CAPITOLO
V - I RADICALI TRA AZIONE DIRETTA E PARLAMENTO
1. Stretti tra due
chiese: sempre più minoranza
Con l'ingresso in
Parlamento della rappresentanza radicale si pose il
quesito se il P.R. da movimento si era tramutato in
partito tradizionale. La risposta all'interrogativo,
fondamentale per la continuità dell'idea radicale,
era che il P.R. non avrebbe mutato nulla nelle sue
strutture e nelle sue modalità di presenza ed
iniziativa politica. La dirigenza ipotizzava la
politica del doppio binario: operare con la
diversità radicale nel Parlamento e nel Paese. I
radicali affermavano che l'ingresso in Parlamento non
era che la conquista di un altro strumento di lotta
nel cuore delle istituzioni. E per i radicali la
conquista di tale strumento era essenziale per non
rimanere schiacciati e definitivamente emarginati dai
nuovi equilibri politici, cioè dall'intesa tra
D.C.-P.C.I., avallata degli altri partiti della
sinistra socialista e laica.
Ritenevano, quindi,
che la rappresentanza parlamentare fosse una
condizione essenziale per poter riprendere con
successo le lotte. Ma il Partito, contemporaneamente,
doveva continuare ad essere nel Paese il partito
della disobbedienza civile, della democrazia diretta,
della non violenza, dei referendum, della
intransigente opposizione al "regime". Una
formazione in bilico tra una struttura di partito e
quella un po' evanescente di movimento di opinione.
Il momento politico,
d'altro canto, si presentava non facile, col
terrorismo in atto e la conseguente chiusura
determinata dal patto tra comunisti e democristiani,
suggellato con il voto della "non sfiducia"
al Governo Andreotti. Perciò i radicali, per non
farsi emarginare, decisero di riprendere le
iniziative di massa nel Paese, con la possibilità di
ottenere uno sblocco della situazione politica. Per
questo scopo ritenevano idoneo lo strumento del
referendum abrogativo. La mobilitazione per la
raccolta delle firme su di un nuovo progetto di
referendum doveva marciare in sintonia con le
iniziative che i deputati radicali avrebbero
intrapreso in Parlamento. Quella più importante
riguardava l'abrogazione del Concordato. Se questa
strategia basata sul concerto tra Parlamento e piazze
non avesse funzionato, il P.R., inevitabilmente,
sarebbe diventato l'ennesimo partitino di sinistra ed
avrebbe perso quella carica di novità, di
messianesimo, di "libertario", che aveva
contraddistinto fino ad allora la sua breve storia.
A questo punto, e ciò
si rileva chiaramente nella pubblicistica radicale,
affiorarono nel partito due tendenze, delle quali ci
siamo già occupati da un'altra angolazione. La
prima, ritenuta settaria, "isolazionista",
si ispirava ad un ideale astratto di purezza
radicale, in netta contrapposizione ai compromessi ed
alle degenerazioni partitiche, e si dichiarava
contraria al rapporto preferenziale col P.S.I. Questa
concezione contrastava con il partito "della
doppia tessera", ed impediva la doppia
militanza. La seconda tendenza mirava ad uscire dalle
istituzioni: una tesi pericolosa per il P.R., che
avrebbe perduto la sua identità di partito politico.
Questa tendenza, in pratica, voleva sperimentare la
strada percorsa dalle forze extra-parlamentari, in
crisi dopo le elezioni del 20 giugno. E' vero che le
lotte di tali forze erano state importanti nel campo
sociale, anche se di scarsa efficacia, ma non avevano
avuto uno sbocco politico, cioè non erano riuscite a
coinvolgere tutta la sinistra o larga parte di essa.
Anzi, loro malgrado, avevano ottenuto un effetto
indesiderato, accelerando "l'entente
cordiale" tra le forze cattoliche ed i
comunisti. L'itinerario extra-parlamentare non era
quindi da imboccare; doveva essere mantenuta la
strategia dei diritti civili, cioè del confronto e
dello scontro con le istituzioni. Siffatta strategia
non doveva essere abbandonata nel contesto politico
che si era creato a seguito della collaborazione tra
comunisti e democristiani. Anzi i radicali avrebbero
potuto, per così dire, scavarsi una nicchia entro
cui operare, fra due chiese marxista e cattolica.
Così agendo, il
partito radicale avrebbe potuto contare anche sul
consenso della parte più sensibile della base
socialista e di quella comunista, rispetto agli
apparati dei partiti di appartenenza, alle tematiche
dei diritti civili.
2. Cinque milioni di
firme per otto referendum
Dopo il XVII
congresso, svoltosi a Napoli dall'1 al 4 novembre
1976, che aveva eletto per la prima volta una donna,
Adelaide Aglietta, a segretaria del partito, si
decise, in linea con quanto era emerso dal dibattito
tra militanti e simpatizzanti, di promuovere nei
successivi mesi di aprile, maggio e giugno, la
raccolta delle firme necessarie per indire dieci
referendum abrogativi. Ridotti ad otto, in seguito al
deliberato del consiglio federativo del 12 febbraio
(249). Gli otto referendum riguardavano le seguenti
materie: 1) trattato e concordato tra Santa Sede e
l'Italia; 2) il codice militare di pace; 3)
l'ordinamento giudiziario militare; 4) le norme sui
procedimenti e giudizi di accusa della Commissione
Inquirente; 5) le norme repressive del codice penale;
6) il finanziamento pubblico dei partiti; 7) la Legge
Reale; 8) gli istituti manicomiali.
Il partito radicale si
era caricato di un compito immane rispetto alle sue
risorse umane e finanziarie: avrebbe dovuto
raccogliere settecento mila firme, ripetute otto
volte. I radicali, questa volta, organizzano le
campagne non più nei modi improvvisati e
dilettanteschi degli anni precedenti ma le preparano
con didascalica minuziosità.
Cercano di garantirsi
la copertura su tutto il territorio nazionale:
invitano i militanti ad utilizzare l'unica struttura
politica capillare, le segreterie comunali, e
predispongono, anzi inventano per l'occasione i
moduli "carbonati", cioè autocopiativi. Un
sistema per evitare gli errori nelle otto copie della
trascrizione dei dati anagrafici dei milioni di
cittadini disposti a sottoscrivere la richiesta dei
referendum.
I radicali riuscirono
a costituire 170 comitati pro referendum: questa
volta senza aiuti esterni, sintomo, questo,
dell'isolamento politico in cui si trovava il
partito. E' necessario ricordare che i mezzi
d'informazione ignoravano le iniziative radicali, o
ne facevano oggetto di ironia e talora di scherno.
I dirigenti, sempre
più convinti di operare direttamente nel Paese,
oltre che nel Parlamento, iniziarono l'11 gennaio
1977 un lunghissimo digiuno per ottenere l'accesso
alla RAI-TV (250).
La negazione ai
radicali del mezzo pubblico radiotelevisivo nasceva
da una precisa volontà politica dei partiti
dell'"arco costituzionale", contrarissimi
alla intromissione di un partito fuori del cartello
consociativo.
Alla chiusura esterna
si aggiunse il fatto che in quei mesi la vita interna
del P.R. non era tranquilla, anzi mostrava qualche
preoccupante turbolenza per le vicende legate al
"caso Plebe". All'inizio dell'anno, il
senatore missino Armando Plebe aveva resa pubblica la
sua intenzione di chiedere la tessera del partito
radicale: lo Statuto consentiva a qualunque cittadino
di iscriversi senza sottoporsi al vaglio di
commissioni, come avviene, di norma, in tutti gli
altri partiti. L'intenzione del parlamentare del
M.S.I. determinò una certa confusione tra i
militanti ed imbarazzo tra i dirigenti radicali.
Pannella si dichiarò a favore delle richiesta
accusando coloro che volevano rifiutare la tessera
all'esponente missino "di darsi a reazioni
isteriche" (251). La netta presa di posizione
del leader radicale esasperò i contrasti tra i
favorevoli ed i contrari; per dirimere il dissidio
venne convocata una apposita seduta del Consiglio
Federativo. Prevalse una tesi di compromesso
sostenuta da Spadaccia, secondo la quale si doveva
rispettare il principio fondamentale dello Statuto,
che prevedeva l'accesso nel P.R. a tutti i cittadini,
ma nello stesso tempo si doveva mantenere fermo il
giudizio politico negativo sull'azione del sen. Plebe
(252). In realtà la richiesta dell'esponente missino
era diventata una provocazione politica, a causa
dell'uso che ne venne fatto dalla grande stampa di
informazione. Tuttavia il "caso" portò
alla luce contrasti reali, che si agitavano
all'interno del partito Radicale fra l'anima,
"radical-democratica" improntata ad una
concezione tradizionale del partito, e quella
"radical-nonviolenta".
Questi contrasti
esploderanno nel decennio successivo.
L'uccisione di
Giorgiana Masi, una militante radicale di 18 anni,
durante una manifestazione a Roma in commemorazione
della vittoria divorzista, il 12 maggio 1977, le cui
responsabilità non sono state ancora chiarite, si
ripercosse sul P.R., accusato di aver organizzato
quella manifestazione, in verità pacifica, ma
illegittimamente vietata dalle autorità di polizia
in seguito ad una disposizione del Ministro degli
Interni.
In questo clima di
tensioni interne ed esterne, cominciò la difficile
raccolta delle firme per gli 8 referendum, decisi dal
congresso di Napoli. Difficile perché i radicali,
impegnati a raccogliere 5 milioni di firme con un
apparato scarso e fondato sul volontariato, spesso
occasionale, e, questa volta, senza il supporto delle
strutture dei partiti di massa, dovettero scegliere
una politica di indebitamento massiccio, che, di
fatto, era garantito dal fondo di finanziamento
pubblico. I radicali sapendo di avere "in
banca" i soldi, decisero di spenderli (253). Ma
questa politica di spesa non venne sostenuta da
adeguate iniziative per autofinanziarla.
TAB. 12
Comitati per gli otto
referendum del 1977
REGIONI |
Comitati regionali |
Comitati provinciali |
Comitati zonali |
Comitati con apporto tecnico di
altre forze |
Totale |
|
|
|
|
|
|
VALLE D'AOSTA |
1 |
1 |
- |
1 |
|
PIEMONTE |
- |
5 |
- |
6 |
|
LIGURIA |
1 |
3 |
3 |
7 |
|
LOMBARDIA |
1 |
8 |
2 |
11 |
|
VENETO |
1 |
6 |
3 |
10 |
|
TRENTINO SUD T. |
2 |
- |
- |
2 |
|
FRIULI VENEZIA G. |
1 |
3 |
3 |
7 |
|
EMILIA ROMAGNA |
1 |
7 |
5 |
13 |
|
TOSCANA |
1 |
9 |
6 |
16 |
|
UMBRIA |
1 |
1 |
- |
2 |
|
MARCHE |
1 |
4 |
5 |
10 |
|
LAZIO |
1 |
4 |
6 |
11 |
|
ABRUZZO |
1 |
3 |
4 |
1 |
9 |
MOLISE |
- |
2 |
2 |
4 |
|
CAMPANIA |
1 |
5 |
14 |
1 |
21 |
PUGLIA |
1 |
3 |
3 |
7 |
|
BASILICATA |
1 |
1 |
1 |
3 |
|
CALABRIA |
1 |
1 |
7 |
1 |
10 |
SICILIA |
1 |
8 |
2 |
11 |
|
SARDEGNA |
1 |
4 |
4 |
1 |
10 |
ITALIA |
19 |
78 |
70 |
4 |
171 |
Fonti: "Notizie
Radicali", n. 85, 31 marzo 1977, "Basta!
Otto firme per un solo grande referendum",
Savelli, Roma, 1977; cfr. anche MASSIMO GUSSO,
"Il P.R.: Organizzazione e leadership",
pag. 52.
Dopo un mese di
campagna referendaria il partito si era già
indebitato per circa duecento milioni. Allora la
segretaria ed il tesoriere (A. Aglietta e P.
Vigevano) decisero di convocare un congresso
straordinario perché venisse votato dall'assemblea
degli iscritti l'utilizzo del fondo pubblico
congelato, oppure si iniziasse una campagna per la
raccolta di finanziamenti.
Il congresso
straordinario, tuttavia, avrebbe dovuto occuparsi
anche di problemi pratici sorti nel corso della
mobilitazione per la raccolta delle firme (254), come
la mancanza di autenticatori delle firme, le
difficoltà finanziarie, l'inesperienza di molte
associazioni radicali.
Il congresso (il
XVIII, tenutosi a Roma il 7 e l'8 maggio 1977) non
chiarì definitivamente il problema per il quale era
stato convocato, cioè l'uso o meno del finanziamento
pubblico. Si delinearono varie posizioni, alcune
rigidamente contrarie altre favorevoli ad
utilizzarlo, non per le strutture del partito ma per
fini di interesse generale. Il congresso approvò un
compromesso tra le due posizioni: pur non escludendo
un futuro utilizzo dei fondi a fini non diretti di
partito, si confermava il provvisorio congelamento di
tali fondi (255); si dette invece il via ad una
sottoscrizione nazionale. I contributi erano
ricercati con un'iniziativa articolata sull'intero
territorio italiano con il coinvolgimento dei partiti
regionali: il tesoriere nazionale assumeva la veste
di coordinatore generale della raccolta, non più
costretto "ad elemosinare nell'ambito ristretto
del gruppo romano e di alcuni ambienti
milanesi". La mozione sull'autofinanziamento
poneva degli obiettivi molto rigidi: 300 milioni di
raccolta di contributi entro il 30 giugno 1977, ed in
caso di mancato raggiungimento di questo obiettivo,
la sospensione di ogni forma di attività politica
nazionale del partito. Ma la sottoscrizione,
nonostante la mobilitazione generale dei militanti,
rese soltanto 150 milioni, insufficienti a sanare il
deficit che la campagna referendaria accumulava. E
ciò nonostante la disinformazione e la mancanza di
mezzi, la raccolta di circa cinque milioni di firme
si completò tra l'aprile e giugno del 1977.
3. Il finanziamento
pubblico: prendere o lasciare?
Nel luglio 1977, il
Consiglio Federativo, in esecuzione della delibera
congressuale, decise di sospendere l'attività
politica nazionale del partito; si chiusero due delle
tre sedi nazionali, si disattivarono 7 linee
telefoniche su 9, venne ridotta la spesa per la
stampa. Pose l'obiettivo al partito di una raccolta
di fondi per 200 milioni, da raggiungersi attraverso
una autotassazione di tutti gli iscritti di 15 mila
lire a testa. Ma anche questo tentativo fallì,
perché la raccolta fruttò soltanto 10 milioni; un
insuccesso dovuto al disimpegno dei militanti, dopo
la faticosa campagna referendaria (256). Si arrivò
al XIX Congresso tenutosi a Bologna dal 29 ottobre al
1° novembre 1977, sull'onda di un vivacissimo
dibattito. Alle spalle c'era il risultato esaltante
della raccolta di firme per i referendum, un'impresa
ritenuta impossibile da tutti gli osservatori; anche
se la soddisfazione generale era mitigata dal
pericolo che i partiti dell'esarchia non facessero
tenere i referendum, ricorrendo a cavilli od a
manovre parlamentari. Il Congresso, quindi, era
dominato dalla consapevolezza che dall'esito della
battaglia sui referendum dipendesse la possibilità
per il P.R di diventare una grande forza capace di
condizionare, dall'opposizione, l'intera vita
politica del Paese. Il congresso di Bologna doveva
anche affrontare nuovamente il problema del
finanziamento pubblico dei partiti, alla cui
abolizione si erano mostrate contrarie le due grandi
formazioni di sinistra, il P.S.I. e il P.C.I., le
sole con le quali il P.R. avesse collaborato dal
divorzio all'aborto. La contrapposizione tra P.R. e
la sinistra storica sul problema del finanziamento
pubblico lo avrebbe isolato, mettendo soprattutto a
repentaglio il progetto che il partito perseguiva da
un quindicennio, l'alleanza a sinistra sotto il
simbolo libertario e socialista.
Nel XIX congresso le
tensioni nascevano non solo da fattori esterni, ma
anche da fatti interni al Partito. Nei precedenti
congressi erano già venuti in luce motivi di
malessere, come abbiamo già detto accennando
dell'organizzazione, ma tali manifestazioni di
dissenso si erano sempre ricomposte, perché gli
elementi di malcontento non si erano organizzati in
correnti. Ma a Bologna il disagio era più forte
rispetto al passato. Emersero contrapposizioni tra
"vertice" e "base", fra
"centro" e "periferia". Insomma
tra sostenitori di un P.R. tradizionale e quelli che
volevano che si accentuassero i caratteri del
movimento, di una aggregazione sempre provvisoria,
raccolta volta per volta attorno alle lotte per
tematiche specifiche.
La periferia, quelli
del "tavolino sulle spalle", i militanti
che avevano sempre lavorato nelle piazze e nelle
strade d'ltalia reclamavano, dopo l'enorme fatica per
la raccolta di 5 milioni di firme, di partecipare in
prima persona alle scelte del Partito. La posizione
di coloro che si erano schierati a favore di un
partito nuovo veniva espressa in un documento
pubblicato dalla rivista "Argomenti
radicali", edita dal gruppo milanese e diretta
da Massimo Teodori (257). Il documento, in sostanza,
auspicava un tipo di organizzazione più stabile,
diffusa nel Paese, articolata in istituzioni,
strumenti e canali persistenti, e un'omogeneità
sotto il profilo culturale. Lo strumento, secondo la
tesi del gruppo "Argomenti Radicali",
doveva essere il miglioramento della circolazione
delle informazioni all'interno del Partito, in
pratica togliendo le informazioni dalle mani di quei
pochi che l'avevano sempre gestita. Il documento di
Teodori, al di là da certe fumose argomentazioni,
auspicava la trasformazione del PR in un partito
anche se non tradizionale. Questa posizione e quelle
assunte dai militanti locali lamentavano l'egemonia
sul partito del gruppo romano, che cooptava gli
elementi più capaci della periferia, impedendo così
la crescita dei partiti regionali. Il gruppo romano
reagì alle critiche, accusando gli aderenti ad
"Argomenti radicali" di voler snaturare il
partito (258).
Per la prima volta,
nella storia dei congressi del P.R. la mozione
finale, presentata dalla dirigenza uscente, venne
approvata senza la maggioranza dei tre quarti
necessaria a renderla vincolante. Si decise di
difendere il pacchetto degli otto referendum, e
quindi di privilegiare il carattere movimentista del
partito.
Dopo un anno e mezzo
di dibattito, il XIX congresso deliberò sul
finanziamento pubblico. Fu approvata una mozione,
proposta da Gianfranco Spadaccia, che prevedeva
l'assegnazione dei fondi dello Stato al gruppo
parlamentare radicale, affinché li spendesse sotto
la propria autonoma responsabilità, nell'ambito
delle proprie funzioni di rappresentanti della
Nazione e non per fini interni di partito. Per
obbligo di legge il gruppo parlamentare aveva
trasferito al partito i fondi pubblici: la soluzione
adottata dal congresso aveva il significato simbolico
di restituire la somma agli elettori che con il loro
voto avevano reso possibile il finanziamento,
rendendone garanti gli eletti. I parlamentari
radicali, per statuto, non sono vincolati da
disciplina di partito e quindi autonomi.
La situazione
finanziaria del P.R. era abbastanza precaria: il
bilancio registrava un disavanzo complessivo di oltre
336 milioni. Per farvi fronte, il congresso stabilì
l'autotassazione degli iscritti in proporzione al
reddito e la predisposizione di programmi di
autofinanziamento per ciascuna iniziativa politica.
In realtà, a garanzia del prestito bancario che il
tesoriere aveva acceso per le spese della campagna
referendaria, era stata impiegata una parte del
finanziamento pubblico, che quindi rimaneva vincolata
in banca e di fatto utilizzata per il partito (259).
Il problema rimaneva aperto, nonostante le decisioni
del congresso.
Il Consiglio
Federativo decise di proporre una contribuzione
straordinaria una tantum agli iscritti ed ai
sostenitori per estinguere i debiti (260). In caso di
fallimento, non rimaneva che chiudere il partito,
come minacciò il tesoriere.
Non era un annuncio a
vuoto: il 17 gennaio 1978 la segretaria nazionale
Adelaide Aglietta ed il tesoriere Paolo Vigevano
comunicarono che il partito radicale chiudeva ogni
attività politica (261). La continuità delle
funzioni del partito veniva assicurata dal Consiglio
Federativo, che decise di convocare il Convegno
teorico sul partito deliberato dal Congresso di
Bologna per il maggio dello stesso anno sul tema:
"La teoria e la pratica di una organizzazione
federativa libertaria, secondo lo Statuto e secondo
le concrete esperienze di lotta del partito
radicale".
Il momento politico
per il P.R. si presentava difficile perché proprio
in quei giorni la Corte Costituzionale si era
pronunciata per l'inammissibilità di quattro degli
otto referendum radicali: il referendum sul
concordato, quello per l'abrogazione di novantasette
articoli del Codice Penale e due
"antimilitaristi" (262).
Intanto sul fronte
parlamentare i radicali erano impegnati a difendere
il referendum sull'aborto rimandato dal '76 al '78
per effetto delle elezioni politiche anticipate. Nel
maggio '78 vennero approvate dal Parlamento le leggi
sui manicomi, sulla commissione inquirente e
sull'aborto che vanificavano tre dei referendum
richiesti dai radicali.
L'11 e il 12 giugno si
svolsero i due referendum rimasti, quello sul
finanziamento pubblico dei partiti e quello sulla
legge Reale. I risultati furono sorprendenti:
votarono a favore dell'abrogazione del finanziamento
pubblico 13.736.577 elettori, pari al 43,7%. Si erano
dichiarati favorevoli all'abrogazione il P.R., il
P.L.I., D.P. e M.S.I.
Favorevoli
all'abrogazione della legge Reale sull'ordine
pubblico furono 7.323.395 elettori, pari al 23,3%. Si
osserva quindi un sensibile spostamento
dell'elettorato a favore dell'abrogazione,
spostamento che non rispecchiava lo schieramento
assunto dai vari partiti sul tema delle due
consultazioni popolari.
I radicali ascrissero
nel novero dei successi i risultati dei due
referendum. Per il P.R. era stato un cammino in
salita per tutte le difficoltà organizzative che
aveva dovuto affrontare, e controcorrente, perché in
opposizione ai partiti di sinistra altre che agli
altri. Dal conteggio dei voti per il "sì"
risultò che molti militanti comunisti e socialisti
avevano votato contro le indicazioni dei loro
partiti.
Quali conseguenze ebbe
il risultato dei referendum sul partito radicale?
Spadaccia osservò, con fondamento, che i risultati
dei due referendum confermavano la credibilità del
P.R. come forza politica (263). In effetti i radicali
utilizzarono bene il loro patrimonio di lotte, la
loro capacità di mobilitazione, l'ascolto che si
erano guadagnati presso l'opinione liberale del
Paese, insomma si potevano permettere di affermare,
considerati i molti milioni di "sì", di
considerarsi il vero partito dell'opposizione. Ma vi
erano problemi ancora aperti.
La pubblicistica
radicale individuò le difficoltà di progettazione,
di predisporre programmi che avessero la stessa
capacità dirompente di quelli per il divorzio,
l'aborto e gli otto referendum. I radicali
avvertivano anche l'alto costo umano dei continui
digiuni e degli scioperi della sete. E si imponeva la
necessità, per il partito, di insediare partiti
regionali, strutture associative locali che fossero
capaci di diventare centri autonomi di promozione
delle lotte radicali.
I radicali
"rifondatori", in definitiva, continuavano
a rifiutare, nonostante le pressioni di alcune
componenti interne, la crescita del partito in senso
tradizionale. Anzi volevano accentuare la
"diversità" libertaria del partito che non
doveva esistere solo a Roma, non solo in Parlamento.
Insomma erano combattuti tra la volontà di rimanere
movimento o tramutarsi in un partito tradizionale.
Dopo la chiusura delle
strutture centrali del partito, si volle tentare lo
sviluppo delle realtà locali, ma alla fine dell'anno
gli unici partiti regionali effettivamente vitali
appaiono, come nel passato, quelli esistenti nella
Lombardia e nel Lazio. Nel resto d'Italia il partito
languiva, sembrava aver perduto quella capacità di
mobilitazione che aveva rivelato appena un anno prima
in occasione della raccolta di cinque milioni di
firme per i referendum. la decisione di
"chiudere il partito" coincideva con
momenti di disorientamento sui progetti futuri, forse
in ordine all'identità stessa del partito, come
abbiamo già visto a proposito dei dibattiti degli
ultimi congressi.
La conferma di una
siffatta ipotesi si può ricavare dall'analisi della
mozione politica votata al congresso di Bologna del
novembre '77 (264). Al contrario di quelle votate nei
congressi precedenti, la mozione appare piuttosto
vaga nei contenuti, limitandosi a riconfermare la
strategia referendaria, senza indicazioni di nuove
lotte per un partito che, secondo i suoi fondatori,
doveva morire e rinascere ogni anno.
I guai finanziari, per
il P.R., nonostante le drastiche decisioni, non erano
finiti. E' vero che il blocco delle spese aveva
determinato un avanzo "di competenza" di
118 milioni, ma era ugualmente vero che il disavanzo
restava elevato in conseguenza del deficit dell'anno
precedente, ammontante a 321 milioni. La campagna del
tesseramento, forse un po' trascurata per il 1978,
aveva fruttato soltanto 1911 iscritti, per una quota
complessiva di 92 milioni (265). Il tesoriere fu
quindi costretto ad accendere un debito bancario, per
far fronte al deficit. Il notevole sbilancio tra
entrate ed uscite aveva condizionato inevitabilmente
le iniziative politiche.
Così, il XX Congresso
(Bari, 1-4 Novembre 1978) decise per l'uso, anche se
"alternativo", del finanziamento pubblico
(266). Era una decisione amara, quasi una sconfitta
politica, ma indispensabile per la sopravvivenza del
partito che aveva una forte esposizione verso le
banche.
Il Congresso deliberò
alcuni correttivi per rendere trasparente l'uso del
finanziamento pubblico. Il finanziamento non doveva
entrare nel bilancio del Partito, né essere
utilizzato ai fini dell'organizzazione diretta o
indiretta dell'apparato (sedi, telefoni, funzionari,
rimborsi spese, e così via); doveva servire a
realizzare progetti che consentissero di organizzare
battaglie contro il "regime". Stabiliti
tali fini, il congresso dette mandato al tesoriere
nazionale di impiegare il finanziamento pubblico per:
1) l'eliminazione del deficit del partito contratto
nel 1977 nella campagna per la raccolta delle firme
per gli otto referendum; 2) gli investimenti diretti
all'informazione; 3) la costituzione di un centro di
produzione radiofonica a l'assistenza tecnica per le
radio radicali; 4) gli investimenti per gli impegni
elettorali decisi dal Congresso.
Il Congresso di Bari
è importante anche sotto altri aspetti. La politica
del PR si orientava verso i grandi temi, cominciava a
lasciar cadere la progettualità specifica, sulle
"cose" di tradizione salveminiana, e si
indirizzava all'Europa, all'ambiente, alle regioni
(267).
Venne eletto
segretario Jean Fabre, cittadino straniero: ed era la
prima volta in Italia che uno straniero arrivava alla
massima carica di un partito. Una scelta, dunque, in
linea con la nuova politica radicale.
4. La svolta del '79:
lotta alla fame nel mondo
Il 1979 si aprì con
due importanti avvenimenti, nella vita del partito:
il Consiglio Federativo del 20 gennaio decise a
maggioranza e in contrasto con la mozione di Bari, di
proporre la raccolta delle firme per un nuovo
pacchetto di referendum: i primi due, per i quali fu
presentata la richiesta, riguardavano le norme che
limitavano l'autodeterminazione della donna contenute
nella legge 194 del '78 sull'aborto, e l'abrogazione
di alcuni articoli della legge 393 del '75 sulla
localizzazione delle centrali nucleari.
In una seduta
successiva il Consiglio Federativo votò altri sei
referendum: per l'abolizione della caccia,
dell'ergastolo, per la smilitarizzazione della
polizia e della Guardia di Finanza, per l'abrogazione
dei reati di opinione e dei tribunali militari (268).
Osservando le
tematiche di quelle richieste di referendum si nota
che i radicali a quelle consuete della loro
tradizione, come i tribunali militari, avevano
aggiunto nuovi argomenti come quelli della difesa
dell'ambiente, che non appartenevano al patrimonio
storico della sinistra. Ed era una scelta innovativa
che passava in mezzo agli schieramenti tradizionali
di destra e di sinistra.
Ma la raccolta delle
firme per i nuovi referendum venne impedita dallo
scioglimento anticipato delle Camere.
All'inizio dello
stesso 1979, Pannella annunciò una nuova campagna,
che cambierà la natura ed il ruolo del partito
radicale.
In un articolo su
"Notizie radicali" (269), in risposta alla
richiesta di referendum promossa dal Movimento per la
vita per abrogare la legge 194, il leader radicale
denunciò il dramma di quindici milioni di bambini
"assassinati per fame" nel solo '78.
Pannella invitava a legare la vita di noi tutti a
quella di quei veri "condannati a morte".
Per drammatizzare la sua denuncia, Pannella dette
inizio ad un'azione diretta, uno sciopero della fame,
con il quale chiedeva al governo di stanziare
immediatamente 5 mila miliardi per i paesi
sottosviluppati dell'Africa, dell'Asia e dell'America
centrale e meridionale. Costituì un Comitato per la
vita, per la pace e per il disarmo, insieme con
uomini di cultura ed autorità religiose.
L'azione di Pannella
si mosse su due piani; la rivendicazione di un
intervento immediato per scongiurare lo sterminio, e
la sensibilizzazione dell'opinione pubblica su di un
problema da lui considerato di natura politica, una
"grave minaccia alla pace ed alla sicurezza
internazionale".
La campagna a favore
della fame nel mondo, ottenne i primi risultati nella
Pasqua del '79, quando il P.R. organizzò la prima
marcia della pace, a Roma, da Porta Pia al Vaticano,
a cui parteciparono dieci mila persone. La
manifestazione ebbe un rilevante successo: una
delegazione fu ricevuta dal Presidente Pertini, ed il
Papa fece un accenno al problema della fame, nella
sua omelia pasquale.
Il coinvolgimento
della massima autorità cattolica in una iniziativa
radicale era, indubbiamente, il segno dei nuovi tempi
del P.R. che, dieci anni prima aveva organizzato una
manifestazione pro-aborto davanti ai palazzi
apostolici.
L'ultima iniziativa di
Pannella colse di sorpresa i militanti radicali: era
stato proposto un tema, che, certamente, non
apparteneva al patrimonio culturale del P.R.
Giovanni Negri, allora
dirigente del partito in Piemonte e direttore di
"Notizie radicali", rilevava il pericolo
per il partito di appiattirsi acriticamente sulle
posizioni di Pannella; tuttavia invitava i militanti
ad appoggiare le iniziative del leader con i metodi
della tradizione radicale (270).
5. Il partito
"Omnibus"
Il XXI Congresso,
svoltosi a Roma dal 21 al 25 marzo 1979 fu convocato
per esaminare i temi che Pannella aveva portato alla
ribalta della scena politica. Ma un problema di più
immediata attualità si presentò all'attenzione dei
congressisti: lo scioglimento del Parlamento e la
fissazione delle elezioni politiche per il 4 e 5
giugno.
Il momento culminante
del congresso fu l'intervento di Pannella. Il leader
storico che dal '73 non aveva più rinnovato la
tessera radicale, tornava ora al Partito con tutto il
peso del proprio carisma dopo aver lasciato il
mandato parlamentare (271). Il punto centrale del
discorso di Pannella fu l'enunciazione del principio
etico della non violenza, come fondamento del Partito
radicale.
Diversamente dal
passato la non violenza non appariva più solo un
metodo di azione politica; Pannella affermava:
"nel momento in cui il terrorismo e la violenza
inducono disperazione e sono frutto di una strategia,
tutta la storia della violenza va ripercorsa e
rivista" (272). Si soffermava, in particolare,
su di un episodio della Resistenza, quello
dell'attentato di via Rasella a Roma, quando i
partigiani fecero saltare in aria 32 soldati
altoatesini, ed i nazisti, per rappresaglia
trucidarono 330 innocenti alle Fosse Ardeatine.
Pannella disse che
l'attentato dei partigiani fu un atto di terrorismo e
non un'azione militare: accomunava la violenza di
allora a quella degli anni contemporanei. La non
violenza, per Pannella, aveva un valore universale, e
la violazione di questo principio etico non poteva
essere giustificata da alcuna ideologia.
Sull'immediato, Pannella, inventò il partito
omnibus: chiunque fosse d'accordo con gli obiettivi
radicali poteva essere accettato come alleato.
Questa indicazione di
Pannella non fa che estremizzare la politica per temi
da sempre perseguita dal partito radicale.
Il Congresso accolse
l'invito di Pannella a presentare liste aperte. La
disponibilità radicale era rivolta particolarmente a
"quelle realtà politiche e sociali che
rischiavano di non essere rappresentate o di essere
assorbite dai partiti di regime", in primo luogo
ai militanti di Lotta Continua ed alle forze
regionalistiche ed autonomistiche (273).
Il partito si avviava
alle elezioni politiche del 5 giugno 1979 tra
polemiche interne ed incertezze sull'assetto da dare
all'opinione radicale che cresceva in tutto il Paese.
La stessa
presentazione delle liste fu un parto difficile,
quasi come in un partito tradizionale, perché
avvenne tra accuse e controaccuse, anche a Pannella,
rimproverato di essere il demiurgo delle candidature,
in spregio all'ispirazione libertaria del Partito
radicale.
Questa campagna
elettorale fu diversa da tutte le precedenti
occasioni di mobilitazione del partito poiché era
cresciuto il consenso attorno ai radicali.
Accettarono di
candidarsi nelle liste del P.R. molti intellettuali,
del livello di Leonardo Sciascia, ed ex comunisti,
come M. Antonietta Macciocchi e Alessandro Tessari.
Soprattutto, il partito aveva una considerevole
disponibilità finanziaria, che permise la fondazione
di una stazione televisiva, Teleroma 56, ed il
potenziamento di Radio Radicale, e l'acquisto di
spazi di informazione elettorale sui grandi giornali
nazionali.
I risultati elettorali
furono ritenuti un rilevante successo dal P.R.: 3,4%
nell'elezione della Camera dei Deputati, con 18 seggi
(4 nella legislatura precedente), 2,5% per il Senato,
con due seggi (nessuno nelle elezioni precedenti).
Una settimana dopo si
tennero le elezioni per il primo parlamento europeo,
ed il P.R. aumentò i suoi consensi al 3,7%,
ottenendo tre seggi a Strasburgo.
Dall'esame dei dati
disaggregati si può rilevare che il P.R. rimaneva,
come nel '76, un partito concentrato al Nord,
soprattutto nel triangolo industriale, comunque il
dato elettorale più appariscente era determinato
dalle alte percentuaLi di votanti per il P.R. nei
capoluoghi di provincia, anche al Sud. In definitiva
il Partito radicale si riconfermò un movimento
urbano, a dimostrazione che la cultura urbana era
più ricettiva ai temi radicali.
NOTE
(249) "Notizie
radicali", n. 1, 15 gennaio 1977, i deliberati
del C.F. del partito radicale, riunitosi 1'8 e 9
gennaio. Le decisioni finali (C.F. 12 febbraio) in
"Notizie radicali", n. 8. 26/2/1977.
(250) Per la cronaca
del digiuno, ad esempio "Notizie radicali",
n. 10; 12 marzo 1977.
(251) MARCO PANNELLA,
"Notizie radicali", n. 5, 10 febbraio 1977.
(252) Cfr.
"Troppo spazio per un no a Plebe",
"Argomenti radicali", n. 1, aprile-maggio
1977.
(253) Cfr. LAURA
RADICONCINI, "Finanziamento pubblico o
autofinanziamento: una scelta", in
"L'antagonista radicale", Roma, 1978.
(254) Si veda il
documento della segreteria nazionale del PR,
pubblicato da "Notizie radicali", n. 87, 21
aprile 1977.
(254) Mozione
sull'autofinanziamento, in "Notizie
radicali", n. 161, 2 giugno 1977.
(256) PAOLO VIGEVANO,
"Raccolti solo 10 milioni su duecento",
"Notizie radicali", n. 186, 6 settembre
1977.
(257) Dossier, il PR
verso il Congresso, "Argomenti radicali",
n. 3-4, agosto nov. 1977.
(258) Gianfranco
Spadaccia, con una dichiarazione, rese noto che
Massimo Teodori gli aveva proposto un accordo che
prevedeva la sua elezione a presidente del consiglio
Federativo in cambio della non presentazione di una
mozione contrapposta a quella della dirigenza
radicale. In conseguenza a tale comunicato si dimise
dal partito Ernesto Bettinelli, giurista, uno dei
massimi esponenti del P.R.
(259) Cfr. "In
nome della legge", "Notizie radicali",
n. 233, 18 nov. 1977.
(260) Cfr. PAOLO
VIGEVANO, "Dalla tredicesima deve venire la
prima risposta", "Notizie radicali",
n. 235, 12 dic. 1977.
(261) La
documentazione della vicenda in "Quaderni
Radicali", n. 2, 1978, pp. 22-60.
(262) Per la sentenza
della Corte Costituzionale e le vicende giuridiche
relative ai referendum: Camera dei deputati, quaderno
di documentazione del servizio studi, "Il
referendum abrogativo in Italia", Roma, 1981,
pp. 254-501.
(236) SPADACCIA,
"Il dopo referendum", "Quaderni
radicali", n. 3, giugno-agosto 1978, pp. 6-14.
(264) Mozione politica
approvata dal XIX congresso del P.R.
(265) Cfr. M. GUSSO,
op. cit.
(266) Mozione sul
finanziamento pubblico approvata dal XX Congresso.
(267) Cfr. Mozione
politica, ibidem.
(268) Le deliberazioni
del Consiglio Federativo sono in "Notizie
radicali", n. 2, 1 febbraio 1979 e n. 3, 15
febbraio 1979. Per il contenuto dei referendum
proposti, "Un altro sì con gli otto
referendum" a cura del PR, Roma, 1979.
(269) MARCO PANNELLA,
"La nostra lotta per la vita",
"N.R.", n. 2, 1 febbraio 1979.
(270) GIOVANNI NEGRI,
"Lottare per la vita, qui e subito",
"N.R." n. 3; 15 febbraio 1979.
(271) Gli interventi
di Marco Pannella al XXI Congresso sono stati
pubblicati, con il titolo di "Mein Kampf",
da Quaderni Radicali, nn. 5/6, gennaio-giugno 1979,
pp. 186-230.
(272) MARCO PANNELLA,
intervento del 2 aprile, Q.R., cit., pag. 218.
(273) Cfr. Mozione
politica approvata dal XXI Congresso.