CONCLUSIONI
Non un politologo,
ma un filosofo napoletano ha detto, intervenendo in
un dibattito, che Marco Pannella è stato (ed è) un
ricercatore, proprio nel senso accademico del
termine, ed il fondatore di un laboratorio politico.
La definizione, è soltanto, di primo acchito,
sorprendente: tuttavia coglie il vero, se si
osservano le varie tappe del suo cammino politico e
del partito che ha cercato di fare a sua somiglianza;
insomma quella volontà mai dismessa di realizzare
una o due idee-forza, usando strumenti e materiali
vecchi e nuovi insieme, con una ricerca continua,
instancabile, con sperimentazioni a volte illogiche,
senza sbocchi, almeno apparentemente fine a se
stesse.
Nondimeno se si
mettono insieme i pezzi dell'itinerario politico di
questo gruppo costituitosi attorno a Pannella nel
1962, appare chiaramente delineato un disegno
coerente, un progetto che, nonostante le diversioni,
le frantumazioni, le ricomposizioni, in sostanza non
è mai venuto meno. Dagli iniziali eroici tempi al
sogno di un partito transnazionale, nato a Budapest
nel 1989.
Si spiega, secondo
questa ottica di partito-laboratorio, quel continuo
farsi e disfarsi, come struttura, come metodi:
scioglimenti tante tante volte minacciati e
regolarmente non attuati, attrazione e rigetto verso
le associazioni locali, lo statuto continuamente
messo in discussione. Questi comportamenti eretici,
per la nostra storia, sono stati giudicati come
fattori di incoerenza e addirittura di scarsa
serietà nei propositi. Ma, a ben studiare i primi
trent'anni di vita di questo partito anomalo per
tutti i versi, l'instabilità ed una fine annunciata
quasi ad ogni apertura di congresso, sono elementi
insiti nella idea stessa che ha spinto Pannella ed i
suoi compagni a fondare una nuova formazione
politica.
Il partito più
innovatore che sia apparso sulla scena politica
nazionale nel secondo dopoguerra spuntò,
sorprendentemente, dal tronco del più antico partito
italiano. Il nuovo partito radicale nacque da matrice
liberale, laico senza compromissioni.
Ed a ben vedere i
principi ed i metodi di lotta a cui si ispirò non si
discostavano dal pensiero liberale europeo; nella
parte più vitale e moderna, quella che prospetta,
nella vita politica, la positività dei conflitti
individuali. Di qui la strategia del nuovo partito
radicale: azione diretta, disobbedienza civile, mai
contro le Istituzioni, anzi si intendeva difenderle,
renderle più attive, in difesa dei bisogni del
cittadino. Metodi, dunque, di chiara origine dal
liberalismo anglosassone.
Tuttavia, questa
azione di tipo nuovo, mai sperimentato nel nostro
Paese, andava a cozzare contro un sistema politico
bloccato dalla continua mediazione fra i due partiti
di massa, Pci e Dc, che se da un lato evitava la
conflittualità permanente, dall'altro impediva ai
vari governi di governare, ed all'opposizione di
diventare governo. Ebbene, il progetto politico
complessivo radicale era finalizzato alla rottura di
questo equilibrio politico, incentrato su comunisti e
democristiani, ormai consociati: i referendum,
l'azione di salvaguardia della sovranità del
Parlamento, la denuncia della partitocrazia, la
richiesta di modifica del sistema elettorale sul
modello inglese erano pensati proprio per scardinare
un potere di fatto bipolare.
In realtà, verso la
fine degli anni Sessanta, e per tutti gli anni
Settanta, l'intervento radicale produce un certo
effetto "destabilizzante" almeno sui
partiti di sinistra, i quali, dopo anni di
indifferenza sostanziale, finiscono per riconoscere
l'importanza delle tematiche sui diritti civili, e si
uniscono ai radicali nelle battaglie per il divorzio,
per l'aborto, per l'obiezione di coscienza, per la
difesa della qualità della vita. Tutte queste lotte
miravano a raggruppare le forze di sinistra, in
contrapposizione al partito cattolico, espressione
dell'autoritarismo delle Gerarchie e della
conservazione, e quindi a creare le premesse per una
alternanza di governo.
Ma le tendenze, in
quegli anni, portano ad altre alleanze, quelle tra
masse socialiste e cattoliche, in definitiva si
perpetua il patto non scritto cattolico-comunista,
che costringerà i radicali all'isolamento, sempre
più minoranza ed anti partitocratici. E non poteva
non succedere. In effetti il partito radicale, nel
panorama politico italiano, si caratterizzava per la
sua "diversità", sia nei valori che
difendeva, sia nella metodologia delle lotte. Tutto
ciò lo collocava in una posizione perennemente
esterna rispetto al sistema dei partiti tradizionali.
E' evidente che il
partito radicale, in rapporto agli schieramenti
consolidati, non seguiva la tradizione nazionale: era
una formazione che agiva empiricamente, quindi
deideologizzata, che operava sulle cose, nel senso
dell'insegnamento salveminiano.
Tuttavia, i Radicali
volevano anche essi "fare rivoluzione", ma
differenziandosi dai partiti di sinistra che in
quegli anni Sessanta-Settanta apparivano ancora
strettamente economicisti, si battevano per le
libertà e la dignità individuali: per esempio, le
lotte antimilitariste, per la liberazione sessuale,
per una giustizia più giusta, per la difesa
dell'ambiente, per la qualità della vita, per la
sovranità del Parlamento contro le burocrazie dei
partiti. Comunque, nel primo periodo della sua
storia, il PR si collocò, chiaramente, a sinistra,
perché si proponeva di attuare una aggregazione
delle forze di quell'area attorno alle tematiche dei
diritti civili.
Per rompere la
gabbia in cui era ingessato il sistema politico
italiano, l'unico strumento consentito ad un partito
fortemente minoritario era quello di rivolgersi
direttamente alla volontà popolare (i referendum)
per tradurre in legge ciò che si manifestava sotto
forma di domande dalla base del Paese. Una richiesta,
tuttavia, che si indirizzava direttamente alle
Istituzioni: essa veniva ostacolata dalle forze
politiche organizzate, perché rappresentava, come
espressione diretta della volontà popolare, un mezzo
di mediazione esterna ai partiti, e quindi
rivoluzionario.
Di qui discende
quella che verrà chiamata l'"ambiguità"
radicale: un partito che da una parte difendeva i
bisogni popolari attraverso l'azione per i diritti
civili, rispettosa dei valori della Costituzione,
dall'altra faceva eco al ribellismo anti-sistema.
La struttura di
questo partito anomalo, "diverso", veniva
supportata da persone "sciolte" da legami
di tessere, tutte provenienti dall'area cosiddetta
della "contro-cultura", che facevano
proprie le tematiche radicali. Quest'area politica
non omogenea si rispecchiò in una organizzazione
fluida cos come si presentava quella radicale,
articolata in partiti locali, leghe, associazioni, e
militanti di "una sola estate".
Verso la fine degli
anni Settanta, quando il partito radicale entrò nel
Parlamento, si attenuò quella diversità e sembrò
trasformarsi in un partito tradizionale: questo creò
tensioni con la anima originaria costituita dai
movimenti di base, insofferenti verso gli apparati.
Il popolo radicale periferico si vide cos
emarginato, soffocato, e molti tra quelli che avevano
portato "i tavolini sulle spalle" tornarono
al loro privato.
Il partito sub
una crisi di identità nel momento del massimo
consenso, che si espresse nelle elezioni politiche
del 1979. Il dissenso interno partiva dalla
periferia, da quel magma delle organizzazioni locali,
che reclamavano un ritorno allo statuto, a quel
federalismo, sul quale era stata costruita la Carta
Fondamentale del P.R., mai attuato in concreto. Il
gruppo dirigente giustificava la sua avversione al
radicamento del Partito nelle regioni affermando che,
cos agendo, si mirava ad impedire il formarsi
di strutture fisse, le sezioni, le federazioni: i
militanti si dovevano aggregare soltanto intorno ad
un tema (divorzio, aborto, ecc.) e non
territorialmente, come nei partiti tradizionali.
Tuttavia il germe che si voleva combattere dal
centro, la gestione del potere fine a se stesso, si
manifestò sotto altra forma proprio nel gruppo
dirigente romano, che non era alieno da un certo
professionismo politico: al suo interno cominciò a
praticarsi la cooptazione, sotto forma di scelta dei
militanti ritenuti più omogenei alla dirigenza
nazionale.
Accadde che i
deputati, i consiglieri comunali, regionali, eletti
nelle liste radicali dal 1976 in poi, cominciarono a
costituirsi in classe permanente: un fenomeno
negativo e pericoloso per un partito spontaneo qual
era stato fino ad allora il partito radicale. La base
del partito a questo punto reag reclamando la
creazione di una struttura stabile, insomma voleva un
vero partito sotto il profilo organizzativo, anche se
sempre caratterizzato dalla specificità radicale.
Perché le regole certe di un partito avrebbero
assicurato i diritti della minoranza, anzi della
periferia, che appariva esclusa dal processo di
formazione delle decisioni politiche fondamentali.
Ma la
cristallizzazione dei radicali in un partito
tradizionale, con sezioni, federazioni, ed apparati,
avrebbe fermato quella fluidità organizzativa, quel
mutamento continuo che ne costituiva la forza e la
diversità. In ogni caso il P.R., costituito in
forma-partito, avrebbe avuto scarso spazio:
l'elettorato italiano dal '48 ha mostrato rigidità,
si è mosso, da allora, assai lentamente, ed in
proporzioni minime tra i vari grandi partiti. Sicché
un consenso di massa non si sarebbe mai orientato
verso il partito radicale. Nacque cos la
strategia radicale di condurre le proprie battaglie,
in particolare i referendum, non sotto le insegne di
un partito, allo scopo, appunto, di raccogliere, come
avvenne, le adesioni di militanti in altre formazioni
politiche. Dunque il partito entrava in quella crisi
di identità a cui abbiamo accennato, che si aggrava
nel decennio successivo. Per i seguenti motivi.
Agli inizi degli
anni Ottanta si esaurisce la spinta per le lotte a
favore dei diritti civili, per cui il collante che
aveva tenuto insieme il popolo radicale viene meno.
Il partito sembra perdere quella forza di attrazione
verso le componenti sparse e non politicamente
organizzate della società italiana.
Inoltre, non
raccoglie più il favore della opinione
"liberal", che aveva fatto proprie le
battaglie civili innescate dai radicali.
Anche i rapporti con
i partiti più contigui, come quello socialista, si
allentano: la contrapposizione tra il partito
radicale e tutte le altre formazioni politiche
divenne netta, invincibile. Sia nel Parlamento che
nel paese i radicali furono minoranza, contro tutti.
Ebbene, per tirare
fuori il suo partito da una situazione stagnante,
senza prospettive se non quello di un lento, ma
inesorabile esaurimento del suo appeal politico verso
la società progressista, Marco Pannella impresse una
"sterzata". Il leader storico radicale, con
la sua capacità di saper gestire i bisogni e gli
stati d'animo presenti in quel momento nel Paese,
sceglieva una nuova strategia per il partito
radicale, una strategia che non veniva dal nulla, ma
si innestava nel primo progetto politico della
sinistra radicale (1959-1962), le cui direttrici si
muovevano lungo la vecchia linea internazionale, e
poi, transnazionale: la lotta contro la fame nel
mondo, gli interventi nel parlamento Europeo,
l'interesse verso i paesi dell'Est.
Questo progetto, in
effetti, tolse il partito dall'isolamento, nel senso
che allargò lo spettro della sua azione di là della
sua sfera tradizionale (forze di sinistra)
richiamando l'interesse, per la prima volta, dei
cattolici, sensibili alle tematiche del terzo mondo.
Tuttavia la nuova
linea politica ha scompaginato la struttura
tradizionale del partito: sono finite le associazioni
locali, il collegamento con le leghe, con i partiti
locali, tutti ormai rivelatisi inutili ed
inutilizzabili nelle lotte per l'affermazione dei
diritti umani.
Si è creata,
cos, una sorta di soluzione di continuità tra
il P.R., ormai Roma-centrico, e tutti i residui
gruppi locali. Da alcuni anni l'unico legame rimasto
vivo, l'unica struttura in cui si articola il
messaggio del partito è Radio Radicale.
Ma bisogna pur dire
che dal 1983 in avanti rimane ferma la tradizionale
lotta contro la partitocrazia, anzi è il motivo
dominante, la premessa per tutte le altre battaglie
ideali. Il proposito è sempre quello di creare due
schieramenti contrapposti, fra conservazione e
progresso, di là della demarcazione tra destra e
sinistra, ormai ritenuta superata. Il fine è
l'alternativa di governo, con una aggregazione su
temi specifici: la giustizia giusta, pensioni non
avvilenti, antiproibizionismo, l'ecologia, l'unità
europea estesa ai paesi dell'Est, una riforma
elettorale uninominale di modello anglosassone.
Mentre scriviamo
queste ultime righe, la fenice radicale, dopo
l'ultima scomposizione, sembra risorta sotto forme
diverse come, peraltro tante volte, è accaduto nel
passato. Il radicamento transnazionale, specie nei
paesi slavi di recente indipendenza, ha riscosso
qualche successo; il gruppo dirigente storico, pur
diviso sotto diverse insegne di movimenti e partiti,
è ancora idealmente compatto.
Infine, dobbiamo
registrare la vitalità dell'organizzazione centrale,
la quale mostra forza e capacità di mobilitazione,
come nella raccolta di firme per i referendum. In un
momento, si noti, in cui è forte e generalizzata nel
Paese la spinta per la partecipazione diretta alle
lotte politiche dalla base della società. Anche se,
a differenza del passato trentennio, i soggetti
politici, non organizzati sotto forma di partito, che
incanalano le energie civili spontanee sono molti
(Rete, Verdi, Leghe, ecc.), e con progetti fortemente
dissonanti, e quindi non associabili tra di loro per
comuni battaglie civili insieme con i radicali.
In conclusione,
facendo il sommario, ancora incompleto per le ragioni
che abbiamo scritto nella nota introduttiva, della
storia di questo partito singolare per la nostra
società si può, tranquillamente, affermare che quei
quattro cinque-giovani che nel 1962 dettero vita al
nuovo partito radicale non hanno agito invano.