Prefazione

Nota introduttiva

Cap. I - I PRIMI PASSI

1. Come muore il primo partito radicale
2. I giovani guastatori
3. Partito nuovo, politica nuova
4. Primi nuclei per un "partito, non partito"
5. Verso il congresso di rifondazione
6. Il terzo Congresso e lo statuto. Per un'alternativa laica

Cap. II - LE BATTAGLIE PER IL DIVORZIO

1. Tutti uniti, nella lega
2. Dalle manifestazioni di piazza, all'approvazione della legge
3. Il referendum: eravamo soli e disperati, siamo milioni...

Cap. III - DALLE PIAZZE AL PARLAMENTO (1967/1976)

1. Comincia la lunga marcia
2. Dietro ai mille radicali: i movimenti, le prime sedi periferiche
3. Per i referendum: col tavolo sulle spalle
4. Si contano i soldi (bilanci 1973/74/75)
5. L'Italia risponde a Pannella. Quattro radicali alla Camera
6. Dopo il successo elettorale: la disorganizzazione scientifica. Nasce la ribellione interna

Cap. IV - PROGETTO PER UN'ITALIA DIVERSA

1. Uniti a sinistra, fuori la D.C.
2. Otto referendum contro "il regime"
3. Radicali e socialisti: una relazione contrastata
4. La seconda sfida ai cattolici: l'aborto
5. I cittadini ed il Potere: "la carta delle libertà".

Cap. V - TRA AZIONE DIRETTA E PARLAMENTO

1. Stretti tra due chiese: sempre più minoranza
2. 5 milioni di firme per 8 referendum
3. Il finanziamento pubblico: prendere o lasciare
4. La svolta del '79: la lotta alla fame nel mondo
5. Il Partito Omnibus.

Cap. VI - I RADICALI NEL PARLAMENTO

1. In nome del regolamento.

Cap. VII - VERSO IL PARTITO TRANSNAZIONALE

1. Il gruppo romano e gli altri
2. La seconda rifondazione. La questione dei partiti regionali
3. Referendum: ciclo compiuto. Comincia la diaspora. Fame e massacro della natura
4. Si chiude? Il congresso di Budapest. Ma il partito non morirà

Conclusioni

APPENDICE

I congressi del Partito Radicale

Statuto del Partito Radicale - 1967

Statuto del Partito Radicale - 1989

I bilanci dal 1972 al 1989

Elezioni: le percentuali del P.R. (1976-1987)

Gli eletti nelle liste del P.R. (1976-1992)

 

CONCLUSIONI

 

Non un politologo, ma un filosofo napoletano ha detto, intervenendo in un dibattito, che Marco Pannella è stato (ed è) un ricercatore, proprio nel senso accademico del termine, ed il fondatore di un laboratorio politico. La definizione, è soltanto, di primo acchito, sorprendente: tuttavia coglie il vero, se si osservano le varie tappe del suo cammino politico e del partito che ha cercato di fare a sua somiglianza; insomma quella volontà mai dismessa di realizzare una o due idee-forza, usando strumenti e materiali vecchi e nuovi insieme, con una ricerca continua, instancabile, con sperimentazioni a volte illogiche, senza sbocchi, almeno apparentemente fine a se stesse.

Nondimeno se si mettono insieme i pezzi dell'itinerario politico di questo gruppo costituitosi attorno a Pannella nel 1962, appare chiaramente delineato un disegno coerente, un progetto che, nonostante le diversioni, le frantumazioni, le ricomposizioni, in sostanza non è mai venuto meno. Dagli iniziali eroici tempi al sogno di un partito transnazionale, nato a Budapest nel 1989.

Si spiega, secondo questa ottica di partito-laboratorio, quel continuo farsi e disfarsi, come struttura, come metodi: scioglimenti tante tante volte minacciati e regolarmente non attuati, attrazione e rigetto verso le associazioni locali, lo statuto continuamente messo in discussione. Questi comportamenti eretici, per la nostra storia, sono stati giudicati come fattori di incoerenza e addirittura di scarsa serietà nei propositi. Ma, a ben studiare i primi trent'anni di vita di questo partito anomalo per tutti i versi, l'instabilità ed una fine annunciata quasi ad ogni apertura di congresso, sono elementi insiti nella idea stessa che ha spinto Pannella ed i suoi compagni a fondare una nuova formazione politica.

Il partito più innovatore che sia apparso sulla scena politica nazionale nel secondo dopoguerra spuntò, sorprendentemente, dal tronco del più antico partito italiano. Il nuovo partito radicale nacque da matrice liberale, laico senza compromissioni.

Ed a ben vedere i principi ed i metodi di lotta a cui si ispirò non si discostavano dal pensiero liberale europeo; nella parte più vitale e moderna, quella che prospetta, nella vita politica, la positività dei conflitti individuali. Di qui la strategia del nuovo partito radicale: azione diretta, disobbedienza civile, mai contro le Istituzioni, anzi si intendeva difenderle, renderle più attive, in difesa dei bisogni del cittadino. Metodi, dunque, di chiara origine dal liberalismo anglosassone.

Tuttavia, questa azione di tipo nuovo, mai sperimentato nel nostro Paese, andava a cozzare contro un sistema politico bloccato dalla continua mediazione fra i due partiti di massa, Pci e Dc, che se da un lato evitava la conflittualità permanente, dall'altro impediva ai vari governi di governare, ed all'opposizione di diventare governo. Ebbene, il progetto politico complessivo radicale era finalizzato alla rottura di questo equilibrio politico, incentrato su comunisti e democristiani, ormai consociati: i referendum, l'azione di salvaguardia della sovranità del Parlamento, la denuncia della partitocrazia, la richiesta di modifica del sistema elettorale sul modello inglese erano pensati proprio per scardinare un potere di fatto bipolare.

In realtà, verso la fine degli anni Sessanta, e per tutti gli anni Settanta, l'intervento radicale produce un certo effetto "destabilizzante" almeno sui partiti di sinistra, i quali, dopo anni di indifferenza sostanziale, finiscono per riconoscere l'importanza delle tematiche sui diritti civili, e si uniscono ai radicali nelle battaglie per il divorzio, per l'aborto, per l'obiezione di coscienza, per la difesa della qualità della vita. Tutte queste lotte miravano a raggruppare le forze di sinistra, in contrapposizione al partito cattolico, espressione dell'autoritarismo delle Gerarchie e della conservazione, e quindi a creare le premesse per una alternanza di governo.

Ma le tendenze, in quegli anni, portano ad altre alleanze, quelle tra masse socialiste e cattoliche, in definitiva si perpetua il patto non scritto cattolico-comunista, che costringerà i radicali all'isolamento, sempre più minoranza ed anti partitocratici. E non poteva non succedere. In effetti il partito radicale, nel panorama politico italiano, si caratterizzava per la sua "diversità", sia nei valori che difendeva, sia nella metodologia delle lotte. Tutto ciò lo collocava in una posizione perennemente esterna rispetto al sistema dei partiti tradizionali.

E' evidente che il partito radicale, in rapporto agli schieramenti consolidati, non seguiva la tradizione nazionale: era una formazione che agiva empiricamente, quindi deideologizzata, che operava sulle cose, nel senso dell'insegnamento salveminiano.

Tuttavia, i Radicali volevano anche essi "fare rivoluzione", ma differenziandosi dai partiti di sinistra che in quegli anni Sessanta-Settanta apparivano ancora strettamente economicisti, si battevano per le libertà e la dignità individuali: per esempio, le lotte antimilitariste, per la liberazione sessuale, per una giustizia più giusta, per la difesa dell'ambiente, per la qualità della vita, per la sovranità del Parlamento contro le burocrazie dei partiti. Comunque, nel primo periodo della sua storia, il PR si collocò, chiaramente, a sinistra, perché si proponeva di attuare una aggregazione delle forze di quell'area attorno alle tematiche dei diritti civili.

Per rompere la gabbia in cui era ingessato il sistema politico italiano, l'unico strumento consentito ad un partito fortemente minoritario era quello di rivolgersi direttamente alla volontà popolare (i referendum) per tradurre in legge ciò che si manifestava sotto forma di domande dalla base del Paese. Una richiesta, tuttavia, che si indirizzava direttamente alle Istituzioni: essa veniva ostacolata dalle forze politiche organizzate, perché rappresentava, come espressione diretta della volontà popolare, un mezzo di mediazione esterna ai partiti, e quindi rivoluzionario.

Di qui discende quella che verrà chiamata l'"ambiguità" radicale: un partito che da una parte difendeva i bisogni popolari attraverso l'azione per i diritti civili, rispettosa dei valori della Costituzione, dall'altra faceva eco al ribellismo anti-sistema.

La struttura di questo partito anomalo, "diverso", veniva supportata da persone "sciolte" da legami di tessere, tutte provenienti dall'area cosiddetta della "contro-cultura", che facevano proprie le tematiche radicali. Quest'area politica non omogenea si rispecchiò in una organizzazione fluida cos come si presentava quella radicale, articolata in partiti locali, leghe, associazioni, e militanti di "una sola estate".

Verso la fine degli anni Settanta, quando il partito radicale entrò nel Parlamento, si attenuò quella diversità e sembrò trasformarsi in un partito tradizionale: questo creò tensioni con la anima originaria costituita dai movimenti di base, insofferenti verso gli apparati. Il popolo radicale periferico si vide cos emarginato, soffocato, e molti tra quelli che avevano portato "i tavolini sulle spalle" tornarono al loro privato.

Il partito sub una crisi di identità nel momento del massimo consenso, che si espresse nelle elezioni politiche del 1979. Il dissenso interno partiva dalla periferia, da quel magma delle organizzazioni locali, che reclamavano un ritorno allo statuto, a quel federalismo, sul quale era stata costruita la Carta Fondamentale del P.R., mai attuato in concreto. Il gruppo dirigente giustificava la sua avversione al radicamento del Partito nelle regioni affermando che, cos agendo, si mirava ad impedire il formarsi di strutture fisse, le sezioni, le federazioni: i militanti si dovevano aggregare soltanto intorno ad un tema (divorzio, aborto, ecc.) e non territorialmente, come nei partiti tradizionali. Tuttavia il germe che si voleva combattere dal centro, la gestione del potere fine a se stesso, si manifestò sotto altra forma proprio nel gruppo dirigente romano, che non era alieno da un certo professionismo politico: al suo interno cominciò a praticarsi la cooptazione, sotto forma di scelta dei militanti ritenuti più omogenei alla dirigenza nazionale.

Accadde che i deputati, i consiglieri comunali, regionali, eletti nelle liste radicali dal 1976 in poi, cominciarono a costituirsi in classe permanente: un fenomeno negativo e pericoloso per un partito spontaneo qual era stato fino ad allora il partito radicale. La base del partito a questo punto reag reclamando la creazione di una struttura stabile, insomma voleva un vero partito sotto il profilo organizzativo, anche se sempre caratterizzato dalla specificità radicale. Perché le regole certe di un partito avrebbero assicurato i diritti della minoranza, anzi della periferia, che appariva esclusa dal processo di formazione delle decisioni politiche fondamentali.

Ma la cristallizzazione dei radicali in un partito tradizionale, con sezioni, federazioni, ed apparati, avrebbe fermato quella fluidità organizzativa, quel mutamento continuo che ne costituiva la forza e la diversità. In ogni caso il P.R., costituito in forma-partito, avrebbe avuto scarso spazio: l'elettorato italiano dal '48 ha mostrato rigidità, si è mosso, da allora, assai lentamente, ed in proporzioni minime tra i vari grandi partiti. Sicché un consenso di massa non si sarebbe mai orientato verso il partito radicale. Nacque cos la strategia radicale di condurre le proprie battaglie, in particolare i referendum, non sotto le insegne di un partito, allo scopo, appunto, di raccogliere, come avvenne, le adesioni di militanti in altre formazioni politiche. Dunque il partito entrava in quella crisi di identità a cui abbiamo accennato, che si aggrava nel decennio successivo. Per i seguenti motivi.

Agli inizi degli anni Ottanta si esaurisce la spinta per le lotte a favore dei diritti civili, per cui il collante che aveva tenuto insieme il popolo radicale viene meno. Il partito sembra perdere quella forza di attrazione verso le componenti sparse e non politicamente organizzate della società italiana.

Inoltre, non raccoglie più il favore della opinione "liberal", che aveva fatto proprie le battaglie civili innescate dai radicali.

Anche i rapporti con i partiti più contigui, come quello socialista, si allentano: la contrapposizione tra il partito radicale e tutte le altre formazioni politiche divenne netta, invincibile. Sia nel Parlamento che nel paese i radicali furono minoranza, contro tutti.

Ebbene, per tirare fuori il suo partito da una situazione stagnante, senza prospettive se non quello di un lento, ma inesorabile esaurimento del suo appeal politico verso la società progressista, Marco Pannella impresse una "sterzata". Il leader storico radicale, con la sua capacità di saper gestire i bisogni e gli stati d'animo presenti in quel momento nel Paese, sceglieva una nuova strategia per il partito radicale, una strategia che non veniva dal nulla, ma si innestava nel primo progetto politico della sinistra radicale (1959-1962), le cui direttrici si muovevano lungo la vecchia linea internazionale, e poi, transnazionale: la lotta contro la fame nel mondo, gli interventi nel parlamento Europeo, l'interesse verso i paesi dell'Est.

Questo progetto, in effetti, tolse il partito dall'isolamento, nel senso che allargò lo spettro della sua azione di là della sua sfera tradizionale (forze di sinistra) richiamando l'interesse, per la prima volta, dei cattolici, sensibili alle tematiche del terzo mondo.

Tuttavia la nuova linea politica ha scompaginato la struttura tradizionale del partito: sono finite le associazioni locali, il collegamento con le leghe, con i partiti locali, tutti ormai rivelatisi inutili ed inutilizzabili nelle lotte per l'affermazione dei diritti umani.

Si è creata, cos, una sorta di soluzione di continuità tra il P.R., ormai Roma-centrico, e tutti i residui gruppi locali. Da alcuni anni l'unico legame rimasto vivo, l'unica struttura in cui si articola il messaggio del partito è Radio Radicale.

Ma bisogna pur dire che dal 1983 in avanti rimane ferma la tradizionale lotta contro la partitocrazia, anzi è il motivo dominante, la premessa per tutte le altre battaglie ideali. Il proposito è sempre quello di creare due schieramenti contrapposti, fra conservazione e progresso, di là della demarcazione tra destra e sinistra, ormai ritenuta superata. Il fine è l'alternativa di governo, con una aggregazione su temi specifici: la giustizia giusta, pensioni non avvilenti, antiproibizionismo, l'ecologia, l'unità europea estesa ai paesi dell'Est, una riforma elettorale uninominale di modello anglosassone.

Mentre scriviamo queste ultime righe, la fenice radicale, dopo l'ultima scomposizione, sembra risorta sotto forme diverse come, peraltro tante volte, è accaduto nel passato. Il radicamento transnazionale, specie nei paesi slavi di recente indipendenza, ha riscosso qualche successo; il gruppo dirigente storico, pur diviso sotto diverse insegne di movimenti e partiti, è ancora idealmente compatto.

Infine, dobbiamo registrare la vitalità dell'organizzazione centrale, la quale mostra forza e capacità di mobilitazione, come nella raccolta di firme per i referendum. In un momento, si noti, in cui è forte e generalizzata nel Paese la spinta per la partecipazione diretta alle lotte politiche dalla base della società. Anche se, a differenza del passato trentennio, i soggetti politici, non organizzati sotto forma di partito, che incanalano le energie civili spontanee sono molti (Rete, Verdi, Leghe, ecc.), e con progetti fortemente dissonanti, e quindi non associabili tra di loro per comuni battaglie civili insieme con i radicali.

In conclusione, facendo il sommario, ancora incompleto per le ragioni che abbiamo scritto nella nota introduttiva, della storia di questo partito singolare per la nostra società si può, tranquillamente, affermare che quei quattro cinque-giovani che nel 1962 dettero vita al nuovo partito radicale non hanno agito invano.