UNA GIORNATA A TASHILING

Notizie Radicali, 24 Nov 1998 - di Massimo Lensi

Atterro al piccolo aeroporto di Pokhara, la "Rimini" nepalese ai piedi dell'Annapurna, dopo una mezzora di "volo" con la Buddha Air. Il bimotore 10 posti a elica "Om" conferma, se mai ce ne fosse bisogno, le simpatiche contaminazioni di questo Paese tra religiosità e vita di tutti i giorni. Immagino la faccia di un Buttiglione sulla rotta Roma-Milano sull'aviomobile battezzato "Padre Nostro", con un volo della Cristo Air: fantascienza!

A Pokhara noleggio una durissima bicicletta indiana Hero, la mitica bicicletta degli hippies nei '60, e arrancando tra vacche sacre, fatiscenti camion e migliaia di buche, arrivo dopo venti chilometri di strada al più famoso, meglio organizzato, campo profughi tibetano del Nepal: Tashiling.
Il campo accoglie circa mille rifugiati, di cui trecento nati in Tibet, in una aerea dove sono state edificate nel tempo e non senza difficoltà, la scuola, il Tibetan Children Village, l'ospedaletto, la biblioteca e anche un piccolo monastero di tradizione Gelug, quella del Dalai Lama, raro in terra Sakya, la temibile setta antagonista. Il Governo nepalese è già molto, mi dicono, se li ospita come rifugiati "non" politici: i confini con l'Impero cinese sono più vicini di quanto si immagini. Le istituzioni locali però non sono ostili e incoraggiano l'integrazione sociale e lavorativa dei tibetani. I finanziamenti sono decisi da Dharamsala e in questo caso provengono da una fondazione tedesca, la "Herman Gmeiner" che sovvenziona tutte le attività sociali ed educative del campo.

Faccio amicizia con una coppia di giovani. Lei, Rinzin, vent'anni, studente di Scienze Politiche a Katmandhu, lui, Tenzin, ventiquattro, titolare di un piccolo negozio di artigianato tibetano a Pokhara. Nello zainetto mi ero portato un po' di documentazione sulle attività del Partito Radicale per la libertà del Tibet, copiate a Katmandhu la sera precedente dal old.radicalparty.org, il sito su Internet. Con loro e con altri intavolo una lunga discussione, spiegando come mai un partito "occidentale" avesse tra i suoi obiettivi quello della democrazia in Cina e del rispetto dei diritti umani, politici, religiosi in Tibet, così come nel Turchestan orientale e nella Mongolia interna: impresa non facile!

Nel frattempo mi viene fatto visitare il villaggio. Con ammirazione constato la buona organizzazione della vita del campo e mi domando cosa deciderebbero se mai fosse presentata loro l'opportunità di rientrare, liberi, in Tibet. Mi invitano a fermarmi per la cena e tra una "tsampa" e qualche bicchiere della terribile "chang", la birra a base di orzo fermentato, racconto del mio recente viaggio a Lhasa, e di come sia ridotta oggi la città dei Dalai Lama. Da questo orecchio, pero', non ci sentono. Per loro, specialmente tra i giovani nati nella diaspora, rientrare in Tibet e lottare per cambiarlo è quasi un dovere. Avverto le influenze della mobilitazione del Tibetan Youth Congress, l'attivissima organizzazione giovanile tibetana.
Discutiamo del Panchen Lama, il più giovane prigioniero politico del mondo, attualmente tenuto sotto controllo in un villaggio della provincia di Gansu e delle recenti morti avvenute nell'immondo carcere di Drapchi, a Lhasa. L'ambiente si riscalda. Ormai siamo una ventina e noto una forte tensione tra questi amici nel credere di poter cambiare il presente, lo status quo. Il Dalai Lama si comporta opportunamente nel tentativo di intavolare colloqui segreti con Pechino. Lo fa, sostengono, per dare la possibilità del rientro, per datare la fine della diaspora: poi lotteremo!

Tutto ciò mi fa paura: penso alle tremende giornate dell'insurrezione di Lhasa, ai fatti del 1988 e credo che di sangue ne sia già scorso a sufficienza. Dico loro che l'unica via possibile, quella seguita da quarant'anni da Sua Santità, si basa sul dialogo nonviolento, sui negoziati sino-tibetani sotto gli occhi di tutto il mondo. Mi danno ragione, ma capisco che per loro la metodologia nonviolenta assume colori e connotati diversi dai miei. Non è un metodo, semmai uno slogan. Hanno scarsa dimestichezza di digiuni, scioperi della fame, boicottaggi, di atti di resistenza nonviolenta o di disobbedienza civile. I monaci, loro certamente praticano queste forme di lotta: "noi siamo laici!". Ma non sono terroristi, neanche lontanamente. C'è solo un po' di confusione e molta eccitazione per gli avvenimenti di queste ultime settimane, di questa cosiddetta riapertura del dialogo tra Pechino e Dharamsala.
La serata si conclude con il consueto tè al burro di yak, ma gli ultimi sorrisi li dedichiamo alla spassosa notizia sulla Tv cinese, l'unica, che sta per mandare in onda un serial di 20 puntate - dal costo enorme di 11 milioni di yuan - dall'impegnativo titolo "Storia e Sviluppo della Tibet Autonomous Region dalla sua liberazione nel 1950 a oggi". No comment!
A notte fonda rientro a Pokhara con la mente rivolta alla giornata passata a Tashiling e alle numerose domande rimaste senza risposta. Saprà il Dalai Lama e il Kashag, il suo governo, al momento giusto, moderare le tensioni sociali, i pericoli che il rientro dei tibetani "occidentalizzati" della diaspora porterà con sé e convertirle in forme di lotta politica nonviolenta, in dialogo aperto con le istituzioni cinesi? O forse sta giocando una pragmatica, questo certamente, ma quanto mai rischiosa, carta nella ultradecennale partita con Pechino? E quanto in tutto ciò è frutto della volontà politica del Kashag? Non so darmi ovviamente nessuna risposta.

Il giorno seguente, andando verso l'aeroporto, rifletto che se avessimo investito più in contatti con le centinaia di campi profughi tibetani sparpagliati in Nepal e India, forse oggi avremmo, noi per primi, una coscienza politica più chiara sulle campagne da fare per il Tibet. Ma i pensieri sono tristemente offuscati alla vista dell'"Om" della Buddha Air che mi aspetta sulla pista ai piedi dell'Annapurna. Destinazione Katmandhu, spero!