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Cronologia del Partito Radicale -
1977

DOCUMENTI

Le decisioni del Consiglio federativo  NR1 15 gennaio 1977
Legge sull'aborto: perché abbiamo votato contro NR4  3 febbraio 1977
MOZIONE APPROVATA DAL CONSIGLIO FEDERATIVO NR44  14 febbraio 1977
Armati di nonviolenza di Adelaide Aglietta NR6  17 febbraio 1977
Nonviolenza contro le leggi eccezionali NR7  24 febbraio 1977
Ai nostri compagni violenti  di Marco Pannella  marzo 1977
Cronaca di dieci giorni di lotta parlamentare NR10 del 12 marzo 1977
Dimissioni di Emma Bonino: il Pci sceglie la parte del buttafuori di Gianfranco Spadaccia NR85 31 marzo 1977
RADICALI: Noi, rompiscatole di Marco Pannella - Lotta Continua 14.5.77
Troncare la spirale della violenza di Adelaide Aglietta NR84 24 marzo 1977
LA LOTTA DI MONTALTO DI CASTRO CONTRO LE CENTRALI NUCLEARI PROVA RADICALE, marzo 1977
Obiettivo 1 milione di firme NR87 21 aprile 1977
Roma a ferro e fuoco di Marco Pannella - Lotta Continua 14.5.77
Il tempo dei lupi è venuto Intervento di Marco Pannella a Tribuna politica 26.5.77
PANNELLA risponde a MGP di Marco Pannella EUREKA, 7 luglio 1977
Pannella/Almirante: Non c'era bisogno di iniziative gravemente sbagliate, né di inquinamenti LOTTA CONTINUA, 22 giugno 1977
Aberrazioni logiche Marco Pannella - Lotta Continua - Giugno 1977
DICHIARAZIONE di Marco Pannella  NR233 28 settembre 1977
LEGENDA TITOLI
rosso = transnazionale  blu = nazionale   verde = congressi o riunioni del PR

Le decisioni del Consiglio Federativo

NR1 - 15 gennaio 1977

Il Consiglio Federativo del Partito Radicale si è riunito a Roma l'8 e 9 gennaio 1977 con il seguente ordine del giorno: definizione del progetto di referendum abrogativi; dibattito sul Partito Radicale e la sinistra italiana; emendamenti alla legge sulla droga; preparazione del consiglio federativo dedicato allo stato del partito; varie ed eventuali.

Il Consiglio, approvando all'unanimità le proposte del segretario nazionale del Partito Radicale Adelaide Aglietta, ha deciso che il Partito Radicale promoverà nei mesi di aprile, maggio e giugno le firme necessarie per indire dieci referendum abrogativi delle seguenti leggi:

1) Concordato;
2) Reati di vilipendio e sindacali del Codice Penale;
3) Legge Reale;
4) Legge istitutiva dell'ordinamento giudiziario militare;
5) Legge sul finanziamento pubblico dei partiti;
6) Legge istitutiva della cassa per il mezzogiorno;
7) Art. 18 del regolamento della Camera che regola l'immunità parlamentare;
8) Alcune norme della legge istitutiva della Commissione parlamentare Inquirente sui procedimenti d'accusa che attribuiscono alla commissione poteri di avocazione e di archiviazione dei procedimenti;
9) Norme illiberali e anticostituzionali del Testo unico di PS;
10) Legge manicomiale.

I primi cinque referendum erano stati già decisi dal Congresso del Partito Radicale che aveva dato mandato al Consiglio Federativo di completare il progetto referendario, definendo il numero e i contenuti degli altri referendum da promuovere. Il Consiglio ha tuttavia riservato alla segreteria la facoltà di apportare ulteriori modifiche al progetto, sostituendo, per eventuali ragioni di urgenza e di necessità, il contenuto di due dei referendum prescelti dal Consiglio federativo.

In particolare il consiglio ha dato mandato alla segreteria:
1) di approfondire il tema dell'immunità parlamentare per il quale esistono dubbi di proponibilità, trattandosi non di una norma di legge, ma di una norma del regolamento della Camera, anche se si tratta di una norma regolamentare che secondo la dottrina ha forza di legge;
2) di procedere alla sostituzione di uno dei referendum prescelti dal Consiglio Federativo qualora sia approvata in questi mesi dal Parlamento una legge di particolare gravità per la quale si renda necessaria l'immediata indizione di un referendum abrogativo;
3) di valutare infine l'opportunità di inserire nel pacchetto dei dieci referendum un altro referendum in materia concordataria, con preferenza per la legge finanziaria sugli enti ecclesiastici.

Il consiglio ha confermato il mandato alla segreteria di accompagnare la richiesta di referendum abrogativo della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, con la partecipazione di una proposta di legge alternativa, in collaborazione sulle proposte della segreteria radicale, ispirata a criteri di finanziamento indiretto dei partiti e dell'attività politica (servizi anziché diretta erogazione di finanziamenti).

Il consiglio ha approvato un emendamento, presentato dai compagni Ercolessi e Rippa, rivolto a sostituire nel pacchetto dei referendum il Codice penale militare di pace, inizialmente proposto dalla segreteria con il testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza.

Su questo primo punto all'ordine del giorno, introdotto da una relazione politica del segretario nazionale del Partito, Adelaide Aglietta, e da una relazione sulle proposte della segreteria di Giuseppe Caputo, sono intervenuti i compagni Gianfranco Spadaccia, Giulio Ercolessi, Ferdinando Landi, Giuseppe Rippa, Pasquale Curatola, Giuseppe Calderisi, Ernesto Bettinelli, Roberto De Rossi, Paolo Carotta, Pietro D'Agostini, Aligi Taschera, Marilena Levato, Gianfelice Corsini.

Sul secondo punto all'ordine del giorno (i radicali e la sinistra italiana), il consiglio federativo ha ascoltato e dibattuto due relazioni di Massimo Teodori, segretario dell'ARA ("Radicali e comunisti: le ragioni vere della polemica di oggi"), e di Mario Signorino, direttore di "Prova Radicale" ("I radicali di fronte alla crisi della sinistra extraparlamentare"). Nel dibattito che è seguito sono intervenuti Ernesto Bettinelli (Lombardia), Monique Moretti (Umbria), Gianfranco Spadaccia, Franco Corleone (Segreteria nazionale), Giulio Ercolessi (Friuli Venezia Giulia), Paulovatz (Liguria). Il Consiglio Federativo ha deciso di sviluppare il dibattito all'interno del partito, pubblicando i contributi di Teodori e di Signorino e le sintesi degli interventi.

Sul terzo punto all'ordine del giorno (emendamenti alla legge sulla droga), il consiglio ha ascoltato due relazioni di Giancarlo Arnao e di Aligi Taschera. Nel corso del dibattito sono intervenuti i consiglieri Sergio Stanzani, Giuseppe Ramadori, Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia (eletti dal congresso), Ferdinando Landi e Giuliana Sandroni (Partito Radicale del Veneto), Angiolo Bandinelli (Partito Radicale del Lazio), Franco Corleone (segreteria nazionale).

Il Consiglio federativo, sulla base della informazione e degli elementi di riflessione forniti dai relatori, denuncia la drammatica inadeguatezza della legge attuale a combattere il fenomeno della diffusione delle droghe mortali e in particolare dell'eroina che ha già prodotto numerose vittime e che fa temere l'installarsi in Italia di una industria mafiosa di tipo e dimensioni americane. Denuncia altresì i ritardi delle Regioni nel provvedere agli adempimenti di legge e nel creare le strutture regionali di terapia e di recupero.

Il Consiglio Federativo ritiene che la riforma legislativa debba essere portata a compimento:

1) con una effettiva depenalizzazione del consumo dei derivati della canapa indiana di cui è provata la non assuefazione e la non pericolosità per la salute; depenalizzazione che l'attuale legge ha realizzato solo in parte a causa della imprecisione del dettato legislativo ("modiche quantità") che lascia un'ampia discrezionalità alla polizia e al giudice, dando adito a una giurisprudenza contraddittoria e creando gravi discriminazioni fra chi ha i mezzi per procurarsi una efficace difesa a chi non li ha;

2) con la concentrazione delle indagini della polizia nella prevenzione e nella repressione del traffico di eroina e delle altre droghe mortali e con misure adeguate rivolte a creare nei tossicomani la fiducia nelle istituzioni sanitarie per liberarli dal ricatto degli spacciatori; la depenalizzazione del consumo di eroina, non accompagnata dalla creazione di centri di somministrazione terapeutica controllata, gestiti dagli ospedali regionali al di fuori di ogni impostazione repressiva e di terapia coatta, non è sufficiente a rompere il legame che unisce attraverso il ricatto e la morsa delle necessità economiche il consumatore al trafficante, rendendolo a sua volta spacciatore. La riforma, lasciata a metà, ha pertanto facilitato il compito degli spacciatori e dei trafficanti e non ha reso più difficile ma al contrario ha creato le condizioni per una diffusione del mercato clandestino controllato dalla mafia dell'eroina.

Per il raggiungimento del punto 1° il Consiglio Federativo ha esaminato e discusso le proposte del comitato di coordinamento, contenute nella mozione congressuale, di una totale legalizzazione del mercato dei derivati della canapa indiana. Prendendo atto dei dubbi espressi nel dibattito su tale soluzione, che potrebbe aprire le frontiere agli interessati dei grandi produttori mediorientali di hashish, il consiglio federativo ha optato per la liberalizzazione del commercio e della produzione della sola marijuana che per le sue caratteristiche merceologiche evita questo rischio e per una definizione legislativa (30 grammi) dei quantitativi leciti di consumo di hashish che rendano effettiva la depenalizzazione del consumo personale di tale prodotto. Dà mandato al gruppo parlamentare ad operare in questo senso, tenendo conto di altri suggerimenti emersi nel dibattito, ivi compresi quelli del comitato di coordinamento.

Sul quarto punto all'ordine del giorno (preparazione del consiglio federativo sullo stato del partito), il consiglio ha deciso di fissare tale riunione per il 12 e 13 marzo.
Il consiglio ha inoltre costituito un gruppo di lavoro composto dai compagni Angiolo Bandinelli, Laura Fossetti, Giuseppe Rippa, Gianfranco Spadaccia, Sergio Stanzani, Massimo Teodori.

Tale gruppo di lavoro avrà il compito di preparare delle relazioni informative sulle seguenti tre linee riguardanti lo stato dei partiti regionali e i movimenti federati:
1) dinamica di formazione delle realtà associative radicali (temi di lotta, interessi, iniziative);
2) strutture di organizzazione e di lotta e statuti;
3) strumenti di organizzazione della campagna referendaria.

A questo scopo il gruppo di lavoro curerà l'organizzazione di riunioni informative dei partiti regionali e dei movimenti federati. Segretario nazionale e tesoriere presenteranno invece relazioni sugli strumenti del Partito a livello nazionale e sulla politica di autofinanziamento.
Nelle varie ed eventuali il consiglio ha ascoltato una relazione informativa del segretario nazionale sulla preparazione e gli scopi della conferenza organizzativa del Partito indetta per sabato 15 e domenica 16 gennaio per la preparazione della campagna dei referendum. E' stata inoltre discussa l'iniziativa delle compagne del MLD di promuovere la raccolta delle firme per un progetto di legge di iniziativa popolare sulla parità di condizioni delle donne. Il Consiglio federativo ha invitato la segreteria nazionale a impegnare il partito, già nella prossima conferenza organizzativa, a fornire il massimo impegno per il raggiungimento delle firme necessarie nel più breve tempo possibile, tenendo conto della presentazione in parlamento di altri progetti di legge da parte del PCI e da parte del Governo. Sui tempi dell'iter parlamentare il consiglio ha invitato la segreteria del partito e la segreteria del MLD a valutare insieme al gruppo dei deputati radicali le eventuali altre iniziative da adottare.

Infine la compagna Liliana Ingargiola, che è una dei dieci membri del consiglio federativo eletti direttamente dal congresso, ha informato di essere stata designata dal MLD a far parte, assieme alla compagna Claudia Macchia, del consiglio federativo in qualità di rappresentante di questo movimento federato. Liliana Ingargiola ha pertanto informato il consiglio della sua volontà di dimettersi da membro eletto dal congresso per entrare a far parte del consiglio a questo diverso titolo, motivando questa sua scelta con le difficoltà personali di conciliare la doppia militanza nel Partito e nel MLD. Sulle motivazioni adottate da Liliana Ingargiola sono intervenuti i compagni Sergio Stanzani, Pietro D'Agostini, Nicola Simeone, Gianfranco Spadaccia. E' stata approvata la proposta di Gianfranco Spadaccia di iscrivere la questione sollevata da Liliana Ingargiola all'ordine del giorno del prossimo consiglio federativo, sia per la rilevanza politica (rapporti tra militanza femminista e militanza di partito) sia per le implicazioni statuarie che le stesse motivazioni hanno in un partito federativo (rapporti fra movimenti federati e partito). Il consiglio federativo ha anche ascoltato una comunicazione del tesoriere nazionale Paolo Vigevano. Contemporaneamente alla riunione del consiglio federativo, la sera di sabato 8 si è svolta una riunione dei tesorieri regionali, presieduta dal compagno Vigevano.


Legge sull'aborto: perchè abbiamo votato contro

NR4, 3 febbraio 1977

I motivi che hanno indotto il Partito Radicale a votare contro la legge sull'aborto in discussione in Parlamento sono tanti, almeno quanti sono gli articoli. Fondamentalmente perché questa legge non riconosce alcun diritto alla donna (ma solo il diritto a non correre "gravi" pericoli di salute); per l'ipocrita casistica e per la procedura, che sarà respinta (come lo è già dai medici del Lazio) già dai medici clericali che da quelli progressisti; per il rifiuto di norme transitorie che permettano l'aborto anche in strutture private, visto che l'80 per cento dei ginecologi ufficiali dichiara di ignorare il metodo Karman, così che le donne saranno costrette a scegliere tra il faticoso ed umiliante raschiamento di Stato e il metodo dell'aspirazione nella clandestinità: abbiamo votato contro perché questa legge non fornisce alcuna garanzia circa l'impraticabilità delle strutture ospedaliere pubbliche in gran parte d'Italia, dove, se centinaia di migliaia di donne fossero costrette ad abortire non ci sarebbe più posto e modo nemmeno di partorire; per l'obiezione di coscienza escogitata per cliniche intere e per l'Università Cattolica, convenzionate e finanziate dallo Stato, allucinante precedente che peserà come ipoteca anche contro la riforma sanitaria, se mai verrà. Per il fatto che le minorenni che non possono abortire se non su giudizio del medico e dietro autorizzazione dei genitori, saranno di nuovo costrette a ricorrere alla mammane.

Riteniamo che quella approvata alla Camera sia una legge-culla di un testo ancora peggiore: al Senato lo peggioreranno, grazie agli accordi Vaticano-cattolici comunisti, rodaniani e lavalliani. Poi alla Camera, di nuovo, si dirà che poco è meglio di nulla; proprio come per la revisione o l'abrogazione del Concordato con argomenti propri di "un riformismo" alla Tanassi o alla Fanfani.

Abbiamo votato contro perché con questa legge è passata una "revisione" delle leggi Rocco, invece che la loro abrogazione. Per gli stessi identici motivi per cui abbiamo lottato assolutamente da soli per molti anni con il MLD e il CISA, coi digiuni, la disobbedienza civile, gli arresti di Gianfranco Spadaccia, Emma Bonino, Adele Faccio, Giorgio Conciani e decine di altri, le oltre 100 mila donne assistite a nostro rischio e pericolo; per gli stessi motivi per cui abbiamo raccolto 800 mila firme per il referendum di totale depenalizzazione (che non si tiene ancora per una miserabile truffa); perché siamo contro il flagello dell'aborto clandestino di massa e di classe, che invece, con la legge attualmente in discussione, continuerà a restare la regola. Perché siamo per la libertà della donna, libertà negata, oggi come ieri, visto che si potrà abortire solo testimoniando ufficialmente che altrimenti si rischia la pazzia o una grave malattia...

Abbiamo insomma votato contro perché ci hanno servito un piatto di cacca con una spalmata di tartufi e di spezie sopra: un cambiamento perché tutto restasse come prima. Riteniamo che sarebbe stato meglio un referendum abrogativo invece di una pessima legge qual è questa; ma se, assieme al MLD, al CISA, al PR non si mobiliteranno con durezza anche le donne socialiste e cristiane, i compagni e le compagne comuniste, i demoproletari, il guaio ormai sarà fatto, e ancora sulla pelle della democrazia e delle donne.

Abbiamo votato no responsabilmente, come deputati e come radicali: se una legge è cattiva (e questa indiscutibilmente è pessima), come legislatori abbiamo un solo compito, quello di opporci a chiunque proponga e sostenga questa legge.


MOZIONE APPROVATA DAL CONSIGLIO FEDERATIVO

NR44, 14 febbraio 1977

Roma, 14 febbraio - N.R. - Si sono conclusi sabato sera i lavori del Consiglio Federativo del Partito Radicale. All'ordine del giorno, oltre alla definizione del pacchetto referendario, era la discussione sullo statuto del partito, in relazione anche al cosiddetto "caso Plebe". Su questo punto sono state presentate due mozioni: la prima è stata approvata con nove voti su sedici; la seconda ha avuto cinque voti. Gli astenuti sono stati due.

Il testo della mozione approvata è il seguente:

``Il Consiglio Federativo del Partito Radicale, ascoltata la relazione del presidente del CF, Gianfranco Spadaccia, sullo statuto del partito in ordine ai problemi sollevati dal cosiddetto ``caso Plebe'', ritiene che la mancanza di ogni potere di sindacato e di controllo sul diritto dei cittadini ad iscriversi al partito e di ogni potere disciplinare del partito nei confronti degli iscritti costituisce la connotazione fondamentale della concezione libertaria che ispira lo statuto del PR e, cadute le quali, il partito ricadrebbe nella prassi autoritaria propria della tradizione giacobina e leninista che contraddistingue sia pure in forma di garantismo tutte le altre formazioni politiche della sinistra;

approva la decisione della segreteria nazionale del partito di aprire un dibattito sullo statuto che consenta il maggiore approfondimento possibile sia sui principi libertari che esso contiene, sia sulle conseguenze che potrebbero avere eventuali modificazioni.

Afferma con vigore che nessuno, né all'interno né all'esterno del partito, può utilizzare le capriole politiche e le stravaganze futuristico-culturali del sen. Plebe, che ha accettato di militare per cinque anni nelle file del fascismo dei sicari dell'on. Almirante; dopo essere stato per 15 anni uno dei maggiori esponenti della cultura frontista, per inquinare o stravolgere l'immagine del PR. Questo non sarà possibile a nessuno né per il caso Plebe né per qualsiasi ``caso'' o provocazione interna o esterna al partito. Il nostro antifascismo è quello della nostra storia e delle nostre lotte, quelle contro il fascismo di oggi che è prima di tutto nelle istituzioni del regime democristiano contro il militarismo, contro la repressione sessuale, contro il clericalismo, l'autoritarismo, il classismo di oggi, le quali sole possono giustificare il richiamo alle lotte, alle persecuzioni, ai sacrifici, alla testimonianza, alle sconfitte e alle vittorie, ai meriti come agli errori degli antifascisti e dei radicali che ci hanno preceduto.

Mentre ricorda al sen. Plebe che lo statuto del PR non consente a nessun parlamentare, neppure eletto nelle liste radicali, di rappresentare il partito, e meno che mai può consentirlo ad un senatore eletto nel MSI-DN, il Consiglio Federativo, come primo contributo al dibattito aperto dalla segreteria nazionale del Partito, ricorda a tutti i radicali che nessuno può impossessarsi di un partito libertario, laico, socialista, non ideologico, in cui la mozione congressuale deve essere approvata, per essere vincolante per tutti gli iscritti, dai 3/4 dei voti del congresso nazionale, in cui i depositari dei valori e delle linee radicali non sono gli organi del partito ma tutte le associazioni e ciascun militante radicale.''

Diamo inoltre il testo della mozione respinta dal Consiglio Federativo con cinque voti su sedici:

``Il Consiglio Federativo del PR ha preso in esame la situazione creatasi con la ventilata possibilità di adesione del prof. Armando Plebe al Partito Radicale. Il Consiglio Federativo ritiene che, al di là di ogni questione statutaria, il Partito non possa esonerarsi dall'esprimere un preciso giudizio politico.

L'iscrizione di Plebe al PR sarebbe, da punto di vista politico, un gesto dettato da una volontà di prevaricare, e compiuto sfruttando le possibilità offerte da uno statuto libertario e nonviolento, come quello radicale, e dimostrerebbe, al più, che il sen. Plebe usa tuttora metodi che sono la negazione della nonviolenza e della serietà dell'impegno radicale; nella migliore delle ipotesi tale iscrizione nascerebbe da un equivoco, che ai limiti della provocazione, tra futurismo e radicalismo. Ciò che è certo è che i radicali non chiameranno né considereranno compagno il suddetto Plebe, che con estrema impudenza dice di voler rappresentare a livello europeo il movimento radicale. Il Consiglio Federativo ricorda al sen. Plebe che la tradizione radicale è rappresentata da Amendola, Gobetti e Rosselli uccisi dai fascisti, da Salvemini esiliato dal regime fascista, da Ernesto Rossi, incarcerato dall'O.V.RA, e che, perciò, le sue interviste sono un'offesa grave per tutti i radicali. Il sen. Plebe cominci a dimostrare la sua ``conversione'' dando le dimissioni da senatore e ritirandosi a meditare sui suoi trascorsi di teorico del MSI quando esplodevano le bombe sui treni. Per ora egli è e resta per tutti il filosofo della violenza e della reazione.''

 


Armati di nonviolenza

di Adelaide Aglietta NR6 - 17 febbraio 1977

Sciopero della fame ad oltranza contro la strage delle istituzioni

Avrei voluto non dover più chiarire, almeno ai compagni radicali, le motivazioni del nostro digiuno che dura ormai da 40 giorni, né le ragioni di fondo che ci sostengono nella decisione di portarlo avanti ad oltranza, ma credo, considerata la lentezza delle reazioni del partito, di dover riaffermare l'importanza della nostra prassi nonviolenta, in un momento in cui la violenza è nelle e delle istituzioni e le leggi speciali sono l'unica risposta che lo Stato da e richiede alla gente.

La prova di ciò la troviamo quotidianamente sulla stampa, nella censura di regime che è puntualmente scattata nel momento in cui abbiamo cercato di combattere e scongiurare, con la nonviolenza, la politica irresponsabile del Governo, che è diventata non più solo la politica degli omissis, ma la politica della provocazione e della prevaricazione.

Siamo tutti coscienti che il digiuno è un'arma estrema ed anche questa volta l'abbiamo usata in circostanze di estrema gravità: chiediamo infatti al governo provvedimenti minimi, la cui urgenza è riconosciuta da tutte le forze politiche, provvedimenti indispensabili per tentare di ristabilire un equilibrio accettabile fra popolazione carceraria-strutture detentive-organico degli agenti di custodia, che renda possibile l'applicazione degli istituti della riforma e disinneschi la miccia della bomba carceraria che sta per esplodere.

Di fronte all'inerzia e allo spregiudicato e colpevole ottimismo del Governo, avendo la certezza che ci saremmo trovati ben presto di fronte a nuove evasioni di massa, a nuovi morti, a nuove stragi nel paese, abbiamo iniziato il nostro digiuno. Dopo 40 giorni in cui le cronache hanno registrato solo stragi, morti, conflitti a fuoco, arresti, verifichiamo ancora una volta la giustezza della nostra analisi e riconfermiamo la validità della nostra lotta. Ora è indispensabile continuare nel nostro digiuno: la volontà delle forze di questo Governo, che non siamo riusciti a far pronunciare su semplici provvedimenti d'ordine, è chiara: si minaccia la sospensione di alcuni istituti della riforma, si parla di carcere speciali per chi guida le eventuali e future proteste dei detenuti, si invocano leggi di ordine più repressive. Tutto ciò ha come presupposto una precisa volontà di aggravare la tensione nel paese, aumentare l'incertezza dei cittadini, criminalizzare un settore sempre più vasto della popolazione, soprattutto quella più povera ed emarginata, fomentare il caos il disordine nel paese, perché caos e disordine potranno giustificare agli occhi dell'opinione pubblica nuove leggi di polizia, nuove leggi Reale e non ultimo l'intervento dell'esercito nel paese. Ecco perché, oggi più che mai, è indispensabile continuare lo sciopero della fame: non si fanno battaglie dure senza correre seri rischi anche personali: oggi ed ora è il caso di correrli!

Quello che invece sono costretta a rilevare è che il partito non ha compreso appieno la drammaticità della situazione e dell'iniziativa, che su questo obiettivo non si è mobilitato, non ha impegnato energie, come pure la situazione richiedeva e richiede (mentre è riuscito a bloccarsi, a livello quasi isterico, con discussioni durate troppo, sulle dichiarazioni del senatore Plebe) convinto ancora una volta, che il vero fascismo sia quello dei sicari o dei teorici di Almirante e non quello dei loro mandanti, dei veri responsabili di questa strage delle istituzioni repubblicane che passa in primo luogo sulla pelle dei più indifesi.

Mi sono trovata di fronte a compagni che hanno sprecato tempo ed energie, come non mai, per scatenare una campagna violenta ed intollerante, da inquisizione o da caccia alle streghe, contro i "ripensamenti" del senatore Plebe, compagni che prefigurano, oggi per il domani, soltanto nuova emarginazione per chi, "diverso" in qualche modo da noi, vive le contraddizioni che sono sue e non del nostro partito e del nostro statuto.

Oggi che vedo nascere all'interno del Partito radicale dubbi sul significato e la validità del nostro statuto e sulla consapevolezza che il rischio di inquinamenti esterni lo si combatte con l'azione e la coerenza politica e non con il disprezzo, le scomuniche e con meccanismi statutari inquisitori, sono molto perplessa e amareggiata. Se a questo si aggiunge il disinteresse dei compagni verso i referendum, il digiuno e il metodo di lotta nonviolenta che stiamo portando avanti, sono portata a pensare che forse il partito sta correndo il rischio di cambiare faccia: non più un partito socialista, laico e libertario costituito da diversi e emarginati, convinto delle sue analisi e della sua strategia, ma un partito di emarginati e di diversi che comincia a vergognarsi della sua identità, che invoca, anche esso i probiviri comincia a parlare di "ideologia". Questi sono i momenti in cui il partito o si ritrova o rischia di snaturarsi e di perdersi per strada. Per conto mio non starei un giorno di più in un partito che percorresse le strade dell'autoritarismo e della repressione, che riproducesse in piccolo i meccanismi di emarginazione contro i quali tutti i giorni laicamente ci troviamo a lottare, e il più delle volte con noi stessi.


Nonviolenza contro leggi eccezionaliNR7, 24 febbraio 1977

Gli interventi di Adelaide Aglietta ed Emma Bonino alla conferenza stampa del 18 febbraio all'Hotel Minerva, nel corso del digiuno per sollecitare la riforma e la smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia.

Adelaide Aglietta

"Il progetto di legge sul riordino del Corpo degli Agenti di Custodia, oltre che inquadrarsi nel movimento di rinnovamento democratico delle forze di polizia, può gettare le premesse per una soluzione dei gravi problemi delle comunità carcerarie.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito, oltre alle manifestazioni dei detenuti, dell'insorgere di rivendicazioni da parte dei direttori delle carceri, degli operatori penitenziari e degli agenti di custodia. In particolare modo questi ultimi, dopo l'entrata in vigore della riforma penitenziaria, che ha previsto modi nuovi di espiazione della pena, e comunque della detenzione, sentono ancora di più l'umiliazione del loro stato.

E' per tali ragioni che la nostra proposta di legge prevede, accanto alla smilitarizzazione e alla conseguente immissione degli appartenenti al Corpo in un ruolo civile di assistenti penitenziari alle dipendenze della Direzione Generale Istituti di Prevenzione e Pena, anche una qualificazione degli stessi mediante idonei corsi professionali, di addestramento e di perfezionamento presso apposite scuole.

E' stato altresì previsto l'aggiornamento culturale, anche in istituti statali e facilitazioni per l'esercizio del diritto allo studio.

Le retribuzioni tengono conto dei nuovi compiti affidati agli assistenti, che affiancano gli altri operatori penitenziari nell'applicazione della legge di riforma, e del particolare servizio, sia per quanto riguarda le sedi disagiate, sia per quanto riguarda i turni di lavoro straordinario, festivo e notturno.

La nuova carriera, ben diversa da quella finora regolamentata, che prevedeva solamente dei "secondini", riveste carattere altamente sociale, per cui è da prevedere un rapido esaurimento dei ruoli cui potranno accedere giovani in cerca di prima occupazione"."

Emma Bonino

"Siamo al 40° giorno di sciopero della fame. Gli obiettivi erano e sono sempre minimi, ragionevoli ed urgenti. Sono ancora una volta obiettivi di governo, per far fronte ad una situazione gravissima e di emergenza per il paese tutto, dei quali ci siamo fatti carico nel momento in cui le forze di governo non hanno dimostrato la volontà di voler intervenire con tempestività, come richiedevano le risoluzioni dei dibattiti parlamentari.

Le nostre richieste, che hanno motivato il digiuno che Gianfranco Spadaccia, presidente del Consiglio Federativo, Valter Vecellio di "Notizie Radicali", Pino Pietrolucci di "Radio Radicale", Emma Bonino del gruppo parlamentare, altri militanti in tutta Italia ed io stiamo portando avanti, sono indirizzate a dare una soluzione di raccordo fra l'attuale situazione della giustizia e delle carceri, oramai al limite estremo della tensione, e le future riforme dei codici, che permetteranno, speriamo, una più equa amministrazione della giustizia e l'applicazione della riforma carceraria.

I provvedimenti che chiediamo da sei mesi, da 40 giorni con il digiuno, sono da una parte uno o più decreti legge relativi alle condizioni di vita e di lavoro degli agenti di custodia, per garantire la sorveglianza e la sicurezza nelle carceri: 1) aumento degli organici degli agenti; 2) aumento delle retribuzioni; 3) smilitarizzazione e sindacalizzazione del corpo, dall'altra parte l'avvio dell'iter parlamentare della proposta di legge radicale per la concessione di un'amnistia che interesserebbe in massima parte detenuti imputati di reati minori, l'80 per cento dei quali in attesa di giudizio. I due provvedimenti dovrebbero riportare un equilibrio fra popolazione carceraria-strutture-organico degli agenti di custodia, che permetta una normalizzazione della situazione negli istituti di pena, sottraendo alle mafie interne il controllo dei detenuti, e consentendo quindi l'inizio dell'applicazione degli istituti della riforma carceraria.

Per il primo obiettivo, nel merito del quale le forze politiche si sono già pronunciate favorevolmente durante il dibattito parlamentare sulla giustizia del 2 dicembre e quello sull'ordine pubblico, si tratta di provvedimenti per i quali c'è la caratteristica della straordinarietà ed urgenza prevista per i decreti legge, di cui da otto mesi il governo sta abusando.

Per il secondo obiettivo chiediamo semplicemente l'avvio dell'iter parlamentare della proposta di legge sull'amnistia, e che il Parlamento, magari assumendosi la responsabilità di respingerla, su di essa si pronunci.

Il silenzio del governo su tutto questo non può più essere considerato una conseguenza di una politica irresponsabile, ma, a questo punto, l'esperienza di una linea politica ben precisa, quella della provocazione e del ricatto.

Mentre da due mesi stiamo cercando di sollecitare una politica responsabile, la risposta è stata solo una serie di minacce (la sospensione della riforma, la creazione di carceri di rigore, l'inasprimento di alcune pene, nuove leggi speciali relative all'ordine pubblico, ecc...) che non hanno fatto che aggravare ulteriormente la tensione già esistente, l'incertezza ed il disorientamento della gente, il caos e il disordine nel paese.

Tutto questo può anche chiamarsi incitamento alla violenza: non è con nuove leggi Reale, con nuova repressione che si può disinnescare la spirale della violenza, ma con provvedimenti seri, responsabili, possibilmente concreti ed in positivo.

Questo quanto da 40 giorni stiamo chiedendo con lo sciopero della fame. Oggi il Consiglio dei Ministri è riunito con all'ordine del giorno provvedimenti relativi all'ordine pubblico. Aspettiamo di sapere, dato il silenzio di Andreotti di questi 15 giorni successivi al nostro incontro e ad un impegno da parte sua di darci una sollecita risposta nel merito delle nostre richieste, quali sono le decisioni del governo: se non sono previsti i provvedimenti urgenti che abbiamo sollecitato continueremo ad oltranza lo sciopero della fame, che a questo punto per noi comincia ad essere ai limiti del rischio grave.

Non possiamo assistere a questi omissis, a dir poco, del governo, che hanno già causato troppi morti, ma altri ancora ne causeranno, senza attivare quanto è nelle nostre possibilità sempre con metodi di lotta non violenta, portandoli anche alle estreme conseguenze".

 


Ai nostri compagni violenti

di Marco Pannella - marzo 1977

da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980" Gammalibri

Intervento alla Conferenza sui referendum

"Io credo che valga la pena, compagne e compagni, di essere franchi. Io non credo che il Partito radicale, nella sua grande maggioranza, nonostante la lotta nonviolenta e il digiuno della segreteria nazionale e di molti compagni, sia un partito capace qui e oggi di portare avanti questa iniziativa dei referendum, e di vincerla.

Il partito avrebbe potuto contestare l'opportunità di quel digiuno. Se non lo condivideva avrebbe dovuto porre il problema politico del digiuno, al limite per farlo smettere, e proporre altri obiettivi e metodi di lotta. Questo non si è fatto, e tuttavia soltanto una minima parte degli iscritti si è impegnata in un sostegno concreto degli obiettivi di questa iniziativa: probabilmente in tutta italia non più di cento o centodieci persone. Nessuno chiedeva agli altri compagni di digiunare, nessuno chiedeva di fare disubbidienza civile, ma di fare qualcosa in quella direzione, cioè in direzione di una politica nonviolenta e democratica dell'ordine pubblico; di fare qualcosa per non rischiare di vedere sconfitto, con la sconfitta di questa battaglia, anche il metodo di lotta nonviolento. Questo è un partito che molto difficilmente sa poi prendere e portare a compimento una iniziativa, in apparenza più tradizionale, come la raccolta delle firme per i referendum. E quindi il problema è di capire come si può invece sperare che questo accada(...).

Diciamolo chiaramente: ogni volta che qualcuno negli anni passati nel nostro partito ha fatto un digiuno, era perché vi era costretto dall'assenza di un impegno più largo e collettivo della genialità dei compagni. Siamo stati costretti a farlo nel momento in cui lo imponevano fatti di sopravvivenza, direi addirittura fisica, del partito, o quando alcune nostre lotte e obiettivi essenziali della nostra iniziativa politica rischiavano altrimenti di essere messi in crisi.

Non solo i partiti, ma anche le idee muoiono, possono morire, al contrario di quel che sostiene la retorica culturale prevalente. Non è vero che "cade un compagno e che ogni compagno cade, dieci si rialzano, e l'idea che lui incarnava...". Credo invece che la storia sia fatta di assassini di idee attraverso l'assassinio del corpo collettivo delle organizzazioni politiche non meno che dell'assassinio delle persone fisiche. Ogni volta che siamo ricorsi a questa arma di lotta -che abbiamo sempre definito l'estrema arma di lotta per un nonviolento- è stato perché abbiamo dovuto fare i conti con problemi di vita, di esistenza, di sopravvivenza del partito, del significato e quindi della legittimità della sua presenza.

Quando arriviamo al punto in cui siamo arrivati, potendo oggi disporre delle radio libere, in alcune città di Radio radicale, credo che tutti possiamo riconoscerlo: non si può certo sostenere che oggi il radicale non si muova nella prassi come vuole la teoria rivoluzionaria, come un pesce nell'acqua, in mezzo alla gente. Credo anzi che, in questo momento, nessuno, della sinistra rivoluzionaria o no, possa muoversi tanto e meglio del radicale vicino a questa condizione, alla gente e con la gente, come il pesce nell'acqua.

Dovunque, in ogni parte, a sinistra e anche e soprattutto a destra, nelle condizioni del sottoproletariato "culturale", come nei rapporti con le classi dominanti, oggi più che mai l'iniziativa radicale è un elemento di paralisi, di contraddizione, di crisi. Oggi più che mai stiamo continuando e approfondendo questa duplice funzione che è stata la nostra caratteristica in questi ultimi quindici anni. Mentre tutti gli altri gruppi politici e partiti della sinistra, e soprattutto quello della sinistra rivoluzionaria, si sono contesi la stessa massa di aderenti già acquisiti alla sinistra, noi abbiamo sempre operato -dal divorzio, all'aborto, alle lotte di liberazione sessuale, fino alle battaglie di questi giorni- per trasferire consensi da destra a sinistra, attraverso la presa di coscienza del rifiuto di essere usati dalla violenza di classe e delle istituzioni.

Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo. Questa battaglia sugli agenti di custodia avrebbe potuto essere due anni fa una battaglia di segno opposto, una battaglia per coloro che a Rebibbia ancora due o tre anni fa massacravano di botte i rivoltosi: per "i secondini"(...).

Oggi come radicali, diciamocelo, rischiamo soprattutto una cosa: siamo divenuti, tutti, per un verso o per l'altro, radicali perché ritenevamo in fondo di avere delle insuperabili solitudini o diversità rispetto alla gente e quindi una sete di alternativa profonda, più dura, più "radicale" di altri; da un anno in realtà essere radicali significa invece un modo per non essere più soli. E' indubbio, possono contestarci o no, detestarci o no, ma credo che se c'è un dato nuovo, un dato presente nella coscienza della gente, è questo: o si è a favore dei radicali, o si è contro. C'è una crescita esponenziale, non una crescita aritmetica, nel sentimento, nella curiosità, nell'interesse della gente. Proprio per questo vedrete presto i linciaggi che stanno per cominciare e che rientrano nelle regole del gioco. C'è dunque questo rischio, che il radicale cominci a vivere in fondo essenzialmente soddisfatto perché d'un tratto ha come l'impressione che non importi più fare molto, perché tanto in fondo dei radicali si parla e la gente comprende, e trovi le persone più strane e più inaspettate disposte a dirsi un po' radicali.

Venendo a mancare questa condizione, dobbiamo fare il salto dall'essere radicali a partire da dati individualistici ed esistenziali, che sono fondamentali, di irrazionalità e di emotività, all'esserlo collettivamente, dialogicamente, in modo organizzato, come il nostro statuto indica e richiede: questo è l'unico partito che nel suo statuto in realtà prefigura solo adesioni collettive e solo eccezionalmente adesioni individuali; è l'unico partito anti-individualista nel suo statuto, fino in fondo...

All'obiezione contro "la via dei tavoli e del lapis alla rivoluzione" dobbiamo rispondere: non è vero. Siamo a metà marzo e dobbiamo chiederci qual è l'uso rivoluzionario del nostro tempo per i prossimi quaranta giorni. Il discorso non è quello delle riflessioni pseudoteoriche, se la rivoluzione passi attraverso il lapis o le molotov: queste sono divagazioni.

Ci si deve dire qual è l'uso migliore, più concreto organizzato, che dei rivoluzionari alternativi possono fare di se stessi, nei prossimi quaranta o sessanta giorni.

Se ne troviamo una migliore, noi abbandoniamo questa iniziativa e confluiamo in un'altra. Ma se questo non accade, la via più rivoluzionaria passa attraverso questo progetto politico e non attraverso altri. A chi ci indica la piazza come luogo più giusto per l'iniziativa rivoluzionaria, rispondiamo: "Appunto, i tavoli si mettono in piazza". E' vero: in questi giorni nelle strade e nelle piazze ci sono le autoblindo, ma è molto difficile che un'autoblindo vada contro un tavolo, perché se va contro il tavolo dei referendum l'autoblindo di Cossiga perde; di fronte alla notizia di un'autoblindo che va contro il tavolo anche gli elettori della DC e del MSI-DN danno ragione a chi sta dietro e intorno al tavolo, e torto all'autoblindo.

Credo che una riflessione non superficiale intorno a quanto sta accadendo in questi giorni debba essere fatta.

Non ho moralismi nonviolenti. Ritengo al contrario che i più vicini, esistenzialmente e politicamente, a noi nonviolenti, se e quando sappiamo esserlo davvero, siano i violenti e non gli altri. Perché? Perché chi sceglie la nonviolenza sceglie l'illegalità della disobbedienza civile: sceglie di "dare corpo" al "no" di fronte alle leggi e agli ordini ingiusti: si mette in causa; usa fare violenza, con la propria nonviolenza, al meccanismo obbligato che lo Stato cerca di proporre. Il nonviolento rompe i piatti tutti i giorni. Rompe qualcosa di più delicato delle vetrine dei negozi e delle porte delle armerie, soprattutto se riesce a suggerire gli obiettivi e a fornire i mezzi e gli strumenti della lotta nonviolenta alle masse, alla generalità della gente.

Quindi il violento ha in comune con noi quasi tutto l'essenziale, a parte la schizofrenia di ciascuno. Ma si può essere anche nonviolenti per schizofrenia o paranoia.

Si dice che il nonviolento, quando per esempio digiuna, accetta di far violenza a se stesso, ma anche il violento deve fare violenza a se stesso per far violenza, perché ritiene necessario rispondere con la violenza organizzata alla violenza delle istituzioni. E la vicinanza è addirittura drammatica, il nonviolento se registra di volta in volta la sconfitta e l'insuccesso della propria teoria e della propria prassi, non è spinto a scegliere come alternativa la rinuncia, la rassegnazione e l'inerzia, ma è spinto a scegliere come alternativa per disperazione il ricorso alla violenza. Così, io credo, nella stessa maniera, il violento, se riesce a liberarsi di questo carico enorme di mistificazione culturale totalitaria che privilegia la violenza perché in termini ideologici la violenza del rivoluzionario è legittimata dall'ideologia dominante (appartiene all'ideologia di massa dominante, all'ideologia borghese, l'idea che alla violenza non si possa rispondere che con la violenza), se arriva a riflettere sulle eventuali sconfitte dei propri metodi e delle proprie lotte, può capire che oggi il punto massimo di forza rivoluzionaria è rappresentato dalla illegalità e dalla radicale diversità della provocazione e dell'azione nonviolenta.

E' per questi motivi che dal '68 a oggi io non ho mai fatto una polemica specifica nei confronti degli errori commessi da quanti hanno scelto il metodo della violenza, che sono stati gli errori suicidi del Movimento. L'ho potuto fare perché non sono stato a guardare e ho cercato di rappresentare una polizza di assicurazione, con la mia -per quanto mi riguarda- nonviolenza rispetto al possibile fallimento della strategia e della ideologia prevalente.

Ma a partire dai fatti di questi giorni devo dire che il linciaggio stesso, i riflessi condizionati del Movimento, mi appaiono a tal punto trogloditici, come manifestazioni di prassi politica, che non posso tacere. E questa riflessione, se volete questa polemica, non è una elusione degli impegni e delle scadenze urgenti del progetto referendario. Al contrario, credo che la campagna per il nostro progetto referendario debba fondarsi proprio su questa riflessione: di quali sono le scelte giuste per un rivoluzionario, violento o no che sia, nei prossimi 40-50-60 giorni.

Cosa sentiamo dire ogni volta che muore un compagno? è una provocazione del Governo -si dice- è una provocazione della polizia. Sarebbe una baggianata dire o pensare che sia una provocazione deliberata, organizzata da Cossiga, da questo o quel membro del governo, o dal governo nel suo complesso. Ma è giusto dire che è un fatto oggettivamente provocatorio: può essere stato Cossiga a volerlo e a provocarlo, come può essere stato l'anti-Cossiga all'interno del governo, della DC o dei corpi separati del regime, cioè può nascere dalle contraddizioni interne al regime. Ma se è giusto dire: è una provocazione, dobbiamo rifletterci e dobbiamo chiederci: provocazione a che cosa?

Come reagisce il Movimento da dieci anni all'assassinio e alla violenza del governo? Credo che tutti lo sappiamo e possiamo rispondere: l'indomani occupazione dell'Università e grande corteo di massa per via Nazionale e via Cavour. Quindi, se qualcuno ammazza qualcuno di noi è per provocare l'indomani a data e luogo, ora e modo stabiliti, previsti in anticipo, determinati. Cossiga, o chi per lui, se voleva provocare, c'è riuscito, ma aveva in anticipo la garanzia della riuscita perché è il riflesso puntuale, il riflesso condizionato del Movimento a fare... cosa? Quello che ci ordinano di fare.

Quello che si è detto la sera prima degli incidenti nel dibattito alla Casa dello studente è quello che probabilmente Cossiga avrebbe scritto come promemoria per i suoi poliziotti e per i suoi carabinieri, per le bande di Santillo, se voleva disegnare il prevedibile scenario di ciò che avrebbero trovato l'indomani e di come si sarebbero dovuti comportare. S'era detto tutto in quel dibattito, con le diversificazioni e le diverse accentuazioni: dal compagno che voleva la manifestazione pacifica; a quello che diceva: pacifica sì, ma non da coglioni; all'altro ancora che aggiungeva: pacifica sì, ma bisogna rispondere alle aggressioni della polizia; fino a quel compagno -lo ho sentito io- che specificava che si doveva considerare un'aggressione anche la semplice presenza dei carabinieri.

Ma scusate, siamo "rivoluzionari" e vogliamo chiedere conto ai carabinieri del fatto che sarebbe stato un loro ufficiale a uccidere il compagno Lo Russo? Ma con questa logica allora tutti insieme andiamo a erigere oggi stesso un monumento non al brigadiere Ciotta, ma alla PS, perché è stato vilmente assassinato a Torino un poliziotto democratico, in un agguato di strada. Anche in questo il Movimento si fa occupare, si fa condizionare dai riflessi e dalle abitudini -di ceto, di casta e di classe- dalla cultura borghese: i carabinieri e l'Arma contrapposti ai poliziotti, allo stesso modo nelle Forze armate- la Marina arma nobile, l'Aeronautica arma giovane e sportiva, come nel passato era la cavalleria, contrapposte all'esercito o alla fanteria... con il risultato che ora gli ufficiali dell'Arma diranno ai carabinieri: "Vedete, ce l'hanno con voi; ora, vedete, ammazzeranno per le strade voi e non più gli agenti della stradale..."

Perché questo accade. E' accaduto ieri con Ciotta a Torino, è accaduto con gli agenti della stradale. Mentre, diciamocelo francamente, per ammazzare qualcuno di noi, hanno bisogno della nostra liturgia che provocano. E' evidente che ieri Cossiga, o chi per lui, aveva bisogno di centomila persone, perché se non nascevano incidenti e provocazioni (ma come possono non nascere all'interno di centomila?), se non c'era qualcuno dei centomila a svaligiare le armerie, bastavano trenta o quaranta agenti in borghese confusi fra la folla, a provocare gli incidenti, ad ammazzare uno studente o un altro agente.

è così che il Movimento, con i suoi riflessi condizionati, finisce per essere, oggettivamente e soggettivamente, servo della strategia di classe e della violenza del regime.

Cosa accade invece quando il Movimento riesce a darsi riflessi e metodi di lotta alternativi a quelli del potere? Le bande armate di Santillo non sono state inventate in questi giorni a Roma, e neppure durante gli scontri di Reggio Calabria. Le abbiamo incontrate a Roma, sempre con Santillo, prima che fosse questore. Non sono invenzioni di oggi, e neppure del dopo-'68. Queste cose accaddero già nel '46 a Roma, il giorno dopo il referendum sulla Repubblica. Ma cosa facemmo dopo aver scoperto gli agenti in borghese di Santillo?

Ce ne occupammo da nonviolenti allora. Dicemmo che era inconcepibile che degli agenti in borghese girassero con delle pistole in mezzo alla folla, perché non potevano essere identificati. Non potevano essere identificati come agenti dalla folla, dai cittadini, ma non potevano essere identificati come tali neppure dagli altri agenti e al limite essere feriti o uccisi dai loro stessi colleghi. Allora questa considerazione di buon senso, questa esigenza di rispetto minimo della legalità, raccolse quasi l'unanimità dei consensi, perfino i liberali di Malagodi si dichiararono d'accordo con noi. Per un certo periodo di tempo l'uso degli agenti in borghese armati nelle manifestazioni fu impossibile. Oggi viene ritenuto normale, le squadre armate di Santillo fanno parte ormai del nostro ordine pubblico, accettate come normali dal Movimento, perché ha accettato di non far nulla per arrestare l'incremento dei meccanismi della violenza delle istituzioni.

Mimetizzati e armati in mezzo alla folla delle manifestazioni di massa, gli uomini in borghese di Cossiga e di Santillo sono invece disarmati di fronte all'uso che della strada e della piazza si può fare con i tavoli e con i lapis, con l'esercizio dei diritti costituzionali. Se centomila compagni, abituati in un anno a fare 30 o 40 cortei di quelli dei quali stiamo parlando, fossero indotti, fossero "serviti" dalle organizzazioni rivoluzionarie, attraverso una chiara informazione su come e dove possono trovare un tavolo e un pezzo di lapis, a fare un'azione quotidiana in questo senso, io credo che avremmo già realizzato una cosa esplosiva: un'iniziativa legittima, legale e costituzionale, di attuazione della Costituzione, che costringerebbe tutto il mondo politico italiano a confrontarsi con essa. Se centomila compagni fossero messi in tutta Italia in condizione di portare oltre alla loro altre dieci firme su otto referendum nell'arco di trenta giorni, avremmo provocato non la rivoluzione ma certamente il più grosso fatto rivoluzionario di questi anni(...).

Un Movimento è alternativo quando provoca fatti alternativi, non lo è quando esegue i fatti che il regime vuole provocare. Non diciamo che questa è la rivoluzione. Diciamo soltanto che come quando il regime, ammazzando uno di noi, provoca ciò che vuole, cioè la manifestazione e gli incidenti di ieri, così se riusciremo a portare questi milioni di firme alla Cassazione, li obbligheremo a fare ciò a cui noi li abbiamo provocati: dovranno fare la rincorsa per approvare qualcuna di queste leggi di riforma (...). Il PCI a questo punto dovrebbe scegliere l'attuazione della Costituzione con la maggioranza del Paese, o il tentativo di sottrarre alla stragrande maggioranza del Paese questi referendum. E comunque daremmo al PCI un'enorme forza contrattuale in termini di Costituzione(...).

Se centomila studenti dessero un decimo o un centesimo del tempo che dedicano alle assemblee e ai cortei a questa "via del lapis alla rivoluzione", avremmo inciso e segnato definitivamente la sorte di questa legislatura e i binari politici sui quali questa legislatura scorre (...).

Alla provocazione tradizionale rispondiamo con un'idea sbagliata della lotta di massa. La stessa della polizia: ammazziamo. Cioè reagiamo come plebe e non come proletariato. Come reagiva la plebe prima di divenire proletariato. Perché l'idea di aspettare un gendarme che viene una volta di più a rappresentare la violenza dello Stato per portarlo via e farlo fuori, di nascondersi nell'ombra per sorprendere e ammazzare il costrittore o l'agente delle tasse, appartiene alla tradizione storica delle rivolte dei contadini e a quella della rivolta del pane dei quartieri popolari di Parigi che i governi dell'assolutismo monarchico provocavano, non alla tradizione di lotta del proletariato organizzato.

Lo ripeto una volta di più. Con la nostra nonviolenza Gandhi c'entra nulla o ben poco. Non c'entrano le tradizioni orientali. Caso mai è Gandhi che ha innestato in queste lotte di liberazione metodi di liberazione occidentale. Il proletario diventa tale, cessa di essere plebe, nel momento in cui scopre il fatto - apparentemente gestuale, nonviolento - di incrociare le braccia e di fermare la produzione, invece di ammazzare il padrone delle ferriere o il suo funzionario e di bruciare la fabbrica.


Cronaca di dieci giorni di lotta parlamentareNR10 del 12 marzo 1977

Lockheed (2): La contro/inchiesta radicale

SOMMARIO: E' scoppiato, sulla base di documenti resi pubblici negli Usa, lo scandalo delle tangenti pagate dalla Lockheed per l'acquisto da parte dell'areonautica militare italiana degli aerei da trasporto C-130 Hercules. La Commissione inquirente, dalla quale i radicali sono esclusi, si ferma davanti alle responsabilità del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, omettendo tutta una serie di indagini e di approfondimenti. In pochi giorni i deputati radicali ricostruiscono una istruttoria durata mesi. Indagini interrotte. Lettere mai tradotte dall'inglese. Connessioni trascurate. Ne nasce una contro-inchiesta radicale e una battaglia parlamentare che si conclude con la riapertura delle indagini davanti alla Commissione inquirente. L'affare Lockheed non è un affare di truffe e di bustarelle, non è la storia di due ministri corrotti. E' molto di più.

Ventiduemila fogli di requisitoria, interrogatori, lettere, documenti, indizi, prove. Casse intere di materiale. E' questo il "dossier" del processo Lockheed. I deputati radicali ne fanno richiesta alla Presidenza della Camera nel momento stesso in cui sono depositate le relazioni d'accusa. Cominciano a decorrere i termini per poter rimettere in discussione l'assoluzione di Rumor. Sono i giorni delle affannose trattative fra il Pci e il Pri e il Psi e delle laceranti discussioni e decisioni dei deputati socialisti. I nostri deputati hanno già depositato la richiesta d'incriminazione di Rumor per la raccolta delle 477 firme necessarie. Devono decorrere cinque giorni, ma la decisione socialista e repubblicana bloccherà l'iniziativa. Da quel momento, però, nel gruppo parlamentare radicale comincia un'altra, affannosa corsa contro il tempo. I radicali sono stati esclusi dalla Commissione Inquirente.

Primo imputato, l'inquirente

La materia è del tutto sconosciuta. Si tratta di ripercorrere e di ricostruire anni d'indagini istruttorie, compiute prima dal giudice Martella e poi dalla Commissione Inquirente. Si tratta di orientarsi e di cercare di comprendere la logica a cui si è ispirata la commissione in questo strano e contraddittorio procedimento d'accusa. Si tratta infine di riflettere sui problemi costituzionali, legislativi e procedurali per i quali non esistono precedenti salvo quello, allarmante, ed aberrante, del "caso Trobucchi". E' un lavoro che per venti giorni non avrà soste. Giorno e notte Marco Pannella e Franco De Cataldo, Emma Bonino e Roberto Cicciomessere, Mauro Mellini e Marisa Galli, con l'aiuto di Antonio Taramelli, di qualche giornalista, di qualche compagno che traduce dall'inglese, lavorano su quelle carte. Fanno collegialmente quello che nessun altro gruppo politico ha fatto. Circondati dall'incomprensione degli altri partiti, dalla polemica più pretestuosa e dai tentativi di linciaggio della stampa comunista, di alcuni socialisti, del gruppo del Manifesto, assumono il ruolo che dovrebbe essere dell'intero parlamento, quello di vero pubblico ministero di questo processo politico.
E scoprono che ci sono altri imputati in questo processo, oltre a Gui e a Tanassi, ed oltre a Rumor, il quale si è già guadagnato l'assoluzione grazie alla decisione dei socialisti e dei repubblicani. Il primo imputato è la Commissione Inquirente per il modo in cui ha svolto l'istruttoria.

L'inchiesta si ferma alle soglie del Quirinale

Lo è per la legge chiaramente incostituzionale che il Parlamento ha approvato nel 1962 e per il regolamento parlamentare per i procedimenti d'accusa che trasformandola indebitamente in un "tribunale dei ministri" gli ha attribuito poteri di avocazione, di archiviazione, perfino di assoluzione che per la Costituzione non deve e non può avere. Ma lo è ancora di più per gli equilibri politici di cui è espressione, per il modo con il quale tutti i partiti, tutti insieme, sostanzialmente concordi, nonostante le contrapposizioni nei singoli processi e la diversità occasionale degli schieramenti, hanno accettato di gestire le istituzioni parlamentari e i delicati meccanismi del procedimento d'accusa.

I deputati radicali, i deputati supplenti, i loro compagni di lavoro vanno a guardare lì dove gli altri si sono rifiutati di guardare o hanno subito smesso di guardare. E scoprono altre evidenti e gravi linee d'indagine, indizi convergenti, concessioni evidenti, altri reati, altri capi d'imputazione, testimoni importantissimi mai ascoltati, mandati di arresto e richieste di estradizione perseguiti con lentezza burocratica o lasciati cadere, conti correnti su cui non si è indagato, rifiuto di collaborazione da parte delle autorità svizzere a cui non si è reagito, un intero dossier di lettere dal contenuto delicato e gravissimo mai neppure tradotto dall'inglese. Ciò che appare evidente ai nostri deputati è che vero protagonista del processo non è Gui, non è Tanassi, non è neppure Rumor. Vero protagonista del processo è l'avvocato Ovidio D'Ovidio Lefebvre che ha potuto seguire gli svolgimenti del dibattito parlamentare dal lontano Messico al riparo da ogni minaccia di estradizione. Ovidio D'Ovidio Lefebvre non è il semplice intermediario fra corruttori e corrotti, non è il consulente d'affari delle tangenti per l'acquisto dei C 130, è molto di più: è il mandatario delle multinazionali americane in tutti gli affari di compravendita che riguardano l'industria aeronautica e quella spaziale americana. Il suo nome viene accreditato in un documento addirittura come rappresentante del Governo americano. Non può essere confuso nella schiera dei faccendieri, degli affaristi, dei taglieggiatori che affolla il sottobosco politico delle correnti, dei partiti, dei ministri di regime. Non può essere ridotto al rango di un piccolo truffatore e millantatore di credito come pretenderebbe Tanassi. Con il mondo politico ha rapporti di relazioni pubbliche e d'affari, non ha amicizie. Tranne una strettissima, importante, costante nel succedersi degli anni. L'amicizia con l'ex-Presidente del Consiglio, ora Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Esercitano la stessa professione. Appartengono allo stesso ambiente dell'alta borghesia di Stato e professionale napoletana, sono amici di famiglia, commensali, compagni di crociere e di svago. Ma dalle carte processuali risulta che questa amicizia ha anche altri risvolti, politici e non soltanto politici.

Obiettivo radicale: riaprire le indagini

L'indagine Lockheed esamina minuziosamente tutti i rapporti che i fratelli Lefebvre hanno avuto con Gui, con Tanassi, con Rumor. Ma i rapporti con Gui e con Tanassi sono funzionali alla conclusione dell'affare Hercules C 130. L'incontro con Rumor è occasionale e anch'esso affare. Il rapporto con Leone, la sua natura, le circostanze che lo caratterizzano, la sua continuità nel tempo è di genere assolutamente diverso. Ogni volta le prove documentarie, da momenti diversi, da circostanze, fatti, atti e perfino procedimenti diversi, convergono in questa direzione, E ogni volta si ha la sensazione che le indagini degli inquirenti si arrestino alla soglia di questa direzione, che circoscrivano l'affare Lockheed dagli altri affari, dai precedenti logici e storici dell'inchiesta Lockheed, per non dover guardare all'evidenza delle connessioni e della continuità. Così come si ha la sensazione che non si sia fatto più che tanto per assicurare la presenza in Italia di Ovidio D'Ovidio Lefebvre, perché potesse riferire sulla sua funzione e il suo ruolo, sulle sue conoscenze e i suoi rapporti, su questi affari di Stato che lo hanno visto protagonista e che forse hanno avuto come protagonista l'attuale presidente della Repubblica.

Siamo alla vigilia dell'apertura del dibattito parlamentare. Nasce la prima iniziativa politica del gruppo parlamentare radicale. Facendo riferimento all'art. 26 del regolamento i deputati radicali annunciano in una conferenza stampa che chiederanno agli altri gruppi e ai singoli parlamentari di promuovere un supplemento d'istruttoria che consenta di compiere le indagini che non sono state effettuate. Perché non ci siano dubbi e possibilità di utilizzare questa inchiesta per manovre d'insabbiamento, in cui l'Inquirente è maestra, propongono che il "congruo termine" previsto dal regolamento sia fissato in 60 giorni. Non si fanno illusioni tuttavia sull'accettazione di questa proposta. E' solo il primo momento della battaglia politica del Partito Radicale per ottenere l'allargamento dell'inchiesta.

Il linciaggio della stampa di regime

Pannella si riserva infatti di promuovere la richiesta consentita dall'art. 26 del regolamento, non nella fase preliminare ma nel corso del dibattito se e quando se ne presenterà l'opportunità politica. L'indagine Lockheed è stata ritagliata, circoscritta all'interno d'un affare molto più vasto e molto più esteso nel tempo, che ha i suoi precedenti nell'affare degli aerei P 3 e che ha gli ultimi riscontri negli anni '74 e '75. Le lettere non tradotte che portano al Quirinale risalgono infatti a questi due anni, mentre l'episodio dei C 130 si arresta al 1971. La richiesta d'incriminazione di Gui e Tanassi è solo la punta emergente di quest'affare più vasto. Pannella, le compagne e i compagni del collettivo parlamentare sanno che sarà difficile convincere a cambiare posizione partiti, gruppi parlamentari, uomini che sono corresponsabili di questa impostazione dell'inchiesta. Comincia infatti l'indomani la campagna della stampa di partito e di regime, di cui riportiamo un significativo florilegio. E in cui spiccano come killer Falaschi dell'"Unità", Matteuzzi del "Manifesto", Guido Paglia del "Resto del Carlino", oltre naturalmente ai Trovati e agli Scardocchia de "La Stampa" di Gheddafi. Ma la massa del lavoro compiuto in pochi giorni e notti e le ulteriori ricerche ci convincono che la direzione è quella giusta. Il processo a Gui e Tanassi non deve divenire il processo a due capri espiatori, ma l'inizio di un processo più vasto in cui se non la giustizia, almeno la verità riesca a farsi strada.
Le reazioni degli altri partiti non sono tuttavia dissimili da quelle dei loro giornali e della stampa di regime: il socialista Felisetti, quello che ha prima votato contro e poi a favore di Rumor, ci accusa di essere agenti segreti della DC. I nostri in Parlamento sono circondati dall'ironia e dal disprezzo dei comunisti. Nei giorni successivi l'atteggiamento muterà, almeno in alcuni importanti settori politici, e le reazioni degli stessi comunisti si faranno più caute e responsabili. Solo Falaschi su "L'Unità" continuerà la sua opera di killer.
Comincia il dibattito parlamentare. I deputati radicali si fanno carico di un altro inscindibile aspetto di questa battaglia. Si tratta del regolamento, dell'interpretazione della Costituzione, del quorum necessario per incriminare i Ministri.

Un processo inquinato di incostituzionalità

In apertura dei lavori del Parlamento, a Camere riunite, Pannella propone una sospensiva di dieci giorni per consentire l'approvazione da parte delle due Camere di una legge di interpretazione autentica del testo legislativo che stabilisca che il quorum per l'incriminazione dei ministri è costituito dalla maggioranza assoluta dei presenti votanti e non dalla maggioranza assoluta dei membri del parlamento. Quest'ultimo quorum è esplicitamente previsto dalla Costituzione solo per mettere in stato d'accusa il presidente della Repubblica. "Non ci preoccupavamo tanto - spiegherà più tardi Emma Bonino intervenendo nel dibattito - di abbassare il quorum, per l'incriminazione di Gui e Tanassi, anche se l'attuale quorum consentirà alla DC di sperare fino all'ultimo di poter acquistare o di poter ricattare il voto di qualche suo complice di ieri; ci preoccupavamo di eliminare almeno le più vistose eccezioni di nullità e di incostituzionalità che costellano questo procedimento d'accusa e che possono far domani arenare il processo davanti alla Corte Costituzionale per impedirgli di giungere alla sua conclusione". E' esattamente il contrario, dunque, di ciò che gli altri ci accusano di volere: chiediamo di sospendere oggi per impedire il rinvio e l'insabbiamento domani.

La proposta viene però respinta in base ad un'interpretazione del regolamento certamente discutibile, quanto meno forzata. Ingrao fa appello ad una norma che impedisce di sospendere il dibattito. E si è invece alla fase preliminare. Sostiene che la fase del dibattito davanti alle Camere riunite non ha carattere giurisdizionale, come davanti all'Inquirente e alla Corte Costituzionale, (ma è assurda e abnorme l'idea, come osserverà Mellini nel dibattito, di un procedimento giurisdizionale ad intermittenza) per poter sostenere l'inammissibilità di questioni di costituzionalità.

Così viene anche considerata inammissibile la proposta di ascoltare gli imputati laici e i loro difensori. Il procedimento davanti al Parlamento si porta perciò appresso tutte le tare della legge del 1962. Se le porterà appresso fino al momento conclusivo del voto, quando, dovendo scegliere fra votare o no sul rinvio davanti alla Corte Costituzionale degli imputati laici, si sceglie un'assurda via di mezzo: quella di un'unica votazione cumulativa.

Adele Faccio chiede le dimissioni di Leone

Lo stesso pomeriggio comincia il dibattito con le relazioni di D'Angelosante e di Pontello. Con quest'ultima relazione, com'era ovvio e prevedibile, la DC rovescia la strategia tenuta nella Commissione Inquirente. Lì aveva tentato di buttare a mare Tanassi per salvare Gui, ora fa di nuovo blocco con Tanassi per assicurare a Gui i pochi voti socialdemocratici. Ma i limiti della requisitoria di D'Angelosante sono ormai stati sfondati dall'iniziativa radicale.

In Parlamento si parla soltanto di Gui e di Tanassi. Fuori dell'aula si parla di Leone, di D'Ovidio Lefebvre, dell'ambasciatore Messeri, dell'aggiramento dell'embargo americano alla vendita di aerei Lockheed alla Turchia, della missione di Lefebvre in Arabia Saudita al seguito della visita di Stato del Presidente della Repubblica, del Marocco, del Pakistan. Si torna sulla vicenda dei P 3, alle pressioni esercitate dall'allora Presidente del Consiglio, Leone, per riaprire e rimettere in discussione una compravendita già deliberata e in cui la Lockheed era risultata perdente. Si parla di quel messaggio cifrato in cui l'agente della Lockheed in Italia chiede ai suoi dirigenti di non spaventarsi dell'entità delle tangenti richieste dal mondo politico italiano perché l'entratura italiana è "tremendamente" importante. Per ben altre operazioni, evidentemente.

I quattro deputati radicali intervengono tutti e quattro nel dibattito. Comincia Emma Bonino attaccando tutte le forze politiche per il modo in cui pretendono di gestire il processo, delimitandone l'ambito, e precostituendone anche davanti alla Corte Costituzionale la materia dell'indagine e del giudizio. Segue Adele Faccio, la quale ricorda il modo più serio in cui altrove analoghe crisi determinate dallo stesso scandalo Lockheed sono state affrontate e risolte, dal Giappone all'Olanda. "Il presidente Leone - dice Adele - avrebbe dovuto avvertire il dovere patriottico e repubblicano di dimettersi. Brandt per molto meno in Germania l'ha fatto".

Lo stesso giorno, parlando a Torino, Gianfranco Spadaccia precisa ulteriormente: "Se il presidente Leone non ha la responsabilità, è interesse di tutti che un'istruttoria seria elimini ogni dubbio. Ma se gli elementi di colpevolezza accertati dai nostri compagni deputati trovassero conferma nei fatti, non fare l'inchiesta significherebbe avere un Presidente della Repubblica esposto ad ogni ricatto: di potenze straniere, di servizi segreti, di società multinazionali, dei suoi complici, delle stesse correnti democristiane.

Pannella: ha avuto ragione Ovidio Lefebvre

La mattina del 7 marzo interviene Marco Pannella. Oratoriamente non è uno dei suoi interventi migliori. Ha momenti di grande efficacia e momenti invece di stanchezza, di difficoltà, perfino di confusione. Sul tavolo vicino al microfono sono accatastate 30 cartelle. In ciascuna di esse sono raccolte, classificate, riordinate le risultanze del lavoro svolto dal collettivo parlamentare radicale. Le utilizzerà solo in piccola parte per concentrarsi invece sui punti centrali, davvero qualificanti, della ricostruzione dell'affare Lockheed fatta dai radicali. Se la tenuta oratoria non è perfetta, l'economia del discorso è stringente, legata da una logica che è difficile confutare. Esordisce affermando che ha avuto ragione Ovidio D'Ovidio Lefebvre a volere come giudice l'Inquirente delle avocazioni e degli insabbiamenti, piuttosto che il suo giudice naturale. Fu lui infatti a determinare lo spostamento del processo, dopo l'arresto del fratello Antonio, rivelando di aver pagato Tanassi. Elenca i reati per i quali poteva essere altrimenti incriminato insieme al fratello qualora l'inchiesta fosse rimasta nelle mani del giudice ordinario: infedeltà negli affari di Stato (pena minima 5 anni); corruzione da parte dello straniero (da tre a dieci anni); spionaggio politico e militare (15 anni); spionaggio di notizie di cui è vietata la divulgazione (10 anni); rilevazione di segreto di Stato (5 anni); utilizzazione di segreti di Stato; procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato. E soprattutto l'associazione per delinquere. Ben altro dunque che il concorso in corruzione contestata dall'Inquirente. E Ovidio D'Ovidio Lefebvre sarebbe da tempo già in carcere se altri si fosse occupato dell'inchiesta.

Pannella ricostruisce a rapidi tratti l'ambiente di "accento napoletano" dei due Lefebvre, i loro rapporti con Leone. Esamina il loro ruolo di professionisti delle relazioni internazionali. Cita documenti che testimoniano dell'assoluta fiducia che la potente società americana ha nei loro confronti. Non utilizza che in minima parte gli altri documenti, le altre piste possibili di indagine per una istruttoria che sia completa e non manchevole e monca. Si limita ad alcuni episodi chiave, significativi, emblematici, che dimostrano come l'inquirente si sia stranamente fermata quando si è trovata di fronte ai possibili sviluppi che potevano derivare da queste indagini. Solo alcuni episodi: l'inquirente non sente il bisogno di ascoltare un teste come l'ex senatore democristiano Messeri, poi ambasciatore, nonostante che Antonio D'Ovidio Lefebvre abbia detto era stato proprio Messeri a metterlo per la prima volta in contatto con la Lockheed; nonostante che Messeri abbia sostanzialmente confermato, anche se con una versione incredibile dei fatti, quanto aveva detto l'imputato; nonostante infine che Messeri compaia in qualità di ambasciatore nell'affare Lockheed in Turchia come elemento-chiave dell'aggiramento dell'embargo americano (la Lockheed si servì per aggirarlo dell'Aeritalia, grazie alle entrature politiche italiane di Ovidio, e riuscì a vendere gli aerei alla Turchia grazie ai buoni uffici di Messeri). Accenna appena agli altri riservati fonogrammi, agli altri messaggi, a quel qualcosa di "tremendamente" più importante dell'entità delle tangenti cui si fa riferimento in uno di quei messaggi. Parla dello strano comportamento dell'inquirente quando si è trattato di indagare su alcuni "punti terminali", destinatari nei loro conti correnti delle tangenti o di parte delle tangenti, anche quando i nomi corrispondono a persone fisiche con tanto di indirizzo e di telefono. Ricorda e documenta la strana inerzia nel sollecitare e richiedere l'estradizione di Ovidio dal Messico; la nessuna reazione di fronte al rifiuto delle autorità elvetiche di collaborare con l'inquirente con l'assurda motivazione che non riconoscono a questo organismo alcuna veste giuridica ufficiale. Perché questa inerzia? Perché questa mancanza di curiosità? Non sono la dimostrazione che alle soglie di indagini più scabrose e scottanti, ci si ferma, ci si vuole fermare?

Marco si occupa anche dell'affare dei P 3. E' stato per un anno e mezzo l'argomento che aveva allontanato ogni sospetto da Leone. Come poteva - si disse - un Presidente del Consiglio essere sospettato di essere l'Antelope Cobbler della Lockheed quando proprio durante la sua presidenza del consiglio erano stati preferiti i diretti concorrenti francesi della società americana? Pannella rovescia definitivamente questo argomento.

Non è un argomento in difesa di Leone, ma caso mai un elemento di accusa. Agli atti c'è un documento di Gui, del ministro della difesa dell'epoca, il quale precisa che il presidente del Consiglio sollecita un riesame di un provvedimento già deliberato dal Governo. A favore di chi? Della Lockheed. I radicali non conoscevano questo documento. L'opinione pubblica non lo conosceva. Ma l'inquirente sì. D'Angelosante sì.

L'affare Lockheed è un affare NATO

Sono gli essenziali scarni, ma puntuali riferimenti processuali, alle carte, quelle sconosciute, di questo processo politico. Poi il discorso si allarga, diventa politico. Questo della Lockheed non è un nudo affare di compravendita di qualche aereo, non è una questione di bustarelle e di tangenti, è un affare di sicurezza nazionale, è un affare NATO, di rapporti e influenze internazionali. Pannella getta uno sguardo vicino, nei meandri e nei misteri dei servizi segreti italiani, quelli delle stragi di Stato, e ricorda ed evoca l'omicidio-suicidio del colonnello Rocca, dirigente dell'ufficio REI del SIFAR, l'ufficio, preposto ai rapporti con le grandi corporazioni economiche del regime, braccio esecutivo dei loro intrallazzi, dei loro ricatti, dei loro interessi; un organismo che aveva a che fare istituzionalmente con le forniture e i traffici d'armi. E uno sguardo lontano alle vicende dell'America del post-Watergate. Perché - si chiede - il Parlamento americano non ha esitato a provocare una crisi istituzionale in alcuni paesi alleati, a mettere in difficoltà alcuni amici corrotti, di fronte all'esigenza di fare luce sull'affare lockheed? Perché la prima vittima della guerra del Vietnam era stato proprio il Parlamento americano, espropriato dall'esecutivo perfino del diritto costituzionale di dichiarare la guerra, ed espropriato poi via via degli altri poteri dai centri del potere militare, dai centri del potere economico, dal complesso militare-industriale delle multinazionali e del Pentagono. Lo scandalo Lockheed nasce dunque dall'esigenza dello Stato di riappropriarsi di questi poteri, di riportarli nell'ambito della Costituzione e dei normali meccanismi di controllo democratico da parte delle istituzioni depositarie della sovranità popolare, anche a costo di mettere in crisi punti nevralgici della sicurezza nazionale americana. In Italia invece? In Italia le forze politiche si ritraggono di fronte all'esigenza di fare luce, di ricercare la verità. E la verità, brandelli di verità vengono lasciati in mano alle agenzie di stampa delle correnti dei servizi segreti, in lotta fra loro, che se ne servono per attaccare il capo dello Stato con tono ricattatorio. Pannella cita una di queste agenzie, la O.P.

Un ultimo attacco diretto al comportamento dell'inquirente.

Il SID non esiste?

E' un affare di armamenti. E' un affare NATO. Ci sono rapporti con una potenza straniera. Ci sono rapporti diretti, incontri, colloqui con i ministri della difesa, con i presidenti del Consiglio. E' concepibile che l'inquirente non si sia neppure posto il problema di chiedere i dossier del SID, dei servizi di sicurezza su questo affare? La storia dell'affare Lockheed, la verità si questo affare è tutta probabilmente scritta in quei dossier.

Infine Pannella si rivolge direttamente alle forze politiche, ai comunisti, ai socialisti, personalmente a La Malfa. Fino a quel momento i comunisti hanno difeso in blocco l'operato dell'inquirente, respingendo ogni ipotesi di allargamento delle indagini.I socialisti hanno deliberato addirittura in direzione di non associarsi alla richiesta radicale di un supplemento di istruttoria a termine, con la motivazione assurda che bisogna evitare rinvii e insabbiamenti. Uguale l'atteggiamento dei repubblicani. Pannella dice di poter comprendere le preoccupazioni dei comunisti di fronte alla difficoltà della situazione politica, di fronte alla prospettiva di una crisi istituzionale al vertice dello Stato. Ma proprio di fronte a queste difficoltà e a questi pericoli, l'unica salvezza, l'unica possibilità di evitare la crisi, è proprio nel laicizzare la verità, nel metterla a disposizione della gente, nell'essere democratici fino in fondo, nel fidarsi del giudizio e del buon senso della generalità della gente. "Non dobbiamo costituirci anche noi in sacerdoti della verità, accanto ai "sacerdoti" dei servizi segreti e dei corpi separati".

Le reazioni dei partiti

I deputati radicali non si fanno illusioni sulla possibilità di trovare le cinquanta firme per attivare il supplemento d'indagini. Nondimeno il discorso di Pannella lascia il segno nei comportamenti politici e parlamentari in questa vicenda. I repubblicani e i socialisti si riuniscono a lungo. La linea che emerge e alla quale i radicali si uniformeranno è quella di concludere con il voto il dibattito sull'incriminazione di Gui e Tanassi, ma di riprendere e approfondire le indagini in ogni direzione se ce ne sono gli elementi. I repubblicani propongono una commissione d'inchiesta sulle forniture militari. I socialisti qui e lì, in dichiarazioni, in corsivi dell'Avanti! chiedono tutta la verità. I comunisti insistono invece sulle loro posizioni: indagherà il giudice ordinario, può ancora indagare l'inquirente, può indagare (e non è vero) la Corte Costituzionale.

Rinvio a giudizio di Gui e Tanassi, riapertura dell'istruttoria

Il gruppo radicale utilizza allora un altro articolo del regolamento: quello che da la possibilità a ogni deputato di presentare denunce al Presidente della Camera. Presentano a Ingrao una lunga e dettagliata denuncia, quella che pubblichiamo qui integralmente. Il primo nome che vi compare è quello di Giovanni Leone. Il primo capo d'imputazione è quello di associazione per delinquere. Il giorno dopo l'intervento di Pannella, Mellini può dare notizia in aula della presentazione della denuncia, in apertura del suo discorso.

Ingrao il pomeriggio stesso comunica di aver trasmesso la denuncia al Presidente della Commissione Inquirente. Esistono ora le premesse anche formali per quella riapertura dell'istruttoria che è stata per dieci giorni l'obiettivo - l'unico, reale obiettivo - dell'azione radicale, perché si arrivi a conoscere e comprendere tutta la verità. Martinazzoli parla di "tempi lunghi". Ma ormai perfino dal Quirinale, che il giorno prima aveva parlato di "volgarità" e di "polverone" sollevato dai radicali, procurandosi un attacco della "Voce Repubblicana" (un intervento repubblicano in difesa dei radicali non si registrava da anni), è costretto a sollecitare un rapido accertamento della verità. Tempi brevi, dunque.

La DC fa quadrato. Il vero capo di questo regime, Aldo Moro, il presidente del Consiglio degli "omissis" del "caso De Lorenzo", invita tutto il partito a fare quadrato intorno a Gui e Tanassi. Nel discorso di Saragat, Tanassi, l'"homunculus" dei sarcasmi dell'ex presidente della Repubblica, diventa un perseguitato politico. Sono le ultime battute del dibattito. Poi la votazione su Gui e Tanassi. Il loro rinvio all'Alta corte di Giustizia. Poteva essere, questo voto, la chiusura definitiva del procedimento intorno a una scelta di comodo. Può invece essere la premessa di una azione che vada a fondo. Per i radicali questa battaglia non si è ancora conclusa. Ne tenga conto chiunque pensasse che i tempi brevi devono servire a chiudere di nuovo tutto in gran fretta, con mezze verità e verità di comodo.


Dimissioni di Emma Bonino: il PCI sceglie la parte del buttafuori

di Gianfranco Spadaccia NR85, 31 marzo 1977

Il presidente Ingrao apre martedì 22 marzo, alle ore 16,30, il dibattito sulle dimissioni della deputata Emma Bonino. Dopo aver dato lettura della lettera di dimissioni, Ingrao ricorda che è prassi parlamentare ormai consolidata respingere le dimissioni di un parlamentare quando siano motivate con ragioni politiche e non personali o di salute. E' un chiarimento non dovuto e non necessario da parte di Ingrao, e quindi tanto più importante e significativo da parte del Presidente della Camera. Ma in questa vicenda parlamentare la prassi, cioè l'insieme di precedenti comportamenti del Parlamento in casi analoghi, non sarà rispettata.

La prima a non rispettarla è proprio la dimissionaria Emma Bonino, la quale rompe la consuetudine che vuole il deputato dimissionario assente dal dibattito che lo riguarda. Emma invece prende la parola, e la prende per quasi un'ora, per meglio spiegare i motivi delle sue dimissioni, enunciati nella lettera al Presidente della Camera. Ed è la prima a chiedere che la prassi non sia osservata se la prassi deve dar luogo a un dibattito e ad un voto solo formali: "chiedo un dibattito non tanto sul mio gesto, quanto sulle motivazioni che mi hanno portato da agosto da agosto ad oggi a compiere questo gesto. Questo vorrei che fosse chiaro: respingere le mie dimissioni significa solo convenire che la situazione è estremamente grave e che le cause di tale gravità vanno urgentemente rimosse".

Un'ora dopo sarà il comunista Coccia a rovesciare la prassi parlamentare e a pronunciarsi, a nome del suo gruppo, perché le dimissioni siano accolte invece che respinte.

Coccia: misure urgenti ma non la riforma

Il deputato comunista nega la validità delle motivazioni; esse sono pretestuose e futili, indice di scoramento e di spirito rinunciatario, rispondenti ad esigenze propagandistiche e pubblicitarie del Partito Radicale, che pretende di monopolizzare la lotta per la riforma giudiziaria e penitenziaria. Sul merito degli obiettivi della lotta radicale (gli stessi di un digiuno durato 73 giorni), Coccia contrappone la strategia comunista: alcune misure urgenti invece della riforma del corpo degli agenti di custodia, da strappare ed imporre all'atteggiamento elusivo del governo, "con carattere di immediatezza". Le richieste radicali (una riforma la cui necessità ed urgenza è stata quasi all'unanimità per due volte deliberata dal Parlamento e richiesta in maniera vincolante al governo) sono "totalizzanti" e massimalistiche: la ricerca del meglio impedisce e ritarda l'ottenimento del buono che si può raggiungere subito. Non mancano nell'intervento di Coccia elementi grossolani e falsificanti della posizione radicale e delle stesse dimissioni di Emma Bonino (l'accenno fatto nella lettera di Emma alle "offensive e miserabili critiche di colleghi come gli on. Preti e Pochetti", Coccia tenta di farlo passare per una delle motivazioni delle dimissioni). L'oratore del gruppo comunista preannuncia infine come imminente uno sbocco politico per la strategia comunista delle "misure urgenti": la votazione l'indomani nell'ufficio di presidenza della commissione giustizia delle proposte del PCI riguardanti le carceri. Conclude affermando che la decisione di dimettersi ("concretamente meditata e sofferta") va tuttavia rispettata: "ma il rispetto deve essere il più conseguente di tutti: vale a dire l'accettazione delle dimissioni". Infine una risposta (implicita) ad Ingrao: il PCI non ritiene in questa maniera di rinnovare rispetto alla prassi, perché già nel dibattito sulle dimissioni di Ferrari Aggradi nella precedente legislatura aveva votato per l'accoglimento. Le dimissioni della deputata radicale vengono messe sullo stesso piano di quelle di un notabile del regime che lasciò la Camera per rendersi disponibile per altri incarichi, altre prebende e altre leve di potere.

Si creano due schieramenti

Si creano così due schieramenti parlamentari: il liberale Bozzi, il democristiano Costamagna a titolo personale, la repubblicana Agnelli, il socialista Testa, l'indipendente Napoleoni a nome della maggioranza del gruppo misto, la comunista indipendente Codrignani, il demoproletario Pinto, il missino Santagati e il demonazionale Delfino con diverse motivazioni si esprimono per respingere le dimissioni; i comunisti si esprimono per l'accoglimento, mentre la democrazia cristiana - in un intervento del vice presidente Bernardi pieno di veleno antiradicale - si affida alla libertà di voto dei suoi parlamentari.

Si vota: tutti i comunisti in aula!

Siamo a martedì, all'inizio quindi della settimana parlamentare, in una di quelle giornate solitamente quasi morte, raramente destinate a votazioni di grande importanza, caratterizzate dall'assenteismo dei deputati che raggiungono Roma solo la notte di martedì. L'aula si riempie di comunisti. Il gruppo del PCI viene mobilitato al completo. Le commissioni su richiesta dei comunisti vengono sconvocate, per consentire ai deputati di unirsi al voto in aula. La determinazione dei comunisti è chiara: far fuori l'attuale rappresentanza parlamentare del P.R. decretare la sconfitta della lotta non violenta dei radicali sulle carceri, e il giorno dopo ottenere dal governo magari con l'aiuto del ministro di grazia e giustizia qualche deliberazione o qualche assicurazione che dia la sensazione di un successo della loro strategia minimalista.

Si passa ai voti, ma manca il numero legale e per qualche decina di voti l'operazione non ha successo. Di fronte al massiccio arrivo dei deputati comunisti, qualche decina di deputati capiscono il gioco e si allontanano facendo mancare il numero legale.

Una mattinata difficile

Per una volta il PSI ha una reazione tempestiva. Con una dichiarazione all'ANSA, il segretario del PSI, Bettino Craxi, accusa indirettamente di settarismo i comunisti: si possono discutere e non condividere - sostiene Craxi - le forme di lotta dei radicali, e perfino queste dimissioni, ma di fronte alla serietà e validità delle motivazioni, il loro accoglimento sarebbe un intollerabile atto si settarismo. L'indomani mattina il gruppo socialista della Camera, su sollecitazione dello stesso Craxi e di Pietro Nenni, prende l'iniziativa di ricercare e trovare una soluzione politica. Il capogruppo socialista, Vincenzo Balzamo, si rivolge al Presidente della Camera Ingrao, che trova sensibile e disponibile, e parla con il Presidente del Consiglio Andreotti. Ha contatti con Natta, che trova intransigente e irremovibile, e con il capogruppo democristiano Piccoli.

La votazione deve ripetersi alle 16,30. I tempi sono quindi brevissimi. Al termine di una intensa mattinata di contatti e di colloqui resi più difficili dallo svolgimento contemporaneo dell'incontro DC-PSI sui problemi del governo, alle 13,30 c'è un colloquio risolutivo. Andreotti riceve Balzamo, insieme a Pannella e a Spadaccia. Introduce Balzamo: il problema delle dimissioni dell'on. Bonino - dice - è un problema politico e va risolto politicamente perché riguarda il rispetto delle deliberazioni parlamentari, e quindi i rapporti fra governo e parlamento, e in particolare fra il governo e i partiti che lo appoggiano e che hanno votato quelle deliberazioni.

Nel colloquio si torna di nuovo a discutere nei dettagli (per i radicali è la terza volta) con Andreotti degli obiettivi del digiuno radicale che coincidono oggi con i motivi delle dimissioni della deputata Bonino. Si rifà la storia dei rapporti avuti con il ministro della giustizia, oltre che con Andreotti. Pannella illustra ad Andreotti le conclusioni di Bonifacio all'ultima riunione della commissione giustizia. Ricorda il giudizio dato dall'on. Coccia sul carattere di immediatezza che i comunisti chiedono per alcune misure urgenti anticipatrici della riforma del corpo degli agenti di custodia. Sostiene che con i tempi illustrati da Bonifacio alla Camera non si avrà la riforma prima dell'autunno.

Andreotti spiega che per lui c'è una difficoltà ad intervenire rappresentata dall'impossibilità di mettersi in contatto con il ministro che è sotto anestesia per una operazione che ha subito nel corso della mattinata. Informa tuttavia che il referendum, di cui il ministro ha parlato e che non è stato ancora avviato, non si fara' piu' e quindi si potra' guadagnare un mese e mezzo per l'elaborazione e la presentazione della riforma. Alle 15,30 Palazzo Chigi emette il comunicato che pubblichiamo a parte. E' l'atto formale di disponibilita', la manifestazione di volonta' politica del governo, che i radicali chiedevano. Le dimissioni possono quindi essere ritirate solo che si consenta alla deputata Bonino di registrare in aula questo atto politico.

In chiusura del comunicato del governo si fa riferimento all'assenza di Bonofacio. Ma questo riferimento rende ancora piu' chiaro l'intervento di Andreotti come scelta politica del governo: immediatezza per le misure urgenti anticipatrici della riforma (una immediatezza che secondo Coccia incontrava l'ostilità insormontabile del governo); e tempi certamente più brevi dei tre mesi ipotizzati per la riforma organica del corpo degli agenti di custodia.

Si e' gia' in sede di votazione. questa volta Ingrao, con una interpretazione del regolamento, ritiene di dover chiedere, dopo la manifestazione di volontà del governo, all'on. Bonino se mantiene o ritira le dimissioni, e di dover consentire che la deputata radicale spieghi il motivo del ritiro (" le dimissioni di un deputato - dira' polemicamente rivolto soprattutto ai deputati comunisti - sono un atto troppo delicato e grave perché il Presidente non intervenga").

E a questo punto si scatena il finimondo. Pajetta, Natta, molti deputati comunisti, uniscono le loro voci di protesta a quelle del demonazionale Delfino e a quelle di decine di deputati democristiani. Prima si vuole impedire che Emma Bonino possa rispondere alla domanda del Presidente. Poi che spieghi il motivo del ritiro, il fatto politico che lo giustifica. E' la canea democristiana e comunista, una vera e propria esplosione di intolleranza attraverso la quale un intero Parlamento sembra scaricare nell'insofferenza, nella rabbia e nella volonta' di espulsione fisica dei deputati radicali le proprie frustazioni per il modo con il quale assolve ai suoi doveri legislativi e alle proprie funzioni di controllo democratico fra le forze politiche e di controllo dell'esecutivo. Si vede Giancarlo Pajetta, rosso in viso, scatenato contro la deputata radicale, come mai lo era stato in passato (ai tempi d'oro delle sue "scorrettezze" e dei suoi "esibizionismi" parlamentari) contro i governi democristiani, gridare piu' volte con il braccio alzato: " non deve parlare, deve parlare soltanto per dire che ritira le dimissioni, e' una buffonata, buffoni, quella e' la porta, andatevene". E si vede Ingrao gridare -" On. Pajetta lasci parlare ". I deputati comunisti si muovono all'unisono, nella canea antiradicale, con i deputati democristiani che possono finalmente scatenare il loro odio verso una minoranza che ha imposto il divorzio e l'aborto, ha mandato a suo tempo in galera un sindaco democristiano, e rappresenta la piu' intransigente opposizione al regime democristiano e clericale.

Concorre a scatenare la canea il fatto che la massa dei deputati non conosce i fatti che sono intervenuti nella mattinata e nel primo pomeriggio: L'iniziativa socialista, le consultazioni politiche, il comunicato di Andreotti, la decisione di Ingrao. Ma la canea impedisce perfino di spiegarli e di renderli noti. L'intolleranza impedisce l'informazione e la possibilita' di una valutazione.

Sicche' in definitiva si assiste allo spettacolo di un gruppo comunista che in massa contesta l'operato del Presidente comunista della Camera e di un gruppo democristiano che in massa contesta senza conoscerlo l'impegno politico assunto, con altri due gruppi della Camera, dal Presidente del Consiglio democristiano.

Emma Bonino rimane in piedi a lungo, senza rispondere alle provocazioni e agli insulti, collaborando nel modo piu' giusto, cioe' con il silenzio, allo sforzo che sta compiendo il Presidente della Camera. Alla fine le e' consentito di parlare, di dire poche parole: fa riferimento al comunicato di Palazzo Chigi, invita i colleghi a leggersi attentamente quel comunicato. L'invito e' rivolto naturalmente ai comunisti che il giorno prima ritenevano impossibile costringere il Governo all'assunzione di precise responsabilita' e precisi impegni.

Chiede subito dopo la parola l'on. Bozzi, non sul ritiro delle dimissioni di Emma Bonino, ma per deplorare il fatto che il governo non abbia ritenuto di comunicare direttamente al Parlamento le sue decisioni o la sua volonta', e lo abbia fatto indirettamente attraverso un comunicato stampa e attraverso il Presidente della Camera. Bozzi puo' avre ragione. E possono avere ragione anche la massa dei deputati che lo hanno clamorosamente applaudito. Ma l'uno e gli altri avrebbero ogni giorno la possibilita' di difendere, se volessero, le loro prerogative e quelle del Parlamento. Se ne ricordano invece per rivendicarle in modo del tutto formale soltanto nel momento in cui un piccolo gruppo parlamentare, il piu' piccolo gruppo di Montecitorio, e' riuscito con le sue lotte extraparlamentari e con i suoi atti politici in Parlamento e concretamente riproporne, nell'interesse di tutti e delle istituzioni il rispetto da parte delle forze politiche e dell'esecutivo.

La dichiarazione di Bozzi e gli applausi che l'hanno seguita sottolineano ancora di più questa contraddizione e questa frustrazione che si sono così clamorosamente espresse poco prima in quella canea vociante e in quella esplosione di intolleranza.