CAPITOLO
VI - I RADICALI NEL PARLAMENTO
1. In nome del
regolamento
Oltre che nel Paese,
come era accaduto nell'arco dei due decenni della sua
storia, il partito radicale intendeva portare la sua
diversità in Parlamento.
Abbiamo visto che i
radicali, mentre erano già in procinto di entrare
nel Parlamento discutevano ancora al loro interno
sulla natura dell'organizzazione in cui militavano,
partito o movimento. Preferivano identificarsi sotto
la prima classificazione, ed in effetti avevano
assunto la fisionomia di un partito ma, appunto,
diverso, in fase continuamente costituente, più che
altro un contenitore delle più diverse istanze
provenienti dal basso finalizzate alla costruzione di
una società socialista libertaria.
I radicali volevano
trasformare il Parlamento in luogo di scontro reale
tra le forze politiche, una prosecuzione delle lotte
per i diritti civili, anziché continuare a vederlo
come una sede di registrazione degli accordi e dei
compromessi che necessariamente intervengono tra le
forze politiche e sociali.
Tentavano dunque un
uso dell'istituzione parlamentare che consentisse
loro non solo un'opposizione di principio, ma
battaglie progettuali particolari (274).
Ma così come era
organizzato il lavoro parlamentare, con il suo
decentramento in commissioni, non permetteva al
gruppo dei quattro deputati radicali di partecipare
concretamente al confronto politico con le altre
rappresentanze. Erano, cioè, costretti ad
"incursioni" da una Commissione all'altra:
dovevano insomma inventarsi delle tecniche
particolari per partecipare, tutti insieme, ai lavori
delle commissioni nel momento in cui erano all'ordine
del giorno progetti di legge sulle tematiche
"radicali", come quelli relativi alla
regolamentazione dell'aborto.
La contrarietà dei
radicali verso la frantumazione della Camera in
attività settoriali rispondeva anche ad un preciso
disegno politico. Essi ritenevano che soltanto sui
diritti civili era possibile stabilire una
contrapposizione netta tra forze conservatrici e
forze progressiste del Paese: sulle scelte di
civiltà i compromessi erano difficili da
raggiungere, e pertanto i luoghi di mediazione, cioè
le assemblee parlamentari, diversamente dalle
Commissioni, dovevano essere le sedi rappresentative
dello "scontro" reale. Da qui la polemica
di Pannella per la "riappropriazione" da
parte dell'assemblea della propria sovranità;
rivendicava, così, più spazio per il dissenso
radicale che, fortemente minoritario, poteva
utilmente esprimersi soltanto in sede plenaria dove
avrebbe potuto aggregare i partiti di sinistra sui
temi dei diritti civili.
La metodologia del
P.R. in Parlamento si esprimeva attraverso incidenti
procedurali su questioni apparentemente minori.
Per esempio la vicenda
dell'assegnazione degli scranni: i radicali
chiedevano di sedersi alla sinistra dei comunisti. La
richiesta fu interpretata da questi come
provocatoria, un dispetto agli eletti del P.C.I.; in
realtà la ragione della protesta radicale era ben
più seria e si iscriveva nella difesa della
sovranità dell'assemblea: la distribuzione dei seggi
era stata adottata da un organo interno, i questori,
e quindi sottratta alla decisione assembleare.
Un altro aspetto della
vita parlamentare fortemente contestato dai radicali
era stata l'organizzazione dei lavori tramite i
gruppi, la lottizzazione dei tempi, delle funzioni e
delle responsabilità con l'attenuazione del ruolo
del singolo deputato.
E' stata anche
denunciata dal gruppo radicale la prassi che tollera
la contemporaneità tra le sedute dell'assemblea e
quelle delle Commissioni. Tutta l'azione del P.R. in
Parlamento tendeva dunque ad una rivalutazione
dell'assemblea, come centro di confronto politico; e
non poteva che essere così se si riflette sul
significato degli interventi nel Paese. Di qui le
polemiche da parte radicale contro la
"latitanza" del governo a rispondere ad
interrogazioni ed interpellanze, violando così i
poteri di controllo dell'assemblea sull'esecutivo.
Il momento politico,
la solidarietà nazionale, era di per sé sfavorevole
alle minoranze, rimaste ai margini del dibattito di
fronte al maxi-accordo tra le grandi formazioni
politiche. I radicali in questo contesto sembravano
la minoranza delle minoranze, perché estranei ad
ogni contrattazione; dovevano perciò,
necessariamente, ritagliarsi un ruolo per non
rimanere schiacciati in mezzo alle forze egemoni,
D.C. e P.C.I. alleati: un ruolo che potevano
esercitare soltanto nell'assemblea legislativa,
agendo sulla coscienza politica dei singoli deputati
di sinistra, per ottenere adesioni ai loro progetti
sui diritti civili; così operando i radicali
volevano restituire ai parlamentari la loro funzione
rappresentativa originaria, garantita dall'art. 67
della Costituzione.
La polemica radicale
contro la marginalità dell'assemblea parlamentare
ebbe qualche risultato, ma non riuscì a scardinare
il sistema ormai consolidato di decidere e mediare al
di fuori dell'assemblea stessa: i partiti della
maggioranza "dettavano temi, svolgimenti...
l'ordine dei gesti come in una catena di montaggio,
ad un migliaio di parlamentari-bidone", scriveva
Pannella, a proposito dello scontro in Parlamento tra
il gruppo radicale, la maggioranza e le minoranze
"passive" (275).
I radicali intendevano
denunciare questa situazione: si erano accorti che
l'interpretazione dei regolamenti parlamentari era
consona all'atteggiamento dei partiti di governo
verso i loro rappresentanti alle Camere espropriati
della funzione primaria e sovrana.
Lamentavano che per
prassi al deputato non era consentito di intervenire
neanche per notazioni procedurali, per richiami allo
stesso regolamento. Si era arrivati al punto che il
Presidente del l'Assemblea poteva negare ad un
parlamentare anche di chiedere la parola e di
motivare la sua richiesta.
Qui necessita
esaminare lo snodo tra l'ordinamento parlamentare e
la politica. E' necessario un richiamo alle fonti che
regolano il Parlamento. Esse sono giurisprudenziali,
cioè le circolari presidenziali ed i pareri
interpretativi delle Giunte per il regolamento, ma
soprattutto fonti non scritte, peraltro non
riscontrabili, secondo la dottrina, in nessun altro
settore dell'ordinamento giuridico (276). In questo
punto di incrocio tra fonti scritte e non scritte, la
necessità di fluidità dei comportamenti si
congiunge ad una necessaria stabilità di accordo
sulle regole del gioco.
Ebbene, proprio questo
equilibrio tentarono di far saltare i radicali: essi
vollero contestare le fonti non scritte che formavano
la prassi, le consuetudini e le convenzioni
parlamentari, e rivendicare la superiorità delle
fonti scritte cioè del regolamento; fonte certa, non
suscettibile di essere manovrata dalle maggioranze in
danno delle minoranze, e tutto ciò anche a costo di
creare una certa rigidità di comportamenti.
L'azione in Parlamento
dei radicali veniva giustificata sotto un duplice
profilo. Da un lato miravano a ristabilire la
legalità formale nelle assemblee con il rispetto
delle norme scritte; dall'altro a sfruttare le
risorse dei regolamenti (160 interventi solo in Aula
per richiami al regolamento) fino alle ultime
possibilità, per organizzare un ostruzionismo
apparentemente fine a se stesso, ma nella sostanza in
difesa del Parlamento contro tutte le decisioni
extraparlamentari dei partiti della cosiddetta
esarchia, allora al potere.
Approvato nel 1971, in
previsione della convergenza fra DC e PCI, il
regolamento offriva largo spazio all'ostruzionismo
soprattutto alla Camera poiché era basato
sull'unanimità della gestione dei procedimenti.
In sostanza esso si
fondava sul presupposto dell'inesistenza di
un'opposizione. Attribuiva ai presidenti dei gruppi
parlamentari poteri d'attivazione e anche di
programmazione dei lavori: un regolamento
"gruppocratico" come sostenevano i
radicali, che riduceva l'indipendenza del singolo
parlamentare. Insomma con la scusa del garantismo,
della "centralità" del parlamento si
voleva realizzare una forma di cogestione
unanimistica del potere da parte dei partiti. I
radicali contestano la validità del sistema
consociativo; ma a parte questo constatavano che il
Parlamento comunque non funzionava e che soprattutto
era espropriato dei suoi poteri dalle segreterie dei
partiti.
Anche disponendo di
una larga maggioranza, infatti, il governo era
costretto a far uso della decretazione d'urgenza, ed
anche i disegni di legge erano tenuti fermi per mesi,
per mancanza di accordo fra i partiti dell'eterogenea
maggioranza governativa.
L'azione parlamentare
radicale era svolta coerentemente con quanto
stabilito nello statuto del PR, approvato nel 1967.
L'articolo 5, secondo
comma, a proposito degli eletti con liste del Partito
nelle competizioni comunali, provinciali, regionali,
politiche, prescriveva che "gli eletti,
nell'esercizio della loro attività rappresentativa,
non sono vincolati da mandati né da alcuna
disciplina", e lasciava libertà di voto anche
rispetto alle deliberazioni dei gruppi parlamentari.
Una formulazione studiata per affossare la disciplina
di partito e lo strapotere degli apparati, contro la
regola consolidata di subordinare il gruppo
parlamentare al partito.
L'impostazione
radicale mirava a rompere coincidenza tra élites
parlamentari ed élites di partito, e suscitare,
quindi, una dialettica tra partito e Parlamento.
Rientrava in tale ottica il principio della rotazione
del mandato parlamentare, annunciato dai radicali
all'inizio della legislatura, ed attuato, poi, alla
fine del '78 (277); e quello della incompatibilità
fra mandato parlamentare e cariche di partito.
I radicali chiesero
l'iscrizione al Gruppo parlamentare del PSI, ma la
richiesta non ebbe alcun seguito, proprio a causa
delle posizioni anti-apparato che il P.R. aveva
dichiarato di voler mantenere ed anzi riversare in
proposte di legge che sancissero quelle
incompatibilità di incarichi alle Camere e nel
Partito. Ma il punto di maggiore, anzi di
fondamentale contrasto tra radicali e socialisti
stava nella ferma ed irrinunciabile richiesta del
P.R. di svincolare i singoli deputati dalla
disciplina dei rispettivi gruppi.
Il P.S.I. si oppose,
perché accettare una simile pretesa avrebbe,
ovviamente, scardinato il rapporto tra il
partito-apparato e la sua espressione parlamentare.
Di fronte al rifiuto
socialista, i radicali istituirono un
"collettivo parlamentare", composto dai
loro deputati e dai primi dei non eletti. Per fissare
un maggiore distacco tra partito e deputati, il
Gruppo Parlamentare radicale non poteva partecipare,
di diritto, al Consiglio Federativo; di contro
normalmente il segretario ed il tesoriere e
presidente del Consiglio Federativo potevano
intervenire ai seminari del Gruppo. Nel 1978 però,
al Congresso di Bologna, si approvò la costituzione
di una "giunta consultiva", di cui
avrebbero fatto parte gli ex segretari del partito e
i parlamentari, al fine di coordinare il partito ed
il gruppo parlamentare, ad evitare possibili
separatezze.
Il rapporto fra gruppo
parlamentare e partito nella VII legislatura, fu
abbastanza paritetico; e di appoggio reciproco.
All'inizio della
Legislatura, i deputati radicali presentarono alcuni
progetti di legge relativi a materie già oggetto di
loro battaglie nel Paese da molti anni.
"La
pattuglia" radicale dovette affrontare
l'opposizione della più vasta maggioranza, nella
storia parlamentare d'Italia. E come abbiamo avuto
occasione di osservare nelle pagine precedenti, i
deputati radicali operavano in Parlamento in modo
diverso ed alternativo, con la pratica
dell'ostruzionismo, con il richiamo puntiglioso al
regolamento (278), con l'insistenza sul
"primato" delle assemblee, per far fallire
alcune iniziative legislative dell'esarchia, ritenute
illiberali, come la Legge "Reale-bis".
Il primo dei progetti
di legge a firma dei deputati radicali fu quello
sull'aborto. Recano anche la firma del P.R.
altrettanti progetti in materia di immunità
parlamentare, di spostamento dei processi da parte
della Cassazione (caso Valpreda), di tutela delle
minoranze linguistiche, di riforma e
smilitarizzazione dei corpi di polizia, di
adeguamento dell'età per il voto per il Senato, di
quorum necessario per l'incriminazione dei ministri
da parte del Parlamento in seduta comune, di principi
della disciplina militare e del codice penale
militare, ed altre di minore importanza.
L'attività radicale
nella VII Legislatura, nella promozione legislativa,
superò la media realizzata dagli altri gruppi, ed i
deputati radicali si mostravano i più assidui nel
lavoro parlamentare, quelli che erano intervenuti e
che avevano ascoltato di più anche gli antagonisti
(cosa, in genere, ritenuta inutile).
Inoltre il gruppo
radicale non trascurava l'altro compito istituzionale
del parlamentare, cioè l'attività di
"sindacato ispettivo" (interrogazioni,
interpellanze) e di "indirizzo" (mozioni,
raccomandazioni). Quantifichiamo, qui di seguito, in
cifre le due ultime attività. Nel corso di questa
Legislatura i deputati radicali hanno presentato 19
mozioni, 73 interpellanze, 356 interrogazioni a
risposta scritta (279).
Durante i drammatici
giorni seguiti al rapimento di Moro, i radicali si
rifiutavano di accettare "il rito dei
consensi" e di rinuncia alla discussione nel
segno, dissero, della "retorica dell'unione
sacra" (280).
Contro le varie leggi
varate allo scopo di evitare i referendum sull'aborto
e sui manicomi, i radicali si impegnavano con
ripetuti interventi, con pregiudiziali, con
emendamenti. Tuttavia la maggioranza sulla quale
poggiava il governo Andreotti, nonostante
l'ostruzionismo radicale, riuscì a varare le leggi
sui manicomi, sull'Inquirente, sull'aborto, che
impedirono i tre referendum, sulle stesse materie,
presentati dal P.R.
La legge sull'aborto
fu particolarmente avversata dai radicali, perché
non recepiva la totale depenalizzazione, così come
il P.R., e le varie Leghe, il MLD ed il CISA,
auspicavano (281): i radicali vedevano vanificati i
loro digiuni, la loro disobbedienza civile, gli
arresti di Spadaccia, della Bonino, di Adele Faccio,
di Giorgio Conciani e di decine di altri militanti e
l'assistenza prestata in tutta Italia a decine di
migliaia di donne.
Invece,
l'ostruzionismo condotto in commissione in sede
legislativa contro la legge che sostituiva quella
"Reale-bis" ed impediva il referendum, ebbe
successo. Furono presentati molti emendamenti, con
decine di interventi nella Commissione Giustizia,
finché fu chiaro che la legge non sarebbe stata
votata prima del referendum.
Bisogna dire, in sede
di esame complessivo, che la presenza radicale in
Parlamento da un lato provocava fastidio ed
insofferenza, perché turbava consolidate prassi ed
abitudini, ma anche riconoscimenti e consensi da
parte di singoli deputati "sciolti", i
quali vedevano valorizzata la loro funzione: ed
accadeva che, nelle votazioni a scrutinio segreto,
molti "franchi tiratori" votavano per le
pregiudiziali, per gli emendamenti, per le proposte
dei radicali.
Insomma il P.R.
rivalutava l'istituzione parlamentare, e ciò non
dispiaceva ai più sensibili verso la Costituzione.
E' necessario
ricordare, infine, che i parlamentari radicali non si
rivelarono attenti solo ai problemi dei diritti
civili. Ebbero un ruolo anche sui temi nucleari ed
energetici, e parteciparono attivamente ai dibattiti
sui bilanci, sui provvedimenti fiscali, sull'equo
canone, e su altre questioni economiche, finanziarie
e sociali.
Si poneva tuttavia, al
gruppo radicale, nonostante l'attivismo anche
frenetico, anche stressante, un problema politico:
rompere l'isolamento in cui era stato posto il P.R.,
per il suo rifiuto a partecipare alla democrazia
consociativa e "spartitoria" (come la
definiva Pannella): in pratica scontava una
emarginazione a sinistra. Peraltro la Camera non
rispondeva alle sollecitazioni dei radicali sui
problemi urgenti, quale, per esempio la situazione
penitenziaria.
Questo rifiuto
spostava necessariamente all'esterno del Parlamento
il centro della iniziativa e del metodo radicale.
Tornavano così, nel Paese, le tradizionali azioni
dirette non violente, come i digiuni (282). Lo stesso
"collettivo parlamentare" rinunciava a
considerarsi parte della Istituzione per assumere il
ruolo di contro-parte.
I radicali, con le
mobilitazioni di sempre, con il ricorso alle
molteplici azioni dirette, volevano dimostrare che in
nessun caso erano disposti a subire condizionamenti
istituzionali ed a perdere la loro identità di
minoranza attiva che si esprimeva soprattutto a
livello di base. Nella stessa ottica si deve
giudicare il ritorno alla strategia dei referendum
come fatto di aggregazione dal basso delle forze di
sinistra che credevano nell'alternativa, sempre nella
prospettiva di una società socialista e libertaria.
Per l'VIII legislatura
furono eletti 18 deputati e 2 senatori radicali. La
prima preoccupazione fu quella, data la dimensione
del gruppo, di non ricadere nelle prassi degli altri
gruppi tradizionali. Intanto i radicali mantengono il
primato degli interventi (solo nei primi quindici
mesi, un totale di circa 900 interventi in aula);
inoltre la situazione politica era cambiata: la fine
della solidarietà nazionale poteva aprire nuovi
spazi alla presenza radicale in Parlamento.
Ma il rapporto dei
radicali con il P.C.I. e con il P.S.I., come vedremo,
rimase molto conflittuale; anzi peggiorò soprattutto
con Craxi che cercava di liberarsi di un pericoloso
avversario che avrebbe potuto sottrarre consensi
nell'area socialista. L'isolamento del P.R. era
quindi molto forte, sia in Parlamento sia nel Paese.
Sembrava impraticabile quindi la strategia radicale
di aggregazione di forze di sinistra per un
alternativa.
Il 1979 è l'anno
dell'inizio della lotta contro lo sterminio per fame,
un tema che non raccoglie l'appoggio dei partiti di
sinistra (soprattutto del P.C.I.) in quanto tali, ma
semmai aggrega l'opinione pubblica o parlamentari
"sciolti".
Un tema trasversale
come i diritti civili, ma non suscettibile di creare
una divisione destra/sinistra. Il P.R. conduce la
lotta parallelamente nel paese con frequenti digiuni
e in Parlamento, dove l'impegno dei due senatori
radicali riuscì ad ottenere le firme necessarie.
I radicali comunque
continuarono la loro battaglia per un corretto gioco
parlamentare. Nell'VIII legislatura il problema della
crisi delle istituzioni, di necessarie riforme
istituzionali e il problema della
"governabilità" cessarono di essere
appannaggio radicale per divenire problema comune.
Il punto critico viene
visto dai radicali nelle debolezze dell'esecutivo
rispetto al Parlamento costretto, per attuare il
programma, a far ricorso ai decreti legge. I radicali
avevano già messo in evidenza questo punto nella
legislatura precedente. Per rendere più fluido il
sistema, secondo i radicali, certamente non sarebbero
state sufficienti delle semplici modifiche dei
regolamenti parlamentari e della Costituzione, come
si proponeva da varie parti.
Occorreva, infatti,
ben altro, per rendere più funzionale il rapporto
tra maggioranza che governa efficacemente e
opposizione vera e senza cedimenti, perché il male
si annidava nella burocrazia: i partiti non formavano
maggioranze e minoranze certe: i ruoli opposti
venivano spesso scambiati e confusi, creando
pateracchi ed ingorghi.
Dunque, per far
funzionare correttamente le istituzioni sarebbe stata
necessaria l'alternanza di governo, che avrebbe
consentito un ricambio della classe dirigente. Ma
qual era il mezzo per rendere possibile questa
alternativa? Primo: una intesa tra i partiti di
sinistra. Secondo: il rispetto effettivo delle regole
del gioco parlamentare.
Per realizzare questo
disegno politico-istituzionale, Pannella proponeva un
"patto istituzionale per il rafforzamento dei
meccanismi-cardine della vita del Parlamento e del
governo". In pratica, il patto proposto dal
leader radicale consisteva in un preciso impegno da
parte dell'opposizione a discutere, entro i termini
prescritti dal regolamento, i disegni di legge
governativi ed i progetti di legge parlamentari. Il
governo, da parte sua, doveva rispettare il diritto
delle opposizioni a veder votate ed eventualmente
respinte le proprie proposte. Per far funzionare
questo patto sarebbe stato sufficiente usare gli
strumenti regolamentari disponibili, per esempio, la
programmazione dei lavori.
La proposta però
venne lasciata cadere. Nell'81 venne approvata una
riforma del regolamento della Camera dei deputati che
limitava i tempi di intervento dei parlamentari e
riduceva la programmazione concordata all'unanimità
all'interno della conferenza dei capigruppo. Su
queste riforme si realizzò una larga convergenza
anche da parte dei comunisti, nonostante il fatto che
essi limitassero l'opposizione, senza però (come
notavano i radicali) affrontare i problemi del
governo o prevedere nuovi strumenti di indirizzo e
controllo (i radicali proponevano l'adozione del
"question time" all'inglese per risolvere
il problema della risposta del governo al sindacato
ispettivo). Queste riforme, le prime di una lunga
serie che irrigidirà il regolamento, contro le quali
i radicali presentarono ben 50.000 emendamenti,
vennero adottate con l'intento di battere
l'ostruzionismo attuato dai radicali, considerati i
sabotatori delle istituzioni.
All'inizio del 1980 i
parlamentari radicali avevano spiegato un duro
ostruzionismo, con lunghe maratone oratorie, contro
la conversione in legge del decreto legge
antiterrorismo, meglio conosciuto come "decreto
Cossiga". In quella sede i radicali si
contrapposero nettamente al P.C.I. e al P.S.I., che
furono indotti a votare la fiducia
"tecnica" al governo, avendo questo posto
la questione di fiducia sul decreto (sul quale anche
l'opposizione concordava) al fine di far cadere gli
emendamenti radicali e perciò sconfiggere
l'ostruzionismo.
Il ricorso
all'ostruzionismo, che verrà più volte usato, era
giustificato dal P.R. con la mancanza di corrette
informazione sulle vicende parlamentari. Lo scopo era
quello di richiamare l'attenzione dell'opinione
pubblica sulle scelte compiute dalla maggioranza e
sulle proposte delle opposizioni. Questa scelta
contribuì ad una ancora più netta conflittualità
con le sinistre, anche su questioni procedurali.
Nel 1982 una parte del
gruppo parlamentare radicale passava al gruppo misto,
di fatto avvicinandosi al P.S.I. (Aiello, Boato,
Pinto, De Cataldo,
Rippa), Marisa Galli
agli indipendenti di sinistra e Pio Baldelli nel
gruppo misto. Al Parlamento Europeo M. A. Macciocchi
passò al gruppo socialista. I radicali erano sempre
più isolati anche in Parlamento.
Le regole ferree che i
radicali si erano dati (rotazione e incompatibilità
fra incarichi di partito e incarichi parlamentari)
non furono però sempre rispettate: ad esempio Marco
Pannella, eletto segretario nel novembre 1981, non si
dimise dal Parlamento Europeo.
Il rapporto con il
partito risultava più problematico rispetto alla
legislatura precedente anche perché, specialmente
dopo il referendum dell'81, come vedremo, il PR
appare disorientato, alla ricerca di una nuova
identità.
Nella IX legislatura i
radicali continuavano in modo ancora più incisivo la
battaglia contro le prassi che a loro sembravano lo
strumento della partitocrazia nel Parlamento.
Infatti, in un primo momento, l'Ufficio di Presidenza
della Camera negò al P.R. (oltre che a D.P. e al
P.L.I.) l'autorizzazione a costituirsi in gruppo
parlamentare, autorizzazione che venne concessa solo
dopo l'approvazione di modifiche al regolamento che
restringevano il potere dei presidenti di gruppo.
I radicali si dettero
un "codice di comportamento" che prevedeva
tra l'altro per gli eletti radicali il rifiuto di
proporre leggi, interpellanze e interrogazioni e non
partecipazione ai voti sia in aula sia in
commissione, e invece partecipazione ai dibattiti
generali in aula e in Commissione al fine di rendere
noto all'assemblea il punto di vista del P.R. su ogni
proposta di legge. La ragione di questo comportamento
stava nel fatto che i parlamentari radicali si
ritenevano e quindi si comportavano come semplici
militanti del loro partito nelle istituzioni e
rifiutavano il sistema partitocratico che impediva al
Parlamento di esprimere la sua sovranità. Insomma
volevano rendere pubblico quanto avveniva nel
palazzo-Parlamento, rifiutandosi però di avallare
con la loro presenza i momenti nei quali "la
partitocrazia pretendeva di ammantarsi con il
prestigio dell'adempimento di riti e prescrizioni
della costituzione e della democrazia parlamentare e
politica".
Il codice di
comportamento sarà la causa di un atto clamoroso che
susciterà molte polemiche. Nel momento in cui alla
Camera dei deputati venne chiesta l'autorizzazione a
procedere all'arresto del deputato radicale Toni
Negri, il gruppo comunista propose una questione
sospensiva che avrebbe rimandato la discussione.
Giunta in votazione la proposta comunista, il gruppo
radicale si rifiutò di partecipare al voto: la
proposta venne bloccata per pochi voti e la Camera
votò successivamente l'autorizzazione all'arresto.
Toni Negri fuggì in Francia. Ci furono polemiche
all'interno del partito e dello stesso gruppo
parlamentare sulla non partecipazione al voto, ma il
codice di comportamento venne mantenuto per tutta la
legislatura.
NOTE
(274) Cfr., per la
ricostruzione delle linee essenziali della
metodologia radicale in Parlamento, ERNESTO
BETTINELLI, "Quattro radicali a Montecitorio:
primo bilancio di una stagione parlamentare per la
risoluzione democratica, "Argomenti
Radicali", n. 1, aprile-maggio 1977, p. 114.
(275) MARCO PANNELLA,
"Quell'esarchia extra-parlamentare" in
"Prova radicale", Anno I, luglio-agosto
1976.
(276) Cfr. A.
MANZELLA, "Il Parlamento", AA.VV.
"Manuale di Diritto Pubblico", Il Mulino,
Bologna, 1989, pag. 416.
(277) I quattro
deputati eletti nel '75 erano: Bonino, Faccio,
Pannella, Mellini, nel '78 subentrarono: M. Galli, F.
De Cataldo, R. Cicciomessere; P. Vigevano doveva
subentrare a M. Mellini, ma la fine anticipata della
legislatura lo impedì.
(278) Il gruppo
parlamentare radicale organizzò un convegno di
studio sui regolamenti parlamentari: gli atti sono
raccolti nel volume, "Il Parlamento nella
Costituzione e nella realtà", Giuffré, Milano,
1979.
(279) Cfr.
"L'opposizione", "Notizie
radicali", n. 74, 15 maggio 1979.
(280)
"N.R.", n. 74, ibidem.
(281) Cfr. a cura del
Gruppo parlamentare Radicale, "La battaglia
sull'aborto". Roma, 1977, con il testo della
legge approvata dalla C.d.D., il dibattito
parlamentare e le dichiarazioni di voto dei deputati
radicali e la proposta di legge del P.R.
(282) Nel 1977 i
dirigenti del PR condussero un lungo digiuno, insieme
con il gruppo parlamentare, per la riforma
carceraria, e degli agenti di custodia - cfr.
comunicato di MARCO PANNELLA su "Notizie
radicali", N. 4, 8 febbraio 1977.