CAPITOLO
I - I PRIMI PASSI
1. Come muore il
primo partito radicale
La crisi del primo
partito radicale si può collocare tra la fine del
'61 e l'inizio del '62. Era stato fondato appena sei
anni prima, nel 1955, dalla corrente di sinistra
uscita dal partito liberale.
Il fattore scatenante
della crisi era stata la polemica, seguita alle
rivelazioni sull'accusa di antisemitismo, a carico di
Leopoldo Piccardi, allora cosegretario del partito
(gli altri due segretari erano Arrigo Olivetti e
Francesco Libonati). L'accusa contro Piccardi era
fondata sulle notizie contenute nella "Storia
degli ebrei italiani sotto il fascismo" di Renzo
De Felice, pubblicata nel 1961. Nel libro si rendeva
nota la partecipazione di Piccardi, come relatore,
sul tema "razza e diritto" al secondo
convegno organizzato dal "Comitato di
collaborazione giuridica italo-germanica",
svoltosi a Vienna nel marzo 1939 (1).
In realtà, la portata
del contributo di Piccardi ai due convegni, è
controversa: per esempio, non è provato se
sottoscrisse o non la relazione Costamagna sul tema
della razza. In ogni caso, Piccardi, nel 1946, si era
volontariamente sottoposto ad una commissione di
epurazione, che lo aveva scagionato da ogni sospetto
di collaborazione col regime fascista (2).
Il "caso"
Piccardi era stato aperto da uno dei due gruppi, in
cui si articolava la maggioranza che governava il
partito radicale. I due schieramenti facevano capo,
il primo al settimanale "il Mondo" di Mario
Pannunzio (ne facevano parte, tra gli altri, Niccolò
Carandini, Leone Cattani, Francesco Libonati); il
secondo a Piccardi, a Bruno Villabruna, a Eugenio
Scalfari.
I due gruppi erano in
perenne, irrimediabile contrasto tra di loro. La
polemica politica degenerò presto in odio personale.
Ernesto Rossi, uno dei
più autorevoli collaboratori del "Mondo",
antifascista da sempre, si schierò, senza
tentennamenti, dalla parte di Piccardi, secondo lui
ingiustamente accusato: per protesta, cessò la sua
più che decennale collaborazione col settimanale di
Pannunzio (3). Le conseguenze sul partito radicale di
accuse e contro-accuse tra i maggiori esponenti,
furono micidiali. Si scompaginò in pochi mesi; fra
gennaio ed ottobre del 1962 uscirono dal partito
radicale molti dei fondatori: nel gennaio, Mario
Pannunzio ed Arrigo Benedetti, direttore de
"l'Espresso", seguiti, nel marzo, da
Eugenio Scalfari e da tutti gli "amici del
Mondo"; infine, nell'ottobre, si ritirò il
gruppo residuo più consistente, cioè i piccardiani
ed Ernesto Rossi (4).
Le motivazioni di
questa generale diaspora, in realtà, non si
fondavano su di un semplice caso personale. Il caso
servì da pretesto per affossare un partito che, in
quel momento, così com'era strutturato, aveva perso
la sua ragione di esistere. Al suo interno erano
sorte profonde ed inconciliabili divergenze sulla
linea politica verso il nascente centro-sinistra. Le
incertezze, soprattutto, si delineavano sul tipo di
rapporto da intrattenere con il partito socialista.
"Non potevano stare insieme degli intellettuali,
gelosi della propria condizione, e felici
dell'indipendenza che da essa deriva", scrisse
Arrigo Benedetti su "l'Espresso", nel marzo
1962 (5). L'osservazione era plausibile se si tiene
presente che il partito radicale era stato fondato da
uomini di cultura e provenienze molto lontane, tenuti
insieme da un disegno un po' utopico di creare una
non ben definita "terza forza", da
collocare in un punto equidistante tra il partito
cattolico dominante ed il partito comunista egemone a
sinistra. Fantasticavano su un'Italia diversa, meno
bigotta non soggetta ai dogmi delle
"chiese" di sinistra e di destra, aliena
dalle clientele e dai potentati ombra (6).
Mentre il partito
radicale andava alla deriva, il quadro generale
politico stava mutando: il protagonista della nuova
fase era il partito socialista che a partire dal
congresso di Torino del '55 aveva rimesso in
discussione il proprio rapporto con il partito
comunista. Era disponibile a governare con i
cattolici, abbandonando l'estremismo marxista e
classista, con la convinzione che, se il P.S.I. fosse
riuscito ad impadronirsi di quella che Nenni definiva
"la stanza dei bottoni", le linee di
sviluppo dello Stato e della società sarebbero state
più progressiste; e che comunque questa fosse
l'unica strada percorribile.
Questa nuova politica
socialista contribuì a mettere in discussione i
rapporti interni nei partiti dell'area di
centro-sinistra, ma anche ad esasperare e
praticamente rendere irreversibili le divisioni
latenti in un partito ideologicamente ed
organizzativamente ancora "in fieri" come
quello radicale degli ultimi anni Cinquanta.
E' necessario
ricordare che le varie componenti del partito
radicale erano costituite da ex-azionisti, come Leo
Valiani e Guido Calogero, da ex membri di Unità
Popolare, da intellettuali de "Il Mondo" e
de "l'Espresso", e un po' più isolato il
nucleo facente capo ad Ernesto Rossi (7). Facevano
gruppo a sé i giovani universitari provenienti
dall'UGI (Unione Goliardica Italiana), i cui maggiori
esponenti erano Paolo Ungari, Giovanni Ferrara,
Stefano Rodotà, Marco Pannella, Franco Roccella,
Massimo Teodori, Fabio Fabbri, Giuliano Rendi,
Gianfranco Spadaccia. Nel gruppo universitario, poi,
si agitavano due tendenze, una che si opponeva
rumorosamente al progetto di collaborazione
governativa dei socialisti con la D.C. (Pannella,
Roccella, Teodori, Spadaccia, Rendi ed altri), ed una
filorepubblicana (Ferrara, Rodotà, Ungari), su
posizioni lamalfiane e favorevoli al centro-sinistra
(8).
In corrispondenza col
nuovo corso socialista, la maggioranza del partito
radicale si era convertita dall'originario progetto
di intransigente alternativa alla D.C.
all'accettazione critica del centro-sinistra.
Senonché nella maggioranza permaneva un contrasto
sul ruolo che avrebbe potuto assumere il partito
all'interno del nuovo schieramento. Tant'è che nella
riunione della direzione centrale tenutasi nel
novembre del 1961 (9), particolarmente dedicata
all'esame delle prospettive di alleanza percorribili
nelle elezioni politiche del 1963, si delinearono due
tesi contrapposte. Per Leopoldo Piccardi, portatore
della tesi più possibilista, l'accordo elettorale
con il partito socialista era un passo non eludibile
per i radicali. L'altra tesi, più autonomista,
difesa soprattutto da Leone Cattani, manteneva ferma
come prospettiva di lungo periodo l'alleanza di tutte
le forze della sinistra democratica, e
conseguentemente il partito radicale doveva restare
libero da alleanze permanenti, che lo legassero
indissolubilmente alla politica di centro-sinistra.
Il contrasto si estendeva alla politica estera. Il
partito era diviso tra il neutralismo di Ernesto
Rossi, l'adesione alle tesi filo socialiste di
Piccardi, che accettava il patto atlantico come
strumento di distensione tra i blocchi ed il
filo-americanesimo de "il Mondo".
Nel dicembre, Piccardi
si dimetteva dalla segreteria a causa delle polemiche
sul suo conto. Queste dimissioni provocarono un
insanabile dissidio nella direzione centrale fra i
favorevoli e i contrari all'allontanamento di
Piccardi; nessun accordo fu possibile, e pertanto la
direzione e la segreteria si dimisero in blocco. A
questo punto, le varie componenti che formavano la
maggioranza decisero di accantonare, per il momento,
il "caso Piccardi", e di convocare per il
20 gennaio un consiglio nazionale, che si occupasse
della crisi della leadership in relazione al
dibattito sul ruolo del partito nel nascente
centro-sinistra (10). Fu una delle ultime riunioni
del consiglio nazionale, lo scontro tra le varie
componenti fu duro; Eugenio Scalfari, per salvare il
partito dalla totale disgregazione, si propose come
mediatore tra le due linee contrapposte, quella degli
"amici del Mondo" e quella di Piccardi e di
Rossi (non presenti al dibattito) (11). La proposta
di Scalfari aveva come fine il rinnovo della
direzione nazionale, dalla quale dovevano restar
fuori gli uomini più coinvolti nei contrasti:
tuttavia, Scalfari teneva fermo l'obiettivo di
un'alleanza, inizialmente soltanto elettorale, con il
partito socialista. Ma il gruppo del Mondo rifiutò
la mediazione di Scalfari. Fece causa comune con il
gruppo giovanile "di destra" (Ferrara,
Rodotà, Jannuzzi) confluendo in una mozione
unificata, con la quale si chiedeva di mettere da
parte il "caso Piccardi" e di convocare
entro giugno un congresso straordinario (12). La
strategia di quest'ultima aggregazione aveva per fine
il mantenimento dell'autonomia del partito radicale,
ed il rifiuto di ogni federazione con i socialisti.
Si muoveva, piuttosto, verso un'alleanza con i
piccoli partiti laici, di cui il partito radicale
doveva essere il punto di raccordo, sotto l'insegna
di "fronte repubblicano" (13). La mozione
unificata, promossa dagli amici del Mondo, ottenne la
maggioranza grazie all'astensione della corrente di
sinistra del partito. L'astensione di questa
componente giovanile aveva una funzione tattica: la
sinistra radicale, in effetti, non condivideva la
politica a favore del centro-sinistra perseguita
dalle due componenti in lotta tra di loro, ma
appoggiava il gruppo del Mondo al limitato fine di
ottenere la convocazione del congresso straordinario,
nel corso del quale avrebbe potuto tentare di
capovolgere le linee allora imperanti nel partito a
favore dell'alleanza tra D.C. e P.S.I.
Dal consiglio del 20
gennaio 1962 uscì segretario Leone Cattani,
espressione del gruppo che si raccoglieva intorno
agli amici del Mondo; e furono esclusi dalla
direzione i "piccardiani".
La polemica sul caso
Piccardi tuttavia non si placò; e di conseguenza il
nuovo segretario Cattani convocò il consiglio
nazionale per il 24 e 25 marzo 1962 proprio con lo
scopo di mettere la parola fine alla diatriba che
aveva avvelenato il clima interno del partito.
Eugenio Scalfari se ne andò subito, perché non
condivideva la linea politica della maggioranza. Fu
subito chiaro che per il segretario del partito e il
gruppo degli amici del Mondo, che lo sostenevano, il
caso Piccardi era una questione politico-morale, non
un semplice fatto personale. Il segretario, nella
relazione pronunciata in apertura del consiglio, pose
un aut-aut: la presenza di Leopoldo Piccardi era
incompatibile con gli ideali e la storia del partito
radicale, e quindi Piccardi doveva andarsene (14).
Dopo queste affermazioni, la scissione fra il gruppo
del Mondo e chi sosteneva Piccardi (soprattutto
Ernesto Rossi) divenne inevitabile. Alla relazione
del segretario seguì l'autodifesa di Piccardi, che
aprì il dibattito, in verità piuttosto aspro.
Venne presentata una
mozione di sfiducia contro il segretario Leone
Cattani ed egli, prima ancora della votazione,
annunciò la decisione di lasciare il partito,
seguito dai consiglieri appartenenti al gruppo del
Mondo (15). Il Consiglio, pur decimato, elesse una
nuova direzione nazionale, che a sua volta affidò la
segreteria all'onorevole Bruno Villabruna.
Nell'ottobre
successivo, dopo la secca sconfitta subita nelle
elezioni amministrative, anche il nucleo residuo più
consistente, capeggiato da Piccardi, Rossi e
Villabruna, abbandonò il partito, invitando gli
iscritti a continuare la battaglia radicale nel
partito socialista.
Ma il partito radicale
rimaneva ugualmente in vita grazie ad un ristretto
gruppo della sinistra, ex militanti dell'U.G.I. e
dell'U.N.U.R.I. (Unione Nazionale Universitaria
Rappresentativa Italiana): Pannella, Teodori, Rendi,
Spadaccia, Roccella, Stanzani (16). Questo gruppo si
proponeva di raccogliere le ceneri di quello che era
stato l'originario partito radicale e, richiamandosi
allo spirito ed ai metodi delle tante battaglie
universitarie condotte con rabbia e determinazione
negli anni Cinquanta, voleva far politica fuori dai
canali tradizionali.
2. I giovani
guastatori
Per raccontare la
storia politica ed ideale della sparuta sinistra che
rifonderà il partito, bisogna fare un passo
indietro.
I giovani radicali
intendevano allontanarsi dalle astrattezze e dai
molti distinguo dei fondatori del partito. Marco
Pannella, infatti, vent'anni dopo questi avvenimenti,
ricordando quei tempi, dirà: "L'errore de
"Il Mondo" e del P.R. d'allora, fu quello
dell'autosoddisfazione involontaria, derivante dalla
scelta di una comunicazione interna ad una comunità
di non più di quarantamila-cinquantamila lettori...
l'errore di un cultura elitaria, aristocratica del
partito radicale di allora". Gli amici del
Mondo, Pannella li giudica intellettuali, loro
malgrado, prestati alla politica, i quali "non
si rendevano conto che quello che vivevano come
impegno politico per restaurare qualcosa del passato
(non loro ma di altri) prefascista, era invece
persistenza di una utopia alla quale mai la storia
del nostro paese aveva dato corso: l'utopia di una
società più giusta, più umana, più laica"
(17).
I giovani provenienti
dalle lotte universitarie volevano liberare dagli
intellettualismi, vizio di origine di questo gruppo
di eterogenea provenienza ideologica, il partito
morente. La giovane sinistra contestava la concezione
elitaria del partito di Pannunzio, Benedetti,
Carandini, una sorta di laboratorio politico per i
partiti di massa, cui avrebbero lasciato il compito
di intervenire concretamente in politica, che non
avrebbe mai potuto incidere sulla realtà del Paese.
In effetti, tale modo di concepire il partito
rappresentava una sorta di rinuncia, e comunque una
delega per affidare ad altri la realizzazione delle
proprie idee. La militanza universitaria aveva invece
abituato la giovane sinistra radicale allo scontro
non solamente ideologico, ma alla concretezza dei
problemi da dibattere ed affrontare giorno dopo
giorno, allo scontro con le altre istanze, un modo di
fare politica diametralmente opposto rispetto a
quello degli intellettuali che "la sera andavano
a Via Veneto". L'idea della giovane sinistra era
basata sull'autonomia dell'associazionismo rispetto a
qualsiasi matrice ideologica e partitica:
teorizzavano un tipo di organizzazione tra persone
che si aggregano per lavorare in comune alla
risoluzione di problemi immediati e precisi,
prescindendo da ogni confessionalismo preconcetto.
Essi avevano ormai
superato ogni preclusione anche verso partiti di
matrice ideologica avversa, come quello comunista,
nei cui confronti, viceversa, gli intellettuali di
formazione crociana presenti tra i primi fondatori
del partito radicale, nutrivano pregiudizi non
eliminabili. Franco Roccella, allora presidente
dell'U.G.I., sintetizzava le nuove concezioni in una
formula: "non unità delle forze laiche, ma
unità laica delle forze come fondamento della
democrazia" (18). E un esempio in questa
direzione viene dalla confluenza nell'U.G.I. delle
organizzazioni socialiste e comuniste (19).
La sinistra radicale,
a questo punto, si batté per estendere al Paese il
metodo politico sperimentato con successo nell'U.G.I.
Nasce così il progetto politico intorno a cui si
svilupperà l'azione dei nuovi radicali. Tale
progetto è chiaramente esposto da Marco Pannella in
un articolo pubblicato sul quotidiano di area
comunista "Il Paese" nel marzo 1959.
Il punto centrale
della tesi pannelliana consisteva nell'invito a tutta
la sinistra democratica e comunista ad allearsi per
costituire quell'alternativa alla D.C., altrimenti
impossibile. Pannella scriveva: "proporre in
questo lavoro (di preparazione all'alternativa) una
corresponsabilità del P.C.I.: operare senza
ipocrisie e senza paura in questo senso, compito
serio della sinistra democratica, cosciente della
propria irriducibile autonomia, non meno del proprio
diritto a porsi come forza che si candida al potere.
Se per edificare in Italia uno stato democratico
moderno - precisa Pannella - almeno quel tanto che è
previsto nella Costituzione, è necessaria una nuova
maggioranza nel Paese e nel parlamento, perché fra
le altre, non verificare l'eventualità di un'azione
comune della sinistra democratica, di una parte dei
cattolici e dei comunisti?". (20).
Pannella non intendeva
riproporre una politica semplicemente frontista, il
che avrebbe significato un passo indietro, e
l'inevitabile subordinazione delle forze laiche al
P.C.I., ma una intesa basata sul confronto politico
continuo con i comunisti, col fine ultimo della
realizzazione di uno stato democratico. Bisognava,
secondo Pannella, ancorare il P.C.I. a un programma
democratico, ben altro che il compromesso con i
reazionari del 1943-46 contro la sinistra laica e
democratica.
L'articolo sul
"Paese" suscitò un'eco notevole, e
provocò, particolarmente, le reazioni sdegnate dei
radicali riuniti intorno al Mondo, né, d'altro
canto, raccolse l'approvazione dei comunisti. Queste
reazioni si spiegano col fatto che proprio in
quell'anno, 1959, la dirigenza del partito radicale
si stava orientando verso un tentativo di dialogo con
la sinistra cattolica, e quindi concedeva l'avallo al
nascente centro-sinistra, abbandonando così
l'originaria intransigenza nei confronti della
democrazia cristiana (21).
Parallelamente, Aldo
Moro, allora alla testa della corrente dorotea e
successore di Fanfani alla segreteria della D.C., si
differenziava dal predecessore non nella prospettiva
di apertura ai socialisti ma nella gradualità e
nella necessità di avviarvi il partito unito.
L'ipotesi politica
prospettata da Pannella era quindi destinata a cadere
nel vuoto. Oltre tutto i radicali de "Il
Mondo" erano da sempre, senza tentennamenti,
anticomunisti e pertanto contrari a qualsiasi
scorciatoia attraverso la quale potesse passare
un'intesa con il partito di Togliatti.
Il settimanale di
Pannunzio rispose subito a Pannella con un rifiuto
netto e senza appello ad una prospettiva politica che
avesse coinvolto i comunisti (22). Anche la direzione
del partito radicale si affrettò a precisare che:
"le posizioni assunte recentemente da esponenti
radicali, convinti della possibilità e della
convenienza nell'attuale momento politico, di un
colloquio tra le forze della sinistra democratica e
dei comunisti, non sono condivise dalla maggioranza
del partito" (23).
Infine gli stessi
destinatari della nuova politica fatta propria da
Pannella, i comunisti, replicavano duramente, con una
lettera di Palmiro Togliatti al "Paese" in
cui il segretario del P.C.I. affermava, tra l'altro,
che: "il rinnovamento democratico sociale del
nostro paese non può essere opera di un solo
partito, ma richiede intese e collaborazioni tra
forze politiche diverse, che non devono appartenere
soltanto al campo della democrazia laica, ma anche al
campo dei cattolici organizzati" (24). In
sostanza Togliatti riproponeva la vecchia e
collaudata linea del P.C.I. che era basata
sull'intesa non con nuclei di cattolici di sinistra,
ma con l'espressione organizzata del mondo cattolico,
cioè la D.C. Una politica quindi contraria ad una
collaborazione con le sole forze laiche, che erano di
ascendenza e pratica anticlericale.
Il generale rifiuto
delle forze politiche interessate e quello
proveniente dall'interno dello stesso partito
radicale, non fermarono la sinistra radicale.
In occasione del
Consiglio Nazionale del partito che si svolse il
19-20 novembre 1960, Marco Pannella e Giuliano Rendi
presentarono quattro "schemi di
dichiarazione", in cui riversarono le tesi che
andavano esponendo da tempo (25) e che, secondo loro,
non facevano altro che estremizzare gli intenti
originari del partito.
La prima tesi esponeva
la posizione dei radicali sul problema delle
relazioni tra Stato e Chiesa; la seconda si occupava
della collocazione del partito nell'ambito del
nascente centro-sinistra con particolare riguardo al
rapporto con il partito socialista; le ultime due
tesi affrontavano la politica estera.
La prima toccava lo
snodo politico più delicato e controverso, sia per
il partito radicale sia per tutta la sinistra
italiana, dal momento stesso della fondazione dello
stato unitario: i rapporti tra Stato e Chiesa.
Pannella e Rendi partivano dalla considerazione che
la sinistra italiana aveva sempre abdicato alla
funzione di direzione del paese, delegandola ai
cattolici, impedendo così ogni progresso. La
sinistra aveva optato per una linea di compromesso,
una sorta di consociazione con l'antagonista, il che
rivelava un suo complesso di inferiorità di fronte
al partito della conservazione; ecco perché essa,
fino ad allora, aveva raccolto solo le briciole del
potere.
Proprio questa
politica rinunciataria (era la tesi di Pannella)
portò all'approvazione dell'art. 7 della
Costituzione, che, elevando i Patti Lateranensi quasi
al rango di norme costituzionali, aveva legittimato
la sopraffazione clericale e classista: per i due
esponenti della sinistra radicale, il partito
cattolico era una "grande destra" che si
mascherava sotto apparenze popolari. Dunque un
partito conservatore organico alla classe capitalista
e reazionaria che conseguentemente non poteva mirare
al rinnovamento in senso democratico delle
istituzioni. Ecco l'errore, o forse l'illusione dei
partiti di sinistra: pensare di poter mutare il corso
della politica italiana accordandosi con chi
necessariamente ha gli interessi opposti. E così, in
vista del compromesso con un partito cattolico si
accantonavano le battaglie anticlericali, abdicando
alla laicità, caratteristica irrinunciabile per una
vera sinistra.
La critica era
particolarmente rivolta al partito socialista, che si
accingeva ad allearsi con la D.C. con la convinzione
che "all'interno del mondo cattolico al potere
potesse prevalere e sorgere una classe dirigente
capace di attuare una seria e sufficiente svolta a
sinistra" (26); mentre, in effetti, per le
considerazioni sopra esposte, la D.C. non poteva che
concepire l'accordo con i socialisti come mossa
tattica e contingente al fine di consolidare il
proprio potere a scapito delle masse popolari. Di
conseguenza, secondo Pannella, la posizione
socialista pur mascherandosi di realismo politico
peccava di astrattezza ed era anche rozza, poiché
trascurava l'aspetto "ideale" delle
battaglie politiche. E per i radicali le commistioni,
quelle che negli anni successivi saranno definite le
"ammucchiate" inceppano il funzionamento
del nostro sistema ed urtano contro la concezione
liberal di matrice anglosassone della tradizione
radicale. Il conflitto per il liberal è salutare,
fisiologico: da una parte chi governa, dall'altra chi
si oppone, senza confusioni o intese anche
semplicemente tattiche tra i due schieramenti.
Tutto ciò è
rappresentato anche plasticamente dalla diversa
collocazione dei banchi nelle aule parlamentari
inglesi ed italiane. Da noi i banchi formano un
circolo per simboleggiare una sorta di continuità
perenne, a Westminster i banchi dell'opposizione
fronteggiano quelli del governo per significare un
distacco netto e preciso. L'unica strada
democraticamente corretta per i radicali è quella
parlamentare, ma con una lotta, all'interno delle
istituzioni, senza compromessi, fra grande destra e
una grande sinistra.
Il realismo
socialista, la "politica delle cose" di
Nenni, spezzava invece il filo ideale del socialismo
poiché perdeva di vista quelle grandi riforme
istituzionali per la sola attuazione delle quali
sarebbe valsa la pena di collaborare con i cattolici.
La posizione dei
radicali era invece totalmente anticompromissoria:
questi postulavano una vasta aggregazione delle
componenti della sinistra, senza preclusioni per
alcuna forza (come ad esempio il P.C.I.) per
costituire l'alternativa progressista, mettendo
finalmente da parte ogni perplessità e paura di
vincere e candidarsi alla direzione politica del
paese.
Lo strumento creativo
che i radicali indicavano per la riuscita delle
operazioni era la costituzione immediata di un
Comitato Nazionale Unitario per l'abolizione
dell'art. 7 della Costituzione. In definitiva per
creare uno schieramento in cui sarebbero confluite
tutte le istanze laiche, pronte a scontrarsi costi
quel che costi, con quei gruppi che impedivano la
modernizzazione del paese. La sinistra radicale,
tuttavia, nel suo furore laicista, non considerava la
complessità delle forze di ispirazione cattolica,
contro le quali era tatticamente e strategicamente
sbagliata una lotta muro contro muro. Ecco perché
tali prese di posizioni non erano condivise dai
partiti della sinistra nel cui interno per di più
erano presenti anche i cattolici (catto-comunisti,
socialisti cattolici, ecc.).
Il secondo
"schema di dichiarazione" presentato dalla
sinistra radicale riguardava l'atteggiarsi dei
rapporti tra radicali e socialisti, dopo l'avvenuta
alleanza tra i due partiti nelle elezioni
amministrative del 6 novembre 1960. L'alleanza in
parola era stata intesa dalla dirigenza del P.R. come
incontro dei ceti intellettuali e borghesi con le
forze democratiche e popolari; ossia i radicali
avrebbero dovuto assumere il ruolo di filosofi
ispiratori e guida delle masse popolari democratiche
e socialiste.
Lo spirito di siffatta
interpretazione veniva rifiutato da Pannella e Rendi,
i quali invece erano dell'opinione che il partito
radicale avesse radici popolari. Il richiamo forse un
po' arbitrario ad una matrice popolare del P.R. aveva
evidentemente un carattere strumentale: una posizione
polemica verso la maggioranza dei fondatori del
partito che lo concepiva come un sinedrio di filosofi
della politica ponendo, in tal modo, i radicali in
una posizione aurea, ma marginale. Per Pannella,
l'incontro tra borghesia intellettuale e masse
popolari non poteva certo realizzarsi attraverso
accordi di vertice che rappresentavano il residuo di
una concezione corporativa della rappresentanza
politica, il partito degli intellettuali da una parte
ed il partito degli operai dall'altra, come esclusivi
portatori ciascuno degli interessi del proprio ceto.
La sinistra radicale
si era anche occupata, nel medesimo Consiglio, di
problemi internazionali di stretta attualità. Il
terzo schema, infatti, ricorda l'insurrezione del
popolo ungherese, nell'ottobre-novembre 1956, per
inviare un monito ai democratici di tutto il mondo a
non dimenticare le aspirazioni alla libertà degli
individui e dei popoli.
La quarta ed ultima
tesi proponeva un'idea diversa della politica estera
che si riassume nel proposito di battersi non per una
politica di potenza, ma per un'internazionalismo
pacifista di tipo nuovo. E cioè il potenziamento
dell'ONU, la costituzione di una federazione europea
attraverso elezioni dirette, il disarmo non solo
atomico ma anche convenzionale dell'intera area
continentale europea; la pace con le due Germanie e
la conseguente denuncia del patto militare NATO e
dell'UEO; il riconoscimento al diritto dell'obiezione
di coscienza, la federazione di tutti i movimenti
socialisti e libertari, con il fine di instaurare una
piena democrazia nell'Europa Occidentale (27).
Le quattro mozioni
presentate da Pannella e Rendi accelerarono la
spaccatura del gruppo giovanile del partito che si
divise in una corrente di sinistra, i cui maggiori
esponenti erano, oltre a Pannella e Rendi, Spadaccia,
Stanzani, Roccella, Mellini, Bandinelli, Teodori, S.
Pergameno e L. Strik-Leavers, ed in una di destra, di
cui facevano parte, tra gli altri, Ferrara, Rodotà,
Jannuzzi, che auspicava il riavvicinamento del P. R.
ai repubblicani e ai socialdemocratici.
Nel secondo congresso
del partito (maggio 1961) la sinistra radicale
approfondì il distacco dalla linea della segreteria
del partito, ormai convertita all'unica strategia
politica che sembrava ai dirigenti radicali
realizzabile per l'immediato futuro: l'accordo tra la
democrazia cristiana ed i socialisti, nella speranza
di imporre al partito di maggioranza relativa una
politica di riforme in senso liberale. Pannella
invece proponeva una linea di alternativa netta e
rigida, verso la destra conservatrice e clericale,
insistendo sull'importanza dell'alleanza dei laici
con il partito comunista, essenziale, secondo lui,
per la rottura dell'equilibrio conservatore e per la
vittoria delle istanze laiche proprie dei radicali,
come l'abolizione del Concordato e l'introduzione del
divorzio. Una linea, questa, certamente
inconciliabile con i dichiarati propositi della
dirigenza del partito radicale di ridimensionare
attraverso il centro sinistra la ingombrante presenza
comunista.
Le tesi della sinistra
giovanile vengono liquidate come segno di impazienza
e d'avanguardismo tipico di una gioventù sognatrice
e arrabbiata. Nicolò Carandini, a commento del
congresso così scriveva sul Mondo: "il solo
rilevante slittamento è stato circoscritto ad una
minoranza del gruppo giovanile, mosso da un
sentimento violento ma anche commovente di
inquietudine ma anche di insofferenza, fenomeno di
impazienza, di ricerca angosciosa di verità
sfuggenti e di novità avventurose, che esulano dalla
limpida linea del partito e da cui le punte giovanili
di ogni altro partito non sono esenti" (28).
Le conseguenze del
dissenso furono per la sinistra ben più concrete di
un paterno ed ironico rimprovero: il gruppo di
maggioranza fece confluire parte dei suoi voti sul
gruppo giovanile di destra, cosicché la sinistra
riuscì ad eleggere solamente tre dei suoi esponenti
nel Consiglio Nazionale (Roccella, Teodori, Gardi),
nonostante che la sua forza effettiva fosse superiore
(29).
Il risultato del
secondo Congresso radicale sacrificò pertanto la
sinistra sull'altare di un'apparente unità del
partito.
In effetti l'unità
non fu salvata, perché subito dopo (luglio 1961) si
aprì una polemica all'interno della segreteria
contro la decisione di Piccardi e di Scalfari, allora
vicesegretario, fautori di un'alleanza sempre più
stretta tra partito radicale e socialisti, di fare
aderire il partito alla lega dei comuni democratici,
considerata dal resto della maggioranza
un'organizzazione di carattere "frontista"
(30).
La sinistra si
mantenne fuori dalle polemiche e cominciò ad
organizzarsi: nell'ottobre del 1961 uscì il primo
numero di un bollettino mensile di informazione
politica con la testata "Sinistra
Radicale", che verrà pubblicato per circa un
anno, fino all'ottobre del 1962. Dopo tale data la
sorte della corrente di sinistra si confonde con
quella dell'intero partito, dato che solo ad essa ne
rimane affidata la sopravvivenza.
Il giornale era
diretto da Giuliano Rendi e redatto in gran parte da
Gianfranco Spadaccia, Massimo Teodori ed Angiolo
Bandinelli (31).
"Sinistra
Radicale" diventò l'unico veicolo per
diffondere le posizioni della sinistra radicale, in
particolare l'opposizione al centro-sinistra. Marco
Pannella, in un editoriale pubblicato sul primo
numero del bollettino, intitolato significativamente
"Una politica di abdicazione", sostiene che
il centro-sinistra avrebbe posto "al centro
della vita politica obiettivi tecnici a soluzione
obbligata per seppellire quelli politici che i
radicali hanno avuto il merito di imporre
all'attenzione del paese; si assumono per fini,
strumenti che possono servire idee e finalità
contrapposte" (32).
La programmazione
economica, che secondo i socialisti era lo strumento
principale per trasformare la società, una specie di
mito degli anni '60 fatto proprio dai tecnocrati
della sinistra, veniva giudicata da Pannella
incongrua perché fine a se stessa: posporre il
primato della politica sarebbe stato pericoloso
perché le soluzioni dei tecnici, ad esempio le
scelte fondamentali in economia, dovevano venire solo
dopo una chiara scelta politica.
Quindi con la
direzione del paese sempre in mano alla D.C., cioè
alla conservazione, non sarebbe cambiato nulla
neanche con la programmazione più rigorosa, poiché
sarebbe stata usata ai fini di chi deteneva il
potere. Senza un mutamento politico sostanziale a
monte ogni programma, anche il più innovatore,
sarebbe stato vanificato (33).
Per realizzare tale
cambiamento la sinistra radicale ipotizzava l'unità
critica a sinistra con il partito comunista, in
definitiva la ricerca di pratiche convergenze con il
P.C.I. su problemi specifici, mantenendo però
l'autonomia della sinistra democratica rispetto ai
comunisti.
Le scelte della
sinistra radicale si traducevano operativamente, in
un impegno quotidiano, concreto, sul terreno
dell'antimilitarismo, campo di lotta apparentemente
ristretto, ma l'unico consentito ad una corrente di
minoranza, formato di pochissimi militanti (34).
Le iniziative dei
giovani radicali si svilupparono in due direzioni, le
stesse che in futuro caratterizzeranno l'attività
del rinato partito radicale: le azioni dirette e la
costituzione di associazioni e comitati su progetti
circoscritti sui quali realizzare quell'unità laica
delle forze che i radicali avevano già sperimentato
nell'U.G.I. Appartengono al primo metodo di lotta la
partecipazione alla prima marcia della pace
organizzata in Italia (Perugia-Assisi, settembre
1961) ed alla successiva marcia pacifista, la
cosiddetta "marcia dei 100 Comuni"
(Camucia-Cortona, marzo 1962) (35).
Per quanto riguarda
l'associazionismo, la sinistra radicale costituì
insieme con il movimento comunista per la pace ed il
Gruppo Non Violento, di ispirazione cattolica e
legato ad Aldo Capitini, la Consulta Italiana per la
Pace.
Tuttavia i radicali
abbandoneranno nel 1964 quest'ultima organizzazione
poiché essa, condizionata dalla rappresentanza
comunista, avrebbe finito per svolgere un'azione
meramente propagandistica ed allineata su posizioni
filo-sovietiche. I radicali promossero, poi, la
fondazione del Comitato per il disarmo atomico e
convenzionale dell'area europea, che aderirà nel
febbraio 1963 alla costituzione dell'International
Confederation for peace and disarmament (Oxford)
(36).
Mentre la sinistra
promuoveva queste iniziative, il vecchio partito
radicale stava per concludere la sua esistenza, con
la diaspora progressiva del gruppo dirigente, tra
polemiche anche personali. Mentre la dirigenza era
occupata a scambiarsi accuse, la sinistra conquistava
la maggioranza nelle sezioni di Roma e di Milano
(37).
Sicché, alle elezioni
comunali romane del 10 giugno 1962 la sinistra
presentò una lista composta interamente di suoi
esponenti, ottenendo però poco più di un migliaio
di voti e nessun seggio (38).
Nell'ottobre 1962,
dopo le dimissioni di Ernesto Rossi e Leopoldo
Piccardi, e di tutto il gruppo a loro legato, la
sinistra si assunse da sola la responsabilità della
sopravvivenza del partito.
3. Partito nuovo,
politica nuova
La prima
manifestazione del nuovo partito radicale fu quella
del 9 e 10 marzo 1963, quando i gruppi sopravvissuti
allo sfaldamento del vecchio partito si riunirono a
Bologna in una sorta di Consiglio Nazionale
allargato, convocato per decidere i nuovi contenuti
politici e l'atteggiamento da tenere nelle imminenti
elezioni politiche (39). E la linea individuata nella
mozione politica approvata dal C.N., è la stessa
già assunta dalla corrente di sinistra in seno al
partito in crisi.
La mozione confermava
l'opposizione netta e intransigente al
centro-sinistra, motivandola con l'analisi degli
aspetti antidemocratici caratterizzanti lo stato
italiano, risalenti al periodo fascista, ma che
persistevano per diretta responsabilità della
Democrazia Cristiana, o di centri di potere in un
modo o nell'altro facenti capo ad essa: il Concordato
tra Stato e Chiesa, il comportamento repressivo delle
forze dell'ordine, l'asservimento della pubblica
amministrazione ad interessi di parte, la crisi della
scuola pubblica, la non attuazione delle regioni
(40). Il compito che si prefiggevano i nuovi radicali
in contrasto con le posizioni allora dominanti fra i
partiti della sinistra non marxista, era di
promuovere un vasto schieramento unitario per
un'alternativa di governo alla D.C., uno schieramento
non egemonizzato dal partito comunista, anche se con
la sua necessaria partecipazione. Questa posizione,
ancora appena abbozzata, in effetti poteva isolare il
partito radicale sia dalla sinistra democratica che
ormai si era indirizzata verso una politica di
collaborazione con la D.C., sia dal partito comunista
che continuava dal secondo dopoguerra a cercare un
incontro, da una posizione di prevalenza a sinistra,
con le masse cattoliche; e andava a scompaginare i
piani dei partiti di sinistra (41). L'unità della
sinistra viene pensata come espressione nazionale di
una più generale politica europea: di fronte allo
schieramento autoritario che i radicali vedono
formarsi all'estero come in Italia, (42) era
necessario collegarsi con quelle forze di sinistra
europee che si differenziano sia dalla
socialdemocrazia sia dal comunismo. Questa analisi
investiva anche il blocco sovietico, in cui le
strutture burocratico-militariste rappresentavano
indiscutibilmente il pilastro principale di un potere
totalitario, mentre una vera società socialista
doveva essere, secondo i radicali, senza esercito.
Il partito si trovò
subito davanti al problema di come gestire le
imminenti elezioni politiche del 28 aprile 1963, le
prime dopo la nascita del centro-sinistra. Fu deciso
di non presentare alcuna lista, considerata la
precaria situazione del partito: ci si limitò ad
invitare gli elettori a sostenere con il proprio voto
i quattro partiti della sinistra (P.R.I., P.S.D.I.,
P.S.I., P.C.I.). Un'indicazione di voto che non va
interpretata come un semplice ripiego, poiché si
inserisce perfettamente nel progetto politico a lungo
termine dei radicali: l'unità della sinistra in
vista della sua candidatura al governo del paese. La
sezione romana del P.R., la più attiva fra tutte,
metteva in chiaro la decisione del Consiglio
Nazionale, invitando gli elettori romani a scegliere
all'interno dei quattro partiti quei candidati che
avessero spinto il rispettivo partito di appartenenza
verso una politica unitaria e di opposizione alla
D.C. Ad esempio, per il partito socialista si
sollecitavano gli elettori ad appoggiare la corrente
di sinistra capeggiata da Tullio Vecchietti (43).
I radicali si
impegnarono fortemente nella campagna elettorale,
diffondendo un opuscolo dal titolo "Il voto
radicale", nel quale erano raccolte alcune
dichiarazioni di voto di noti esponenti della cultura
italiana, fra i quali Pasolini, Risi, Eco, Sciascia.
Questi intellettuali avevano raccolto l'invito a
votare per i quattro partiti di sinistra,
qualificando la loro scelta come voto radicale anche
se dato ad un altro simbolo: lo scopo dichiarato era
spingere i gruppi dirigenti di quei partiti verso la
politica unitaria e di alternativa proposta dai
radicali.
Coerentemente con tale
strategia, il P.R. rifiutò un'offerta del P.C.I. di
candidare esponenti radicali nelle liste comuniste,
con la garanzia di eleggerne almeno tre alla Camera;
così come rifiutò la proposta di Pajetta di dar
vita a raggruppamenti in appoggio a candidature di
indipendenti di sinistra nelle liste comuniste (44).
Dopo la mobilitazione
elettorale il P.R. si ritrovò isolato, con una
struttura organizzativa da inventare e scarso
seguito, dovuto anche alla difficoltà di raggiungere
con i suoi messaggi la pubblica opinione. Per
superare questa impasse, il gruppo dirigente del
partito, dopo la riunione del consiglio nazionale
dell'8 e 9 giugno 1963 dette vita ad una agenzia
quotidiana di stampa, "Agenzia Radicale", a
cui affidare il rapporto con i mass media, oltre ad
una funzione di coagulo dei militanti del partito,
come vedremo meglio poi (45). Le principali campagne
giornalistiche dell'Agenzia Radicale, furono quella
indirizzata contro l'ENI e quella sul tema
dell'assistenza pubblica. La prima, iniziata nel '63
e condotta fino al '66, si rivolgeva sia contro la
politica economica dell'ente di stato, sia,
soprattutto, con documentate denunce, contro la
politica di corruzione che l'ENI praticava nei
confronti della stampa e del potere politico, tanto
da provocare anche l'apertura di un'inchiesta da
parte della magistratura romana. La seconda campagna,
partita nel '65, denunciò l'intreccio fra gestione
dell'assistenza pubblica e potere politico, con
particolare riferimento all'ONMI (Opera Nazionale
Maternità Infanzia) di Roma, che, secondo i
radicali, fungeva da macchina elettorale per la D.C.
A causa di queste denunce fu incriminato il Sindaco
di Roma Amerigo Petrucci (46).
La prima vera e
propria iniziativa del partito venne promossa nel
1964, a sostegno del piano presentato dal senatore
socialdemocratico austriaco Hans Thirring che
prevedeva il disarmo unilaterale e la
smilitarizzazione di un'area dell'Europa centrale
(47). Il P.R., attraverso il C.D.A.C.A.E. (Comitato
per il disarmo atomico e convenzionale dell'area
europea, fondato, come si è visto, dalla sinistra
radicale nel 1962) diffuse un appello per invitare i
cittadini a sottoscrivere il piano. Nonostante
l'esiguità del partito, l'iniziativa ebbe successo:
aderirono alla proposta circa 400 consigli comunali
con deliberazioni ufficiali, nella stragrande
maggioranza comuni amministrati dalle sinistre.
Furono, in
quell'occasione, raccolte ed inviate al partito
radicale, migliaia di firme di cittadini di
provenienza politica e sociale diverse (48). Questo
movimento finì, però, in un nulla di fatto. Nessun
giornale di sinistra dette notizia dell'iniziativa e,
cosa più importante, non si riuscì a trovare un
canale istituzionale per renderla operativa.
Peraltro, l'appello diffuso dai radicali esprimeva
un'idea di pacifismo non accettata dalla sinistra
italiana, in particolare dal partito comunista, che
non condivideva l'aspirazione all'abolizione degli
eserciti, intesi come struttura autoritaria, pilastro
di potere che si sottrae al normale controllo
democratico, sia nei paesi a regime comunista, sia
nelle democrazie parlamentari.
Questa posizione
veniva considerata settaria dai comunisti, che in
quell'epoca perseguivano ancora una politica
pedissequamente filo-sovietica, schierati a favore
del blocco orientale, pur mascherandosi dietro un
neutralismo di maniera, ma a senso unico, cioè
contro il sistema militare dell'occidente. Così si
spiega la polemica sui temi del disarmo, in relazione
alla condanna da parte dei radicali del riarmo
nucleare dei paesi socialisti.
I radicali presero poi
a criticare i metodi adottati dal P.C.I. in seno alla
"consulta della pace", indirizzata dai
comunisti in senso strettamente pacifista per puri
motivi di propaganda. E proprio per questo i radicali
finirono con il ritirare la loro adesione dalla
Consulta nel 1964 (49).
S'inquadra nel
progetto radicale di provocare la nascita di
movimenti collettivi (con il fine ultimo di favorire
la costantemente inseguita unità delle sinistre)
l'invenzione di un "Comitato promotore del
sindacato nazionale della scuola pubblica",
sempre nel 1964 (50). Il Comitato fu promosso da
circa 200 insegnanti comunisti, socialisti e
indipendenti, anche con la partecipazione di numerosi
studenti, su iniziativa del P.R. L'organismo
scolastico raccolse alcune centinaia di adesioni a
livello nazionale.
Non si trattava per i
radicali di un fatto isolato ed occasionale, ma della
continuazione di vecchie battaglie laiche, risalenti
agli anni '50, quando dalle colonne de "Il
Mondo" si difendeva l'imparzialità della
funzione educatrice della scuola di stato e la
libertà di insegnamento (51). La sterilità dei
risultati passati aveva però convinto il gruppo
dirigente radicale che l'idea vincente era quella di
riunire in un movimento proveniente dal basso, non
dunque in una burocratica emanazione di vertici
sindacali e partitici, le componenti laiche e
democratiche della scuola e, in una prospettiva più
ampia, del paese.
Tuttavia anche
quest'iniziativa del comitato per la scuola non fu
portata a termine poiché si rischiava una rottura
definitiva con la C.G.I.L. e con i partiti di
sinistra, una prospettiva contraria al fine che i
radicali si prefiggevano.
Nello stesso 1964, si
presentava davanti al partito un appuntamento
importante: le elezioni amministrative parziali del
novembre. La direzione del P.R. il 16 settembre 1964
rivolse un appello agli elettori a mezzo
dell'"Agenzia" col quale invitava a votare
per le liste del P.S.I.U.P.: vi si ribadiva che
"l'obiettivo fondamentale dei radicali era il
rinnovamento della sinistra italiana e la
ricostituzione della sua unità per creare una chiara
alternativa di potere alla D.C." (52).
Proprio nello stesso
periodo i radicali possono beneficiare di una riprova
delle loro prospettive e del loro realismo politico
con l'elezione di Giuseppe Saragat alla Presidenza
della Repubblica, grazie ai voti di comunisti,
socialisti, socialdemocratici, e democristiani che,
per ripicche correntizie interne, optarono per il
candidato laico. L'imporre alla D.C. un candidato di
sinistra, un esempio per i dirigenti del P.R. della
possibilità concreta di un'unione delle sinistre,
perlomeno su obiettivi limitati, ma che avrebbe
potuto evolversi verso un'intesa permanente su
tematiche progressiste (53).
Del resto,
l'insistenza radicale sull'unità delle sinistre
corrispondeva a fermenti analoghi presenti sia nel
P.C.I., a livello teorico, sia nel P.S.I, che si
accingeva a fare un primo passo concreto con la
prossima riunificazione con il P.S.D.I. Ma è
necessario ricordare che i radicali propugnavano
un'unità della sinistra in modo del tutto diverso
rispetto ai due maggiori partiti, laicamente, come
mobilitazione, dal basso, convergente su alcuni temi.
E infatti l'"Agenzia radicale" accolse sì
positivamente la proposta lanciata da Giorgio
Amendola su "Rinascita" (ottobre 1964) di
convergenza delle due ali storiche del socialismo in
un "partito del lavoro"; tuttavia i
radicali rimanevano diffidenti poiché l'invito
dell'esponente comunista avrebbe potuto sfociare in
un'intesa di tipo verticistico, cioè in
contraddizione con quella "originale capacità
creativa nella mobilitazione" necessaria,
secondo la concezione radicale, per costituire le
premesse per una vera svolta a sinistra (54).
La costituzione del
C.U.S.I. (Comitato per l'Unità della Sinistra
Italiana) e quindi di un movimento popolare, fu la
risposta - agosto 1965 - dei radicali a questi
fermenti a sinistra (55). Il Comitato ebbe come
promotori i radicali e singoli esponenti comunisti,
socialisti, repubblicani ed indipendenti. L'intento
dei radicali era di utilizzare l'organismo come
gruppo di pressione trasversale a tutti i partiti,
soprattutto per sollecitare il dibattito al livello
dei militanti di base. Il CUSI non fu
convenientemente apprezzato dalle forze ufficiali a
cui si rivolgeva: secondo il P.R. l'iniziativa fu
boicottata in tutti i modi, particolarmente con il
silenzio stampa (56).
La direzione nazionale
del partito, riunitasi a Roma il 22 settembre 1965,
approvò una risoluzione in cui si criticavano sia
l'unificazione tra P.S.D.I. e P.S.I., sia la proposta
dei comunisti di unificazione con il P.S.I.U.P. e con
le minoranze di sinistra del P.S.I. (57). Il punto
debole di tutto questo movimento a sinistra i
radicali lo individuano nel tipo di organizzazione
dei partiti interessati: strutture di tipo
burocratico, che in quanto tali miravano solo a
perpetuare se stesse, organiche ai rapporti politici
costituiti. Evidentemente, secondo i radicali, tali
organizzazioni non potevano per loro stessa natura
promuovere cambiamenti rivoluzionari o anche solo
progressisti nel sistema politico sociale. Da questa
analisi conseguiva che una questione pregiudiziale da
affrontare era quella di procedere al rinnovamento
delle strutture, in modo che le rappresentanze
politiche organizzate potessero esprimere una reale
volontà di lotta democratica che emanasse dalle
basi. E dunque l'accusa alle sinistre di aver messo
da parte i propri fini originari e di puntare in
realtà ad una gestione consociativa e quindi
immobilistica del governo, mascherandosi dietro una
pseudo opposizione. La ricetta del P.R. contro simili
operazioni trasformistiche era di fare una scelta
chiara ed esplicita su tutto quello che una vera
forza di sinistra, in quanto tale, dovrebbe proporsi,
cioè l'alternativa alla destra, nel caso italiano
alla D.C. Il chiarimento doveva essere interno ai
partiti, nel senso di prevedere la trasformazione o
l'abolizione degli apparati.
La fondazione del CUSI
rispondeva a tale prospettiva di riforma delle
strutture. Posta però in tali termini, la proposta
radicale incontrò un netto rifiuto da parte della
sinistra.
Del resto il disegno
di sempre del partito comunista, prima con Togliatti,
poi con Longo e con Berlinguer, era di giungere ad
una collaborazione fra comunisti e cattolici, nella
convinzione che senza tale accordo sarebbe stata
impossibile la realizzazione di una democrazia
progressista in Italia. Evidentemente questa
strategia comportava una politica di
"appeasement" nei confronti della
Democrazia Cristiana e della Chiesa, e
l'accantonamento di qualsiasi questione che potesse
sollevare un conflitto, una contrapposizione netta
(58). I comunisti non poterono, quindi, accettare ed
attuare la dichiarazione di "volontà
rivoluzionaria" richiesta dal P.R. come
pregiudiziale per una seria prospettiva unitaria, né
volevano, probabilmente, collaborare con un partito
che considerava la propria autonomia irrinunciabile e
che proprio nel '65/'66 faceva propria la battaglia
per l'introduzione del divorzio, argomento che il
P.C.I. avrebbe volentieri evitato.
Il partito socialista
era, invece, in quegli anni, impegnato nei
contrastati governi di centro-sinistra e nelle
modalità di collaborazione con la D.C. e gli altri
partiti di centro. Oltre tutto, nel 1965, era sulla
traiettoria di arrivo il processo di unificazione con
il P.S.D.I. di cui si parlava già dal 1956, con
l'intento non tanto di aggregare forze di una
possibile alternativa, quanto di accrescere il peso
contrattuale dei socialisti all'interno della
coalizione di centro-sinistra.
Il partito radicale,
nel 1966, fa sentire la propria opinione sulle scelte
dei due maggiori partiti di sinistra attraverso due
interventi assai polemici da parte di Pannella.
La prima provocazione
viene da un'intervista rilasciata nell'agosto del
1966 al giornale pacciardiano "Nuova
Repubblica" (59). L'oggetto della discussione è
il partito comunista e la politica da questi seguita
fin dal primo dopoguerra.
Secondo Pannella il
P.C.I., pur professando a parole la più dura
opposizione nei fatti ha seguito la strada della
collaborazione con le forze moderate nella fase della
cosiddetta ricostruzione, acquisendo progressivamente
posizioni di potere nella società civile,
soprattutto per mezzo della cogestione delle
strutture corporative del capitalismo di stato,
eredità del periodo fascista. Riguardo a
quest'ultima questione Pannella riprende
l'impostazione del vecchio partito radicale e de
"Il Mondo", espressa soprattutto da Ernesto
Rossi, il quale, sempre più spesso, era indicato dai
radicali come ispiratore del loro partito.
L'importanza
dell'intervista al settimanale diretto da Pacciardi
è nella esplicitazione da parte del leader radicale
della futura strategia del partito: mettere il P.C.I.
di fronte alle proprie responsabilità di partito
rivoluzionario e di sinistra, denunciando
l'ambiguità di certe sue scelte e le connivenze con
il partito di maggioranza relativa (60), al fine di
costringere i comunisti che di fronte al proprio
elettorato ed all'opinione pubblica non potevano
certo permettersi aperte complicità moderate, a
schierarsi apertamente a sinistra. Il tentativo dei
radicali, quindi, era quello di forzare le
contraddizioni insite nella linea del P.C.I.,
cercando di sbloccare la situazione di stallo
venutasi a creare in Italia dal dopoguerra, che
impediva alle sinistre di conquistare il potere.
Pannella coglieva lo
snodo essenziale della "questione
comunista", un partito che non riusciva a farsi
vera forza di opposizione parlamentare - con concreta
possibilità di arrivare al governo perché non
compiva, sul piano teorico e politico, una scelta
chiara, che lo disancorasse definitivamente dal
blocco sovietico.
In questo modo il
P.C.I., da una parte partecipava al gioco
democratico-parlamentare, comportandosi di fatto come
un partito socialdemocratico, dall'altro non si
staccava dalla sua matrice storica: il che aveva
generato quella doppiezza nella politica del partito
di Togliatti dalla svolta di Salerno in avanti, che
Pannella auspicava venisse superata al fine di
rendere possibile un'alternativa di sinistra.
E' ovvio che i
comunisti abbiano subito liquidato le critiche di
Pannella con un astioso trafiletto pubblicato
dall'"Unità" il 24 agosto 1966 (61). E del
resto non era realistico pretendere in quegli anni
una pubblica autocritica da parte dei comunisti,
ancora chiusi a riccio sul piano tattico e
ideologico.
In quell'occasione il
segretario del partito radicale venne tacciato di
anticomunismo, un'accusa ingiusta, tenuto conto che
Pannella aveva sempre cercato il rapporto con il
P.C.I., convinto com'era che la sinistra non avrebbe
potuto conquistare il governo del paese rimanendo
divisa, e quindi non si poteva prescindere dai
comunisti. Oltretutto la posizione di Pannella era in
aperto contrasto con le idee degli intellettuali de
"Il Mondo", che erano più anticomunisti
che antidemocristiani. Nonostante gli attacchi, alle
amministrative del novembre successivo (1966) il
partito radicale si presentò a Ravenna in liste
comuni con il partito comunista, riuscendo a fare
eleggere due consiglieri comunali radicali (62).
Per quanto riguarda i
socialisti, nel dicembre 1966, viene pubblicato un
lungo articolo di Pannella su "Corrispondenza
Socialista", che rifletteva i deliberati della
direzione del partito radicale sul problema
dell'avvenuta unificazione P.S.I-P.S.D.I. (63).
Pannella spiegava il motivo del rifiuto dei radicali
di aderire al nuovo partito unificato.
Contestava, anzitutto,
il metodo seguito nel processo di riunificazione, che
ha avuto, come esito, il rafforzamento della
burocrazia, per effetto della proclamazione della
immovibilità dei dirigenti. Come si vedrà più
avanti, il problema della struttura dei partiti
rimaneva sempre, per i radicali, il più importante.
Secondo Pannella, il
partito socialista unificato aveva fallito e avrebbe
fallito in futuro anche nella realizzazione unitaria
di quelle riforme che le socialdemocrazie europee
avevano già attuato da tempo: la riforma sanitaria,
la soluzione del problema della casa, un moderno
diritto di famiglia, tutti settori in cui l'Italia
era molto lontana dalla civile Europa. Le
possibilità del nuovo partito non vanno molto oltre
quella di strappare maggior potere contrattuale di
sottogoverno alla D.C.
L'invito dei radicali,
in sintesi, era di abbandonare la deleteria politica
delle cose che non porta poi neanche a risultati
limitati per compiere, finalmente, scelte ideali e
programmatiche. Era necessario, secondo i radicali,
un dibattito approfondito per chiarire quale tipo di
società, ben delineata nei suoi contorni, i
socialisti volevano realizzare, una volta preso il
potere; la mancanza di un programma avrebbe pesato
negativamente al momento del voto.
I nodi da sciogliere
erano i seguenti: quale struttura economica
costruire, cercando di superare la società dei
consumi, inaccettabile in una visione socialista, e
il capitalismo di Stato, rivelatosi incapace di
garantire l'inserimento delle masse popolari nella
gestione del potere economico; il problema degli
eserciti, pilastro comune alle società
capitalistiche ed a quelle comuniste, che non si
riduce, per i radicali, ad una mera questione di
pacifismo, ma ha conseguenze sulla struttura della
società; il problema della laicità dello Stato, sul
quale i socialisti si mostrano reticenti. E' rispetto
a queste questioni, suggerivano i radicali, che deve
formarsi un'unità della sinistra, comunisti
compresi; solo con un simile programma ci sarebbe
potuta essere una prospettiva immediata di conquista
del potere.
Il compito che il
P.R., in proprio, si proponeva, era quello di
"liberare" il P.S.I. dalla formula di
centro-sinistra, individuando i punti possibili di
rottura dell'equilibrio governativo per spronare i
socialisti a spostarlo più a loro vantaggio, e
magari ad uscirne.
La pressione dei
radicali sui partiti di sinistra per l'immediato non
doveva sortire risultati entusiasmanti: i comunisti,
i socialdemocratici e i socialisti sembrarono quasi
indifferenti, se non ostili, alle proposte
pannelliane. L'intuizione di Pannella, invece, si
rivelò vincente una volta applicata ai diritti
civili: era appena iniziata, infatti, seppure in
sordina, la battaglia per l'introduzione del
divorzio, intorno alla quale si cominciava a
coagulare il consenso anche dei partiti di sinistra.
Insomma una politica
"cartellista", cercare adesioni su singole
battaglie politiche e non su piattaforme teoriche,
questa è la linea che paga per il partito radicale.
4. Primi nuclei per
"un partito non partito"
Dopo la dissoluzione
del vecchio P.R., i radicali si preoccuparono di
trovare, per se stessi, un'organizzazione che non
ricadesse nell'errore di istituzionalizzarsi talmente
da provocare quella che si definisce sostituzione dei
fini: il fine principale diviene, per la struttura,
mantenere se stessa, sostituendo lo scopo ideale del
partito.
I primi documenti
organizzativi del nuovo partito radicale recano la
data del febbraio 1963. Si tratta di comunicazioni
interne, firmate, per la segreteria centrale, da
Marco Pannella e da Massimo Teodori, che riguardavano
il riordinamento della posizione degli iscritti al
partito (probabilmente meno di cento) ed una sorta di
censimento di simpatizzanti ed amici. Da queste
circolari risulta che a reggere il partito era
effettivamente solo il gruppo romano, animato da
Pannella, Teodori, Spadaccia, Bandinelli, Stanzani ed
altri; era rimasto, poi, un esiguo gruppo milanese,
facente capo a Mario e Luca Boneschi a Umberto
Emiliani; erano ancora nel partito i consiglieri
comunali, "ufficialmente non dimessi",
Balestrieri a Genova, Salsa e Donadei in Piemonte,
Fedi a Pistoia, Ponci a Como, i consiglieri
dell'Aquila, Pescara, Varese, Civitavecchia, e di
altri centri minori (64).
Alla fine del 1962,
era stata eletta una segreteria nazionale provvisoria
composta da Marco Pannella (Roma), Luca Boneschi
(Milano) e Vincenzo Luppi (Bologna) (65).
Il primo e più
pressante problema da affrontare per la dirigenza
"costituente" era la riorganizzazione delle
scarse file del partito suicidatosi per la volontà
dei suoi stessi fondatori, ricercando però un
modello di aggregazione più funzionale ai propri
intendimenti. Era un punto e a capo: con una
circolare, difatti, del 12 marzo 1963, si diffonde un
invito ai simpatizzanti "a ricominciare".
C'è da aggiungere che
lo stesso vecchio partito aveva sempre avuto una
struttura organizzativa piuttosto fragile, quasi
inesistente.
Era costituito da
sezioni sorte, in modo però disordinato, dal momento
che nessuno degli uomini più rappresentativi del
partito vi si era dedicato con costanza e passione
disdegnando quasi i problemi di tecnica
organizzativa, mentre privilegiavano l'attività
giornalistica e intellettuale (66). I nuovi radicali,
quindi, ereditavano ben poco della vecchia
organizzazione e sentivano, invece, la necessità di
strutture innovative, in modo da essere direttamente
presenti nella politica, in forma diffusa e non
elitaria. L'atteggiarsi nuovo e diverso di questo
nascente partito radicale, nel contesto
politico-sociale in cui muove i primi passi, non era
provinciale e precorreva i tempi: non provinciale ed
attuale perché i diritti individuali (civili) di cui
il P.R. si faceva portatore, allora indifferenti ai
partiti di massa, si stavano manifestando nella
società delle democrazie occidentali. Sicché le
strutture del nuovo partito dovevano essere aperte,
agili, non burocratiche, per attuare i nuovi bisogni.
I radicali cercarono
di mettere, subito, in pratica la loro idea di
partito. E il primo proposito, inserito nella mozione
politica approvata dal C.N. del marzo 1963, era
quello di riorganizzarsi su basi federative,
affidandosi all'autonomia dei gruppi locali, un
federalismo inteso come metodo per conciliare
l'autonomia dei singoli iscritti con la necessaria
unità del partito (67). Comunque, più che
all'elaborazione di una precisa forma strutturale,
per il momento si decise di affidarsi alla
sperimentazione di ogni singolo gruppo, in ogni caso
rifiutando un modello gerarchico.
Ricevono poi un primo
assetto gli organi dirigenti del partito con la
nomina di Elio Vittorini a presidente, e la
riconferma di Marco Pannella, Luca Boneschi e
Vincenzo Luppi alla segreteria; nomine che avvennero
nel corso dello stesso Consiglio Nazionale.
A questo punto, stante
il rifiuto di apparentarsi con le altre forze
politiche di ispirazione comune, e stante il
desiderio di rimanere un "unicum" nel
panorama politico italiano, i radicali dovevano pur
trovare una soluzione che li facesse essere presenti
nel Paese con efficacia, nonostante la limitatezza
del nucleo originario.
Fu così convocato un
Consiglio Nazionale per i giorni 8 e 9 giugno 1963 al
fine di decidere sull'alternativa "crescita del
partito o suo scioglimento" (68). Stabilito di
proseguire, si decise di attuare una struttura
diversa; sospendendo del tutto le attività degli
organi centrali, e invitando le sezioni ed i nuclei
locali a sviluppare autonomamente le proprie
iniziative per impostare la riorganizzazione del
partito partendo dal basso. I gruppi locali,
federandosi, dovevano dare origine all'organo
centrale del partito, che doveva essere inteso
semplicemente come momento di coordinamento di
associazioni locali autonome.
Le comunicazioni
interne fra i gruppi locali autonomi vennero affidate
all'"Agenzia Radicale" (luglio 1961).
L'agenzia fu la prima struttura di supporto alla
costituenda organizzazione del partito: avrebbe
dovuto collegare le attività del gruppo centrale
romano con i gruppi periferici (69). Inoltre aveva
anche la funzione di mettere in comunicazione il
partito con i mass-media, e quindi con il Paese, come
abbiamo visto in precedenza. Il gruppo romano scelse
un tale strumento di comunicazione anche perché era
il più adatto a chi non voleva perdersi in dibattiti
teorici, ma intervenire con efficacia e tempestività
nello scontro politico giorno per giorno.
L'Agenzia non era
soltanto un laboratorio di idee, ma un modo di fare
politica attiva e militante: le denunce, le proposte,
le campagne giornalistiche sui problemi di attualità
partivano e venivano enfatizzate da questo foglio
quotidiano.
Tuttavia le vivaci
campagne giornalistiche promosse dal gruppo romano
attraverso l'Agenzia non servirono ad aumentare gli
iscritti al partito, che non superarono le cento
unità negli anni '64/'66. L'esiguità delle
strutture organizzative si può anche desumere dai
dati del bilancio del 1965, che non raggiungeva gli
otto milioni di lire (70). Il partito era attivo
praticamente soltanto a Roma con presenze solo
sporadiche in altre città.
Si avvicinò al
partito in questo periodo solamente un piccolo gruppo
milanese, guidato da Carlo Oliva e Lorenzo
Strik-Lievers, proveniente dalle fila della sinistra
studentesca, aggregatosi intorno al giornale
"Libera critica" ed al "Centro
Salvemini". Il gruppo milanese, tuttavia, aveva
una concezione diversa del partito rispetto a quello
romano: era dell'idea di costituire un partito che
fosse un'avanguardia laica e libertaria della nuova
sinistra, similmente al P.S.I.U.P. rispetto al
partito socialista (71).
L'avvicinamento della
componente milanese non recò, in effetti, alcun
vantaggio al farsi del partito perché, la cultura,
la storia, le biografie personali del nuovo gruppo
non erano omogenee a quelle del nucleo centrale del
partito raccolto intorno all'"Agenzia
Radicale" di Pannella. In effetti la tenuta del
partito, nonostante le difficoltà oggettive, le
incomprensioni, era dovuta alla massima omogeneità
culturale ed agli stretti vincoli ideali e personali
fra i componenti del gruppo romano, vincoli nati
dalla partecipazione a comuni lotte ai tempi
dell'U.G.I Questo dava piena coesione al nucleo
romano ma allontanerà alcune forze affini, che
avevano una concezione del partito tradizionale, che
i romani ritenevano ormai superata.
Questi si mossero per
fare il partito nuovo immaginato negli anni
universitari secondo una linea generale che mirava al
rinnovamento delle organizzazioni politiche di
sinistra in Italia, non inserendosi nei vertici della
classe politica nazionale, ma sperimentando, in
proprio, un nuovo modello organizzativo, il cui fine
ultimo era quello di favorire l'unità della
sinistra. Un modello che avrebbe dovuto assumere la
funzione di un contenitore di tutte le componenti che
si collocavano su posizioni progressiste, dalla
conformazione elastica in modo che esso potesse
comprendere gruppi di diverse provenienze, ma con
obiettivi comuni.
Tant'è che Pannella
(segretario provvisorio del partito) in una
intervista rilasciata al settimanale
"Astrolabio", nel maggio 1967 (72),
all'indomani del congresso di rifondazione, rendeva
noto che la segreteria nazionale aveva deciso di
sospendere il tesseramento dal 1963 in avanti,
nonostante le critiche provenienti da simpatizzanti
di varie città italiane, che vedevano nel rifiuto di
ricevere iscrizioni da parte della segreteria
nazionale l'impossibilità di costituire dei gruppi
locali.
La scelta radicale di
non articolare la struttura del partito sul
territorio era stata determinata da un motivo
strettamente politico: per Pannella era essenziale
arrivare al congresso con un partito in cui non
pesasse molto l'iscritto tipico di tutti i partiti,
il cui contributo era limitato all'acquisto della
tessera ed a una partecipazione passiva alle
attività politiche. I dirigenti radicali avevano
preferito aggregare coloro che avevano partecipato o
partecipavano alle numerose e faticose battaglie
radicali (divorzio, iniziative antimilitariste,
comitati per l'unità della sinistra, sindacato
nazionale scuola pubblica, e altre), insomma i
"militanti" sempre disponibili e fortemente
motivati sulle tematiche del partito.
La strategia adottata
dai radicali ebbe un risultato: riuscirono ad
aggregare migliaia di persone intorno ad alcune
battaglie specifiche e concrete, ma non ad aumentare
il numero degli iscritti, quando si decise di
riaprire il tesseramento. Tra il '67 ed il '72, dopo
la prima campagna, il P.R. ebbe infatti tra i cento
cinquanta ed i duecento cinquanta iscritti (73), un
numero che non è di molto superiore a quello
raggiunto negli anni precedenti, quando si era deciso
di precludere le nuove iscrizioni.
In una nota
dell'"Agenzia Radicale" del 10 gennaio 1964
si scrive, a proposito della riorganizzazione del
partito: "organizzare la propria presenza come
presenza dal basso, senza pretese di globalità e di
ubiquità organizzative, operare con metodo
sperimentale di settori pilota e zone test"
(74). Questa idea veniva tradotta nella nascita di
associazioni ed altri organismi di base sempre
ispirati a spontaneismo. Si è visto per esempio il
C.D.A.C.A.E. per l'antimilitarismo, il C.U.S.I. per
l'unità a sinistra, oppure il comitato promotore del
sindacato nazionale della scuola pubblica.
Dai primi anni della
storia del P.R. già si intravedono le linee di
tendenza di quella che sarà l'organizzazione
strutturale e il modello di statuto che sarà
approvato nel congresso del 1967.
Il partito radicale,
come abbiamo visto, è un partito che esiste, nasce e
si forma su specifiche tematiche e lotte: i suoi
aderenti non sono insieme in un organismo politico
perché uniti da una comune ideologia, ma in quanto
raccolti intorno ad un obiettivo comune. In
conseguenza, cambiano nel P.R. le dinamiche interne
rispetto ai partiti tradizionali, non esistono
correnti, oppure coagulo di opposizioni interne
attorno ad un esponente od a una tattica da
perseguire, movimenti che possono mettere in
minoranza una segreteria e formare una maggioranza
diversa. Il segretario si dimette se non ha portato a
termine il compito deciso dal congresso. E' nostro
convincimento che la mancanza di dialettiche interne,
nel senso prima spiegato, è dovuta anche al fatto
che il numero dei militanti è stato (e sarà nel
prosieguo della storia del P.R.) così esiguo (non
più di venti persone, in questi primi anni, si
dedicano a tempo pieno al partito) che, in pratica,
la dirigenza e la base si identificavano nelle stesse
persone. Le quali, per di più, erano tra loro
fortemente omogenee per la comunanza delle matrici
culturali, ideali, e per le esperienze di vita.
Si delinea, già in
questi primi anni la leadership di Marco Pannella,
anche all'interno del partito, ma, soprattutto, nelle
manifestazioni esterne, dato che i rapporti con i
media (interviste, dichiarazioni, articoli) e le
sortite più clamorose (i primi digiuni) che
servirono indubbiamente a far uscire dall'isolamento
il piccolo P.R., furono da lui promossi. Nei momenti
difficili, quando il partito sembrava paralizzato,
sapeva sempre "inventare" la soluzione
vincente.
Le decisioni, il modo
di atteggiarsi, i rapporti con i vari partiti e con
le istituzioni, i media assunti nell'arco dei primi
tre anni si rifletteranno su tutto il corso della
vita successiva del partito. Si era esclusa, in
partenza, una organizzazione "forte" e
definitiva. Il partito doveva svilupparsi "per
diffusione", cioè fondarsi su associazioni
locali, le quali man mano si sarebbero federate per
poi costituire una formazione nazionale. Per
collegare le associazioni fu fondata l'Agenzia
Radicale, di cui ci siamo già occupati: unica
struttura centrale e strumento di incontro e di
scambio a tutti i livelli. Tuttavia il gruppo dei
radicali romani, fortemente omogeneo, assunse,
naturalmente, un ruolo centrale e doveva
rappresentare, negli anni a venire, la continuità
del disegno politico originario.
5. Verso il
congresso di rifondazione.
La rifondazione del
partito e la costituzione della Lega Italiana per
l'introduzione del divorzio sembrano procedere di
pari passo, e i due processi si intrecciano e si
sovrappongono. La Lega fu fondata nel gennaio 1966 da
Marco Pannella e Mauro Mellini, che furono i reali
animatori della segreteria, il primo, e della
presidenza, il secondo. Nel consiglio direttivo della
lega, tra i fiduciari locali almeno un terzo erano
militanti radicali, per cui, praticamente il partito
si era dissolto nella Lega (75). La riorganizzazione
del P.R., evidentemente, fu condizionata dalle
tecniche di pressione e di manifestazione come
scioperi della fame ed azioni dirette (invii di
telegrammi e cartoline ai parlamentari) sperimentate
nella Lega. Ma questa confusione di ruoli, per quanto
sia servita a richiamare l'attenzione dei mass media
sul partito, ne rallentò la crescita e
l'organizzazione delle strutture centrali e
periferiche.
Si può ipotizzare che
la mancata convocazione del congresso nazionale,
previsto per il novembre 1965, sia dovuta ai
preparativi per far decollare con successo la Lega.
Ogni energia era impegnata in tale iniziativa,
ritenuta di vitale e preminente importanza per
l'ammodernamento civile del Paese.
Durante il Consiglio
Nazionale del 6 luglio '66 si dimise la segreteria,
in quanto non si era potuto svolgere il congresso.
Venne rieletto segretario Marco Pannella, ma solo per
curare l'ordinaria amministrazione; per le funzioni
politiche si nominò una commissione, che doveva
preparare il terzo congresso nazionale (76) e
redigere un nuovo statuto.
La Commissione era
presieduta da Sergio Stanzani e composta da Nina
Fiore, Angiolo Bandinelli, Luigi Del Gatto, Roberto
Pieraccini, Carlo Oliva, Piero Pozzoli, Claudio
Lelli, Andrea Torelli, Gianfranco Spadaccia;
pubblicò un bollettino ciclostilato
"Informazioni per il terzo congresso del
P.R." che servì da tribuna del dibattito
interno sullo stato del partito e sul suo assetto
futuro (77).
Per la preparazione
del congresso, la commissione incaricata divise il
lavoro in quattro sezioni: i diritti civili, le
istituzioni dello Stato, la società internazionale,
il partito moderno. I primi tre temi tracciano il
percorso ideale del partito e definiscono i contenuti
dell'azione che esso avrebbe portato avanti negli
anni a venire. Queste tesi, considerate
separatamente, contengono il distillato
dell'ideologia originaria: i diritti civili come
mezzo per conseguire libertà essenziali ai fini
della felicità individuale: una ripresa, dunque,
della filosofia radicale ottocentesca in chiave
contemporanea. Le proposte sulla riforma della
giustizia, sulla scuola, sul divorzio, sulla
famiglia, sulla donna, sull'obiezione di coscienze
convergono tutte verso il fine di assicurare al
cittadino la propria autonomia.
Sul secondo tema, il
rapporto del cittadino con le istituzioni, i radicali
fecero risaltare l'importanza dei bisogni emergenti
del singolo nel quadro istituzionale.
Il terzo tema, la
società internazionale, ripete tutte le tesi
antimilitariste, cavallo di battaglia dei radicali da
sempre. Il fine era quello di superare il
nazionalismo sia di destra che di sinistra mediante
il collegamento con le opposizioni di sinistra che
agivano in tutta l'Europa occidentale. L'Agenzia
Radicale, a chiarimento delle proposte di politica
internazionale, scriveva: (25 febbraio 1966)
"l'internazionalismo è innanzitutto una
posizione di lotta interna di politica nazionale o
non è che comoda ed artificiosa evasione
cosmopolita; ... l'internazionalismo non può non
essere anche lotta contro lo Stato nazionale anche e
proprio per le forme necessarie che esso assume...
comuni ai paesi occidentali ed orientali:...
esercito, polizia, giustizia non autonoma...
industria degli armamenti, sono le forme storicamente
assunte in comune dagli stati socialisti e dagli
stati borghesi" (78).
Il quarto punto, il
partito moderno, era forse il più importante ed il
più nuovo. Nella convinzione che il modello tipico
del partito di sinistra era ormai vecchio ed
inadeguato di fronte ai problemi della democrazia in
una società post-industriale, e che soprattutto
l'organizzazione condiziona un partito, sia nel
rapporto interno con gli iscritti, sia in quello
esterno con gli elettori, i radicali si proposero di
cercare una formula associativa totalmente nuova
rispetto alla tradizione. I nuovi radicali, in
anticipo sui tempi, erano consapevoli della crisi di
rappresentatività del partito di massa di fronte
alle nuove rivendicazioni che provenivano dalla
società civile, le cui spinte verso una maggiore
partecipazione non riuscivano, appunto, a trovare
sbocco.
Proprio per discutere
sullo statuto del nuovo partito, problema prioritario
per i dirigenti radicali rispetto alla definizione
dei contenuti, venne organizzato, a Faenza, un
convegno il 29-30 ottobre 1966 (79). Vi parteciparono
circa quaranta persone, compresi comunisti,
socialisti, repubblicani, esponenti del movimento
socialisti autonomi, cattolici dissenzienti,
antimilitaristi. Il numero di partecipanti rende
l'idea dell'esiguità delle forze in campo del
partito radicale, a quattro anni circa dalla
rifondazione.
Dall'insieme degli
interventi al convegno di Faenza venne fuori la
formula del nuovo partito e più in generale il
concetto che i radicali avevano elaborato della
democrazia partecipativa. Punto di partenza della
riflessione radicale era la convinzione che per
passare da una fase individualistica e velleitaria di
rivolta fine a se stessa a modi più efficaci di
incidere nella realtà politica, era necessario farsi
vero e proprio partito; che tuttavia differisse dagli
altri esistenti, nel senso che diventasse strumento
di partecipazione alla vita politica di ogni
cittadino.
Un partito inteso non
come cinghia di trasmissione, ma strumento di
partecipazione diretta, che permettesse a ciascun
militante di lottare in prima persona ed assumersene
tutte le responsabilità ed i rischi.
La militanza poi non
si intendeva in modo burocratico: no al
partito-chiesa, a una struttura con competenze
generali su qualunque problema, sia nel
"rispetto della esistenzialità della vita umana
e del cittadino", sia anche per motivi pratici.
Era molto meglio che il partito, a livello nazionale,
vincolasse i militanti su due o tre temi sui quali
tutti concordavano piuttosto che ricevere un consenso
astratto ideologico e globale. Ecco perché viene
proposta un'organizzazione interna su base
federalista, che si intendeva come federazione di
associazioni locali autonome all'interno della linea
stabilita dal congresso.
Il cosiddetto
"momento federativo", fortemente
sottolineato dai radicali, consisteva nella
convergenza intorno al partito di movimenti, gruppi,
leghe, con accordi soprattutto a livello di
associazioni locali. Il flusso di idee e di
iniziative doveva andare dalle associazioni verso il
partito e non al contrario: precisamente, questi
gruppi spontanei non dovevano essere collaterali, ma
autonome fonti di aggregazioni su tematiche nate da
esigenze proprie.
Oltre le scelte
organizzative il convegno di Faenza ribadì nel
pacifismo, nel laicismo, nell'anticlericalismo, nel
federalismo europeo i contenuti irrinunciabili del
partito nuovo.
6. Il terzo
Congresso e lo Statuto. Per un'alternativa laica.
Il terzo congresso fu
convocato per i giorni 12-13-14 maggio 1967 (80) a
Bologna, con il compito principale di elaborare
definitivamente il nuovo statuto del partito. Dalla
lettura del documento di convocazione (81), è chiara
l'impostazione che la commissione e quindi il gruppo
dirigente romano del P.R. intendevano dare: il
congresso, si afferma nel documento, è aperto alla
partecipazione di militanti di tutti i partiti della
sinistra, non come semplici osservatori, ma come veri
e propri congressisti. Questa apertura nasceva dalla
convinzione che i problemi da affrontare per
modernizzare il Paese, in quel momento storico,
fossero trasversali a tutto lo schieramento
progressista. Di qui l'ambizione del partito radicale
di porsi come punto di raccordo e centro propulsore
di una aggregazione politica a sinistra, proveniente
dal basso, dai militanti. Del resto anche nel futuro,
la cosiddetta doppia tessera sarà un importante
fattore di organizzazione del partito.
Al terzo congresso
parteciparono circa duecento cinquanta persone, di
cui la metà aveva meno di trent'anni e meno del
dieci per cento ne aveva più di cinquanta (82). Solo
un terzo aveva partecipato ai precedenti congressi.
Fra i partecipanti, il nucleo più consistente era
composto da coloro che facevano parte della ex
corrente di sinistra del vecchio partito radicale,
altri provenivano dal movimento divorzista, altri
ancora dai movimenti per l'educazione demografica,
contro il militarismo ed esponenti di minoranze
religiose. I militanti veri e propri del P.R. erano,
in effetti, solo un centinaio, fra i quali solo poche
decine di tesserati.
Nella sua relazione,
il segretario uscente Marco Pannella (83) ricorda che
i "rifondatori" del P.R. avevano trovato un
partito "senza sede e senza nemmeno il diritto
agli archivi", ma erano ben legittimati, anche
giuridicamente, a continuarne la vita. La
continuità, secondo Pannella, era data da una
indicazione che i dirigenti di allora non ebbero la
forza e forse l'intenzione di portare a termine, e
che si può riassumere nello slogan "un partito
nuovo per una politica nuova", partito che si
dichiari coscientemente e fino in fondo
anticlericale, nel senso di elemento unificante di
tutta la sinistra. L'altro aspetto, una sorta di
recupero dei vecchi ideali libertari, si dovrà
fondare sulle grandi tradizioni libertarie del
socialismo e del laicismo italiano. Di qui l'invito a
creare delle strutture interne libere e democratiche
non burocratiche, ispirate ai principi della
democrazia partecipativa. Pannella ricorda, ancora,
il carattere antimilitarista del partito, non però
nel senso di neutralista; egli si chiede che cosa
farne dell'esercito e delle strutture militari, in
una prospettiva socialista. I congressi, altro
elemento caratterizzante del partito, si devono
svolgere su temi, alla cui costruzione devono
partecipare tutti gli iscritti, affinché non
costituiscano espressione dei dirigenti del partito.
Dopo il dibattito la
maggioranza dei congressisti si schierò a favore
della politica di tipo nuovo, delineata da Pannella
(84).
La mozione politica
approvata dal congresso riassume gli obiettivi e
indica gli strumenti messi a punto dalla dirigenza
del partito nei mesi precedenti il congresso (85). Si
confermava l'impegno dei radicali a "realizzare
nella propria organizzazione le aspirazioni
libertarie dei cittadini e dei lavoratori che
intendono partecipare attivamente, come protagonisti,
alla lotta politica e sociale", attraverso
l'approvazione dello statuto di tipo federale, di cui
si era discusso al Convegno dell'ottobre precedente.
Il partito si
schierava per una alternativa globale alla democrazia
cristiana senza possibilità di compromessi e
dichiarava quale obiettivo ultimo del partito
l'unità e il rinnovamento della sinistra italiana
attorno ad alcuni temi: anticlericalismo,
antimilitarismo, lotta per i diritti civili,
internazionalismo.
Il Congresso elesse
segretario Gianfranco Spadaccia e tesoriere Andrea
Torelli. Della direzione nazionale, eletta nel terzo
congresso ne facevano parte Mauro Mellini, Giuseppe
Loteta, Marcello Baraghini, Domenico Baroncelli,
Aloisio Rendi, Lorenzo Strik-Lievers, Giuseppe
Bombaci, Angiolo Bandinelli. Almeno così si può
arguire dall'intervista citata di Luigi Ghersi a
Pannella, in assenza di dati congressuali precisi
(86)
A questo punto è
necessario esaminare le linee generali dello statuto
approvato dal Congresso, per chiarire quale partito
avessero teorizzato i nuovi radicali (87).
La caratteristica
formale dello statuto è la sua flessibilità, nel
senso che non vi si prevedono maggioranze qualificate
per modificarlo. Esso non è una fonte primaria delle
regole fondamentali, perché non fu prevista una
posizione gerarchicamente superiore dello statuto
stesso rispetto ad altre fonti normative, come ad
esempio le mozioni congressuali che quindi,
all'occorrenza, possono legittimamente emendarlo.
Il primo paragrafo
così recita: "il partito è un organismo
politico, costituito dagli iscritti al partito, dagli
iscritti nelle associazioni non radicali aderenti a
livello regionale, dalle associazioni radicali, dai
partiti radicali regionali, dalle associazioni o
gruppi aderenti a livello regionale, dalle
associazioni o gruppi aderenti a livello federale.
Gli organi del partito federale sono il congresso, il
consiglio federativo, il segretario e la giunta, il
tesoriere, il collegio dei revisori dei conti".
Per quanto riguarda
gli iscritti, chiunque può aderire al P.R., anche
non cittadino italiano, norma questa originale
rispetto agli statuti degli altri partiti politici
italiani; anche se non indicato in maniera esplicita,
era chiaramente inteso, come del resto già
annunciato, che poteva iscriversi anche chi fosse
iscritto ad altro partito. E' fissato un limite di
età a 16 anni: i radicali rifiutano quelle
organizzazioni collaterali attraverso le quali in
genere, devono passare i giovani prima di poter
iscriversi ad un partito. Infatti anche il limite,
pur basso, di età verrà abolito quasi subito.
Uniche "condizioni" di iscrizione richieste
sono l'impegno a costituire associazioni, ed a
versare le quote di iscrizione, ad accettare lo
statuto. L'iscrizione vale per un anno.
Le associazioni
radicali che vengono costituite per conseguire le
finalità di chi si associa, devono avere un
riferimento territoriale, nel senso che esse
dovrebbero aderire il più possibile alle realtà
locali, il che, però, non significa che esse abbiano
diritti esclusivi in tale ambito territoriale
(possono ad esempio esistere più associazioni
radicali nella medesima città).
Le associazioni sono
completamente autonome, nel rispetto delle
deliberazioni vincolanti del Congresso Nazionale e
del partito regionale cui sono federate.
Le associazioni,
quindi, a parte gli obblighi derivanti dei momenti
elettorali e dalla mozione congressuale, sono libere
e non hanno limiti territoriali per le proprie
iniziative; anzi è proprio da tali organismi che,
secondo il progetto originario dei dirigenti
radicali, dovrebbero partire idee valide e proposte
per tutto il partito.
Le associazioni
radicali sono tenute a federarsi per costituire, poi,
il partito regionale, formato anche dalle
associazioni e gruppi non radicali che vi aderiscono.
Esso è definito come "organismo politico che
persegue finalità autonomamente determinate e
finanziate", con propri organi sul modello del
partito federale.
Lo Statuto prevede,
poi, ed è questa forse la innovazione più
importante, che a concorrere alla costituzione del
partito federale, dall'esterno, ci siano anche
associazioni e gruppi non radicali, che perseguono
proprie finalità politiche e culturali, sindacali o
altro. Essi possono aderire al partito con accordi a
livello federale ed a livello regionale, senza che
tale adesione comporti l'iscrizione al P.R. dei loro
iscritti. Sia a livello federale che a quello
regionale i gruppi radicali avrebbero avuto il
diritto di designare propri rappresentanti nei
consigli federativi regionale e federale e di mandare
propri delegati al congresso regionale.
Il congresso è
l'organo deliberativo del partito, viene convocato,
per statuto, ogni anno nella prima settimana di
novembre. E' costituito dai delegati delle
associazioni radicali e dei gruppi non radicali
aderenti ai partiti regionali. Sono vincolanti per le
associazioni radicali e i partiti radicali regionali
solo le deliberazioni adottate a maggioranza dei 3/4
dei partecipanti iscritti. Se adottate a maggioranza
semplice, sono del pari vincolanti se sulle stesse si
esprime successivamente il consiglio federativo a
maggioranza dei 2/3.
Il consiglio
federativo è composto dai segretari dei partiti
regionali, dai delegati dei gruppi non radicali
aderenti e da un numero di membri eletti direttamente
dal congresso. Ai lavori del consiglio partecipano
anche il segretario nazionale e il tesoriere, senza
diritto di voto. Le competenze del Consiglio
Federativo sono complesse, afferiscono alle pronunce
sui deliberati congressuali, al coordinamento della
politica del partito federale con quella dei partiti
regionali, alla materia elettorale, alla federazione
di gruppi non radicali, allo svolgimento del
congresso alla circolazione delle informazioni
all'interno del partito.
Il segretario è il
responsabile dell'attuazione della politica del
partito federale, secondo le direttive fissate dal
congresso e le pronunce del Consiglio Federativo. Ha
un potere amplissimo, di tipo presidenziale, che si
sostanzia anche nella possibilità di convocare
congressi straordinari. Viene eletto direttamente dal
congresso, e solo ad esso risponde.
Il tesoriere, eletto
dal congresso, cui risponde, ha il dovere di
amministrare i fondi del partito e di attivare
l'autofinanziamento.
I finanziamenti al
partito provengono dalle quote individuali degli
iscritti e delle associazioni o da contributi
spontanei in relazione a specifiche attività ed
iniziative: un partito, quindi, per precisa scelta
ideologica, totalmente autofinanziato. Al fine di
evitare il formarsi di burocrazie professionali, sono
vietate cariche retribuite: l'organizzazione poggia
sul volontariato.
Il terzo Congresso
approvò, poi, una mozione organizzativa che
conteneva norme transitorie per regolamentarne la
composizione del Consiglio Federativo, in attesa
della costituzione dei partiti regionali. Si
stabiliva semplicemente che: "fino a quando
saranno stati costituiti i partiti regionali, i loro
compiti sono assolti dal partito federale ed i
compiti del Consiglio Federativo saranno assolti
dalla Direzione fino a quando il Consiglio stesso
sarà stato costituito".
La mozione prevedeva
anche che: "il Consiglio Federativo del partito
federale si costituisce con la presenza di almeno 10
segretari di partiti regionali", ma, come
vedremo meglio in seguito, i partiti regionali si
costituiranno tardi e solo in alcune regioni, venendo
presto aboliti di fatto e, recentemente, anche di
diritto.
Nei primi anni di vita
del partito, il Consiglio federativo venne sostituito
da altri organi, con le stesse attribuzioni,
composti, però, da membri eletti direttamente dal
congresso, contrariamente a quanto previsto nello
statuto.
Il Consiglio
Federativo venne costituito, per la prima volta, nel
novembre del 1974 (XIV congresso), affiancato, però,
da una direzione nazionale con compiti di
coordinamento. Negli anni seguenti il Consiglio ebbe
una composizione assai varia, stante l'impossibilità
di integrarlo con tutti i segretari regionali, a
causa della mancata aggregazione dei partiti
regionali.
Nel corso del 26°
congresso (nov. 1981) si decise, infine di demandare
le competenze del Consiglio Federativo ad un
"Consiglio Federale", composto interamente
da eletti dal congresso, sulla base di una lista
aperta.
Con la sostituzione
del Consiglio Federativo, che, ripetiamo, non è mai
esistito così come previsto originariamente nello
statuto, i radicali presero atto del fallimento del
federalismo come organizzazione interna del partito.
Il partito federale avrebbe infatti dovuto avere
compiti solo residuali e di coordinamento delle
autonomie regionali, a loro volta strutture di
servizio per le associazioni locali. I pochi partiti
regionali che nasceranno, si riveleranno in realtà
delle finzioni create dall'esecutivo federale.
Verranno infatti soppressi, anche formalmente, dal
34° Congresso.
La prassi e le
consuetudini non sempre, come vedremo, saranno
conformi alla lettera dello Statuto. Una delle
consuetudini più importanti è quella secondo la
quale ai Congressi Federali hanno sempre partecipato
direttamente gli iscritti, e non delegati delle
associazioni, come previsto dall'art. 4.1.1., 2 dello
Statuto.
La mancata attuazione
di quell'articolo dello Statuto susciterà polemiche
e malumori alla base del partito, che vedeva così
manomessa la rappresentatività del congresso: gli
iscritti di tutta Italia, privati della possibilità
di farsi rappresentare da delegati e non potendo
peraltro per motivi pratici (spese di viaggio,
impegni di lavoro, ecc.) partecipare direttamente al
congresso, si ritrovavano esclusi dal dibattito e
dalle decisioni congressuali.
NOTE
(1) Cfr. RENZO DE
FELICE, "Storia degli ebrei italiani sotto il
fascismo", Einaudi, 1961, p. 411
(2) Cfr. MASSIMO
TEODORI, "Storia del partito radicale", in
AA. VV., "I nuovi radicali. Storia e sociologia
di un movimento politico", Mondadori, Mi, 1977,
p. 41.
(3) "Annuario
politico Italiano-1962", a cura del C.l.R.D.,
Milano 1963, pp. 704-706.
(4) Ibidem.
(5) ARRIGO BENEDETTI,
"L'Espresso", marzo 1962.
(6) PAOLO BONETTI,
""Il Mondo" 1949/66, Ragione e
illusione borghese", Laterza, 1975. MANLIO DEL
BOSCO "I radicali e Il Mondo", E.R.I.,
Torino, 1980.
(7) MASSIMO TEODORI,
"Storia del Partito Radicale". in AA.VV.,
"I nuovi radicali. Storia e sociologia di un
movimento politico", Mondadori, Milano 1977 p.
13 e ss.
(8) "Annuario
Politico Italiano" a cura del C.I.R.D., Milano,
Comunità, 1963 pp. 704-706 e MANLIO DEL BOSCO, op.
cit. pp. 117-150.
(9) "Annuario
Politico Italiano", cit., pp. 704-706.
(10) "Annuario
Politico Italiano", 1963, cit.
(11) Cfr. EUGENIO
SCALFARI, "La sera andavamo in Via Veneto",
Mondadori, 1986, pp. 150-161.
(12) Cfr. FAUSTO DE
LUCA, "I radicali e la sinistra", "Il
Punto", marzo 1962.
(13) Cfr. MANLIO DEL
BOSCO, op. cit., p. 130
(14) "Annuario
Politico Italiano", cit.
(15) ARRIGO BENEDETTI,
"I radicali", "L'Espresso", marzo
1962
(16) Marco Pannella fu
presidente UNURI, Gianfranco Spadaccia presidente UGR
Roma e vicepresidente ORUR, Massimo Teodori
Consigliere della goliardia UGI, Franco Roccella
presidente UGI, Sergio Stanzani, presidente UNURI.
Avevano fatto esperienze di politica universitaria,
Giuliano Rendi, Giuseppe Ramadori, Giuseppe Picca,
Andrea Torelli, Giuseppe Loteta. Informazioni tratte
da Massimo TEODORI, "I nuovi radicali", op.
cit., p. 342.
(17) MARCO PANNELLA,
"Superare la "paura" d'essere
radicali", in "L'antagonista
radicale", Roma 1978, p. 202.
(18) Cfr. MASSIMO
GUSSO, "Il PR: organizzazione e
leadership", CLEUP Padova, 1982, p. 18.
(19) MASSIMO TEODORI,
"I nuovi radicali", cit. pp. 28-31.
(20) MARCO PANNELLA,
"La "sinistra democratica" e il P.C
I.", "Il Paese", 22 marzo 1959
(21) MANLIO DEL BOSCO,
op. cit p. 121.
(22) Anonimo,
"L'alleanza dei cretini", "Il
Mondo", 7 aprile 1959.
(23) Cfr.
"Comunicato della Direzione del Partito
Radicale", cit. da FABIO MORABITO in "La
sfida radicale", SugarCo, 1977, p. 42.
(24) Cfr.
"Lettera di Palmiro Togliatti", "Il
Paese", 25 marzo 1959.
(25) Le mozioni sono
state pubblicate dalla rivista "Quaderni
Radicali", n. 5/6, gennaio/giugno 1979, pp.
235-245.
(26) Cfr. "Schema
di dichiarazione sui rapporti con il mondo cattolico
e per l'abolizione dell'art. 7", "Quaderni
radicali" cit., p. 239.
(27) Cfr. "Schema
di dichiarazione sulla politica estera, sul disarmo
atomico e convenzionale, sulla politica per la
pace", "Quaderni radicali", cit., p.
245.
(28) NICOLO'
CARANDINI, "La polemica Radicale", "Il
Mondo".
(29) Il congresso si
concluse con l'approvazione di una mozione della
maggioranza che raccolse 75 voti contro i 21 della
destra e e 35 della sinistra. Per quanto riguarda
l'elezione del C.N. le fonti sono imprecise: il
risultato è stato ripreso da libro di MANLIO DEL
BOSCO, "I radicali e il Mondo", la cui
fonte sono gli appunti privati dell'autore, che
partecipò al Congresso. Secondo il Del Bosco, furono
eletti 75 esponenti della maggioranza, 22 della
destra, e 3 della sinistra.
(30) "Annuario
Politico Italiano", 1963, cit.
(31) MASSIMO TEODORI,
"I nuovi radicali", cit. p. 35.
(32) MARCO PANNELLA,
"Una politica di abdicazione",
"Sinistra Radicale n. 1, ottobre 1961, citato da
MASSIMO TEODORI, "I nuovi radicali", op.
cit., p. 43.
(33) Il bollettino
della sinistra radicale dedicò vari articoli anche
alla nuova sinistra francese, cui i radicali si
sentivano affini, anche perché Marco Pannella era in
quel periodo (1959-1962) vice corrispondente da
Parigi de "Il Giorno" e quindi c'erano
maggiori possibilità di informazione e di
collegamenti.
(34) GIULIANO RENDI,
"Per il disarmo europeo, eliminare gli
eserciti", "S.R.", n. 6, marzo 1962,
citato da TEODORI ne "I nuovi radicali", op
cit., p. 36.
(35) ANGIOLO
BANDINELLI, "Antimilitaristi: Cronache di 25
anni", "La Prova Radicale", n. 1,
autunno 1971, pagg. 125-162. La marcia
Camucia-Cortona venne detta "marcia dei 100
Comuni", perché caratterizzata appunto dalla
adesione delle rappresentanze di 100 amministrazioni
comunali.
(36) ANGIOLO
BANDINELLI, ult. art. cit., p. 136.
(37) La lista che
conquistò a Roma la maggioranza era composta da
Mauro Mellini, Roberto Mazzucco, Giuseppe Ramadori,
Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia, Franco
Roccella, Giuseppe Loteta, Angiolo Bandinelli. A
Milano Luca Boneschi e Mario Cattaneo furono eletti
nella direzione della sezione milanese in
rappresentanza della sinistra. Informazioni tratte da
MASSIMO TEODORI, "I nuovi radicali", cit.,
p. 44.
(38) Cfr., TEODORI,
ibidem.
(39) TEODORI, "I
nuovi radicali", cit. pag. 47; GIANFRANCO
SPADACCIA, "Voce P.R." in "Annuario
Politico Italiano", CIRD, Milano 1964, pp.
605-609.
(40) GIANFRANCO
SPADACCIA, op. cit., ibidem, p. 606.
(41) "l'accordo
delle sinistre con la D.C. non avrebbe avuto un
risultato positivo poiché il potere D.C. era di per
sé un fattore di corruzione; e perciò la sinistra
non sarebbe riuscita a scalfire il sistema di potere,
ma ne sarebbe stata assorbita ed emarginata
all'interno" - LORENZO STRlK-LIEVERS, in una
conversazione tenuta nel 1976 presso l'Associazione
Radicale Milanese, riportata in AGHINA, IACCARINO,
"Storia del Partito Radicale", Gammalibri,
1977, p. 18.
(42) Si riferiscono al
veto di De Gaulle all'entrata della Gran Bretagna nel
MEC, l'asse Parigi-Bonn; gli accordi di
collaborazione militare di Francia e Germania con
Spagna e Portogallo, lo stretto collegamento del
forze militari italiane con quelle francesi, tedesche
e spagnole cfr. "Annuario Politico
Italiano", 1964, cit. p. 606.
(43) Appello della
sezione romana del P.R. in "Libro bianco sul
Partito Radicale e le altre organizzazioni della
sinistra", a cura di BANDINELLI, PERGAMENO,
TEODORI, Roma, 1967, p. 78.
(44) Cfr. ANGIOLO
BANDINELLI, "Dalle elezioni corporative
all'alternativa", "La prova radicale",
n. 3, prim. 1972, p. 41.
(45) Cfr. pp. 43-44.
(46) Cfr. "Libro
bianco sul P.R.", op. cit.
(47) La proposta
prevedeva: 1) Il consenso dei quattro paesi vincitori
firmatari del trattato di pace di Parigi del 1947; 2)
La garanzia delle Nazioni Unite, i cui funzionari
avrebbero dovuto controllare i confini del paese
(Austria), posti sotto la tutela del Consiglio di
Sicurezza; 3) L'accordo con i sei paesi confinanti
con l'Austria perché si impegnassero a ritirare le
loro truppe ad una determinata distanza dai confini
della Repubblica Austriaca. "Libro bianco sul
P.R.", cit.
(48) Cfr. "Libro
bianco", cit. p. 43; A. BANDINELLI,
"Progetto Thirring e `nuova sinistra'",
"Alternativa non violenta", supplemento a
Notizie radicali, n. 207, 1977, p. 12.
(49) Cfr. p. 30.
(50) "Libro
bianco", cit. pp. 4719.
(51) Cfr. PAOLO
BONETTI, "Il Mondo 1949/66. Ragione ed illusione
borghese", Laterza, Bari, 1975.
(52) L'appello della
direzione del P.R. era firmato da Pannella
(segreteria nazionale), L. Balestrieri (direzione),
G. Spadaccia (direzione), M. Teodori (direzione), G.
Rendi (direzione), A. Bandinelli (ufficio esteri), A.
Rendi (ufficio stampa), A. Sabatini (ufficio scuola)
e Mancuso (ufficio sindacale). TEODORI op. cit. p.
76.
(53) "Libro
bianco", op. cit, p. 86.
(54) "Annuario
Politico Italiano", 1965, cit.
(55) "Libro
bianco" cit. pp. 51-52.
(56) "Libro
bianco", ibidem.
(57) "Risoluzione
della direzione nazionale del P.R.", Roma, 22
settembre 1965, in "Libro bianco sul P.R.",
pp. 65-66.
(58) Al termine del XI
Congresso del P.C.I., che si svolse a Roma dal 25 al
31 gennaio 1966, venne approvata una mozione in cui
si invitavano i cattolici a ricercare punti di
accordo ed in cui si riconosceva l'autonomia della
Chiesa e si condannava l'ateismo di Stato.
(59) "Il P.C.I.
elemento del sistema", intervista a Marco
Pannella a cura di GIANO ACCAME, "Nuova
Repubblica", n. 20, 31 luglio 1966.
(60) Secondo Pannella
basta ricordare la svolta di Salerno, le amnistie del
guardasigilli Togliatti verso gli ex-fascisti,
l'atteggiamento rinunciatario di fronte alla Chiesa,
dall'art. 7 fino al rifiuto di impegnarsi in campagne
di moralizzazione che investissero centri di potere
vicini al Vaticano. L'organizzazione stessa del PCI,
burocratica e funzionariale, era tipica di un partito
socialdemocratico paradossalmente costretto nel
blocco stalinista.
(61) "Un Pannella
demistificato", "L'unità", 24 agosto
1966.
(62) "Libro
bianco sul P.R.", cit., p. 76.
(63) M. PANNELLA,
"I problemi della sinistra italiana",
"Corrispondenza Socialista", anno VII, n.
10 ottobre 1966 pp. 505-512.
(64) TEODORI in
"I nuovi radicali", Mondadori 1977, pp. 46
e ss.
(65) Si ritiene che
questa elezione sia avvenuta nel Consiglio Nazionale
del Il ott. '62, nel corso del quale si dimisero dal
partito Piccardi, Rossi, Villabruna (vedi:
"Annuario Politico Italiano", cit. 1963,
CIRD, "Voce Partito Radicale").
(66) Cfr. M. DEL
BOSCO, il quale accusa la giovane sinistra di
perdersi in Tecnicismi assembleari MANLIO DEL BOSCO,
"I radicali e Il mondo", Torino 1980, p.
120.
(67) "Annuario
Politico Italiano", 1964, cit. P. 605.
(68) TEODORI, "I
nuovi radicali", op. cit., pag. 49.
(69) Ibidem, p. 49.
(70) TEODORI, cit., p.
153.
(71) TEODORI, "I
nuovi radicali", cit., Ibidem.
(72) LUIGI GHERSI,
"Intervista a M. Pannella",
"L'Astrolabio", n. 21, 21 maggio 1967 Anno
V.
(73) TEODORI, op.
cit., p. 123.
(74) "Annuario
Politico Italiano", voce P.R., redatta da
GIANFRANCO SPADACCIA, (C.I.R.D.), Mi 1965.
(75) Testimonianza di
Massimo Teodori in "I nuovi radicali", op.
cit., p. 93.
(76) Le informazioni
sui cambiamenti delle segreterie in questi anni, sono
tratte da MASSIMO TEODORI "Storia del Partito
Radicale, in AA.VV., "I nuovi radicali",
Mondadori, MI, 1977. Teodori afferma che nel 1964 fu
eletto Segretario provvisorio del partito Marco
Pannella. Successivamente sostiene che "...a una
segretaria collegiale succedette nel luglio 1966 un
segretario unico, Marco Pannella..." (p. 71 op.
cit.). E' evidente la contraddizione, che, alla luce
dei documenti in nostro possesso, non siamo riusciti
pienamente a risolvere. Ciò che appare un punto
fermo è la presenza di Marco Pannella nella
segreteria dalla fine del '62 al Congresso di
rifondazione (maggio 1967). In questo periodo la
rilevanza di tale carica pi esterna che interna al
partito: esso era composto e retto, effettivamente,
come sarà più volte affermato dai radicali stessi,
da dieci, forse venti persone, per cui la base e la
direzione del partito, in ultima analisi coincidono.
(77) TEODORI, op.
cit., p. 72.
(78) Citato da ANGIOLO
BANDINELLI in "L'antagonista radicale",
Atti stampati a cura del consiglio federativo del
P.R., del Convegno tenuto a Roma il 5/7 maggio 1978,
su "La teoria e la pratica del partito
socialista e libertario", p. 121.
(79) Atti parzialmente
pubblicati in "Quaderni radicali" n. 7
ott.-dic. 1979 pp. 151-172 (per la giornata del 29
ottobre 1960) e Q.R. n. 8/9 gennaio/giugno 1980 pp.
390-406 (per la giornata del 30 ott. 1966).
(80) Si continuava la
numerazione del vecchio P.R.
(81) Documento di
convocazione del III Congresso del P.R., citato da
FABIO MORABITO, "La sfida radicale",
SugarCo, Milano, 1977, p. 131.
(82) Intervista di
Luigi Ghersi a Marco Pannella, cit.
(83) Relazione di M.
Pannella al III Congresso, nostra trascrizione da una
registrazione In possesso di Radio Radicale.
(84) FABIO MORABITO,
cit. p. 132.
(85) cfr. Mozione
politica approvata dal III Congresso, in "Le
lotte, le conquiste, le proposte radicali", a
cura del P.R., Roma, 1985, p. 5.
(86) Cfr. Marco
Pannella, nell'intervista citata di Luigi Ghersi.
(87) Vedi Statuto
1967, Appendice p. 209 e ss.