la polizia davanti a casa impone un controllo rigidissimo. A tarda sera troviamo finalmente qualcuno, si apre una crepa nel muro e incominciamo a scoprire l'incredibile ragnatela di relazioni, scambi di informazione, metodologie che tiene insieme il movimento dell'opposizione, addestrato ad una lunga clandestinità.

Geremek
Bronislaw Geremek ha gli occhi perennemente attenti e ironici. Persino adesso, alle 9 del mattino, mentre esce di casa in uno dei giorni più duri del braccio di ferro che oppone Solidarnosc al regime. "E' il nostro Talleyrand", ci dirà di lui scherzosamente Adam Michnik. Il "ministro degli esteri-ombra" ci accoglie fraternamente. 50 anni passati, medievalista di fama mondiale, un francese perfetto grazie alla lunga permanenza alla Sorbona, privato del passaporto da molti anni e del telefono da alcuni giorni; doveva partire proprio quella mattina per ricevere una laurea Honoris causa negli Stati Uniti: il precipitare degli eventi e l'ennesimo divieto del governo glielo hanno impedito.

"Spero bene che siate venuti per fare molte cose cattive", ride Geremek. Fissiamo un appuntamento per il primo pomeriggio, spiega che la situazione è molto tesa (per l'indomani è prevista l'approvazione in Parlamento delle nuove leggi speciali di polizia) e incomincia a fare capolino un tema che si ripresenterà puntuale in ogni nostro: la consistenza effettiva -o meglio, purtroppo, l'inconsistenza effettiva- della solidarietà di paesi, istituzioni, partiti dell'"occidente democratico" nei confronti dell'opposizione polacca. Geremek lancia una frecciata a Mitterrand ("Faremo un telegramma di felicitazioni per la rielezione, oltre che per il buon utilizzo delle cucine dell'Eliseo") e ricorda i giorni nei quali a Parigi il generale Jaruzelsky, contestato dalla piazza ma invitato dal presidente, per ragioni di sicurezza fu fatto entrare a Palazzo non dal portone principale bensì dal lato posteriore.
E' proprio questo il punto dolente, uno dei problemi che forse maggiormente assilla i leader dell'opposizione, coloro che con molta ragionevolezza si definiscono "i veri, più autentici, forse unici rappresentanti della società polacca". Certo la stampa occidentale si scatena quando scatta la mobilitazione ai quartieri navali di Danzica.
Certo le opinioni pubbliche dell'ovest guardano la faccia gioviale di Walesa che arringa gli operai. Certo, in una parola, Solidarnosc è divenuto un fenomeno europeo e internazionale. Ma "finita la festa", quando non vi sono più arresti, cariche della polizia, dichiarazioni del governo e mediazioni della chiesa che "fanno notizia", che ne è dell'aiuto, dell'iniziativa politica e diplomatica occidentale a favore di Solidarnosc?
Poco, per non dire nulla. Contro Jaruzelsky si chiacchera, ma con Jaruzelsky si fanno buoni affari. Contro Jaruzelsky si raccolgono prestigiose firme di intellettuali, ma non si fa nulla perché a Varsavia lo si sappia: è più una spicciola propaganda interna che un'azione destinata ad avere qualche pur limitata efficacia.
Si pensa alla Polonia una volta all'anno, si "usa" la Polonia un po'' più frequentemente; non si fa mai politica, vera politica per la Polonia. E' questo, visto da Varsavia, lo sconsolante problema dell'occidente.

Czaputowich
La casa di Yacek Czaputowich non è una vera e propria casa. Normalmente tutte le finestre sono aperte (come ci accadrà di vedere in molti appartamenti) nel tentativo di impedire i sofisticati sistemi di ascolto della polizia. Ma più che una casa è una sede, con un andirivieni perenne di amici. Si fa il conto degli arrestati, dei fermati, dei controllati, ci si chiede se e per quanto tempo si sarà liberi. La polizia lo sa perfettamente, segue ogni movimento.
Quando qualcosa sfugge ad occhi ed orecchie sempre attenti, la linea telefonica (non) misteriosamente cade. Yacek ha circa 35 anni ed è uno degli esponenti di un movimento emergente, che ha registrato di recente un grande successo fra i giovani: si tratta di Wolnosc i Pokoj (Libertà e Pace), il cui ruolo è stato prezioso in questi giorni di scioperi, soprattutto a Danzica.
Le relazioni con Solidarnosc sono ovviamente buone, con a tratti le tipiche frizioni del rapporto padre-figlio; un padre molto più organizzato, conosciuto e "istituzionalizzato" almeno nella coscienza collettiva, e un figlio esuberante, eccentrico agli occhi dei più anziani. Una caratteristica comune, tuttavia, lega il grande e il piccolo movimento. La domanda è la stessa: libertà, democrazia politica, messa in mora del regime che dal dopoguerra ha trasformato la Polonia. Ma mentre Solidarnosc fa leva sulla rivendicazione economica per raggiungere il suo obiettivo, Wip punta sull'obiezione di coscienza, i diritti civili, una contestazione a tutto campo di leggi, usi e costumi del sistema. Perciò Wip canalizza tutta l'eterogenea opposizione giovanile, animata da ansie spesso molto diverse fra loro ma unite da un denominatore comune: il rifiuto totale, senza appello, financo ingenuo ed "estremista" nella sua intransigenza, di tutto ciò che il "socialismo reale" ha prodotto. Sono molti i giovani che vivono come i nostri iscritti. Coraggiosi e sfrontati, operano alla luce del sole. Entrano ed escono dalle celle dei commissariati di polizia una volta al mese. Si riuniscono, convocano feste e riunioni, distribuiscono volantini e giornaletti, parlano in pubblico forte e ad alta voce. Laconici, determinati, sereni, riescono a turbarti con poche frasi innocenti, buttate lì quasi per caso. "Si, la nostra vita non è la vostra. Ti alzi la mattina e ti chiedi se potrai continuare a scrivere e leggere la stampa dell'opposizione. Prendi l'autobus, vai all'università, cammini e ti chiedi se il tuo vicino o chi ti segue è uno spione. Siamo nati e viviamo sotto la cappa dello Stato di polizia. Ci abbiamo fatto il callo. Ma non vivremmo in occidente, non lo desideriamo. Questa società, questa struttura ti obbliga a scegliere, a schierarti, non ti permette l'indifferenza. Se vuoi essere vivo, devi lottare e ogni giorno fai i conti: da una parte la repressione, dall'altra i risultati. Da voi forse non è così. Circondati dal benessere, si è diffusa la malattia dell'indifferenza, che provoca sempre la terribile conseguenza di ritenersi vivi e in realtà di non esserlo".

I giorni più caldi
Sono Geremek e Csaputowich a tracciarci il quadro degli avvenimenti più recenti. Dapprima un piccolo sciopero dei conducenti di autobus di una cittadina alla periferia di Varsavia, un'azione quasi legittimata dal regime e conclusasi con un modesto aumento salariale. Poi, l'estendersi del focolaio ad altre fabbriche e università del paese, sino all'occupazione, da parte di migliaia di operai, dell'acciaieria di Nowa Huta a Cracovia. Infine i mitici cantieri navali di Danzica e la occupazione dell'Urss, fabbrica di trattori di Varsavia.
La risposta del regime è stata multipla, diversificata, politicamente abile. Carota al piccolo sciopero locale, bastone con gli operai di Nowa Huta: la polizia ha caricato, picchiato, sgombrato con impressionante violenza la fabbrica. E adesso le nuove leggi speciali di polizia: un provvedimento inutile sul piano pratico -poiché il regime di Jaruzelsky può comunque fare il bello e il cattivo tempo dall'epoca delle leggi marziali- ma un'odiosa minaccia sociale, un messaggio di paura diffuso attraverso ogni apparecchio televisivo. E' questo ciò che più preoccupa i leader dell'opposizione, che non cessano di richiamare la nostra attenzione su un altro aspetto, particolarmente sottovalutato dagli osservatori occidentali: l'assoluta assenza di certezza del diritto, di regole e leggi, a partire dalla sostituzione, al potere, degli uomini dell'apparato del partito comunista con gli uomini di Jaruzelsky. Perché è questa la vera anomalia: se la Polonia è il terreno sul quale si gioca la grande prova della perestrojka, il test sul quale si misura la reazione di un imperatore che si vuole illuminato dinnanzi a un popolo che non sopporta il sistema, è ben vero che su questo terreno non c'è, comunque non gioca più, il partito. Alla crisi e ai sussulti dei primi anni '80 l'establishment comunista ha dovuto reagire sostituendo il suo figlio diletto, la sua naturale creatura (il partito unico) con una tecnocrazia militare che ha esautorato tutto l'apparato.

Bujak il Robin Hood
Sono trascorse poco più di 15 ore dal nostro arrivo quando decidiamo di partire per Danzica. Stiamo per uscire dalla casa di un altro esponente del dissenso ma improvvisamente fa irruzione nella stanza un giovane bruno e malconcio. E' uscito un'ora fa di prigione, ci spiega che lui normalmente in quella casa va a fare il bagno.
In un'altra mangia, in una terza lavora, in altre dorme. E' Bujak, il leader di Solidarnosc a Varsavia, il "Robin Hood" dell'immaginario collettivo di tutti coloro che hanno il cuore con l'opposizione.
Celebre per le fughe (recentemente, vicino a Varsavia, è scappato rompendo il vetro posteriore della macchina della polizia che lo aveva appena catturato), Bujak è riuscito a lasciare la polizia a bocca asciutta per ben quattro anni, vivendo in totale clandestinità.
Nel pomeriggio saliamo sul treno, per evitare i controlli di polizia agli aeroporti, e dopo uno scomodo viaggio di circa cinque ore scendiamo a Danzica. Un colpo d'occhio sulla piazza della stazione presidiata per intero da jeep e camion militari è sufficiente per capire il clima. Un taxi (il guidatore esita e si irrigidisce per un lungo momento quando gli diamo l'indirizzo) ci conduce sino alla "sede centrale del movimento".

A Danzica
La chiesa di Santa Brigida è un grande edificio in mattoni rossi nel cuore di Danzica, una delle tre città costiere (insieme a Gdynia e Sopot) che costituiscono un unico, grande centro portuale-industriale.
Quando entriamo in chiesa si presenta ai nostri occhi uno spettacolo solenne. Circa mille persone stanno cantando con la mano destra levata nel segno della vittoria.
Non sembra un inno religioso, nè le parole che seguono il canto hanno il tono della pacata omelia. C'è Walesa in prima fila, volto tirato e un po'' invecchiato rispetto alle immagini a cui siamo abituati da fotografie e televisioni. Dietro di lui siedono molti degli operai che hanno occupato i cantieri e le loro famiglie, altri stanno piangendo. Alcuni sono rabbiosi. Lo sciopero è finito per decisione unilaterale dei dirigenti di Solidarnosc. La polizia aveva chiuso i cantieri in una morsa di ferro, la mattina prima aveva picchiato due ragazzi, intercettati mentre portavano viveri agli occupanti. Walesa, Konopka, Michnik e il "gruppo dirigente" si sono trovati di fronte a un'alternativa: accettare il livello di trattativa proposto dal governo (giudicato inadeguato, impraticabile, se non addirittura un trabocchetto per sfibrare lo sciopero) oppure scegliere la via della momentanea battuta d'arresto per raccogliere le forze, rilanciare la palla al regime, lasciare aperta una situazione di tensione e riorganizzarsi. Quest'ultima ipotesi è evidentemente apparsa la sola ragionevole.
Mentre continua la più curiosa messa alla quale abbia mai assistito, cerchiamo di guadagnare la sacrestia, il cui ingresso è sbarrato da un pesante cancello. E' notte, fa freddo, pullulano poliziotti in borghese attorno alla chiesa. Riusciamo ad entrare solo mostrando i passaporti, nessun polacco ha accesso alla sacrestia senza una speciale tessera di riconoscimento. Essere sorpresi significherebbe probabilmente il rinvio a Varsavia e immediatamente dopo in Italia. Non credo di aver mai avvertito un così intenso desiderio di sacrestia, ma ad onor del vero si tratta di un'assai originale sacrestia. C'è un andirivieni di giovani, operai, si trasportano brandine, viveri, indumenti. Salutiamo padre Jankowski, massiccio nella tonaca nera che rappresenta ad un tempo la sua fede e la sua immunità; poi, il parroco di Santa Brigida ci indica Michnik. Ci presentiamo, fissiamo appuntamento per l'indomani a pranzo, siamo condotti sino ad una stanza rotonda dove è imbandita la tavola. Un dipinto della Madonna nera sembra sorvegliare bonariamente il parroco, Walesa e gli altri dirigenti di Solidarnosc che si apprestano a cenare. Un giornalista francese ci assicura che "E' il miglior ristorante della Polonia".

"Pensare la Polonia"
Adam MIchnik rigira fra le sue mani una nuova ristampa di "Socialismo liberale" di Carlo Rosselli, che Olivier ha dedicato proprio a lui. Sembra un po'' emozionato, almeno quanto lo eravamo noi qualche anno prima, quando apprendemmo che nella lontana Polonia un intellettuale, in procinto di essere tradotto in carcere, aveva raccomandato ai suoi amici la lettura di quel testo. Il fatto ci sembrò così incredibile da meritare almeno quella dedica. Ciò che le culture politiche ufficiali italiane di ogni razza e segno avevano condannato al cimitero del silenzio, era per un attimo rivissuto a migliaia di chilometri di distanza.
Studente-prodigio, intellettuale prestatosi all'organizzazione, autore del bellissimo "Pensare la Polonia", comiziante improvvisato come è accaduto nel cortile della chiesa di Santa Brigida, in privato Michnik ci riversa un fiume di parole interessanti, scandite da un leggero balbettio che fa sorridere. Si favoleggia che abbia sposato la donna addetta alla censura delle sue lettere dal carcere, innamoratasi di questo sconosciuto detenuto-scrittore. E' sicuro e preciso su tutto. Walesa: è il nostro leader, certo che ha una squadra intorno, come ce l'ha il presidente degli Stati Uniti. La Chiesa: è vero, è un rapporto che definisco ambiguo, sia politico che interiore. La Polonia: è tutto imprevedibile, ma occorre andare avanti, fare di più.
E' qui che si gioca la grande partita.
L'Europa: certo, è quello che vogliamo; già siamo europei, permetteteci di essere europeisti. Se stesso: diffido dei mass-media che inghiottono tutto; forse da qui, dal regno del silenzio posso essere più utile anche per l'occidente, almeno la parola che arriva suona chiara. La rivoluzione: no, non mi vedo come un Danton, e con una punta di civetteria dichiara di preferire i panni di Mirabeau. E' visibilmente entusiasta, sino a battere le mani, quando gli esponiamo l'idea di una linea di attacco ai compromessi permanenti tra l'occidente e il governo polacco. Si, occorre coltivare l'idea di un piano Marshall per la Polonia e l'Est europeo, nella chiarezza di una decisione: basta con gli "aiuti" e le cooperazioni economiche senza precise contropartite politiche. Non vi deve più essere alcun processo di cooperazione che, tappa dopo tappa, non sia legato ad altrettante scadenze di democratizzazione. Lo stesso ci hanno detto e ci diranno gli altri, da Geremek a Kuron. E lo smantellamento dell'obiezione che per molti anni ci siamo sentiti muovere in occidente da tanti apparenti "amici della Polonia": colpire la cooperazione economica non significa colpire Jaruzelsky, bensì il povero uomo della strada. Tutti i leader dell'opposizione sono su questo punto categorici, persino irritati: i crediti occidentali hanno sino ad oggi incrementato solo le spese parassitarie del regime, non hanno contribuito nè possono contribuire a migliorare le condizioni di vita del popolo polacco; non vi può essere riforma economica senza riforma del sistema politico.
Assistiamo ancora alla conferenza stampa di Walesa a Santa Brigida. Lo salutiamo, e incontriamo in un'altra chiesa alcuni esponenti di Wip fra i quali vi sono degli iscritti radicali. Concordiamo alcune iniziative soprattutto a sostegno di Slawomir Dutkiewicz, l'obiettore di coscienza incarcerato che 90 giorni fa ha iniziato uno sciopero della fame ed è da allora sottoposto ad alimentazione forzata con le fleboclisi. "Scrivete al Papa, fate pressioni sul ministro della Difesa", raccomandano i ragazzi. Alle cinque del mattino ripartiamo in treno per la capitale.
Il parlamento ha approvato le leggi speciali. I cantieri navali di Danzica sono silenziosi. La Polonia sembra di nuovo piegata. Ma l'ordine che regna a Varsavia è precario: fino a quando gli basteranno le spie e i fucili per difendersi?

Kuron
Yacek Kuron è forse il vero padre dell'opposizione polacca. Abita una casa poverissima. E' massiccio, "operaio" in tutto e per tutto, parla solo la sua lingua, è interessato alla crescita dell'idea di un'Europa politica e dei risvolti che può avere per il suo paese e ricorda con un sorriso come gli sia sempre stato impossibile attraversare, anche per una sola volta, il confine della Polonia. Chiede i nostri indirizzi, capisce l'importanza di iniziative istituzionali, parlamentari sui diritti umani ei paesi dell'Est, per scuotere una classe politica e dei mass-media spesso indifferenti. Il suo Kor è considerato la grande sorgente dalla quale sono sgorgati tutti i movimenti di opposizione. Si dice che abbia personalmente "svezzato" Walesa e che nell'81, quando esplose la grande mobilitazione di Danzica, si limitò a chiedere se Walesa fosse là, a fare la battaglia preparata da lungo tempo. Ha il senso pratico, immediato, dell'animale politico e del lottatore. E' il più duro e diretto di tutti: il problema che è sul tappeto, ben più e prima del sindacalismo e degli aumenti salariali, è semplicemente quello della libertà, della democrazia politica.
Ormai siamo presi per mano e condotti di casa in casa: E' una voglia di parlare, di sapere, un tale cumulo di speranze e di attese che rende stridente il solo pensiero della grande palude di passività che spesso in occidente circonda ogni proposta, ogni iniziativa capace di qualche efficacia. Ancora incontri, in particolare con il sociologo Szymandersky, (anch'egli esponente di Wip) e per raccogliere un'importante dichiarazione di Geremek sulla speranza degli Stati Uniti d'Europa domani, e di un processo di integrazione politico-economico dell'Europa occidentale che è iscritto nelle cose ma che sin da oggi non deve ignorare la grande questione dei paesi dell'Est e dei diritti umani e civili nei paesi "socialisti".
Decidiamo infine, dopo aver abbracciato alcuni radicali temporaneamente rimessi in libertà, di incontrare i giornalisti nel nostro albergo. Avanziamo la proposta di una visita di una delegazione del Parlamento europeo in Polonia, per incontrare tanto le autorità ufficiali quanto i leader dell'opposizione. Illustriamo le necessità di un blocco della cooperazione economica se slegata da precise garanzie di liberalizzazione del sistema. Preannunciamo dure azioni nonviolente in Polonia qualora non sia rispettata l'integrità fisica e psichica degli obiettori di coscienza detenuti. Che sarà, di tutto questo, nei nostri paesi? Ripartiamo preoccupati, sperando che sia un arrivederci.
Sapevamo quanto fosse importante "pensare la Polonia". Ora sappiamo quanto sia necessario immaginare una nuova Polonia, quanto può dare a ciascuno di noi, quanto può dare all'Europa. 699


Sul partito in Turchia, con paura

di Massimo Lensi NR107 del 24 maggio 1988

La prima impressione, immediata, colta negli occhi e nelle parole dei compagni con cui subito, appena giunto a Istambul, mi trovo a parlare ha un nome preciso, senza possibilità di errore: paura. In Turchia, dopo le elezioni politiche del novembre 1987 in cui il primo ministro Turgut Ozal, leader del partito di maggioranza assoluta, il Partito della Madre Patria, aveva concesso alcuni spazi di agibilità politica per i gruppi e le organizzazioni non legalizzate, la situazione generale era peggiorata creando un clima di tensione, attraverso meccanismi di controllo della polizia molto stretti. Chi ha potuto vedere il film "Midnight Express" sa che le prigioni turche sono terribili.
Per il primo maggio sono state vietate tutte le manifestazioni in programma e il presidente turco Evren ha addirittura rilasciato dichiarazioni alla stampa internazionale da cui traspare la "volontà di tornare ad indossare la divisa", richiamando alla memoria i giorni del golpe del 1980.
Pericolo, quindi; ma dopo aver chiarito i tempi e le modalità della nostra presenza sulle rive del Bosforo, con i compagni decidiamo che provare ad ottenere i permessi per mettere i tavoli raccolta firme per strada o per stampare il materiale del partito in lingua turca sia l'unica soluzione.

Tentar non nuoce.
Ci organizziamo di conseguenza. Ahjan Birol, la consigliera federale, si incarica di seguire il problema dei permessi per i tavoli, il sottoscritto inizia a prendere i contatti con le tipografie per tradurre e stampare lo statuto e la mozione congressuale. Insieme concepiamo una serie di incontri con il mondo politico ed intellettuale di Istambul e progettiamo una petizione popolare per l'ingresso della Turchia nella Comunità europea.
Gli altri ci danno una mano compatibilmente ai loro impegni e al loro terrore di finire in carcere o perdere il proprio lavoro.
E' quasi inutile ricordare che la legislazione turca in materia di propaganda ed iscrizione ad organizzazioni "illegali" o internazionali non è tra le più liberali: la pena detentiva prevista per tali reati prevede due anni di reclusione. Dopo pochi giorni e una lettera inviata al governatore di Istambul riusciamo ad ottenere il permesso. Un po' increduli andiamo a ritirarlo.
Comprendiamo immediatamente che l'attività del partito per gli Stati Uniti d'Europa non disturba il regime, anzi, può recargli un'indiretta, buona, pubblicità. Il permesso, comunque, non è stato richiesto formalmente dal Partito radicale: aggirando i divieti della legge ed interpretandone alcuni passaggi, abbiamo apposto come firma "radicali", non un'organizzazione ma solo semplici cittadini che si dichiarano radicali.
Non dobbiamo però diventare la stampella del regime di Ozal e il rischio c'è. Proprio in quei giorni, uno dei maggiori quotidiani in Turchia, Hurryiet, titola in prima pagina "Stati Uniti d'Europa. Qual è la strada da percorrere?" fitto di dichiarazioni dei principali personaggi politici favorevoli ad un ingresso della Turchia nel Mercato comune. La presenza massiccia, quasi due milioni, per esempio, di operai turchi in Germania provoca nel governo una reazione di questo tipo: guardare all'Europa come un'ancora di salvezza per la propria economia. La Turchia oggi è una vera e propria terra di conquista per decine di imprese europee che scelgono di produrre lì, con manodopera a bassissimi costi, ed esportare in "occidente"; con la conseguente diminuzione dell'importanza di scelte di ristrutturazione economiche che da anni il governo turco tenta di imporre.
Poi c'è la potente mafia e i finanzieri di Izmir; e la lira turca vale ogni giorno di meno.
Il padre della patria, il famoso Mustafa Kemal Ataturk, già negli anni venti aveva intuito che il processo di modernizzazione del suo paese poteva passare soltanto attraverso meccanismi di rivalutazione interna del proprio mercato e delle proprie risorse.
L'ipotesi Turchia come membro effettivo della Comunità assume , quindi, alla luce della disgregazione economica e sociale di oggi, il significato dell'emancipazione.
Nonostante questo pericolo di confusione tra la nostra impostazione e quella di Ozal, decidiamo di proseguire per la nostra strada.
Non vogliamo questa Comunità, l'Europa dei mercanti e delle scelte imposte dai governi e dalle burocrazie nazionali, e non vogliamo nemmeno concepire una politica di supporto al regime. Sono due differenti modi di vedere e respirare l'Europa: istituzioni sovranazionali, un presidente, un governo responsabile: non l'Europa del frazionamento democratico.
E questi concetti li urleremo anche in questa terra a metà tra l'Islam delle donne con la faccia coperta dal chador, e il progresso che avanza simboleggiato da quella stupenda costruzione che è il ponte sul Bosforo tra Europa ed Asia.
Dopo molte difficoltà stampiamo lo statuto e la mozione: nessuna tipografia voleva accettare il lavoro -la solita paura: "è stampa illegale, rischiamo la revoca della licenza", ecc. ecc..
Alla fine, aiutati da un gruppo di anarchici individualisti -i quali niente avevano da perdere, anzi intuivano le enormi potenzialità che una presenza attiva del Partito radicale poteva far scattare in tema di libertà politiche e diritti civili- ci mettiamo in contatto con la tipografia di un'organizzazione di fanatici islamici (quasi terroristi) che accettano il lavoro.
Con lo statuto in mano organizziamo il primo tavolo in Sulthan Ahmet, tra Aja Sofia e la moschea blu, luogo di incontro di centinaia di giovani e passaggio obbligato per il turismo internazionale.
I risultati sono soddisfacenti. Organizziamo anche la spedizione del materiale prodotto ai parlamentari turchi membri del Consiglio d'Europa, a numerosi rappresentanti della stampa, a intellettuali, a membri dei quattro partiti legali (oltre al Partito della Madre Patria, il Partito della Giusta Via di Soliman Demirel, di destra, e i due partiti di ispirazione social-democratica, quelli di Inonu e di Ecevit; l'ex premier, quest'ultimo, colui che ordinò l'invasione di Cipro): in tutto un migliaio di persone.
Il lavoro inizia a prender corpo e si indirizza verso una direzione precisa: pubblicizzare il partito grazie ai passaggi sulla stampa con la notizia anche che in Turchia vi sono quaranta iscritti al Partito radicale.
Alla conclusione dei miei quindici giorni ho portato l'iscrizione di altri 5 nuovi compagni. E' un sogno? Non so. Forse stiamo sognando, forse il partito transnazionale per gli Stati Uniti d'Europa è solo una speranza legate ad un filo, con una strada in salita da percorrere. Ma quanti sogni impossibili abbiamo realizzato? Mai come oggi, con la volontà e la caparbietà che possiamo mettere in atto, è possibile vincere questa ennesima sfida che ci siamo dati: dalla Turchia al Portogallo, dalla Spagna alla Jugoslavia è stato lanciato il seme; aspettiamo il fiore. E poi è sempre meglio avere negli occhi un sogno impossibile che gestire il possibile. 217


Mozione del Consiglio federale di Madrid

Madrid 5/9 maggio 1988

Il Consiglio federale radicale riunito a Madrid dal 5 al 9 maggio preso atto della relazione del primo segretario e del tesoriere del partito, dopo un dibattito particolarmente ampio e approfondito, ne rileva lo straordinario valore per la conoscenza della realtà del Partito, della gravità dei problemi che già si pongono, dell'importanza degli obiettivi che si perseguono, constatato che le condizioni individuate dalla mozione del 34° congresso come pregiudiziali per l'opera e la stessa esistenza del Partito non appaiono tempestivamente assicurate e assicurabili (3000 iscritti non italiani, 4 miliardi di autofinanziamento) essendo ad oggi gli iscritti non italiani meno di 500, quelli italiani per il momento assestati a livelli di due anni fa considerati dal Partito assolutamente insufficienti per la sua stessa esistenza, l'autofinanziamento di circa 330 milioni;
constatato che sul piano dell'azione politica per gli Stati Uniti d'Europa, il Partito ha registrato successi istituzionali di grande importanza mentre appare inadeguata e per ora deludente l'azione di base e di massa di raccolta di firme per petizioni e iniziative legislative, che -con rare eccezioni, come in Belgio- è pressoché solamente italiana;
constatato che sembra avviarsi positivamente l'azione transnazionale per l'affermazione dei diritti umani e civili come ragione e base della politica stessa e non solo di quella radicale;
espressa una forte critica per circoscritte ma intollerabili disfunzioni organizzative del Partito, che hanno ad oggi impedito a buona parte degli iscritti di ricevere la tessera, che impongono al segretario e al tesoriere di immediatamente accertare la profondità e la reale estensione di questi guasti interni e superarli;
approva la relazione, rivolgendo un plauso per la sua importanza, l'esemplare impegno della qualità della relazione svolta, al primo segretario, al tesoriere e agli organi esecutivi del Partito radicale;
delibera che questa relazione e i suoi allegati essenziali vengano immediatamente pubblicati in italiano; e entro un mese almeno nelle altre lingue ufficiali del Partito.

Delibera altresì:
1) sulla base delle ipotesi di simbolo presentate al consiglio e su cui si è svolta la discussione, di affidare ad una commissione composta da: Marco Pannella, Sergio Stanzani, Marco Taradash, Paolo Vigevano, Bruno Zevi il compito di definire entro un mese, dopo una ulteriore elaborazione grafica delle proposte esaminate, la scelta del simbolo ufficiale del Partito fino al prossimo congresso e dagli altri simboli da utilizzare nell'attività politica del Partito radicale;
2) l'organizzazione di un convegno sul partito transnazionale, secondo la proposta del presidente Bruno Zevi, da tenersi all'inizio dell'estate;
3) la costituzione di un comitato per lo studio e la realizzazione di un progetto di rivista del partito transnazionale. Il comitato composto da Bruno Zevi (presidente), Roberto Cicciomessere (segretario), Angiolo Bandinelli, Majid (Andrea Valcarenghi), Marco Pannella e Antonio Stango.
Il comitato presenterà una proposta articolata al prossimo Consiglio federale.


Fondazione Enzo Tortora: se queste ore bruciano

di Enzo Tortora NR87 del 28 aprile 1988

Se l'inventore della dinamite ha potuto dare il suo nome ai "premi" che onorano quanti eccellono, con le loro opere, "per la pace", "per la letteratura", "per le scienze", sarà pur lecito ad una vittima della giustizia, della mancanza di giustizia, immaginare di fondare "premi per la giustizia"? O i "giusti" -se ve ne sono- e la Legge, debbono continuare ad essere emblematicamente esclusi dai valori essenziali della vita umana, che ne onorano la storia? No. Dobbiamo affermare che diritto alla vita e vita del diritto non sono che due aspetti della stessa realtà.
Sto in questi giorni applicandomi, con i miei compagni, a dar vita ad una Fondazione europea "Enzo Tortora", cui cercherò di assicurare il più a lungo e compiutamente possibile il mio contributo di attività e di stimolo.
Sarà una Fondazione finalizzata ad iniziative legislative, giudiziarie e scientifiche per promuovere la tutela del diritto all'onore, alla reputazione, all'identità, all'immagine della persona fisica e anche giuridica, delle culture "nazionali" e delle minoranze culturali, religiose politiche, sessuali oppresse o vilipese; a difesa delle vittime della giustizia.
cercheremo di onorare nel mondo, ogni anno, sia la persona che meglio avrà contribuito ad affermare la Legge e la sua amministrazione, la cosiddetta "giustizia", sia la vittima che avrà saputo non essere connivente e avrà onorato difendendoli i valori di umanità, di giustizia e di libertà, senza rassegnazioni, senza soddisfazioni facili e individuali.
Cercheremo di promuovere l'equivalente delle grandi inchieste sociali, che sul finire dello scorso secolo, ad opera già allora di radicali, in Italia dettero un contributo determinante al formarsi di una coscienza democratica, trasversale alle funeste divisioni ideologiche, quando non ancora teologiche, delle quali già eravamo malati.
Con i mezzi fornitici dalle tecnologie informatiche, potremmo impostare e compiere una immensa opera conoscitiva, per accumulare ed analizzare i dati della "giustizia" in una zona determinata, ad esempio il distretto giudiziario di Napoli, trasferendo su elaboratori i nomi e le caratteristiche sociali, degli imputati, delle vittime, dei testimoni, dei giudici, degli assolti e dei condannati, dei difensori, del personale di polizia giudiziaria; le denunce, le archiviazioni, i procedimenti giudiziari, nelle varie fasi; i tassi di morbilità e di mortalità delle varie categorie.
Potremmo, ancora, ricostruire la vita e la morte delle vittime della mancata tutela dell'onore, della reputazione, dell'identità e dell'immagine, specie fra la gente, le famiglie "comuni". La funzione del terzo e del quarto potere, nella loro stretta associazione, nei conflitti sociali, ideali, economici e politici.
A questo progetto legherei i proventi delle azioni giudiziarie civili, come quella odierna con i suoi "cento miliardi", che varranno -spero- almeno quanto "Il milione" del signor Bonaventura della nostra infanzia.
Da subito dobbiamo cercare di formare il "fondo" di questa Fondazione, in attesa che i diritti di riparazione, di risarcimento maturati con i delitti e le colpe gravi delle quali sono stato vittima, e con me centinaia d'altri, ne rafforzino l'azione.
Nei prossimi giorni, in occasione della conferenza-stampa, ci rivolgeremo con fiducia al paese, alla gente, ai giusti ed alle vittime, dirette o indirette, perché subito concorrano anche alla realizzazione di questo progetto.
Anche la risposta da dare all'infamia di una legge che, se promulgata, se convalidata dalla Corte Costituzionale, costituisce tradimento della democrazia, della vita civile, usurpazione dei poteri, vilipendio dei giudici onesti e capaci e premio per quelli costituitisi in casta aggressiva e violenta, sarà illustrata in quell'occasione e -in parte- già nell'appello che domani, su "Il Corriere della sera" rivolgerò all'opinione pubblica e alla classe politica del nostro paese.


Tortora: Hai vissuto come non mai. Fino all'ultimo

di Marco Pannella NR107 del 27 maggio 1988

L'ultimo atto pubblico di Enzo Tortora è stata la sua firma di accettazione della candidatura nella lista "Per Catania" "civile, laica, verde", per le elezioni del 29 maggio.
Doveva esserne il capolista. Tortora ripeteva che "Catania (era) la nuova Napoli". Andava leggendo, da un anno, inorridito e desolato, gli atti istruttori del maxiprocesso scagliato dai magistrati della Procura torinese, a sostegno delle ispirazioni di quella napoletana degli anni scorsi, a Catania.
Mi sono assunto la responsabilità di disobbedire al fratello e al compagno.
Abbiamo pubblicato, la scorsa settimana, il documento di accettazione di quella candidatura, escludendolo dalla lista. Non spiego e non mi scuso.
Ma gli rendo così fino all'ultimo quel che è suo anche sul piano della cronaca, Enzo voleva ben mostrare così, ed ha mostrato, di star vivendo, come non mai; e non morendo. Fino all'ultimo. Lo scrisse nel suo ultimo articolo sul "Corriere della sera".
Appena quarantanni fa, incontratici tra i goliardi genovesi, poi riconosciutici e accomunati, dal 1966, nella Lid di Loris Fortuna, e di Mauro Mellini. Da allora, ad intermittenza, fino all'orrore dell'incontro con "la giustizia", riscontrando le nostre diversità, e non ancora cogliendone la cifra comune.
Era uomo di cultura; e non di potere, né nelle istituzioni, né nella professione. E' forse l'unico, che si sia conosciuto in questi decenni, che amasse il "beau geste", lo stile, l'eleganza, riuscendoli. Lo amasse, ripeto. Non che lo divertisse. E il suo dimettersi dal Parlamento europeo fu gesto unico, nelle circostanze in cui accadde. Non a a caso su questo la memoria nazionale è stata subito ferocemente aiutata a dimenticare, a non capire.
Era un liberale. E accadde anche a lui di doverlo essere "altrove", per meglio esserlo, fino alla fine.
Era un radicale. Fu lui a riscoprire tante pagine e frasi di Voltaire che spiegavano meglio a noi stessi quel che eravamo andati facendo e tentando, nelle carceri e altrove.
Era, dicono, un "presentatore". Ma nessuno come lui ha "rappresentato", e non presentato o commentato, la passione per la giustizia, l'amore per coloro che la condividevano o per coloro che ne soffrivano la mancanza o la violenza.
Era anche capace di essere spietato.
Ma la carità è dura, non melassa. Ha conosciuto anche lo strazio dell'aver intelligenza e ragione: perché quel che l'intelligenza e la ragione vedono, oggi, è e non può essere che dolore, causa di dolore.
Se ne è andato una mattina in cui stava meglio, sereno.
Meglio, bene, per lui. Ma dolore più vivo, più violento per Francesca, la compagna, per cui ogni segno diveniva speranza. Domani ti celebreremo anche a Catania, Enzo. 254


35° Congresso: in Jugoslavia

di Giovanni Negri NR122 del 15 giugno 1988

Per non dimenticare l'altra Europa
In questo difficile anno di sperimentazione, di tentativo transnazionale, il Partito radicale intende celebrare il suo prossimo congresso in Jugoslavia.
Ve ne sono tutte le possibilità logistiche, come in questi ultimi giorni abbiamo constatato; ma ancor più vi sono molte e buone ragioni politiche per giustificare tale scelta.
La Jugoslavia è stata, è, nei prossimi mesi sempre più sarà, il teatro di tre crisi acute, destinate ad esplodere in modo drammatico e che possono ormai trovare risposte e sbocchi positivi solo all'interno del federalismo democratico europeo e della prospettiva degli Stati Uniti d'Europa.
Dalla Slovenia al Kossovo, dalla Croazia alla Macedonia, si sta inasprendo a ritmo accelerato una crisi etnica -carica di valenze sociali e culturali- che non può essere risolta, e rischia anzi di marcire (come tutte le crisi etniche e di identità presenti e latenti nel nostro continente) nel quadro e nei confine del vecchio "stato nazionale".
La crisi economica è grave al punto da aver indotto il Primo ministro jugoslavo a prospettare l'opzione politica di un profondo mutamento del sistema nel senso di un pieno ristabilimento della logica di libero mercato, "sia economico che politico e partitico".
I plateali colpi di mano autoritari di questi giorni in Slovenia, con un'ondata di arresti indiscriminati, hanno inoltre suscitato nell'opinione pubblica e nella stessa stampa una reazione di sdegno tale da assumere i veri e propri contorni di una protesta popolare difficilmente contenibile, sul terreno dei diritti umani e civili.
Perciò la Jugoslavia assume un'obiettiva importanza, che sarebbe cieco ignorare e sottovalutare. Perciò il Partito radicale, grazie in primo luogo a Sandro Ottoni e agli oltre 50 iscritti che lì operano, è oggi il protagonista della puntuale, intelligente, solida proposta di adesione della Jugoslavia alla Cee, che trova la sua naturale espressione nella petizione popolare al governo di Belgrado attorno alla quale si sta organizzando la raccolta delle firme.
Ma la ragione decisiva per lo svolgimento del nostro congresso in quel paese è un'altra. Al di là dei suoi interessi la Jugoslavia è oggi un vero test, cruciale, per la speranza di un'Europa politica.
L'89 e il '92, con l'elezione del Parlamento europeo e la spinta verso il mercato unico rappresentano altrettante tappe di un processo che è determinato dalla forza delle cose, che il Partito radicale vuole marcare con il suo progetto di rafforzamento -ma forse sarebbe più giusto dire di vera e propria creazione- di autentiche istituzioni e d effettivi poteri europei. Ma se nei prossimi cinque anni si gioca la grande partita della costruzione dell'Europa e dell'equilibrio dei poteri al suo interno, il più grave errore che ogni democratico ed ogni federalista potrebbe commettere sarebbe quello di dimenticare l'altra Europa, gli europei d'"oltre cortina", vittime come noi della spietata logica di Yalta ma potenziali co-autori (né più né meno che noi) di quel progetto di unione europea che è indispensabile per una politica di pace e di democrazia. Il primo interlocutore di quest'"altra Europa", quello più pronto ed attento è la Jugoslavia, vero e proprio test per l'Europa, della sua (nostra) capacità di respirare e di iniziativa politica.
Per questa somma di ragioni credo sia necessario darsi, tentare, l'appuntamento di Zagabria o di Lubiana (e comunque in Jugoslavia) dal 4 all'8 gennaio per il congresso del Partito radicale transnazionale.
E' un'iniziativa sicuramente costosa e difficile sul piano organizzativo non meno che su quello politico, che occorre tuttavia affrontare sin d'ora.
Per poter svolgere il congresso in Jugoslavia il dialogo con il governo di Belgrado è dunque aperto, e per parte nostra sarà sicuramente rispettoso delle leggi e dell'autonomia di quel paese, oltre che dei valori civili e democratici che sono i nostri. 219


Stati Uniti d'Europa: L'appuntamento del vertice

di Gianfranco Dell'Alba NR122 del 15 giugno 988

Hannover, capitale linguistica della Germania alla stregua di Siena per l'Italia, sarà per due giorni capitale dell'Europa dei dodici. Qui si riuniranno infatti il 27 e 28 giugno prossimi i capi di Stato e di governo dei paesi membri della Cee per il Vertice semestrale che marca oramai di fatto le varie tappe della travagliata vita della Comunità. Il cancelliere federale Helmut Kohl, che ne assicurerà la presidenza, vuole chiudere il suo brillante periodo di presidenza con un successo. Per questo, dopo aver sgombrato il campo dai problemi di bilancio e di finanziamento interno nel corso del vertice straordinario dello scorso febbraio, si trova nella migliore situazione per imprimere una nuova dinamica nel processo di costruzione europea. Adeguare alla prospettiva del mercato interno e della libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali le sclerotiche strutture esistenti, abbordare il passaggio vitale del coordinamento delle politiche monetarie per arrivare ad una moneta ed una banca comune: questo è uno dei due aspetti all'ordine del giorno obbligato del Vertice di Hannover. Perché a nessuno sfugge l'esigenza inderogabile di mettere ordine fra 12 politiche monetarie e del credito oggi assolutamente autonome, al di là degli incontri periodici dei governatori delle banche nazionali; con un sistema monetario europeo dal quale alcuni paesi, fra cui il Regno Unito, sono sconsolatamente assenti, e nel quale l'Italia conserva un "diritto di fluttuazione" così amplio da risultare in contraddizione obiettiva col rango di potenza economica (sic) che ha rivendicato da qualche tempo nei confronti degli altri partner Cee. Su questo punto Kohl e il suo governo hanno moltiplicato le prese di posizione affermando ripetutamente che "qualcosa uscirà da Hannover". Staremo a vedere, anche se sulla Banca centrale europea persino la timida richiesta, formulata da più parti, di istituire almeno un Comitato di saggi incaricato di sottoporre proposte concrete al prossimo vertice, sembra incontrare molte resistenze, specie da parte del governatore della Bundesbank, l'onnipotente istituto di emissione tedesco.
Sull'altro volano, indispensabile perché il mercato interno non si risolva in una giungla di totale "deregulation", e cioè quello politico-istituzionale, tutto tace sul fronte per così dire "ufficiale". Nessuna dichiarazione di questo o quel governo -compreso quello italiano- prepara il terreno alla possibilità che da Hannover possano di nuovo partire iniziative concrete sulla via dell'Unione europea, del rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo alla vigilia della sua rielezione a suffragio universale, dell'integrazione politica, dell'ampliamento complessivo dei poteri delle istituzioni Cee per gestire il complesso di conseguenze derivanti dal mercato interno.
Il Partito radicale, dal canto suo, ha fatto l'impossibile in questi mesi per fornire al vertice di Hannover il modo di imprimere alla dinamica comunitaria il ritmo necessario perché il salto di qualità indispensabile si realizzi.
Lo ha fatto secondo la mozione votata dal Congresso di Bologna e col metodo che gli è proprio, alternando iniziative parlamentaria a manifestazioni popolari e raccolta di firme. Tutte le "armi" radicali sono state utilizzate in vista di questo vertice affinche delle decisioni concrete vengano assunte, e non dei vaghi documenti programmatici. Quattro grandi temi hanno caratterizzato la campagna di primavera radicale per gli Stati Uniti d'Europa:
1) La richiesta di convocare nel luglio 1989, nella ricorrenza del bicentenario della Rivoluzione francese, gli "Stati Generali europei", assemblea comune dei membri dei Parlamenti dei dodici paesi membri della Cee e del Parlamento europeo, incaricati di eleggere il presidente del Consiglio europeo e quello della Commissione esecutiva della Comunità, sorta rispettivamente di "presidente dell'Europa" e "Primo ministro";
2) l'attribuzione di poteri costituenti al Parlamento europeo che sarà eletto nel giugno 1989, per elaborare il progetto di un nuovo Trattato di Unione europea affinche sia ratificato dai Parlamenti nazionali e si affianchi ai trattati esistenti per realizzare gli Stati Uniti d'Europa;
3) la richiesta di abbinare alle elezioni europee del 1989 un referendum popolare consultivo nei paesi membri per chiedere ai cittadini il loro consenso a procedere sulla via della costituzione dell'Unione europea, cioè di un'integrazione "politica", oltre che economica, dell'Europa;
4) la creazione di una banca centrale europea per arrivare congiuntamente ad instaurare una moneta comune dei dodici.
I risultati sono stati molteplici: il 10 febbraio la Commissione esteri della camera ha approvato un primo documento sotto forma di Risoluzione per gli Stati Generali e l'attribuzione dei poteri costituenti al Pe; contemporaneamente, e insieme al Movimento federalista, una proposta di legge di iniziativa popolare per il referendum consultivo e due petizioni sui temi succitati sono state concepite, e su di esse una raccolta di firme in tutta Italia e in vari paesi europei ha portato ad oltre 50.000 firme raccolte che dovranno essere consegnate allo stesso cancelliere Kohl prima dell'apertura del vertice.
Il 16 maggio scorso, il Parlamento europeo ha a sua volta approvato una Dichiarazione solenne, elaborata e proposta dai deputati radicali, che fa propria la risoluzione della Camera dei deputati italiani e chiede che ad Hannover si prendano le prime decisioni operative concrete per la convocazione degli Stati generali e l'attribuzione di poteri costituenti al Pe.
Infine, un appello di intellettuali, uomini di scienza e di lettere, artisti italiani, francesi, spagnoli, belgi e di altri paesi sta circolando in questi giorni, e ha già ottenuto prestigiose adesioni; sollecita una decisione rapida su tutti i temi in questione.
Tutto ciò conduce naturalmente ad una presenza radicale ad Hannover in occasione del Vertice. Il primo segretario Sergio Stanzani, gli eurodeputati radicali, gli eletti in Italia, i membri della segreteria e i militanti del partito di vari paesi assicureranno ad Hannover una partecipazione del Partito non soltanto nelle manifestazioni che, sotto l'egida del Movimento federalista, si terranno domenica 26 giugno, ma si troveranno la mattina del 27, come a Bruxelles lo scorso anno e quest'ultimo 10 febbraio, per chiedere che questi temi vengano posti all'ordine del giorno e discussi durante il vertice.
E' necessaria una mobilitazione massima del partito, a tutti i livelli, perché questa grande speranza non sia vanificata dalle burocrazie, dalle lentocrazie, dall'incapacità di concepire con realismo il futuro dell'Europa; che o sarà Europa politica - per riprendere un vecchio slogan - o non sarà. 187


Mozione del Consiglio federale

Grottaferrata 20/24 luglio 1988

Il Consiglio federale
udite le relazioni del primo segretario e del tesoriere, li ringrazia per lo straordinario valore e l'eccezionale apporto di realizzazioni, di proposte e di esempio da loro assicurati al partito;
li incarica di preparare anche la chiusura del partito, preparazione doverosa nell'attuale gravissima sua situazione finanziaria e di iscritti;
rileva che la responsabilità del successo o della chiusura del partito è più che mai affidata ora agli iscritti, tutti e ciascuno ed a tutti i democratici e le persone che hanno a cuore il diritto ala vita e la vita del diritto e che da loro dipende in primo luogo, nelle presenti circostanze, il successo o la fine del progetto e del Partito radicale.
Il Consiglio federale
accogliendo la proposta del segretario del partito delibera la convocazione del primo Congresso transnazionale in Jugoslavia, a Zagabria.
Il Consiglio federale
invita coloro che saranno assenti ad altre successive riunioni a presentare immediatamente le dimissioni dal Consiglio federale stesso.


A Praga, vent'anni dopo

di Gabriele Paci NR180 del 25 agosto 1988

Giovedì 18 agosto, dieci del mattino. Siamo seduti ai piedi della statua di S. Venceslao in attesa che scatti l'azione. Un centinaio di metri avanti una decina di altri radicali sono pronti ad aprire un altro enorme striscione, largo oltre 20 metri: attorno all'immagine di un carro armato la scritta in cecoslovacco "Insieme per la democrazia-Fuori le truppe sovietiche-Libertà e diritti civili per i detenuti politici". Sul nostro, largo 70 centimetri e lungo dieci metri, che cercheremo di aprire dall'alto del monumento di San Venceslao, c'è scritto "Svoboda", libertà.
I primi di noi sono a Praga ormai da sei giorni per preparare questa manifestazione senza precedenti per durata ed incidenza.

Sabato 13 agosto
Jean Luc Robert e George Van Gassen, belgi, sono arrivati per primi. Hanno prenotato delle stanze al Kolej Hotel, un enorme alloggio per studenti alla periferia. D'estate funzione come ostello per gli stranieri in visita: hanno prenotato per otto persone ma si registrano solo in tre; alcuni di noi potranno così dormire senza segnalare la propria presenza.

Domenica 14 agosto
In aereo sino a Vienna e poi in treno sino a Praga: in nottata Giovanni Negri ed io arriviamo all'albergo. Attendiamo con Jean Luc il ritorno di George che all'aereoporto doveva prelevare due ragazze, Begonia Rodriguez (spagnola) e una polacca. Alle tre torna da solo: non è riuscito a trovarle.

Lunedì 15 agosto
Stiamo per recarci in città per un sopralluogo a piazza San Venceslao e per telefonare a Roma e Bruxelles, punti di riferimento per scambiare le informazioni tra i vari gruppi.
Arriva Begonia: la polacca che era con lei è stata fermata e rimpatriata per problemi di visto. Era già nota come legata a noi e Solidarnosc: che stiano già per individuarci?
Nel corso della giornata contattiamo la stampa presente a Praga: ci incontriamo per strada, sono gli stessi giornalisti a dirci di stare molto attenti quando telefoniamo, tutto è sotto controllo, davanti alla sede delle grandi agenzie stazionano poliziotti in borghese, spesso c'è un centro di controllo nell'appartamento dirimpetto. Quando esco dalla casa di un giornalista italiano c'è un poliziotto in divisa. Vengo a sapere che sono stati richiamati di rinforzo per l'occasione oltre 1.500 poliziotti dal resto del paese: e si vedono!
Il controllo sulla piazza e intorno alla statua è imponente: girando ed osservando ci accorgiamo della marea di poliziotti in borghese: un camion blu staziona stabilmente sul retro con il pretesto di lavori in corso: è lì da un mese; da una finestra sulla sinistra della statua una telecamera la inquadra in continuazione; quando si entra nella hall dell'hotel Yalta, uno dei più belli, a metà piazza, una telecamera entra in funzione. L'albergo, ci informano, è direttamente gestito dal Ministero degli Interni.
Cominciamo a delineare le linee d'azione, impressionati da uno schieramento così massiccio; ma siamo convinti che il perfetto stato di polizia non esiste e che riusciremo ad organizzare il nostro scherzetto.

Martedì 16 agosto
Comincia la distribuzione di decine di migliaia di volantini in quattro zone della Cecoslovacchia: Brno (Massimo Fraticelli, Monica Cozzi, Andrea Tamburi), Bratislava (Vincenzo Donvito, Antonio Lalli, Antonia Brown, cittadina americana), Ceske Budejowitze (Paola Caravaggi, Giuseppe Lorenzi, Oliviero Noventa), Praga (Massimo Fraticelli e Begonia Rodriguez, spagnola).
I volantini sono arrivati in parte nella macchina di Josè Arias, spagnolo, in parte in una specie di grossa fasciatura attorno al torace di George e Jean Luc. Vi si ricorda quanto è accaduto vent'anni prima, si chiede libertà e democrazia per la Cecoslovacchia: sotto c'è il nuovo simbolo del Pr, con la scritta "Partito radicale" in diciotto lingue.
In serata arriva il compagno belga che dovrà riprendere le immagini dell'azione finale su piazza San Venceslao e telefonare in Italia immediatamente una breve cronaca attraverso "Radio Radicale".

Mercoledì 17 agosto

In tarda mattinata abbiamo la certezza che i primi gruppi che distribuivano volantini sono stati individuati: dovevano telefonare ogni tanto ad un punto di riferimento a Bruxelles e non l'hanno fatto; sapremo poi che sono stati fermati, ed espulsi, i gruppi di Brno e Praga.
Nel pomeriggio riunione organizzativa per definire gli ultimi particolare dell'azione: è fissata alle 18 ma fino alle 21 non rientrano né Arias né Maddalena Traversi con la figlia diciottenne Siras Alas. Abbiamo la certezza che li hanno beccati quando arriva in albergo Donvito: reduce da Bratislava, passando per il centro di Praga li ha visti accanto alla loro macchina mentre la polizia li interrogava. Arias alloggiava nelle stesse nostre stanze, potrebbero quindi facilmente risalire a noi: ci trasferiamo tutti nelle nuove stanze che Donvito ha prenotato, stendendo sul pavimento i piumoni per quelli che non hanno letto.
Alle due di notte arriva Arias: con attenzione, convinto che sia seguito dalla polizia, lo incontro fuori dell'albergo. Sono stati fermati perché la macchina di Maddalena, targata Milano, risultava sul foglio di ingresso di uno dei fermati. Portati in questura assieme a decine di altre macchine targate Milano, li hanno perquisiti trovando i volantini. Ora li hanno espulsi, devono uscire dal paese entro le nove di mattina. Andiamo a dormire più tranquilli, mentre Lucio Bertè, che con cura incredibile ha preparato gli striscioni, finisce di approntarli.

Giovedì 18 agosto
Ed eccoci qui, pronti a scattare.
Giovanni Negri, Antonio Lalli ed io siamo seduti ai piedi della statua. Cento metri davanti a noi, pronti ad aprire il grande striscione sono in otto: Robert Van Gassen, Bertè, Donvito, Brown; sono arrivati anche la Caravaggi, Lorenzi e Noventa da Budejowitze e sono accanto allo striscione. Alle 10 e 5 lo aprono; Giovanni Negri, sulla sinistra della statua si alza come per osservare cosa sta avvenendo e si sposta su un lato. Al centro Lalli e io con due capi dello striscione tra le mani. La polizia è distratta dallo striscione aperto in mezzo alla piazza, Giovanni ne approfitta e sale sul monumento: quando lo vedo alle mie spalle scatto all'indietro reggendo un capo del nostro striscione mentre Antonio va in avanti per distenderlo completamente. Glielo passo e salgo con lui. Dall'alto vediamo i nostri con lo striscione aperto e una folla attenta e incuriosita che si accalca per vedere cosa sta succedendo. La polizia non è proprio un granchè: riflessi lentissimi, ci lascia su per due minuti prima di invitarci a scendere e poi strapparci lo striscione con la scritta "Svoboda". Salgono poliziotti in borghese che tirano giù Giovanni: io comincio a giocare a rimpiattino a tre metri da terra attorno al monumento con un altro poliziotto in borghese. Finalmente mi becca, sul davanti della statua, mi mostra il distintivo e mi invita a scendere: "Non posso," gli dico in inglese, "sono qui perché aspetto una persona". Quando realizza che lo sto prendendo in giro si arrabbia di brutto, mi torce il braccio, un altro mi tira da sotto, mi caricano sulla macchina con Negri e Lalli, ci portano in una celletta di un commissariato lì vicino. Interrogatorio e scena stalinista della ripresa televisiva di noi che apriamo lo striscione: sapremo poi che l'hanno fatto anche con gli altri e che la sera hanno trasmesso alla televisione le immagini dei "pericolosi terroristi" occidentali che hanno aperto striscioni e distribuito volantini in tutta la Cecoslovacchia e nel cuore della capitale. Dopo qualche ora ci ricongiungono agli altri fermati. Jean Luc ha subito un trattamento duro, ma il peggio deve ancora venire: rientrati in Italia sapremo che dopo la comunicazione dell'ordine di espulsione (a gruppetti di due o tre verso diverse frontiere), Jean Luc e George, che chiedevano un regolare processo e non una semplice comunicazione di polizia, sono stati picchiati, George fatto rotolare per le scale.
Viene comunicato a tutti l'ordine di espulsione "a vita" dal paese per avere violato il codice penale cecoslovacco. Non ci hanno fatto nessun processo, non ci hanno fatto firmare niente. Ci accompagnano fuori dal paese. Su piazza San Venceslao, dove domenica hanno manifestato i giovani cecoslovacchi, continua a campeggiare un'enorme scritta: "Duri eterna l'amicizia e la collaborazione tra il popolo cecoslovacco e il popolo russo".
Sino a quando? 233


Abbiamo bisogno tutti della verità, anche i colpevoli

di Marco Pannella NR180 del 25 agosto 1988)

"Molto di recente mi è stato rimproverato di non essermi mosso tra i primi in difesa di Enzo Tortora, E' inoltre noto che non mi sono mosso tra i primi nemmeno nella difesa degli imputati del 7 aprile. Il Partito radicale, io stesso, saremmo dunque lenti; anzi: arriviamo spesso "ultimi". Non è legittimo, però, il dubbio che si arrivi "ultimi" perché -grazie alla serietà del nostro procedere- riusciamo poi ad essere efficaci e risolutivi?
Ciò detto passiamo al "caso Sofri" e all'assassinio del commissario Calabresi. Pochi attimi dopo aver appreso la notizia dell'arresto dei quattro esponenti e militanti di Lotta continua dichiarai pubblicamente la mia fiducia, la mia amicizia profonda per Adriano Sofri ed espressi i dubbi che potevano essere sollevati nei confronti della decisione dei magistrati ai quali esprimevo fiducia sincera, se non identica, non conoscendoli personalmente.
A distanza di due settimane ribadisco con maggior forza la mia grande amicizia e la decisione di fiducia in Adriano Sofri, così come i miei dubbi sull'opera, pur sempre legittima a quel che mi sembra, dei magistrati.
In particolare sta nascendo e rafforzandosi in me il timore che nei due giudici milanesi rischi di prevalere un uso strumentale della carcerazione e delle sue condizioni, specie nei confronti di Bompressi. Non vorrei che si usasse la carcerazione come "strumento" per far "crollare" un detenuto; non vorrei che dall'amore della verità, dal dovere e dal compito di ricercarla, si stesse una volta di più passando alla passione dell'indagine, alla difesa di qualsiasi costo di quel che si è fatto o pensato di dover o poter fare.
Ciò detto, ho una proposta da avanzare, questa: e se, insieme, tutti, non solamente gli "ex" di Lotta continua oggi chiamati in causa, cercassimo di far luce sull'assassinio di Calabresi? Se anche le controinchieste le facessimo in questa ottica? Il modo migliore per difendere degli innocenti ingiustamente sospettati, mi sembra, è quello di cercare e, se possibile, trovare i colpevoli.
Certo, a distanza di sedici anni questo è difficile. Ma per l'oggi e per i prossimi sedici anni abbiamo più che mai necessità della verità, tutti; sia i colpevoli di allora, probabilmente essi per primi; sia noi radicali che saremmo loro compagni senza riserve, con riconoscenza, con tutta la nostra forza in questa opera difficile, drammatica e bella. Per un oggi e un domani (se lo volessero) comuni".

Michele Serra - giornalista de L'Unità
...Ieri sul "Corriere della sera" appare un articolo di Marco Pannella, l'hai letto?
Sì, l'ho letto
Ecco che impressione te ne sei fatto?
Ma non lo so, l'ho trovato abbastanza interessante e fantasioso come sono spesso le prese di posizione di Pannella, ho dei dubbi sull'utilità effettiva di questo appello, nel senso che io penso che a modo suo ognuno già adesso dei dirigenti di Lotta continua stia provando a capire cosa è accaduto veramente, la verità, ecco... Devo dire che una lettura maliziosa dell'articolo di Pannella potrebbe fare pensare, e sicuramente qualcuno l'ha fatto, che Pannella invita semplicemente qualcuno a confessare, magari poi offrendogli la tutela di una candidatura in Parlamento.

Alexander Langer - consigliere regionale verde
Devo dire che questa volta, contrariamente al solito, mi trovo in disaccordo con Pannella: la sua mi sembra una proposta pericolosa, se sta a significare che uno può difendere la propria innocenza o l'innocenza dei propri amici, solo se riesce a trovare i colpevoli. Lotta continua non esiste più come soggetto politico, sarebbe assurdo ricostruirla in qualche modo, nell'intento di inquisire sui fatti di quegli anni; piuttosto potrebbe essere un soggetto attivo oggi, come il Partito radicale o lo stesso Pannella con il suo alto senso del diritto a promuovere un comitato, una commissione per far luce sull'omicidio Calabresi, ma anche su quello Pinelli; in questo caso, se sapessi qualcosa, darei la massima collaborazione.
C'è una parte dell'articolo che condivido perfettamente e che trovo molto nobile, cioè l'appello morale, quasi evangelico, che Pannella lancia e che è quello che la verità vi renderà liberi rivolgendosi ai possibili colpevoli. Questo incoraggiamento di Pannella, già contenuto in fondo nel suo primo intervento, è importantissimo, soprattutto per chi la verità la professa costantemente; purtroppo credo che la conseguenza peggiore del pentitismo sia quella di aver cancellato la consistenza e la moralità del pentimento, quella di chi dice ho fatto questo, oggi sono cambiato. Io mi sono arrovellato in questi giorni per capire che cosa farei se sapessi chi ha ucciso Calabresi e credo che in definitiva andrei da queste persone e gli direi che forse oggi è il momento per parlare di quello che hanno fatto senza vergognarsi, pagare la giusta pena e pretendere che la società riconosca che può essere cambiato. Gli direi che oggi il clima politico e morale consente questo. Per fortuna non ho da dover sopportare questo onere, posso dire di esser scampato da ciò.

Luciano Violante - deputato comunista
Ho letto con molto piacere questo intervento di Pannella perché è finalmente un'impostazione seria: sia nel punto in cui dice che la carcerazione non deve essere uno strumento per convincere a confessare, sia dove poi lancia una proposta costruttiva: quella di lavorare perché si trovino gli autori dell'assassinio del commissario Calabresi, ecco questo è un modo molto serio, che fa da contraltare ad atteggiamenti non seri presi sulla stessa questione. L'ombra della vicenda Tortora è ancora dietro la porta, è comunque bene sollecitare la vigilanza di tutti.

Giacomo Mancini - deputato socialista
"Mi fa sempre molto piacere leggere Marco Pannella, seguire i suoi interventi e, anche in questo caso, credo che la sua sollecitudine debba considerarsi valida.
Però non credo che i comuni cittadini debbano impegnarsi in inchieste e controinchieste. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di avere fiducia nella giustizia e nei giudici del proprio paese. I cittadini non devono sobbarcarsi l'immane fatica di concorrere a trovare verità che spetta ad altri trovare, o battere piste che è compito di altri seguire. Questo in teoria. Purtroppo in Italia le cose non stanno così, e sembra che lo slogan che abbiamo trovato nella campagna referendaria, quello della "giustizia giusta", sia ancora un'utopia."
Alfredo Biondi
vicepresidente della Camera
"L'invito di Pannella ha due pregi: prima di tutto quello di essere un appello alla coscienza, e poi un appello ad una sopravvenuta ragionevolezza in chi ha vissuto gli avvenimenti di allora con uno spirito ed in una realtà molto diversi da quello di oggi. Lui dice "io credo nell'innocenza di Sofri": forse intende dire che ci crede con l'ottimismo della volontà, con l'affidabilità dei sentimenti, che però non sono sufficienti in questo caso. Io dico che ci spero."

Giovanni Russo Spena
segretario nazionale di Dp
Mi sembra innanzitutto importante notare come in questa occasione, forze come il Partito radicale e Democrazia proletaria si siano trovate unite e coinvolte nel controllo garantista e democratico dell'inchiesta sull'omicidio Calabresi.
Per quanto riguarda la proposta che Marco Pannella avanza nel suo articolo, ho cercato Marco per parlargli, poiché non credo lui intenda mettere su una vera e propria inchiesta inquisitoria: non ne avremmo né il tempo né i poteri. La sua proposta è giusta perché ribalta il senso in cui ci si è mossi finora. C'è un dato di fatto, e cioè l'omicidio Calabresi, dobbiamo partire da questo e scavare fino a quando non troviamo la possibile verità, non invece fare del tutto per dimostrare la colpevolezza degli arrestati.

Grazia Cherchi
scrittrice
"Ho trovato molto allarmante il fatto che di fronte all'esplodere di questo caso angosciosissimo, che bisognerebbe chiamare "caso Marino", molti dei protagonisti di quel periodo tendono a rimuoverlo, decidendo che è meglio dimenticare.
Non posso non approvare quello che ha scritto Marco Pannella, però ritengo disperata l'impresa che lui suggerisce. Intanto perché sono passati sedici anni, e la ricerca dei colpevoli alla distanza di sedici anni, con le forze quasi inesistenti che abbiamo (sebbene io, come ho scritto sul Manifesto, non sia un'apocalittica) mi sembra difficilissimo. Ho detto di non essere "apocalittica" perché credo che ancora, forse per poco, l'Italia sia tra gli altri paesi europei quello che offre delle "sacche" culturali di diversità, di vitalità e vivacità, delle sacche di emarginati, certo, come Pannella o come, nel mio piccolo, io. E' necessario che, come dice Pannella, tutti si scuotano, parlino, scrivano, prendano posizione, non solo gli ex di Lotta continua, ma tutta quella "minoranza morale" che pure esiste nel nostro paese, per dare addosso a quello che sta succedendo, non solo sul caso Sofri, ma sui tanti gravissimi casi che in Italia sono successi, stanno succedendo o succederanno.
E' necessaria la verità, come dice Pannella, verità su Calabresi ma anche su Pinelli, su piazza Fontana, sulle stragi. Che luce sia fatta, ma sia fatta su tutto".

Enrico Deaglio
giornalista
L'articolo di Pannella si può dividere in due parti: da un parte la preoccupazione nei confronti dell'operato della magistratura milanese, accompagnata da un sostanziale riconoscimento di correttezza; poi c'è una parte in cui si avanzano dei dubbi sul modo in cui si sta svolgendo l'inchiesta e in particolare sulla strumentalizzazione dell'uso della carcerazione. L'ultima parte è poi una proposta: su questo vorrei dire che Lotta continua si è sempre preoccupata di cercare la verità su quanto è successo quel 17 maggio 1972, fin da quando due suoi militanti vennero incarcerati perché scambiati per gli identikit degli assassini. Tanto più oggi, quindi, nella situazione in cui ci troviamo, siamo interessati a trovare la verità. Io non ho nessuna difficoltà ad accogliere l'appello di Pannella, quello che stiamo facendo infatti non è tanto un'inchiesta tesa a difendere gli amici in galera, ma a far luce su quanto successe a quel tempo. Però vorrei aggiungere una cosa, che Pannella sa benissimo, e cioè che tutti i peggiori delitti, le peggiori stragi, tutto quello che di più terribile è accaduto in Italia negli ultimi trent'anni, è tutto rimasto insoluto, tutto ancora avvolto nel mistero. Abbiamo sì bisogno di verità, ma non solo per l'omicidio Calabresi. Sono sicuro che con Marco potremo fare delle cose insieme su tutta questa storia. 113



La Conferenza internazionale antiproibizionista del 1988

Di Giancarlo Arnao - Intervento - novembre 88

Intervento alla Conferenza della Drug Policy Foundation, a Washington, D.C., Novembre 1988

Obiettivo della conferenza era la raccolta delle esperienze di varie nazioni nella ricerca di strategie alternative all'attuale politica sulla droga, che si basa sul proibizionismo.
Le nazioni presenti alla Conferenza erano: Belgio, Canada, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Spagna e Stati Uniti.
Come sappiano, il problema della politica sulla droga investe vari aspetti:
- legali e etici (diritti costituzionali)
- medici (salvaguardia della salute dei consumatori di droghe e di tutta la popolazione)
- sociali (problemi creati nei consumatori di droga dall'illegalità: microcriminalità ed emarginazione sociale)
- politici (traffico internazionale di droga)
- finanziari (costi della repressione legata al funzionamento della legislazione).
Nella Conferenza di Bruxelles sono stati presi in esame soprattutto gli aspetti sociali, politici ed economici.
Marco Pannella (deputato al Parlamento italiano e a quello Europeo) ha sottolineato la natura "criminogena" della legislazione proibizionista: in Italia abbiamo una microcriminalità endemica dei tossicodipendenti, che provoca almeno il 50% dei reati contro la proprietà; inoltre, molti giovani vengono incarcerati per il possesso di piccole dosi di droga (anche cannabis) e in prigione spesso vengono introdotti a una carriera criminale. Il mercato della droga, ha detto Pannella, è oggi "libero", dato che è possibile acquistare droga dovunque: se fosse legale, sarebbe regolamentato e controllato.
In Italia abbiamo anche un fenomeno di macro-criminalità in continua espansione: il mercato dell'eroina è nelle mani della Mafia, quello della cocaina è dominio della "camorra" (un organizzazione criminale che ha le sue basi a Napoli). Ambedue le organizzazioni hanno rilevanti coinvolgimenti politici e stanno praticamente creando un contropotere fuori della legge in due regioni d'Italia: Campania e Sicilia. Ogni anni esse hanno ucciso centinaia di persone - e gran parte di questi delitti non è mai stata punita. Secondo il sociologo Amato Lamberti, il mercato illegale della droga a Napoli è aggressivo ed efficiente: in altre parole, il mercato dell'eroina è diffuso in un contesto di illegalità endemica; la sua promozione si basa sul fatto che molti dei tossicodipendenti sono obbligati a spacciare droga agli altri per poterne affrontare l'acquisto.
Gli aspetti politici del problema sono stati analizzati da André Bertrand (Canada), il quale ha affermato che
"tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, almeno una dozzina di nazioni ha creato comitati o commissioni per investigare il problema della droga... Nessuna di queste commissioni ha raccomandato di mantenere lo status quo... Eppure, in nessuna nazione, i rapporti di questi organismi hanno avuto alcun effetto sulla legislazione"
Giancarlo Arnao (Italy) e Wijnand Sengers (Olanda, fondatore del Movimento Europeo per la Normalizzazione della Politica sulla Droga) si sono occupati delle linee di condotta dell'ONU e dell'OMS, le cui basi scientifiche sono chiaramente dubbie, in quanto influenzate da considerazioni politiche. La politica dell'OMS è stata illustrata anche da Gino Del Gatto (Presidente del CO.R.A.), che ha rivendicato il diritto di "libertà terapeutica" per i medici.
I problemi legali sono stati sottolineati dal magistrato francese Georges Apap, il quale ha affermato che, paradossalmente, "le droghe non sono proibite in quanto pericolose, ma pericolose perché proibite" e ha parlato delle illegalità delle azioni poliziesche antidroga in Francia.
Thomas Szasz ha inviato un intervento scritto, nel quale ha affrontato alcuni aspetti filosofici del problema. Uno di essi è il problema posto dalla "tentazione": "alcune droghe ci offrono dei nuovi generi di tentazione a cui dobbiamo imparare a resistere o a goderne con moderazione." Egli ha concluso che
"proprio mentre vediamo la libertà di parola e di religione come diritti fondamentali, dovremmo anche vedere la libertà di auto-medicazione come un diritto basilare... La guerra alle droghe è la più lunga e protratta delle guerre formalmente dichiarate di questo secolo turbolento... Infatti, dato che questa guerra è una guerra al desiderio umano, non può essere vinta in alcun senso proprio del termine".
L'esperienza olandese è stata descritta da Peter Cohen. Nonostante la ben nota tolleranza politica olandese, la prevalenza dell'uso di cocaina e eroina nella cosiddetta "capitale europea della droga" (Amsterdam) è piuttosto bassa: i consumatori abituali di cocaina sono il 5,6% e di eroina, che ha un prezzo più basso, sono il 9,9% e quelli saltuari, a cadenza mensile, dello 0,9%.
Un'altra nazione che ha tentato un approccio tollerante è la Spagna. Ma, secondo il giurista spagnolo Jose Diez-Ripolles, questo atteggiamento sta venendo sottoposto a una forte pressione internazionale e sarà riveduto in tempi brevi. Secondo Manuel Sanchez,membro della polizia spagnola, oltre l'80% dei crimini che avvengono nel paese sono legati alla droga.
I problemi economici del narcotraffico illecito sono stati diffusamente analizzati da Peter Reuter (US) e Richard Stevenson (GB).
Secondo Reuter, produrre droga costa poco. Le droghe sono talmente economiche che "sequestrarle in prossimità della fonte provoca un danno molto lieve al sistema di distribuzione". Infatti, il 99% del prezzo della droga di strada negli Stati Uniti è dovuto al pagamento di chi la distribuisce. Quindi, presumendo anche che le organizzazioni di polizia fossero in grado di intercettare il 50% di tutta la cocaina spedita dalla Colombia verso gli Stati Uniti, questo provocherebbe un aumento inferiore al 3% del prezzo al dettaglio della sostanza. Reuter ha concluso che il vero obiettivo consiste nell'ottenere una maggior riduzione dei costi sociali dell'abuso di droga attraverso il trasferimento dei fondi destinati alla repressione (circa 6 miliardi di dollari nel 1986 negli Stati Uniti) ad altri programmi (per esempio la prevenzione, che nello stesso hanno ha ricevuto solo 0.8 miliardi di dollari).
Secondo Stevenson, la struttura delle organizzazioni dei narcotrafficanti funziona in modo che ogni componente possa contattare solo il livello superiore al suo. Questo limita i danni causati dall'arresto di uno dei membri.
Lester Grinspoon (USA) e Bruce Alexander (Canada) hanno proposto delle alternative pratiche al problema.
Grinspoon ha affermato che "tra i trafficanti da una parte e i moralizzatori dall'altra, nessuna persona intelligente può pensare che esista una soluzione". Il governo federale degli Stati Uniti e quelli locali spendono ogni anno dagli 8 ai 9 miliardi di dollari per la repressione poliziesca. Al posto di questo enorme spreco di denaro, Grinspoon ha proposto che le sostanze attualmente controllate siano legalizzate e tassate: le tasse dovrebbero basarsi sul costo attuale di ciascuna droga per la società, ed essere impiegate per l'educazione alla droga e per pagare i costi sociali e medici dell'uso di droga. Nella sua prima fase, questa regolamentazione dovrebbe comprendere l'alcool, il tabacco e la cannabis: questo dovrebbe aumentare il costo di alcool e tabacco rispetto a quello della cannabis. Poi dovrebbe essere la volta della cocaina e poi dell'eroina.
Alexander ha proposto una forma di controllo locale sulla droga. Invece di una legislazione a livello mondiale, ha proposto norme stabilite dalle comunità locali, a seconda delle diverse abitudini e culture.
Queste proposte hanno provocato un vivace dibattito, che è avvenuto l'ultimo giorno della Conferenza. La gradualità dell'approccio suggerito da Grinspoon è stata criticata da quanti chiedono un'alternativa più radicale al proibizionismo: questo ha fatto quindi sollevare l'interrogativo se l'obiettivo del movimento antiproibizionista sia per ora solo la legalizzazione della marijuana, lasciando nell'illegalità le altre droghe. La proposta di affidare alle comunità locali il diritto di legiferare in materia di droga è stata ritenuta rischiosa, dato che mette i diritti civili dei consumatori di droga nelle mani di collettività che possono essere altrettanto piene di pregiudizi dei politici a livello nazionale.
Riassumendo, dalla Conferenza di Bruxelles è possibile ricavare le seguenti conclusioni:
1) Nei paesi europei la strategia proibizionista sembra creare gli stessi problemi del Nord America;
2) In nessun paese questa strategia sembra essere in grado di risolvere i problemi entro un ragionevole futuro;
3) Quasi in ogni nazione, eccetto l'Olanda, i governi stanno pensando di risolvere il problema con leggi ancora più repressive;
4) in molti paesi europei e americani sta crescendo il dibattito sulle alternative all'attuale politica sulla droga; per quanto sappiamo, questo dibattito sta ottenendo ampio spazio dai mass media in Italia, Spagna e Gran Bretagna;
5) 75 anni di politica proibizionista hanno creato una serie di problemi, molti dei quali sono complessi e contraddittori; il movimento antiproibizionista deve adesso elaborare delle proposte fattive in modo da risolvere la maggior parte di essi con il minimo costo sociale;
6) In questo contesto, la cooperazione internazionale è una necessità fondamentale: quindi il CO.R.A. e il Partito Radicale propongono la creazione di una Lega Internazionale Antiproibizionista. 1245


Mozione del Consiglio Federale

Gerusalemme, 21/24 ottobre 1988

A) MOZIONE
Il Consiglio Federale constata che gli obiettivi di iscrizioni e di finanziamento fissati dagli organi statutari (Segretario, Tesoriere, Consiglio Federale) come necessari non sono stati raggiunti.
Il Consiglio Federale, udite le relazioni del Segretario e del Tesoriere, le approva, ne ribadisce il valore e torna a respingere le loro dimissioni, convinto che sia questa la condizione necessaria perché il Congresso del partito possa tenersi nelle migliori condizioni, e rivolge loro e all'intera Segreteria un appello in tal senso.
B) DELIBERA
Il Consiglio Federale delibera di dare mandato al Primo Segretario e al Tesoriere di disporre tutti gli atti amministrativi e finanziari necessari o idonei a pervenire alla chiusura del Partito secondo le norme del Codice Civile che regolano la liquidazione delle associazioni non riconosciute, con mandato esplicito a realizzare e liquidizzare ogni e qualsiasi bene e attività comunque disponibili da parte del Partito.
Il Consiglio Federale conferisce altresì al Primo Segretario e al Tesoriere ogni potere affinché essi, congiuntamente, provvedano a destinare ogni attività del Partito - anche già acquisita o da acquisirsi - al pagamento di ogni debito comunque gravante sul Partito e ciò anche in deroga ad ogni altra precedente deliberazione del Consiglio Federale o del Congresso che abbia diversamente disposto specie per quanto attiene alla destinazione delle somme derivanti dal finanziamento pubblico.
C) DELIBERA
Il Consiglio Federale delibera di dare mandato al Primo Segretario e al Tesoriere di dar luogo, con effetto immediato, ad una Fondazione avente lo scopo di promuovere l'affermazione dei diritti fondamentali della persona nello spirito dei principi che ispirano od hanno ispirato l'azione del Partito Radicale in sede nazionale e transnazionale, demandando al Primo Segretario e al Tesoriere l'esecuzione di tutte le procedure atte a costituire tale Fondazione, a redigerne lo statuto, a indicarne e nominarne i fondatori nonché gli amministratori, a costituirne il patrimonio nonché a stabilirne la sede 3481


De Mita e Craxi isolati

Di Marco Pannella NR262 del 30 novembre

SOMMARIO: Sintesi della conferenza stampa tenuta da Marco Pannella sabato 26 novembre 1988. Il leader radicale si occupa della vicenda della nomina dei Commissari CEE e delle iniziative per il rinnovo del Parlamento europeo.

1. Il problema di metodo e di merito è stato sollevato dal Partito radicale, già nel mese di luglio. Altrimenti, come da vent'anni, non gli sarebbe stato dato più spazio di quanto non se ne dia per un posto di Consiglio d'Amministrazione d'una banca di Roccacannuccia. Ne abbiamo fatto, in tal modo, un fatto istituzionale, politico, nazionale ed europeo.
Sul piano del metodo, il Parlamento italiano, cui compete la funzione di indirizzo, di controllo e di vigilanza rispetto alle iniziative del Governo, ha espresso nella Commissione esteri della Camera dei Deputati, all'unanimità, esattamente il metodo opposto a quello seguito dal Presidente del Consiglio. Sul piano del merito, sulla mia candidatura, ho riscontrato l'appoggio senza precedenti di tutte le forze di opposizione, senza eccezioni; di tre partiti di governo su quattro laici, di decine di eletti e di esponenti di rilievo della Dc, e di personalità della cultura, della scienza e del mondo giornalistico senza precedenti anch'esso. solamente una stampa condizionata dalla diarchia De Mita-Craxi, quanto ieri dall'impero piduista (Il Corriere della Sera torna ad essere, da questo punto di vista, all'avanguardia, come allora), può a questo punto attribuire al mio commento caratteri di "furore" e di "delusione", mentendo sapendo di mentire, non sapendo che mentire. Sul piano personale non posso che sottolineare che il mio partito e la mia stessa immagine, grazie a questa prova e a questa iniziativa, risultano come non mai quelle di un "transpartito" che difende la vita del diritto e delle istituzioni, contribuendo al coordinamento e al rafforzamento di quanti hanno a cuore il decoro e la forza della vita democratica e istituzionale.
Il governo sarà ora chiamato a rispondere del suo operato. Presenteremo nei giorni prossimi mozioni e interpellanze. Ci consulteremo con le altre forze parlamentari per studiare la possibilità di una mozione di sfiducia al Governo.
Comunque la conclusione della vicenda, per ora, è chiara: De Mita e Craxi si sono trovati isolati. Definire "folcloristico" l'atteggiamento dell'intero Parlamento (e l'immensa maggioranza dell'opinione qualificata) costituisce prova di questa debolezza e premessa per aggravarla.
2. Alternativa riformatrice e laica, civica e verde.
Proporrò a tutti i partiti laici, a Democrazia Proletaria, e - in molti casi - ai Verdi e al Pci (o alla Dc dove da quarant'anni il potere fosse, senza soluzione di continuità, "rosso"), la formazione di liste federaliste, civiche, laiche e verdi per il governo dei comuni, anticipando in tal modo quella riforma istituzionale dei sistemi elettorali delle Regioni, Province e dei Comuni che dovrà consentire o secondare la formazione di due liste di progetto e di programma in alternativa, oltre all'elezione diretta del sindaco.
(Ovviamente includo il Psi nei partiti laici).
3. Iniziative federaliste in vista delle elezioni europee.
Sono in corso di discussione, alla Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati, alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare di massimo rilievo e significato politico e federalista.
a) Proposta di un referendum contemporaneo alle elezioni per il conferimento al Parlamento europeo di poteri costituenti.
In linea di principio tutti i partiti e gruppi parlamentari si dichiarano favorevoli. Dc e Pci sembrano optare per una procedura di revisione costituzionale. Sul piano tecnico-giuridico tutto può difendersi o rifiutarsi. In concreto la scelta di una tesi piuttosto che l'altra può rendere problematica la tenuta del referendum. Occorre quindi garantirne comunque, in modo ferreo, la tempestiva adozione.
b) Proposta Martinazzoli per l'estensione dell'elettorato passivo alle elezioni europee a tutti i cittadini della comunità, in ottemperanza ad una dichiarazione solenne del Parlamento europeo.
Questa proposta di legge è stata presentata da tutti i capigruppo della Camera dei deputati, in ordine decrescente di consistenza numerica dei gruppi stessi. E' una proposta che senza esagerazione alcuna può essere definita di significato storico. Il presidente della Commissione Labriola, fra le tesi giuridiche, ha scelto con durezza quella della necessità - anche in questo caso - di una procedura costituzionale. E' una scelta politica irresponsabile, dal vago sapore ricattatorio: il presidente Labriola è mobilitato per assicurare anche il varo di una riforma della legge elettorale europea. Il Psi deve decidere, e assumersi le sue responsabilità.
Non vi sarà possibilità di collaborazione con chi fosse responsabile della vanificazione di questa proposta di legge.
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