SOTTO
IL CIELO DI LAMALAND Inizio a prendere contatto con l'altipiano tibetano nei 97 chilometri del tragitto dall'aeroporto a Lhasa: 3800 metri di altitudine, debito d'ossigeno, sole implacabile, aria frizzante e rarefatta e un cielo azzurro, intenso, quasi ingombrante. Nella jeep che mi porta all'alberghetto tibetano prenotato a Katmandu, mi vengono in mente i volti e le voci dei tanti amici e compagni di lotta di questi ultimi quattro anni di campagne per la "libertà del Tibet". Amici conosciuti e rivisti
tante volte a Budapest, Bruxelles, Ginevra, Bonn e ai quali da quattro
anni il Partito Radicale propone il Satyagraha nonviolento mondiale per
la libertà del Tibet occupato, come unica proposta politica per affrontare
con forza la questione tibetana. Mistico o per facoltosi cinesi,
tanti, che potranno poi testimoniare come, tutto sommato, i tibetani siano
trattati con riguardo, tolleranza e anche devozione dalle autorità della
"Tibetan Antonomous Region": un fantastico esempio del peggiore Minculpop.
Ma Lamaland sono anche due
città. Quella cinese, ben illuminata e pulita, con i suoi sfavillanti
negozietti-emporio quasi occidentali, con gli alberghi di lusso e i ristorantini
tipici. La parte tibetana invece è mal tenuta, buia, esattamente l'opposto
di quella cinese. E' la "Riserva", dove l'occidentale riscopre il medioevo
teocratico dei grandi Lama. O almeno così crede dopo aver annusato l'odore
di burro di yak di cui è intrisa ferocemente l'aria. I giovani tibetani, vestiti
con i rimasugli di qualche Rivoluzione Culturale, conoscono la propria
lingua, reintrodotta a livello di insegnamento scolastico 3 anni fa dalle
autorità della TAR per, così penso, meglio perfezionare la Riserva, e
il cinese. I loro coetanei cinesi in più parlano l'inglese, si vestono
con jeans e scarpette da ginnastica, ascoltano gli U2. Ma le etnie ormai
si confondono sempre di più. I "mezzi sangue" sono la maggioranza nella
comunità tibetana. Un paio di generazioni ancora e Pechino avrà ottenuto
il "tibetano perfetto". La lenta e spassosa burocrazia
dell'Immigration Office di Lhasa mi impedisce il rientro a Katmandu via
terra, programmato per passare anche da Shigatse, Tashi Lumpo e Sakya,
ma riesco, nonostante l'avvicinarsi della scadenza del visto, ottenuto
con enormi difficoltà a Katmandhu, a effettuare qualche escursione. A Lamaland dopo le fatiche
della giornata si può dedicare il proprio tempo a spedire esotiche email
da uno dei numerosi Internet Point, o a rischiare qualche yuan nei casinò
degli ormai tanti alberghi internazionali, o a girare per le strade illuminate
della parte cinese tra bordelli, ristorantini tipici e pub. Una città
pronta ad afferrare i gusti di qualsiasi turismo, che arriva con sempre
maggiore intensità anche dall'interno della Cina. Ma sono solo pensieri gettati
al vento come le migliaia di bandiere di preghiera. Mi chiedo, un po' cinicamente,
lo ammetto, se mai un giorno, forse presto, il Dalai Lama rientrerà a
Lhasa con questo volo, oppure sceglierà quello da Pechino. Me lo chiedo
però senza l'angoscia dell'andata. Penso solamente che ancor oggi, e più
di prima, l'unica via per giungere alla definitiva e pacifica soluzione
politica della questione tibetana, passi esclusivamente dall'apertura
pubblica di negoziati sino-tibetani sotto l'egida delle Nazioni Unite.
Al più presto. Questo dirò agli amici della comunità tibetana di Katmandu.
E dopo una settimana, con un notevole senso di liberazione, lascio Lamaland.
|