CAPITOLO
II - LE BATTAGLIE PER IL DIVORZIO
1. Tutti uniti nella
Lega
Il 1° ottobre 1965,
il deputato socialista Loris Fortuna presentò una
proposta di legge volta ad introdurre, anche se in
casi limitati, lo scioglimento del matrimonio (88).
Nella presentazione del disegno di legge, Fortuna
spiegava la necessità della riforma con la
condizione di isolamento in cui era venuto a trovarsi
il diritto italiano, in questo istituto, rispetto
agli ordinamenti stranieri; e con la considerazione
che in quegli anni la media annua degli illegittimi
era di circa 22 mila, e la media annuale delle
separazioni legali si aggirava fra le novemila e le
diecimila (89). Sul fondamento di questo dato i
radicali si resero conto che era possibile
trasformare quello che per lunghi anni stato un fatto
privato in un problema di carattere sociale.
Infatti sommando i
seicentomila separati legali con il milione e mezzo
circa di separati di fatto, le altre migliaia di
persone coinvolte nelle separazioni, come i figli di
separati o i conviventi di separati, complessivamente
si arrivava a circa un dieci, quindici per cento
della popolazione italiana che era in un modo o
nell'altro interessata all'aspetto patologico del
matrimonio (90). Sicché tutte queste persone
avrebbero potuto rappresentare un potenziale di
mobilitazione e di consenso piuttosto vasto.
Una tale situazione si
presentava perciò come il terreno ideale per la
sperimentazione della concezione che i radicali
avevano della politica e del partito: fare appello ai
diretti interessati alle singole battaglie,
individualmente, assicurando loro attraverso il
partito o i movimenti organizzati un modo per
esprimersi politicamente. Miravano così ad ottenere,
collegando un dato personale con una esigenza
generale dei cittadini, il massimo impegno da tutti
coloro che erano interessati al problema.
Un'intuizione
essenziale probabilmente stava alla base della scelta
dei diritti civili ed in particolare del divorzio
come cavalli di battaglia: i radicali pensavano che,
nella società italiana, era avvenuta una
secolarizzazione di fatto, cioè che i costumi erano
molto più evoluti del diritto vigente. Era stata in
parte superata la concezione che le leggi della
repubblica italiana dovessero identificarsi con
criteri di moralità sociale della Chiesa.
Il problema del
divorzio, assurto a motivo di continuo scontro
politico per quasi dieci anni fino ad essere causa
delle prime elezioni anticipate nella storia del
Paese, era anche e soprattutto una questione di
sovranità: la pretesa della Chiesa cattolica di
esercitare le pienezza della giurisdizione su tutti
gli effetti civili del matrimonio concordatario
diveniva conflittuale con l'ordinamento giuridico
italiano (91). Questa esclusività di giurisdizione
derivava, secondo la Chiesa, dall'art. 34 del
Concordato del '29, richiamato dell'art. 7 della
Costituzione, che, oltre ad impegnare l'Italia a
riconoscere effetti civili al matrimonio religioso,
così com'è regolato dal diritto canonico, affidava
ai tribunali ecclesiastici anche la giurisdizione
sulle vicende successive all'atto di matrimonio e
quindi sul suo eventuale scioglimento.
In mancanza del
divorzio era possibile sciogliere il matrimonio solo
mediante l'annullamento pronunciato dai tribunali
civili per i matrimoni civili e dai tribunali
ecclesiastici per i matrimoni concordatari secondo le
regole stabilite dal diritto canonico per la
validità del sacramento matrimoniale e con effetti
civili. Ma l'annullamento non scioglie un vincolo, lo
considera nullo fin dall'inizio, ha effetto
retroattivo, ex tunc, nel senso che è come se il
matrimonio non fosse mai esistito; con la
conseguenza, per esempio, che non vengono
salvaguardati i diritti dei figli, né sono previsti
alimenti per il coniuge più debole (92). Tutto
questo, unito alla circostanza della esosità dei
costi delle cause rotali, determinava l'evidente
lesione dei diritti delle parti sociali più deboli.
Dunque la complessità
dei processi matrimoniali creava un evidente stato di
sofferenza nelle persone che vi incappavano, per cui
la battaglia per l'introduzione del divorzio nel
diritto italiano non era una manifestazione di
principi anticlericali, ma il riconoscimento di un
diritto.
L'idea vincente dei
radicali è proprio quella di sfruttare questo
collegamento fra le motivazioni personali e la
politica, e riportare l'attenzione dei partiti verso
i problemi strettamente individuali che, specialmente
da parte delle forze marxiste, venivano solitamente
messi da parte per motivi ideologici.
Per la filosofia
radicale la politica è principalmente il mezzo per
risolvere il problema della felicità dell'individuo,
il raggiungimento della quale non sta solo nella
soluzione di problemi economici, ma soprattutto nella
difesa della libertà del singolo e nella conquista
di diritti civili ed umani (93). Erano contrari,
quindi, ad idee solidaristiche od a etiche del
sacrificio di tipo cattolico o comunista e
consideravano la collettività come un insieme di
persone autonome e non come un qualcosa che trascende
l'individuo, e si situa al di sopra di esso (94). E'
dunque un uso nuovo della politica, come mezzo di
liberazione di categorie di emarginati da forme di
oppressione sociale, che sono anche più
insopportabili di quelle economiche perché coartano
le libertà del cittadino come uomo. Ecco perché è
prevalente nel partito radicale la tendenza
movimentista, soprattutto a cavallo degli anni
Settanta. Si fa del partito il momento in cui si
esprime la vita personale di ciascun militante.
Il traît d'union di
tutte le situazioni personali è un progetto generale
di cambiamento della società, che si attua
attraverso una nuova gestione della cosa pubblica: è
il fine ultimo della introduzione delle lotte per i
diritti civili la ricomposizione, attraverso un
movimento dal basso, spontaneo, dell'unità delle
sinistre, e, in ultima analisi, la candidatura delle
sinistre stesse a forza di governo. Un modo, quindi,
per sbloccare la situazione di stallo perpetuatasi in
Italia, il regime fondato sulla D.C., con il
conseguente congelamento della Costituzione,
l'appiattimento dei contrasti politici che sono,
secondo i radicali salutari per una vera democrazia,
la riduzione del Parlamento ad una camera corporativa
di contrattazione, di reciproche concessioni tra
maggioranza ed opposizione. Pertanto, il divorzio non
era un problema isolato, ma si inquadrava in un
complesso progetto di rinnovamento e laicizzazione
dello stato italiano.
Dopo la presentazione
del progetto di legge Fortuna, furono i radicali a
suggerire di organizzare un sostegno da parte
dell'opinione pubblica, unico modo per evitare
l'insabbiamento della questione. Furono indubbiamente
favoriti dal fatto che il settimanale popolare
"ABC" appoggiò subito l'iniziativa,
assicurando così una vasta eco tra il pubblico,
proprio lo scopo che i radicali si proponevano. Il
primo passo verso la vera e propria organizzazione
della battaglia fu compiuto nel dibattito promosso a
Roma il 12 dicembre 1965 dalla sezione romana del
partito radicale. Il convegno fu presieduto da
Massimo Teodori, e vi parteciparono Mauro Mellini,
come relatore radicale, Luciana Castellina per il
P.C.I., il cattolico Migliori e Loris Fortuna (95).
Qui fu abbozzata
l'idea, nuova per il panorama politico italiano,
della costituzione tra i divorzisti di una
associazione autonoma dai partiti, sullo stile delle
leghe o dei gruppi di pressione anglo-sassoni. Mauro
Mellini, nella sua relazione al convegno, delineava
la struttura e la tattica del movimento:
"un'azione divorzista autonoma, vivace,
organizzata, politicamente bene orientata, diretta a
far lievitare nella massa sentimenti e convinzioni
ormai diffusi, ad incanalare energie, a coordinare
gli sforzi di quanti si battono per il divorzio, a
stimolare e confortare l'azione delle forze politiche
decise a sostenere la causa divorzista, è oggi
possibile e si profila efficace" (96).
Nel gennaio 1966 lo
stesso Mauro Mellini, insieme al segretario del P.R.
Marco Pannella annunciarono la costituzione della
Lega Italiana per l'introduzione del divorzio. La
struttura della Lega era disegnata come centro di
coordinamento delle attività svolte in tutto il
Paese, un organismo aperto ed informale, la cui
novità principale stava nel fatto che i componenti
della direzione nazionale, pur provenienti da partiti
diversi, ne facevano parte a titolo personale e non
come delegati della forza politica di appartenenza.
Questa condizione era stata apposta per liberare la
Lega da contrattazioni interpartitiche e da
compromessi. In posizione preminente, nel comitato
promotore, c'erano Loris Fortuna, i magistrati Mario
Berutti e Salvatore Gianlombardo, i parlamentari
Lucio Luzzatto del P.S.I.U.P, Giuseppe Perrone-Capano
del P.L.I., Giuseppe Averardi del P.S.D.I., lo
scienziato Adriano Buzzati-Traverso, il giurista
Alessandro Galante-Garrone (97).
La Lega, per riuscire
nei suoi intenti, da una parte usò strumenti volti
ad assicurare l'informazione sulle proprie attività
e ad ampliare le adesioni, dall'altra si valse di
pressioni dirette sui singoli parlamentari affinché
si prodigassero per accelerare l'iter parlamentare
della legge sul divorzio (98).
Allo scopo furono
diffusi alcuni fogli, senza periodicità fissa, fino
ad una tiratura di cento cinquanta mila copie:
"Battaglia divorzista" (99), organo
ufficiale della Lega, che iniziò le pubblicazioni
del novembre 1966, "Il divorzio" e
"Notizie LID". I fogli venivano inviati
servendosi di un indirizzario raccolto nel corso
della manifestazioni promosse dalla Lega.
La LID nazionale
organizzò poi alcune manifestazioni di massa con i
rappresentanti dei partiti laici, riuscendo a
raccogliere alcune migliaia di partecipanti: nel
novembre 1966 si riunirono 15 mila persone a Piazza
del Popolo a Roma, e, sempre nella capitale, nel
febbraio 1967 due mila persone al Teatro Adriano, ed
ottomila, nel settembre 1969, a Piazza Navona (100).
I gruppi locali della
Lega, costituitisi spontaneamente in varie città
d'Italia, promossero molti comizi, tavole rotonde,
dibattiti sul divorzio: duecento nel giro di tre anni
(1966-1969).
Per quanto riguarda le
pressioni sul Parlamento, la LID su iniziativa più
che altro di militanti radicali, sperimentò per la
prima volta su larga scala vari tipi di "azioni
dirette".
La prima fu
organizzata dal settimanale "ABC", nel
periodo ottobre 1965-marzo 1966, e consisteva
nell'invito ai lettori a far pervenire all'on.
Fortuna cartoline di adesione al progetto di legge
per il divorzio: furono inviate circa 32 mila
cartoline e 4 mila lettere (101). Questo metodo fu
adottato, in seguito, molte altre volte, durante la
campagna divorzista, sollecitando i cittadini ad
inviare lettere, telegrammi, cartoline ai
parlamentari firmatari del disegno di legge, ogni
volta che si verificava un impasse nel procedimento
legislativo. Inoltre, i radicali, in particolare
Marco Pannella e Mauro Mellini, studiarono a fondo le
procedure parlamentari (102), allo scopo di suggerire
ai deputati interessati come affrettare la
discussione del progetto di legge.
E' intuibile che, alla
base di questa nuova metodologia di intervento
diretto nel processo politico, stava la concezione
dei radicali dell'essenzialità del parlamento nella
lotta politica: le decisioni si prendono all'interno
delle istituzioni, quindi sono inutili e velleitarie
le semplici manifestazioni di piazza che non abbiano
come obiettivo diretto la sollecitazione delle
istituzioni a svolgere il proprio ruolo. Le lettere
erano rivolte ai singoli parlamentari e non ai
vertici dei partiti, evidentemente per evitare i
compromessi fra maggioranza ed opposizione
nell'approvazione delle leggi, facendo appello alle
convinzioni individuali e non all'appartenenza
partitica. Altri metodi di pressione escogitati dal
partito radicale furono i digiuni: il primo sciopero
della fame contro l'ostruzionismo della Democrazia
cristiana nei confronti del progetto Fortuna fu
effettuato da Pannella e Roberto Cicciomessere,
all'epoca rispettivamente tesoriere e segretario del
P.R., nel novembre 1970 (103). Contemporaneamente ai
digiuni, furono organizzate proteste contro la RAI,
riuscendo così ad imporre, nel settembre 1970,
cinque dibattiti sul divorzio, con la partecipazione
anche di personalità non parlamentari.
Venne scelto anche uno
strumento più tradizionale: nel 1967 fu indirizzata
una petizione popolare sottoscritta, da centomila
cittadini, alla Presidenza della Camera dei Deputati,
con la richiesta che il Parlamento si pronunciasse
quanto prima sulla proposta di legge Fortuna (104).
La Lega nazionale,
forte di ventimila quote di iscrizioni raccolte in
tre anni, senza una vera e propria campagna di
tesseramento organizzò in una struttura centrale,
con la costituzione di una presidenza collegiale, una
segreteria egualmente collegiale ed un consiglio
direttivo nazionale, eletti dal congresso.
Si è accennato prima
che circa un terzo dei militanti nella Lega e degli
eletti negli organi direttivi della organizzazione
erano iscritti o simpatizzanti radicali, e che le
iniziative più importanti furono organizzate da
Mauro Mellini, il quale faceva parte della presidenza
della LID, e da Marco Pannella, membro della
segreteria della medesima. Si può affermare con
sicurezza che fino alla approvazione della legge sul
divorzio e poi durante la campagna per il referendum
il partito radicale si travasò quasi completamente
nella LID, il che diede una grande spinta alla lotta,
anche se probabilmente tolse energie al partito che
fino al 1972 non superò i mille iscritti. La
partecipazione si rivelò assai utile per la
sperimentazione dei metodi di azione
extraparlamentare e per far emergere i radicali sulla
scena nazionale. Resta, però, da verificare se fu
raggiunto l'obiettivo politico che i radicali si
proponevano, al di là del risultato immediato
dell'introduzione del divorzio, e cioè se si fecero
passi avanti verso l'unità ed il rinnovamento della
sinistra italiana per l'alternativa di governo, alla
D.C. ed ai suoi alleati di sempre.
2. Dalle
manifestazioni di piazza all'approvazione della legge
Un quadro piuttosto
sconfortante si presentò innanzi ai membri della LID
in quei primi mesi dell'anno 1966, quando il progetto
di legge iniziò il suo cammino in Parlamento.
Nessuna forza politica era disposta veramente a
giocare le proprie strategie per sostenere il
progetto fino in fondo ed a qualsiasi costo. Ed in
effetti la Lega era politicamente isolata, gli stessi
partiti di sinistra si mostravano esitanti, timorosi
di rompere i contatti col mondo cattolico. A
cominciare dal P.C.I., contro il quale i radicali
condussero una dura polemica, che mantenne in quei
mesi una posizione politica piuttosto prudente e
attenta alle esigenze delle masse popolari cattoliche
(105), in linea con il disegno politico togliattiano,
che mirava all'incontro fra le masse comuniste e
cattoliche "per un programma di rigenerazione
economica, politica e sociale". E
conseguentemente era meglio per il P.C.I. non
sollevare una questione come quella del divorzio, che
sarebbe sicuramente sfociata in un conflitto con la
Chiesa.
In un siffatto
contesto politico, praticamente senza sbocchi,
bisognava inventare una soluzione nuova che
consentisse ai partiti di sinistra di prendere
posizione a favore del divorzio, senza (almeno per il
momento) implicare modifiche agli schieramenti
politici e soprattutto - scelte di natura ideologica.
Il divorzio venne così presentato dalla LID come una
legge necessaria per risolvere situazioni
insostenibili sul piano umano, prescindendo quindi
dalle strategie che le singole forze politiche si
proponevano di perseguire. Questa scelta laicizzante,
di superare le contrapposizioni meramente ideologiche
nella lotta politica, fu portata avanti dai militanti
radicali della LID: era la sperimentazione pratica
della politica per temi attorno alla quale, come
abbiamo visto, avevano organizzato il partito.
Il rapido successo
della LID, intorno alla quale si formò un vasto
movimento di opinione, fu dovuto alla larga libertà
di manovra consentita, appunto, dalla dichiarata
indipendenza dalle logiche partitiche o di classe o
comunque da interessi di bottega.
Nei primi tre anni la
lotta per il divorzio ebbe come teatro quasi
esclusivamente le piazze, dove avevano luogo le
manifestazioni che la LID promuoveva per richiamare
l'interesse dei "fuorilegge del
matrimonio". Nello stesso filone di
popolarizzazione e pubblicizzazione della proposta di
legge sul divorzio si possono inserire le
pubblicazioni di carattere didascalico scritte da
Mauro Mellini. Insieme a veri e propri consigli
pratici, per ottenere facilmente e senza spendere
molto l'annullamento del matrimonio della Sacra Rota
si divulgano, con chiarezza ed in modo ironico i casi
trattati dai tribunali ecclesiastici in tema di
matrimonio (106).
E' stato calcolato che
circa 200 mila cittadini abbiano partecipato nel
corso dei primi tre anni della campagna alle
manifestazioni organizzate dalla LID: tutte persone
di estrazione sociale diversa, dal che si desume
l'interesse generale per la battaglia. Tuttavia,
nella quarta legislatura (1963-68), non si riuscì a
far passare la legge.
L'opposizione della
Democrazia cristiana fu dura ed intransigente nella
difesa compatta dell'indissolubilità del matrimonio,
sì da portare i parlamentari scudo-crociati a
servirsi di ogni cavillo procedurale per rallentare
ed impedire l'esame del progetto di legge (107).
L'atteggiamento dei
partiti laici e di sinistra non è altrettanto
univoco e coerente nella difesa della legge, almeno
inizialmente. Era diffuso il timore che una tale
riforma potesse, per i due maggiori partiti di
sinistra, pregiudicare il contatto con le masse,
specialmente d'ispirazione cattolica. Il partito
socialista, poi, aveva la preoccupazione di non
interrompere il rapporto di governo con la D.C. Fra i
laici, anche il P.R.I. era cauto poiché non voleva
aprire un confronto con i tradizionali alleati
democristiani, mentre il P.L.I. di Malagodi era
diviso al suo interno.
Il disegno di legge,
presentato da Loris Fortuna il 1° ottobre 1965,
venne assegnato alla Commissione Giustizia della
Camera, in sede referente il 5 maggio 1966 (108). Ne
venne iniziato l'esame solamente, il 15 settembre. I
deputati democristiani sollevarono immediatamente una
pregiudiziale di incostituzionalità, (109) bloccando
così l'iter della legge, che venne trasmessa alla
Commissione Affari Costituzionali per il parere. Vi
restò fino al 19 gennaio 1967, quando la Commissione
diede parere favorevole. La Commissione Giustizia
iniziò la discussione il 16 giugno 1967 e il 21
settembre si votò la chiusura della discussione
delle linee generali e il passaggio all'esame dei
singoli articoli. La discussione sui singoli articoli
non fu facile, per cui la Commissione dovette
dividere in due distinti articoli, uno per lo
scioglimento del matrimonio civile e l'altro per
quello del matrimonio concordatario (l'art. 1 del
progetto Fortuna, che introduceva il principio
generale della dissolubilità del matrimonio).
Dopo l'approvazione
dei primi due articoli (il 16 novembre 1967 e il 10
gennaio 1968) si passò ad esaminare quello
riguardante i motivi di divorzio, sui quali sorsero
nuovi dissensi fra i membri della Commissione, anche
fra quelli di parte laica. Infine il 25 gennaio venne
approvato l'articolo con alcuni emendamenti
restrittivi rispetto alla proposta originaria.
La scadenza delle
elezioni politiche, che si terranno il 19 maggio
1968, impedì l'ulteriore prosecuzione dell'iter del
progetto.
Già dal dicembre
1967, comunque, era chiara ai divorzisti
l'impossibilità, data la ristrettezza dei tempi, di
varare la legge entro la IV legislatura; era quindi
necessario porsi l'obiettivo di garantirne
l'approvazione entro la legislatura seguente.
Durante il I Congresso
della LID (Roma, 9-10 dicembre 1967), venne
considerata l'ipotesi di proporre all'elettorato
liste divorziste, visto che i parlamentari si erano
impegnati piuttosto controvoglia, costretti a farlo
dalla mobilitazione dell'opinione pubblica. Al
congresso comunque prevalse il suggerimento di Marco
Pannella di non presentare liste proprie e invece di
appoggiare i candidati che si dichiarassero
pubblicamente pronti a ripresentare il progetto
Fortuna il primo giorno utile della quinta
Legislatura. In realtà, durante la campagna
elettorale, nessuno si compromise troppo con il
divorzio, per cui il partito radicale diede
indicazioni ai propri simpatizzanti di votare scheda
bianca come protesta.
Le elezioni politiche
del 19 maggio 1968 premiarono la D.C. ed il P.C.I.
con un leggero aumento di consensi e segnarono una
pesante sconfitta del P.S. Unificato che ottenne il
14,5% perdendo quasi un quarto dell'elettorato che
aveva votato per PSI e PSDI separatamente alle
elezioni del 1963 (19,9% PSI + PSDI nel 1963), ma
Loris Fortuna ripresentò la proposta di legge il 4
giugno 1968 riuscendo a far confluire le firme di
oltre sessanta deputati socialisti, comunisti, del
PSIUP e repubblicani, sempre con la mediazione della
LID (110).
La Lega, nella quinta
Legislatura, coordinò due spinte parallele: una di
tipo parlamentare e per così dire istituzionale, e
l'altra esterna al parlamento e popolare. Con il
primo tipo di azione si cercò di superare diffidenze
ed ostilità fra i vari partiti, per costruire un
fronte laico, anche se un po' tentennante. Le azioni
popolari servivano invece a confutare l'accusa che il
progetto di legge Fortuna fosse una legge borghese,
ed a mantenere vivo il controllo dell'opinione
pubblica sull'operato dei partiti.
La situazione in
Parlamento dopo le elezioni non sembrava ai radicali
molto favorevole per la perdita, a causa della
sconfitta del Partito Socialista Unificato, di alcune
posizioni che si erano rivelate determinanti per i
primi successi divorzisti. La presidenza della
Commissione Affari Costituzionali era stata affidata
all'on. Bucciarelli Ducci, democristiano, mentre
nella legislatura precedente era presidente un
socialista.
I liberali, poi,
proposero, a firma dell'onorevole Baslini, in quel
periodo presidente della LID, un proprio progetto di
legge assai restrittivo rispetto al progetto Fortuna.
Per protesta contro
tale atto, Marco Pannella, membro della segreteria
della Lega, si dimise dalla carica, sperando di poter
ottenere un dietro-front dei liberali. In effetti
questi accettarono il testo Fortuna, integrato però
dagli emendamenti Baslini. E successivamente la
discussione in sede referente nella Commissione
Giustizia procedette rapidamente così come quella
nella Commissione Affari Costituzionali in sede
consultiva.
All'inizio di giugno
il progetto Fortuna-Baslini arrivò in Assemblea. Il
dibattito subì vari rinvii per gli interventi
ostruzionistici dei parlamentari democristiani. Si
arrivò, così, al 10 novembre 1969 senza aver
concluso nulla, per cui la LID decise di riprendere
in mano la situazione, con un'iniziativa di Marco
Pannella, il quale, insieme a Roberto Cicciomessere
(segretario del PR) iniziò uno sciopero della fame
davanti a Montecitorio, ottenendo l'impegno della
D.C. ad una votazione entro la fine del mese. Infatti
il 29 novembre la legge Fortuna venne approvata dalla
Camera dei Deputati con 325 voti favorevoli e 283
contrari.
La proposta di legge
passò poi al Senato, dove, però la maggioranza
divorzista (P.S.I., P.C.I., P.R.I., P.L.I.) era
risicata, e quindi bastava una assenza per creare
intralci e ritardi non previsti nella discussione.
Oltretutto il quadro politico del momento era del
tutto particolare, essendosi ad un punto di svolta
nella storia politica del nostro Paese. Dopo il '68,
la forza delle cose quasi costrinse le sinistre ad
abbandonare i tatticismi e le prudenze legate ai
problemi di schieramento e questo nuovo clima influì
positivamente sulla battaglia che la LID sembrava
combattere con scarse speranze di vittoria.
A tutti gli
osservatori, alla vigilia della sua approvazione, la
legge sul divorzio sembrava un miraggio. La vita dei
partiti di sinistra (i più interessati) stava
attraversando un momento critico, in scissioni,
rivalità, polemiche e vere e proprie crisi di
identità. Il P.S. Unificato si era scisso, dopo la
sconfitta elettorale del '68; il partito comunista,
dopo i fatti di Praga, aveva per la prima volta
difeso i riformatori contro l'intervento militare
della Russia brezneviana. A tutto questo fermento si
aggiunse quella che sarà chiamata la strategia della
tensione e cioè i primi fatti di terrorismo. In
questo tragico contesto la LID, con i suoi sistemi di
lotta di piazza, aveva di fronte a sé qualche
problema in più, in un momento in cui lo
scatenamento della base avveniva in forme clamorose e
drammatiche.
La legge costituiva,
certo, uno scoglio sulla strada della formazione
delle varie alleanze di governo in quel periodo. E le
crisi ministeriali a ripetizione, che caratterizzano
il panorama politico del 1970, resero assai cauti ed
esitanti i partiti laici.
Le sorti della legge
Fortuna furono decise con un compromesso, nel marzo
del 1970, dopo una lunga crisi di governo; fu un
elegante baratto tra le forze di ispirazione
cattolica ed i partiti e movimenti divorzisti: i
partiti laici si impegnavano nella preventiva
approvazione della legge di attuazione del referendum
abrogativo, istituto previsto dall'art. 75 della
Costituzione e non ancora attivato, con il fine di
sottoporre alla volontà popolare l'approvanda legge.
In cambio la D.C. consentiva il proseguimento
dell'iter legislativo della legge al Senato. Ma
l'accordo non spianò subito la strada
all'approvazione del divorzio, perché i partiti di
sinistra temevano di approfondire troppo la frattura
col mondo cattolico e quindi con la Democrazia
cristiana. La LID, intanto, si sforzava di mantenere
la proposta di legge fuori dagli "oscuri
mercanteggiamenti del potere", organizzando
manifestazioni ed inventando un comitato di garanti
perché si arrivasse alla votazione della legge al
Senato entro il 9 ottobre 1970.
Un colpo di scena
sembrò mettere a repentaglio la proposta al momento
della votazione: per un solo voto non venne accolta
una mozione democristiana che chiedeva il rigetto in
blocco della proposta di legge. Appariva chiaro a
tutti che nel fronte divorzista operavano dei franchi
tiratori. L'esito della vicenda sembrava,
paradossalmente, affidato ad un improbabile cedimento
della Democrazia cristiana; si ricorse alla
mediazione del senatore Giovanni Leone, il quale fece
accettare ai laici alcuni emendamenti restrittivi.
Un deciso colpo di
acceleratore alle trattative venne dalle dimissioni
di Pannella e di Mellini dalla dirigenza della LID
per protesta contro i compromessi che avrebbero
potuto snaturare lo spirito delle legge (111).
Il 9 ottobre 1970 il
Senato approvò il divorzio, che divenne legge dello
Stato con l'approvazione dell'altro ramo del
Parlamento, in seconda lettura, il primo dicembre
1970. I radicali dimostravano come la forza ideale di
una minoranza, ricorrendo a metodi politici non
propri della tradizione italiana, era riuscita ad
imporre l'approvazione di una legge già maturata
nella coscienza civile del Paese.
Ma il risultato più
rimarchevole, al di là della riuscita tecnica
dell'esperimento, fu di carattere essenzialmente
politico: i nuovi radicali, per la prima volta nella
breve storia del loro raggruppamento, erano riusciti
a coagulare forze che, pur avendo una matrice comune
o molto affine, erano ormai da decenni in insanabile
contrapposizione. Tuttavia il faticato risultato
politico ottenuto lottando per l'introduzione del
divorzio, un fronte unico delle forze progressiste,
era un'illusione. E non poteva non essere così, se
si consideravano i compromessi, i patteggiamenti, non
ancora del tutto chiari all'indagine storica, sulle
cui premesse nacque la legge sul divorzio. In
definitiva, gli schieramenti e le prese di posizione
pro e contro della sinistra, non furono mai schiette
e precise: sull'equivoco non si poteva costruire
certamente una politica laica, per il cui
conseguimento occorre essere davvero liberi e senza
riserve per le scelte future. Pertanto i radicali
ritennero che una esperienza come quella del
divorzio, nata dall'iniziativa di un solo
parlamentare e da un movimento anomalo come quello
della LID, non era ripetibile, per le condizioni
sociali, e per le condizioni politiche che l'avevano
resa possibile (112).
Giustamente, i
radicali si convinsero che i partiti parlamentari non
si sarebbero lasciati di nuovo prendere di sorpresa
facendosi imporre un tema di lotta politica che non
rientrava nei loro obiettivi e nei loro interessi di
potere.
Tuttavia i radicali,
dalla vicenda del divorzio ricavarono la conferma
della possibilità di successo della politica dei
contenuti. Perciò decisero di adottare negli anni
successivi un nuovo strumento di lotta politica, il
referendum, l'unico mezzo per poter influire ed
incidere in maniera significativa sull'equilibrio
politico: esso avrebbe potuto consentire di ottenere
il consenso dei cittadini sui contenuti di una
specifica iniziativa politica piuttosto che sulla
rottura con il partito di tradizionale appartenenza.
3. Il referendum:
eravamo soli e disperati, e siamo milioni...
La tensione che aveva
tenuto insieme il fronte laico stava per venir meno:
i radicali, subito avvertiti, denunciarono
pubblicamente la cosa (113). Lo scollamento era già
presente, secondo i radicali, nelle dichiarazioni di
voto espresse dai partiti laici e di sinistra, al
momento del rush finale della legge sul divorzio. Non
era difficile leggere nelle posizioni dei
rappresentanti delle forze divorziste quella paura di
vincere che, per i radicali, era il motivo principale
delle sconfitte nei confronti della Democrazia
cristiana (114).
Intanto i gruppi
antidivorzisti non si erano rassegnati e cominciarono
a muoversi per far abrogare la legge appena
approvata: un comitato che faceva capo al professore
di diritto romano Gabrio Lombardi depositò la
richiesta di referendum ai primi di gennaio 1971. Di
fronte al movimento abrogazionista i radicali e la
LID reagirono prontamente e con fermezza. In un primo
momento sostennero l'incostituzionalità della
richiesta di referendum affermando che non era
legittimo rimettere ad un giudizio di maggioranza un
diritto inalienabile della persona umana. In un
secondo tempo, invece, come vedremo in seguito, i
radicali cambiarono strategia, accettando il
referendum, per impedire compromessi che snaturassero
la legge Fortuna-Baslini (115).
Le obiezioni di
carattere costituzionale che i radicali eccepirono
contro la proposta di referendum trovarono un'eco
assai tiepida tra i parlamentari che avevano appena
votato la legge. Allora la LID ed i radicali
ricorsero ai sistemi diretti, e si mossero contro chi
sembrava tenere i fili del gruppo referendario, cioè
le gerarchie ecclesiastiche. Pannella e Mellini
cominciarono col denunciare alla magistratura alcuni
vescovi, per l'opera da loro prestata in appoggio al
movimento per l'abrogazione del divorzio:
l'intervento delle gerarchie era ritenuto, dai
radicali, penalmente rilevante e quindi perseguibile.
L'iniziativa, in un
momento storico di conformismo almeno tattico verso
le gerarchie ecclesiastiche, suscitò le reazioni
dell'opinione liberale, la quale era contraria a far
ricorso al codice Rocco, ritenuto liberticida, per
ottenere la fine dell'ingerenza della Chiesa negli
affari dello stato italiano. Ma l'intento dei
radicali non era quello di far incriminare le
gerarchie, quanto quello di smuovere l'opinione
pubblica progressista a difesa del divorzio. Anche se
non ottennero vasti consensi, queste prese di
posizione anticlericali servirono ad interessare i
giornali e quindi a drammatizzare la situazione.
Perciò mobilitarono i movimenti di base: i militanti
locali della LID controllarono in modo capillare la
regolarità della raccolta delle firme per il
referendum, e denunciarono i ricatti subiti dai
firmatari nelle chiese, negli ospedali, nelle scuole
private, nei monasteri. Ma questi dossier non
portarono a nulla.
Il contesto politico
in cui i radicali operarono dopo l'approvazione della
legge sul divorzio era ancora più complesso di
quello precedente. Le sinistre stavano attraversando
un momento critico: una fase di transizione dal
vetero-massimalismo anche verbale, sulla scia del
confronto con i movimenti socialdemocratici europei e
dei prodromi della crisi del socialismo reale. Il
partito comunista, dopo la condanna dell'intervento
sovietico a Praga, si stava orientando più
concretamente verso la collaborazione con la
Democrazia cristiana, seguendo una linea di
opposizione morbida nei confronti del governo.
Il P.S.I. non riusciva
a trovare una nuova strategia, incerto tra la
partecipazione al governo con la D.C. e la ricerca di
"equilibri più avanzati", in vista
dell'alternativa. In quella situazione critica, tutte
le forze politiche cercarono di disinnescare quella
mina vagante che era il divorzio, che certamente
costituiva un motivo di tensione e rischiava, quindi,
di turbare i precari equilibri esistenti nei rapporti
interni ed esterni dei partiti. Ecco perché, nei due
anni seguenti all'introduzione del divorzio, si
cercherà, in ogni modo, un compromesso con la
Democrazia cristiana al fine di evitare lo scontro
sul referendum abrogativo, che avrebbe costretto ad
operare precise scelte di campo, in cui i partiti
minori temevano di essere schiacciati tra due
schieramenti. Si aggiunga che era diffusa la
convinzione che nel Paese non esistesse una
maggioranza divorzista.
A questo punto i
radicali e la LID, timorosi che le alchimie
politiche, frutto di compromessi, avrebbero potuto
portare ad una modifica, per così dire, indolore
della legge Fortuna, cessarono di opporsi al
referendum e si impegnarono anche a costo di un
responso popolare a difendere l'integrità della
legge. Si mossero lungo una linea politica più
ampia, inserendo il divorzio nelle tematiche
tradizionalmente laiche, come la richiesta di
denuncia del Concordato.
In attuazione di
questa politica tesa al ribaltamento dei rapporti tra
Chiesa e Stato convocarono, contemporaneamente al
nono congresso nazionale del partito il 14 febbraio
1971, una assemblea nazionale anti concordataria,
durante la quale venne fondata la LIAC (Lega italiana
per l'abrogazione del concordato), con la
partecipazione dei membri più autorevoli della LID
(116). I parlamentari che aderirono alla LIAC
presentarono mozioni ed interpellanze volte a
suscitare un dibattito sul Concordato.
Queste iniziative si
inserirono nel discorso ormai avviato nei partiti di
sinistra sulla revisione degli accordi siglati dal
fascismo con la Chiesa. Da parte loro anche i
radicali affiancarono, anzi potenziarono il lavoro
della LIAC e inviarono a tutti i parlamentari laici
della Camera dei deputati un documento redatto dalla
giunta esecutiva del partito, in cui si specificava e
si chiariva la posizione dei radicali sulla questione
Stato-Chiesa (117).
Il documento radicale
si presentava molto articolato e si diffondeva su
tutta la gamma dei rapporti che nascevano dal
Concordato, dalla famiglia alla scuola e
all'assistenza. Questi interessi di "potere
clericale" davano vita ad un immenso patrimonio
che, di fatto, era più esteso e potente di quello
pubblico, e poteva vivere e prosperare in una specie
di zona franca, grazie appunto al Concordato. I
radicali andavano al concreto e facevano riferimento
alle migliaia di miliardi ogni anno trasferiti dalle
casse dello Stato, con pretesti che qualche volta
sconfinavano nell'illegalità, nelle casse dei
gestori di strutture economiche clericali, per
l'assistenza, per la scuola materna, per l'attività
del tempo libero, il tutto sottratto ad ogni
controllo, anche fiscale. Dunque non solo
trasferimento delle competenze dello Stato ad
un'altra "sovranità" ma passaggio di
enormi risorse finanziarie. Da un siffatto
antagonismo il partito radicale era convinto che
dovesse nascere quello scontro storico tra forze
opposte che si andava maturando da molti decenni nel
nostro paese. Di qui il rifiuto intransigente dei
radicali nei confronti di ogni tentativo di revisione
del Concordato, perché, per loro, soltanto
l'abrogazione dei patti Lateranensi avrebbe evitato i
compromessi. Lo scambio tra revisione del Concordato
e divorzio offriva alla proposta di referendum la
forza del ricatto: una posizione inaccettabile per i
radicali i quali, in definitiva, esigevano
l'allineamento della "situazione italiana a
quello di ogni altro paese civile, democratico e
moderno, senza contrapposizioni religiose"
(118).
In coerenza con quanto
propugnato nei documenti e nei vari convegni, gli
organi direttivi della LID in una riunione del 18
maggio 1971 si fecero promotori di alcuni
provvedimenti legislativi al fine di assicurare i
pieni diritti civili anche ai religiosi, e nello
stesso tempo, per punire i ministri di culto che
interferivano nella lotta politica abusando del
proprio ministero, coartando la coscienza dei
credenti. Sempre nella stessa occasione, la LID
suggeriva ai propri iscritti l'astensione dal voto
per le elezioni amministrative del successivo 13
giugno, ricalcando la decisione già presa dal
partito radicale (119).
Intanto andava avanti
quel processo verso il compromesso tra le forze
divorziste e cattoliche, processo che i radicali
ritenevano una sorta di congiura segreta contro il
divorzio, per evitare il referendum, un prezzo
inaccettabile per l'opinione laica.
Le trattative,
pilotate dal P.C.I., stavano diventando più urgenti
perché i comunisti volevano inserirsi nella
maggioranza; e per raggiungere tale obiettivo erano
disposti a pagare il pedaggio al mondo cattolico
costituito dal cedimento sul divorzio. In questa
ottica si deve vedere il progetto presentato dalla
senatrice Carettoni (sinistra indip.) nel dicembre
1971, concordato tra tutti i partiti laici, che
rendeva il procedimento per ottenere il divorzio più
macchinoso, difficile e soggetto ad espedienti
dilatori, come quello che prevedeva l'allungamento
dei tempi processuali in caso di opposizione da parte
del coniuge cattolico. La proposta non andò avanti
perché la D.C. non la accettò: essa avrebbe
accettato, pur controvoglia, il compromesso proposto
dal P.C.I. solo per i matrimoni civili. A quel punto
la soluzione più conveniente per tutti i partiti
interessati era lo scioglimento delle Camere e la
indizione delle elezioni anticipate, che avrebbero
consentito il rinvio del referendum di un anno.
I radicali criticarono
la decisione (120) avvertendo che col rinvio del
referendum si perdeva la possibilità di un confronto
che avrebbe portato su posizioni laiche una parte
dell'elettorato cattolico, unica occasione che il
particolare momento politico offriva per rimontare la
spinta a destra. Ed argomentavano che, dopo le
elezioni, sarebbe stato più difficile isolare il
problema del divorzio dal contesto più generale
della crisi delle istituzioni, con la conseguenza che
la vittoria del referendum sarebbe stata più
difficile. Poste tali premesse, i radicali e la LID
si pronunciarono per l'astensione dal voto: aprirono
una vera e propria campagna contro quelle che
chiamarono elezioni "truffaldine". La
campagna elettorale fu particolarmente accanita
specie da parte delle masse cattoliche e quindi della
D.C. che voleva recuperare voti alla sua destra per
allargare anche il fronte antidivorzista. La D.C.
temeva un forte arretramento, così come era avvenuto
nelle ultime amministrative: lo stesso timore aveva
il P.C.I. a causa della concorrenza del gruppo del
Manifesto, alla sua sinistra. Ma i risultati non
furono tanto sconvolgenti rispetto alle previsioni.
Il P.C.I. ebbe un leggero aumento, la D.C. tenne le
posizioni, il P.S.I.U.P. scomparve come forza
parlamentare, il gruppo del Manifesto non ottenne
alcun quorum. Il M.S.I. ebbe un aumento inferiore
alle aspettative.
Il governo Andreotti a
maggioranza centrista, che nacque dopo le elezioni,
avrebbe dovuto indire il referendum per la primavera
successiva. Senonché il governo, confortato dal
parere favorevole del Consiglio di Stato (richiesto
il 30 gennaio 1973 e emanato il 24 febbraio) riuscì,
con un cavillo giuridico, a far slittare il
referendum di un altro anno, cioè al 1974, un rinvio
utile al fine di cercare un compromesso. Le prese di
posizioni sul divorzio delle diverse forze politiche
erano fortemente condizionate da una situazione
politica instabile, anche a causa di due avvenimenti
internazionali, che caratterizzarono il 1973: il
golpe in Cile e la guerra arabo-israeliana del Kippur
con la conseguente crisi petrolifera.
Soprattutto il P.C.I.
trasse conseguenze importanti da questi avvenimenti.
Berlinguer annunciò proprio all'indomani della crisi
cilena la tesi del "compromesso storico":
la proposta di un accordo D.C.-P.C.I. per evitare uno
sbocco a destra, come era avvenuto in Cile, della
crisi economica e sociale italiana.
Impostata questa
svolta politica, il P.C.I. naturalmente mostrava una
maggiore disponibilità, rispetto anche al passato
prossimo, ad accordarsi con la D.C. sul referendum.
I radicali scelsero, a
questo punto, di battersi perché il referendum, che
prima avevano osteggiato e poi accettato, si
effettuasse il più presto possibile, perché questo
strumento di democrazia diretta era l'unico mezzo per
difendere una volta per tutte la legge Fortuna. La
scelta radicale non era contingente, cioè limitata
alla questione del divorzio, ma si inseriva in una
nuova strategia politica del partito che in quel
periodo lancia una campagna per la raccolta delle
firme per otto referendum: si attuava così la
metodologia radicale di usare nella lotta politica
nuovi strumenti.
"Il modo in cui
rischiamo di essere battuti nella battaglia del
referendum è quello di non riuscire a
combatterlo", così si esprimeva la "Prova
radicale" a proposito di quanti sostenevano che
il referendum sarebbe stato una guerra di religione,
un salto nel "buio" (121).
L'offerta comunista
non trovò una risposta concorde nel mondo cattolico:
mentre una parte tentennava ed era sul punto di
accettare, quella più sicura di sé e più
ideologizzata era per lo scontro aperto e definitivo,
in quanto si pensava che il fronte laico fosse
diviso, debole e rappresentasse una minoranza vivace,
ma sempre una minoranza. L'intransigenza
democristiana, impersonata dal senatore Amintore
Fanfani, tornato alla segreteria della D.C. dopo il
Congresso del giugno 1973, portò al referendum, che
fu indetto per il 12 maggio 1974.
Nella campagna
elettorale per il referendum si poterono cogliere le
differenze di impostazione tra le varie componenti
del fronte divorzista. Il partito comunista, quello
che poteva mobilitare le masse, cominciò la campagna
elettorale tiepidamente; sembrava privo di ogni
spinta ideale, si impegnò solo verso la fine,
salvaguardando sempre la sua strategia di
avvicinamento ai cattolici. Non si parlava di
divorzio, che era il tema del referendum, ma si
trasformò il si o il no sul divorzio in una campagna
contro la Democrazia cristiana, perché si era
alleata con i fascisti. L'atteggiamento comunista era
determinato dal timore di creare conflitti con le
gerarchie cattoliche. I radicali colsero con
prontezza il pericolo insito nel modo di condurre la
battaglia referendaria dei comunisti. Pannella
osservava in un editoriale su "Liberazione"
che, appunto, la battaglia portata avanti così
rischiava di perdere la sua specificità, quella per
cui molti milioni di elettori, per la prima volta,
sembravano disposti a votare contro la D.C., per la
quale, invece, continuavano a pronunciarsi su altri
temi, ed alle elezioni politiche (122). I radicali
avevano colto le possibilità offerte da una
consultazione diretta e su di un unico tema, rispetto
alle elezioni. Insomma, la specificità dello
strumento era il modo per spostare gli elettori da un
voto ideologico, espressione delle indicazioni dei
partiti, verso una scelta più laica che, in
definitiva, si traduceva in una maggioranza
progressista, di fatto di sinistra, al di là delle
confessioni di appartenenza.
Gli strumenti di
informazione esclusero il partito radicale, che fu,
quindi, senza voce: soltanto il settimanale "Il
Mondo" ospitò l'opinione radicale in una intera
pagina gestita dallo stesso partito e dalla LID
settimanalmente (123). I radicali usarono Il
"Mondo" per esporre le loro posizioni che,
con l'avvicinarsi del referendum, diventavano sempre
più estremiste anche contro le ingerenze delle
gerarchie. Organizzarono anche dei comizi, ma secondo
moduli nuovi, in coerenza con la loro filosofia sul
rapporto tra cittadini e partiti. Esempio ne fu il
comizio-concerto tenuto al palasport di Roma nel
marzo 1974, con cui smitizzarono l'immagine del
comizio politico tradizionale.
Il risultato del
referendum abrogativo fu il seguente: 40,9 per cento
per il "sì", il 59,1 per cento per il
"no".
NOTE
(88) Cfr. AA.VV.
"Il divorzio in Italia", Firenze, La nuova
Italia 1969.
(89) Cfr. ALESSANDRO
COLETTI, "Storia del divorzio in Italia",
Savelli Roma 1970, p. 134.
(90) Cfr. MASSIMO
TEODORI, "Il movimento divorzista in Italia,
origini e prospettive", "Tempi
moderni" n. 3, estate 1970.
(91) Cfr. MAURO
MELLINI, "Le sante nullità", Savelli, Roma
1974, p. 13 e ss.
(92) Cfr. MAURO
MELLINI, "Così annulla la Sacra Rota",
Samonà e Savelli, Roma, 1969.
(93) Cfr. TEODORI
"Il movimento divorzista...", op. cit. Per
la "filosofia radicale" cfr. anche Marco
Pannella, prefazione al libro di ANDREA VALCARENGHI
"Underground pugno chiuso!" Arcana Editrice
1973, oltre che numerose interviste concesse dal
leader radicale ad es. quella concessa a
"Playboy" nel gennaio 1975 oppure quella ad
AMICA nel marzo 1975.
(94) MARCO PANNELLA in
"Notizie Radicali", luglio 1971, scriveva:
"Detestiamo i sacrifici, i nostri quanto quelli
degli altri; dobbiamo ad altri - e ci debbono - non
altro che vita e serenità; quel che si costruisce
con il sangue o anche con il "sudore della
fronte", ferendo o essendo feriti, non
l'amiamo..."
(95) TEODORI, "I
nuovi radicali", op. cit. p. 78-83; TEODORI
"Il movimento divorzista in Italia", op.
cit.; A. COLETTI, op. cit..
(96) Relazione di
Mauro Mellini al dibattito tenuto il 12 dicembre 1965
al teatro Eliseo di Roma, citato da ALESSANDRO
COLETTI, "Storia del divorzio in Italia",
cit., p. 135.
(97) TEODORI, "I
nuovi radicali", op. cit., p. 80.
(98) A. COLETTI, op.
cit., p. 136.
(99) COLETTI, Ibidem,
p. 137.
(100) TEODORI, Il
movimento divorzista in Italia, cit.
(101) TEODORI, "I
nuovi radicali", cit., e "Il movimento
divorzista" cit.
(102) Lettera al
settimanale "L'Astrolabio" di Marco
Pannella: "L'Astrolabio" n. 34, 30 Agosto
1967, p. 16 ("Lettera di un divorzista. Divorzio
e lotta democratica").
(103) A. COLETTI, op.
cit., p. 145.
(104) TEODORI,
"Il movimento divorzista", cit., p. 92.
(105) TEODORI,
"Il movimento divorzista", cit. p. 90.
(106) A cura di M.
MELLINI, "L'annullamento facile del
matrimonio", ed. Partito
Radicale 1967, MAURO
MELLINI, "Così annulla la Sacra Rota",
Samonà e Savelli, 1969; M. MELLINI, Le sante
nullità, Savelli 1974.
(107) Cfr. CARLO
GALANTE GARRONE, "Profili politici della
battaglia", in AA.VV. "Il divorzio in
Italia", a cura di L. Piccardi, La Nuova Italia,
Fi, 1969.
(108) Cfr. CARLO
GALANTE GARRONE, op. cit., pp. 77-88.
(109) La questione di
legittimità costituzionale riguardava l'estensione
dello scioglimento ai matrimoni concordatari, in
relazione all'art. 7 della Costituzione che avrebbe
determinato invece la recezione nell'ordinamento
italiano dell'indissolubilità del matrimonio, un
principio proprio del diritto canonico. Più in
generale si sosteneva l'incostituzionalità del
progetto Fortuna, anche in relazione agli articoli 2,
3 29, 30, 31 della Costituzione.
(110) Le vicende che
precedettero l'approvazione della legge sul divorzio
sono state ricostruite sulla base delle informazioni
ricavate da articoli di esponenti radicali pubblicati
sul settimanale pubblicato a Parma "L'opinione
Pubblica", e di articoli pubblicati su
quotidiani e settimanali.
(111) Cfr. GIUSEPPE
CATALANO, "E lasciateli divorziare",
"L'Espresso" n. 42, 18 ottobre 1970, pp.
4-5
(112) Cfr. GIANFRANCO
SPADACCIA in "Un'ondata di referendum per
battere un parlamento clerico-fascista",
"La prova radicale" n. 4 estate 1972.
(113) Cfr. MARCO
PANNELLA "Difendere il divorzio, abrogare il
Concordato", "Notizie Radicali" n.
107, 10 dicembre 1970.
(114) Cfr. GIANFRANCO
SPADACCIA "La paura di aver vinto", Notizie
Radicali n. 107,10 dicembre 1970.
(115) La ricostruzione
dell'atteggiamento dei radicali in questo periodo è
stata svolta principalmente dalla lettura del
trimestrale "La prova radicale" 1971-1973,
redatto interamente da radicali. In particolare cfr.
G. SPADACCIA "Il comportamento dei laici: LID,
LIAC, PR e partiti democratici", "La prova
radicale", n. 1, Autunno 1977, pp. 167-192.
(116) G. SPADACCIA,
ult. art. cit., p. 171
(117) G. SPADACCIA,
ult. art. cit., p. 175.
(118) G. SPADACCIA,
ult. art. cit., p. 176.
(119) Cfr. pp.
124-125.
(120) GIANFRANCO
SPADACCIA "Dove porta la paura del
referendum", "La Prova radicale", n.
2, Inverno 1972, pp. 17-22.
(121) Cfr.
"Rapporto sul referendum", a cura del
Collettivo Radicale di studio sul referendum sul
divorzio, e di Mauro Mellini, "La prova
radicale", n. 5 marzo 1973, p. 80.
(122) MARCO PANNELLA,
"Uniti sì ma contro la DC",
"Liberazione", n. 7, 27 gennaio 1974.
(123) "Il
Mondo", 21 febbraio - 12 maggio 1974