CAPITOLO
IV - PROGETTO PER UN'ITALIA DIVERSA
1. Uniti a sinistra,
fuori la D.C.
A distanza di alcuni
mesi dal congresso di rifondazione si svolse a
Firenze il primo dei congressi autoconvocati per
statuto, nella prima settimana di novembre del 1967.
L'analisi radicale
(187) muoveva dall'esame della situazione politica
italiana allora emergente: tale situazione poteva
mettere in serio pericolo la nostra democrazia. Il
P.R. individuava il fondamento del regime nella
dittatura clericale della Democrazia cristiana, alla
cui gestione il P.S.I. ed il P.R.I. non si erano
opposti; anzi, avevano collaborato, con i governi di
centro-sinistra, al suo perpetuarsi. Veniva
criticata, ugualmente, la politica del P.C.I., che
appariva inchiodata all'opposizione, e quindi
ostaggio della D.C., nello stesso modo degli altri
due partiti "collaborazionisti". Tuttavia,
i radicali sono dell'opinione che la situazione è
solo apparentemente stagnante perché i partiti di
sinistra, alla lunga, non potevano essere ridotti
alla realtà del prevalere dei gruppi burocratici: in
effetti le posizioni di subordinazione alla D.C. dei
partiti laici e di sinistra erano il frutto di una
analisi inadeguata della società italiana e forse,
con una spinta "movimentista", quei partiti
avrebbero potuto riconsiderare le loro attuali
alleanze.
Coerentemente i
radicali, nella mozione politica approvata dal
congresso, indicavano l'anticlericalismo e
l'antimilitarismo come temi capaci di unire, dal
basso, comunisti, socialisti, liberali insieme con il
P.R.
Gli obiettivi concreti
che venivano proposti per l'immediato erano: la
conversione delle strutture militari in strutture
civili, l'uscita dalla NATO, la smilitarizzazione
delle forze di polizia, la denuncia unilaterale del
Concordato, la confisca dei beni ecclesiastici, il
divorzio, l'affermazione di una coscienza sessuale
laica e libertaria.
L'interlocutore
privilegiato dei radicali, in questi anni, sarà il
Partito Socialista, come si è già visto esaminando
le vicende che precedettero il divorzio. Questo
rapporto particolare non sempre pacifico sarà una
costante nella storia del P.R. I radicali tenteranno,
in ogni occasione, di immettere il loro metodo
movimentista nel P.S.I., un partito con venature
libertarie, ma ancora strutturato secondo la
tradizione. Lo stesso Pannella chiese più volte la
tessera del P.S.I.
Il rapporto col
P.C.I., invece, era estremamente conflittuale, anche
se il P.R. lo cercava, con testardaggine, fin dalla
rifondazione. Senza l'apporto del P.C.I., con il suo
impianto politico ed organizzativo ed i suoi legami
socialisti, non era possibile perseguire una
strategia realistica di alternativa alla D.C. Il
terreno di scontro tra i due partiti era proprio su
quei temi sui quali il P.R. cercava di costruire
l'unità a sinistra, cioè l'anticlericalismo e
l'antimilitarismo. Del primo punto ci siamo già
occupati quando si è scritto sulle battaglie per il
divorzio, allorché il P.C.I. rivelò la sua solita
doppiezza, ma si può ricordare che tutta la storia
del partito comunista, nel dopoguerra, è
caratterizzata da prese di posizione anticlericali.
Quanto alle strutture militari, i comunisti non erano
d'accordo con i propositi dei radicali. Il P.R. era
per l'eliminazione totale delle strutture militari
perché rappresentavano, in se stesse, un pericolo
per la democrazia; invece i comunisti non erano così
drasticamente contrari alle istituzioni militari
(188). Pur essendo contrari all'ideologia
militarista, tuttavia affermavano che il problema si
risolveva col mantenere la connotazione popolare
dell'esercito, conferito dal servizio di leva
obbligatorio. Sulla questione militare, dunque, le
posizioni del P.C.I. e del P.R. erano inconciliabili.
Le iniziative radicali
per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza
infatti troveranno rispondenza, soprattutto, in
alcune organizzazioni cattoliche: il progetto di
legge per il servizio civile, poi approvato, sarà
presentato da un deputato democristiano.
La divaricazione tra i
radicali e gli altri partiti di sinistra si mostrò
in tutta la sua ampiezza anche riguardo ai metodi di
lotta; i radicali si rifacevano a quelli già
sperimentati negli Stati Uniti e dalle nuove sinistre
europee, adattandoli alla realtà italiana, con
prontezza ed in modo fantasioso.
Questo modo del tutto
nuovo di affrontare la lotta politica, indubbiamente
staccato dalla tradizione nazionale, si intrecciò
anche se marginalmente con quello dei movimenti nati
nel '68. I radicali, tuttavia, si trovarono in
posizione esterna ai movimenti sessantottini anche se
con, per certi versi, finalità comuni, come scrive
Massimo Teodori (189), il quale ritiene che i
radicali, unitariamente ai movimenti studenteschi,
miravano a rompere lo stagnante equilibrio politico
con la ripresa di una iniziativa della sinistra, ed
ambedue erano contro la burocrazia dei partiti. I
radicali vedevano, nel movimento studentesco, nel
dissenso cattolico e nelle manifestazioni spontanee
degli operai la conferma dei loro metodi di lotta.
Ufficialmente, però, il P.R. si dissociò
dall'azione dei movimenti, come è scritto a chiare
lettere in un documento del segretario nazionale
Gianfranco Spadaccia (190), in cui si condanna
l'astrattezza, il massimalismo, il rivoluzionarismo
verbale, il settarismo degli extraparlamentari,
considerati eredi dei vizi della tradizione di
sinistra del nostro Paese. Il P.R., assumendo tali
posizioni nei confronti dei movimenti, rischiava
l'isolamento, ma la cosa era stata messa nel conto.
Del resto per i radicali era prioritaria la battaglia
per il divorzio e contro lo "strapotere
clericale" (191).
A proposito dei metodi
di lotta con cui i radicali cercavano di influire
sugli avvenimenti in prima persona, ricordiamo la
manifestazione tenuta a Sofia il 24 settembre 1968
(192) da Pannella, Baraghini (membro della direzione
P.R.), Azzolini (direttivo della federazione romana)
e Silvana Leonardi, contro l'occupazione della
Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di
Varsavia. In quell'occasione vennero distribuiti
volantini anche contro la NATO e la guerra del
Vietnam; i partecipanti alla manifestazione vennero
arrestati, trattenuti per 24 ore e poi espulsi.
L'intento del gruppo radicale era quello di
infrangere la barriera del silenzio e dimostrare che
l'opposizione all'occupazione sovietica era
profondamente sentita dai movimenti socialisti e
pacifisti occidentali, e nello stesso tempo
manifestare contro l'imperialismo americano,
dimostrando insomma che i radicali, in sintonia con
la sinistra europea, erano contrari ai patti
militari.
Pannella, inoltre,
organizzò un digiuno collettivo per appoggiare i
movimenti pacifisti in Cecoslovacchia.
Il filone pacifista,
sempre presente nel P.R., si manifesta concretamente
nel 1969 con la costituzione della Lega per il
riconoscimento dell'obiezione di coscienza, i cui
militanti, non radicali, attraverso la disobbedienza
civile (alcuni di essi saranno arrestati)
dimostrarono contro il militarismo (193). Queste
attività faranno avvicinare al partito nuovi giovani
militanti, fra i quali Roberto Cicciomessere, che
diventerà segretario del partito, a soli 24 anni,
nel novembre del 1970.
Un primo avvenimento
traumatico si verificò, nella vita del P.R., nel
corso del congresso del novembre 1969 (Milano),
quando si allontanò dal partito tutto il gruppo
milanese, il secondo, per importanza, dopo quello
romano (194). La frattura avvenne sulla scelta della
metodologia del partito. Sappiamo che il P.R., e per
esso il gruppo romano, aveva privilegiato le singole
lotte concrete, ed intorno a queste aveva riunito gli
iscritti ed i simpatizzanti, senza mai teorizzazioni
generali. Ebbene, tale strategia non era condivisa
sia dai "movimentisti" sia dai nuovi
iscritti, reduci da varie formazioni di sinistra, i
quali tutti reclamavano la scelta di una politica
"globale" che comprendesse, in modo
ordinato e conseguente, gli interventi del P.R. nei
vari settori della società.
Questa concezione
urtava contro la natura pragmatica e salveminiana dei
rifondatori del partito, che avevano sperimentato la
non praticabilità delle istanze del gruppo milanese.
Per esempio, alle elezioni politiche del '68 il P.R.
aveva dato l'indicazione di votare e far votare
scheda bianca, anche in considerazione della
esiguità della struttura organizzativa (195). Il
gruppo milanese, in dissenso con la decisione degli
organi centrali, presentò una lista radicale nella
circoscrizione Milano-Pavia, dove ottenne 1500 voti,
una sconfitta che danneggiò l'immagine del partito.
Le posizioni assunte dalla dirigenza radicale, in
contrasto con quelle del gruppo milanese, se da un
lato isolarono politicamente il partito,
estraniandolo dai movimenti allora operanti sulla
scena politica italiana ed europea, dall'altro
valsero a tenerne ferma l'identità. Del resto, negli
anni successivi gli extra-parlamentari furono
emarginati o addirittura scomparvero dalla scena
politica, mentre il partito radicale, tenuto fuori
dall'alveo dei movimenti, poté continuare ad
incidere sulla società italiana.
Un dato significativo
di questo sesto congresso fu la scarsissima
partecipazione degli iscritti, appena 31 (196), il
che registrava l'atmosfera di indifferenza intorno
alle tematiche del P.R., partito non violento in un
momento in cui agivano forze portatrici di una forte
carica di violenza. Apparentemente il partito
radicale, con i suoi messaggi "liberali" e
con i suoi metodi di lotta democratici sembrava
uscito fuori dalla storia.
I radicali, intanto,
si impegnavano a fondo nella battaglia per il
divorzio. Decisero nel corso del successivo VII
congresso straordinario (Roma, 9-10 maggio 1970) di
proporre un accordo al Partito Socialista per le
elezioni regionali del 1970 (197). In cambio
dell'approvazione della legge sul divorzio e quella
sull'obiezione di coscienza, e della
democratizzazione degli strumenti pubblici di
informazione, si impegnavano a garantire il voto
radicale al P.S.I. Pannella giustificò l'appoggio
radicale ai socialisti ricordando che il P.S.I., in
quel periodo, era stato elemento determinante per
l'approvazione dello Statuto dei Lavoratori e le
leggi di attuazione delle regioni (198).
Il leader radicale
affermò che il P.S.I. appariva più sensibile, non
solo alla base, ma nei suoi gruppi dirigenti, alla
necessità di ingaggiare le battaglie per i diritti
civili.
Era sicuro, infine,
Pannella che l'intesa con il P.S.I. avrebbe avuto una
funzione unitaria per tutta la sinistra, dai
comunisti ai socialproletari, dai socialisti ai
radicali, per tutti i laici, per la lotta democratica
in Italia.
La scarsità del
seguito del partito si mostrò anche al VIII
Congresso (Napoli 1-3 novembre 1970): parteciparono
soltanto 80 iscritti, nonostante il consenso di
opinione che si andava estendendo per tutto il Paese,
in virtù delle lotte per i diritti civili (199). Si
era alla vigilia del voto decisivo in Parlamento sul
divorzio. Il P.R. si presentava come una forza
minoritaria ma che poteva indicare degli obiettivi
nuovi che sarebbero stati imposti alle forze
politiche negli anni successivi: la liberazione della
donna, la liberalizzazione degli anti-concezionali e
la legalizzazione dell'aborto, in collaborazione
coll'appena fondato movimento di liberazione della
donna (200).
In sostanza questo
congresso confermò la validità della linea politica
fissata da quelli precedenti, nonostante le enormi
difficoltà dovute allo scarso numero degli aderenti
ed alle incomprensioni da parte delle altre forze
politiche.
Si decise di trovare
precisi strumenti di azione comune con gruppi
politici esterni al partito, come la sinistra
liberale e la federazione giovanile repubblicana ed
altri gruppi genericamente libertari, che avevano
assicurato la propria disponibilità per lotte comuni
con il partito radicale.
Il congresso ribadì
la proposta di referendum abrogativo del Concordato,
già avanzata nel '68 e nei congressi VI e VII.
Nel IX, che si svolse
a Milano il 22/2/71, si promuoverà insieme ai
liberali ed ai repubblicani la costituzione della
Lega per l'abrogazione del Concordato. La lega, come
abbiamo già visto (201), dimostrerà scarsa
capacità di iniziativa, ed i radicali, mentre tutti
saranno alla ricerca di un compromesso con le forze
cattoliche, si troveranno isolati sul tema del
Concordato e finiranno per abbandonare il referendum,
provocando la fine della Lega.
Per rompere
l'isolamento in cui si venne a trovare il P.R., agli
inizi degli anni Settanta, Pannella intuì che era
giunto il momento di riflettere sul futuro del
partito, dopo l'approvazione della legge sul
divorzio, e il rapporto non più collaborativo che si
stava profilando con gli altri partiti.
Il leader radicale
espresse il suo convincimento in un editoriale
pubblicato su "Notizie Radicali", nel
numero di luglio del 1971 (202). Egli partì dalla
constatazione della continuità tra il governo
democristiano ed il regime fascista per affermare che
la D.C. aveva occupato, seguendo il modulo del
corporativismo fascista, ogni angolo della società e
del sistema politico, riducendo la costituzione
repubblicana ad un inganno, ad un miraggio mai
realizzato.
Con un simile discorso
i radicali si ergevano a difensori intransigenti
della Costituzione, della legge scritta, e dei metodi
democratici. Dunque, un'adesione piena, non
certamente strumentale, allo Stato di diritto come
valore permanente, una costante nella storia del
partito radicale, che si esprimerà nelle lotte nel
Paese e nelle istituzioni.
L'intendimento
fondamentale dei radicali era quello di riuscire a
restaurare la democrazia, con tutte le sue regole del
gioco, congelate da chi si era installato al potere
dal secondo dopoguerra. L'aspetto più preoccupante
di una situazione così deteriorata era
rappresentato, secondo Pannella, dal fatto che le
forze progressiste, invece di costituirsi in
alternativa, sul modello del bipartitismo perfetto
della democrazia anglosassone, collaboravano, di
fatto, con le espressioni politiche opposte. Insomma,
i radicali tentavano di ostacolare il ricorso a quel
sistema di democrazia consociativa che, sperimentata
sotto banco, si espliciterà alla luce del sole, di
lì a qualche anno, nei governi di solidarietà
nazionale. Il P.R. se da un lato rifiutava il modo
tradizionale di fare politica, inventandosi un nuovo
tipo di intervento nella società, dall'altro puntava
alla rivitalizzazione del sistema
democratico-parlamentare mai pienamente attuato. In
sostanza, il P.R. raccoglieva l'eredità delle
vecchie battaglie borghesi.
Mutate le condizioni
in cui il P.R. si trovò ad operare sullo scorcio
degli anni settanta, al X congresso (Roma, Novembre
1971) Pannella propose lo scioglimento del partito
(203). La soluzione "estrema" fatta propria
dal leader radicale era giustificata dalla situazione
di estremo disagio in cui si venne a trovare il P.R.
in seguito alla politica conciliare sostenuta ormai
apertamente dal partito comunista guidato da
Berlinguer, che rendeva più difficile ogni
prospettiva di realizzare una alternativa. Quel filo
rosso che passava trasversalmente per tutti i partiti
della sinistra, sul quale i radicali avevano fondato
la loro politica unitaria, non esisteva più, e
pertanto era necessario che il partito si ritagliasse
un ruolo nuovo, giungendo quasi a una seconda
rifondazione nella sua breve storia.
Il X congresso non
accolse l'invito di Pannella all'autoscioglimento:
tra i fondatori vi si opposero Mellini, Bandinelli e
Teodori, seppure con sfumature diverse (204). Per
Mauro Mellini il partito doveva rimanere in vita
perché nel Paese esistevano dei bisogni che, in
assenza del P.R., sarebbero rimasti inespressi. Per
precisa scelta, fino al quel momento, i radicali
avevano preferito impegnarsi in iniziative specifiche
e non nel rafforzamento del partito. Ecco perché,
affermava Mellini, le organizzazioni tipo la LID si
erano ingrandite a scapito del PR. Ciò detto, era
necessario non distruggere un organismo come il
partito radicale, che aveva mostrato vitalità e
grande potere di mobilitazione, ma anzi riversare
nelle strutture federative l'eredità morale di tutte
le battaglie per i diritti civili.
Massimo Teodori si
faceva portatore di una posizione più ottimistica.
Era dell'opinione che la chiusura del
"regime" in Italia avrebbe necessariamente
determinato delle contraddizioni, fra le quali il
partito radicale avrebbe potuto trovare uno spazio
per agire: i bisogni emergenti della società
coincidevano con il raggio d'azione del partito
radicale. Una posizione mediana fu quella espressa da
Spadaccia, il quale apparve contrario sia ad una
continuazione acritica sia alla proposta di Pannella.
Per Spadaccia l'unica legge che contava era quella
del numero e della forza politica, per cui il partito
doveva consolidarsi e creare vere e proprie strutture
di lotta. Riteneva pertanto inadeguata l'analisi
prospettata da Teodori, perché era convinto che la
supposta esistenza di contraddizioni nell'attuale
sistema politico non presupponeva la possibilità che
il P.R. avesse la forza di inserirsi e sfruttare tali
contraddizioni. Spadaccia realisticamente poneva una
scadenza, un traguardo al partito. Una sorta di prova
d'appello, che avrebbe scongiurato la chiusura
immediata progettata da Pannella, ma anche la
continuazione senza mutamenti, proposta da Teodori.
La scadenza avrebbe coinciso con le elezioni
politiche del '73, nelle quali i radicali dovevano
essere in condizioni di presentare liste proprie.
Il X Congresso si
chiuse con una mozione di compromesso tra le varie
posizioni (205). Si decise un obiettivo preciso:
almeno mille iscritti per il novembre 1972, pena lo
scioglimento del partito. Ma questo obiettivo
sottointendeva una constatazione di carattere
politico: il P.R. appariva ormai come l'unica ipotesi
di partito laico esistente in Italia, e quindi cadeva
l'illusione di costruire un partito contenitore di
tutte le istanze laiche, libertarie e progressiste.
Almeno, sui tempi brevi, il partito radicale rimaneva
l'unica forza antiregime, capace di riunire intorno a
sé quei movimenti di opinione "liberal"
che ancora sopravvivevano nel nostro Paese,
nonostante il conformismo dei partiti di sinistra
dello schieramento.
2. Otto referendum
contro il regime.
Nel gennaio del 1972,
i radicali posero in discussione il problema della
partecipazione diretta alle elezioni politiche del
1973, teoricamente previste nel '73, ma di cui era
sempre più evidente la prospettiva dell'anticipo di
un anno. Gianfranco Spadaccia assunse la posizione
più decisa (206). La presenza elettorale del P.R.
gli appariva indispensabile per ampliare la
latitudine dei consensi attorno al partito, unico
strumento concesso ai radicali per farsi conoscere e
moltiplicare la militanza.
L'occasione per
sperimentare la risposta delle urne si presentò
infatti con un anno di anticipo, il 28 febbraio 1972;
per la prima volta nella storia italiana, il
presidente della Repubblica Giovanni Leone decretò
lo scioglimento anticipato delle Camere ed indisse le
elezioni per il 7 maggio successivo.
I radicali dovevano
mettere in conto condizioni oggettive piuttosto
sfavorevoli, soprattutto a causa del regolamento
della RAI-TV per le elezioni stabilito dalla
Commissione parlamentare di vigilanza, che limitava
ai soli partiti già rappresentati in Parlamento
l'accesso al mezzo televisivo.
L'esclusione dal più
potente dei media (a quell'epoca non trasmettevano le
televisioni commerciali) poneva in una condizione
quasi di impotenza il partito radicale, che non aveva
un supporto organizzativo, né era in grado di
contare sull'effetto "tradizione" dei
partiti già rappresentati in Parlamento per l'ovvio
motivo che si presentava per la prima volta davanti
all'elettorato. L'unica voce dei radicali era la
rivista "Prova radicale" fondata
nell'autunno del 1971, di scarsa diffusione,
distribuita soltanto attraverso gli abbonamenti,
oppure venduta nelle librerie delle grandi città.
Così il P.R., sempre
nel quadro della politica di unità a sinistra, ed
anche per uscire dall'isolamento, propose al gruppo
riunito attorno al Manifesto di presentare liste
comuni (207). L'iniziativa che, in effetti, partì da
cinque dei membri della direzione (Mellini, Pannella,
Franco Sircana, Spadaccia, Teodori) sembrò ai più,
anche all'interno dello stesso P.R., avventata ed
incoerente, date le profonde differenze ideologiche
tra i comunisti espulsi dal P.C.I. ed i radicali. I
cinque esponenti radicali giustificarono la loro
scelta, motivandola col fatto che bisognava creare
una spinta anti-regime in una elezione da loro
ritenuta "truffaldina". I transfughi del
P.C.I. non accettavano "il regime di ricatto dei
partiti tradizionali" ed inoltre - la ragione
più importante della proposta radicale - i due
movimenti convergevano sull'uso del referendum, nel
rifiuto del capitalismo di Stato, e nella lotta al
clericalismo. Le liste proposte dal P.R. dovevano
essere "aperte", capaci di coinvolgere
forze diverse. Ma "il Manifesto" rifiutò
l'alleanza col P.R. La giustificazione del gruppo
ex-P.C.I. era di natura strettamente ideologica. Per
loro non era andato sufficientemente avanti, in
quegli anni, il processo di aggregazione tra forze
diverse dell'area anticapitalistica. Al partito
radicale ricordavano che nel passato era mancato ogni
confronto di posizioni e di esperienza di base,
insomma non c'era stata una verifica pratica sulle
cose da fare insieme.
In seguito al rifiuto
del Manifesto, il P.R. si pronunciava per
l'astensione dal voto (208). I radicali assunsero
questa posizione rinunciataria per motivi che si
distaccavano dalle ragioni proclamate dai movimenti
ultrasinistra (Lotta Continua, Potere Operaio, ed
altri gruppi simili), e non per sfiducia dottrinale
verso questa forma di democrazia. Anzi, i radicali
riaffermano il valore delle elezioni come pratica
necessaria allo svolgimento della vita democratica.
Si distaccavano,
quindi, dalla concezione anarchica, e riaffermavano
che le lotte libertarie passano soprattutto
attraverso le istituzioni. L'astensione dal voto era
un atto di resistenza al regime, insomma di
disobbedienza civile, di non cooperazione con un
governo ritenuto "illegale". Il rifiuto del
voto non era, dunque, una manifestazione di sfiducia,
ma un atto costruttivo, di oppositori. In verità
c'era anche una ragione pratica per cui il P.R. si
era schierato per il "non voto": il partito
non era attrezzato per affrontare le elezioni. Le
strutture politiche di cui disponevano i radicali
erano esigue, sovraccariche di compiti, prive di quei
mezzi materiali di cui disponevano, e largamente,
tutti gli altri partiti. Ed infine i radicali erano
condannati al silenzio, per la mancanza di accesso
alla radio e alla televisione, gli unici mezzi che
avrebbero potuto permettere loro di sottoporre
all'opinione pubblica il progetto e le proposte
radicali.
Così stando le cose,
i radicali si dicevano convinti che i laici, gli
anticlericali, i divorzisti, non avrebbero potuto
essere rappresentati da nessuno dei partiti di
sinistra, i cui dirigenti, un domani, "avrebbero
contrattato qualche sottoprivilegio con il mondo
clericale rappresentato dalla D.C.".
Di qui l'invito dei
radicali ai loro simpatizzanti di difendere il
divorzio, vincere il referendum, abrogare il
concordato, riunendosi nelle Leghe e prima di tutto
aderendo al P.R., che aveva bisogno di forza come non
mai. E l'appello del P.R. era diretto anche ai
credenti, i quali sarebbero stati avviliti dalle
strette soffocanti di una Chiesa sempre più
autoritaria: l'unica alternativa per i cattolici non
era rappresentata dal dialogo con Berlinguer oppure
con i "frontisti" del P.S.I., ma
organizzarsi in prima persona per affermare i loro
obiettivi. Così gli antimilitaristi si dovevano
convincere che le loro tesi sui pericoli intrinseci
alle strutture militari dovevano procedere di pari
passo con le altre battaglie anti-autoritarie che da
anni i radicali andavano combattendo. Così pure i
socialisti, che rifiutavano il modello burocratico,
dovevano uscire fuori dai soliti canali ed unirsi
alle iniziative libertarie dei radicali. Infine,
l'invito dei radicali si rivolse ai democratici, i
quali iscrivendosi, partecipando, aiutando il P.R.,
avrebbero tenuto in piedi questo strumento aperto e
disponibile che era il partito radicale.
L'alternativa al voto, per i radicali, è creativa.
Non è, secondo le prospettive prima delineate, né
qualunquista, né rinunciataria, né anti
democratica.
Dunque, anche sotto le
bandiere del "non voto" i radicali
continuavano il loro impegno, non venivano meno alla
loro antica filosofia organizzativa: creare
movimenti, attraverso gruppi di lavoro e di
intervento (laici, divorzisti, antimilitaristi,
anticoncordatari) con proprie regole e federati al
progetto radicale.
Tuttavia l'astensione
radicale non sarà definitiva. Il P.R. avrebbe in
seguito partecipato alle votazioni a due condizioni.
Primo: l'effettiva possibilità di concorrere allo
scontro elettorale partendo da condizioni eguali per
tutti i partiti; secondo: la capacità di presentare
un progetto politico complessivo.
Ma intanto nel '72,
preso atto che un capitolo delle esperienze di lotte
del partito era ormai concluso, i radicali
impostarono una nuova strategia destinata a scuotere
lo stagnante panorama politico italiano per tutto il
decennio successivo. All'indomani delle elezioni
politiche alle quali avevano espresso il "non
voto", i radicali, prima di decidere che cosa
fare, si posero questo interrogativo: era possibile
ad una forza di netta minoranza quale era il P.R.
fare fronte alle difficoltà ed all'isolamento, senza
ridursi ad una azione di semplice testimonianza o
peggio senza richiudersi nel settarismo? Il partito
radicale si era differenziato dalle altre forze
extra-parlamentari. Si era rifiutato di svolgere una
funzione solamente di critica, di pungolo dei grandi
partiti della sinistra tradizionale, e peraltro non
aveva mai svolto alcuna azione di disturbo della
politica del P.S.I., P.C.I., P.S.I.U.P., capace di
erodere i margini del dissenso.
L'ambizione del P.R.
era di maggiore latitudine: voleva imporre con la
propria azione politica obiettivi realmente
alternativi e cercare per tali obiettivi sbocchi
politici unitari capaci di coinvolgere l'intero arco
dei partiti di sinistra.
A questo punto i
radicali si chiesero con quali strumenti avrebbero
potuto effettivamente influire sulla situazione
italiana. Le iniziative di carattere settoriale, come
era accaduto nel passato, non erano più sufficienti.
Gli impegni anti-militaristi e nei vari movimenti per
i diritti civili non avevano di per sé la forza di
condizionare gli schieramenti politici o di
interessare la grande opinione pubblica. Avevano
bisogno di una iniziativa che fosse capace di mettere
in crisi gli equilibri esistenti o di inserirsi
efficacemente in tali equilibri. Per consentire una
iniziativa politica ampia, di grande momento, che
potesse permettere ad un partito fortemente
minoritario di incidere sulla realtà istituzionale
del Paese, i radicali, nel luglio del 1972 (209),
cominciarono a riflettere sul referendum.
Cioè, se con questo
strumento di democrazia diretta avrebbero potuto
realizzare il loro progetto politico. Si è già
detto che proprio nello stesso periodo il P.R. si era
battuto contro tutti i compromessi che volevano
evitare il referendum sul divorzio.
Il referendum era
connaturato alla ideologia stessa del partito
radicale, e pertanto il ricorso a questo mezzo
costituzionale di democrazia diretta non poteva non
essere privilegiato da un movimento che si fondava
sulla partecipazione della gente comune. Infatti,
poteva essere gestito dal basso, autonomamente,
attraverso la mobilitazione popolare, senza il
ricorso alla mediazione organizzativa dei partiti e
delle istituzioni parlamentari.
Inoltre, il referendum
ai radicali appariva come uno strumento
potenzialmente unitario, perché avrebbe consentito
di cercare il consenso già nella fase di raccolta
delle firme, prescindendo dalla rottura con i partiti
di appartenenza. Era una scelta realistica, in quanto
teneva conto delle peculiarità dell'elettorato
italiano che, generalmente, vota sulla spinta di
motivazioni ideologiche o clientelari. Sicché,
l'unico modo per spostarlo su posizioni progressiste,
era quello di interessarlo a tematiche di contenuto
concreto e di carattere diretto. L'altro punto che
motivava i radicali nella scelta referendaria era la
possibilità di inserire, attraverso un'azione
extraparlamentare, nella lotta politica, temi che i
partiti di sinistra tenevano da parte per non turbare
gli equilibri parlamentari. Erano convinti di poter
mettere in crisi la legislatura che al momento
esprimeva una maggioranza di diverso contenuto e
moderata (210). Si aggiunga, poi, che la campagna
referendaria avrebbe, finalmente, consentito al P.R.
l'accesso, come comitato promotore, alla RAI-TV, e
quindi di uscire dal silenzio. E' da considerare,
infine, che il referendum offriva ai radicali
l'occasione, sempre ricercata da loro, di dare uno
sbocco istituzionale e legislativo all'azione
extraparlamentare; senza tale sbocco ogni iniziativa
ai radicali sembrava inutile, una manifestazione fine
a sé stessa.
A ridosso dell'XI
Congresso, la dirigenza radicale pose mano,
concretamente, a vari progetti di referendum, e
predispose i piani per la organizzazione della
raccolta delle firme. Vennero proposte tre iniziative
di referendum: una per l'abrogazione delle norme di
attuazione del Concordato, un'altra per l'abrogazione
delle norme fasciste del codice penale, un'altra
ancora per l'abrogazione delle leggi che assicuravano
finanziamenti all'assistenza ed alla scuola clericali
(211). Era importante per i radicali riuscire a
mettere in comune con gli altri partiti gli strumenti
organizzativi e fare insieme le campagne di
informazione. Ed il P.R. non poteva agire altrimenti,
tenuto conto che la disposizione costituzionale e la
legge di attuazione che disciplina il referendum
pongono un minimo di firme talmente alto (500.000
firme autenticate) da rendere necessario il supporto
di potenti organizzazioni che soltanto i partiti di
massa possiedono. Giustamente i radicali osservavano
che soltanto due forze erano in grado di servirsi
senza difficoltà di questo istituto: i sindacati e
le parrocchie, due organismi presenti, in modo
capillare, sul territorio. Al di fuori di queste due
forze, soltanto il P.C.I. avrebbe avuto la
possibilità di convogliare sulle firme un così
elevato numero di persone.
Di qui, ragionavano i
radicali, la ricomparsa della bipolarizzazione della
lotta politica in Italia: la Chiesa da una parte ed
il partito comunista dall'altra. Cosicché proprio un
istituto inserito nel nostro sistema costituzionale
come complemento della democrazia rappresentativa, e
quindi concepito per inserire nella lotta politica
temi e problemi estranei all'equilibrio
politico-parlamentare avrebbe finito per essere, per
motivi organizzativi, controllato dalle due forze
egemoni.
Tuttavia, nella mappa
delle forze organizzate in Italia, il partito
radicale vantava le esperienze ed alcuni strumenti di
base per impostare, concretamente e seriamente, un
lavoro organizzativo di così ampia portata e, per
quei tempi, nuovo. Questo patrimonio di idee, di
capacità di mobilitazione, e di uso anche
spregiudicato (in senso positivo) di mezzi
alternativi (digiuni, marce, e così via), i radicali
lo avevano acquisito nelle battaglie per il divorzio,
e nelle organizzazioni universitarie degli anni
Cinquanta.
Poi, i radicali, erano
in possesso di alcuni strumenti pratici, come la
disponibilità di un indirizzario di oltre
trecentomila nomi raccolti da organizzazioni affini
al partito, o nel corso di iniziative politiche
radicali (divorzio, antimilitarismo, liberazione
della donna, anticoncordato) (212).
I radicali,
coerentemente con il loro progetto politico, unità
delle forze alternative, concepirono di coinvolgere
nelle iniziative referendarie, oltre a tutti i
partiti laici di sinistra, ai sindacati, anche i
movimenti extra-parlamentari, le comunità
ecclesiali, ed altre organizzazioni, come il
movimento di liberazione della donna, ed il movimento
per l'abolizione del reato di aborto. Insomma una
occasione di confluenza e di unità fra le forze del
cambiamento.
Pensavano di
rivolgersi, particolarmente, ai vari movimenti
extra-parlamentari, come il "Manifesto",
"Lotta Continua", occupati in sterili
mobilitazioni di tipo agitatorio per spingerli a
contribuire a cambiare la realtà sociale ed
istituzionale. Inoltre si interessarono alle
comunità di cattolici, allora in fermento, per far
loro comprendere che la lotta per il rinnovamento
religioso era strettamente connesso ad un più
esplicito impegno civile.
Il programma concreto
doveva essere messo a punto da un apposito congresso,
dopo un dibattito ed un lavoro di gruppo.
Il partito radicale,
prima di affrontare una lotta così impari per un
movimento di minoranza tenuto insieme da non
professionisti della politica, voleva riunire la sua
base, per verificare se poteva contare su forze
sufficienti per far fronte alle responsabilità che
sarebbero derivate da iniziative di portata così
ampia, insomma se conveniva questo viaggio verso
l'ignoto collettivo. Il punto dolente per i radicali
che si accingevano ad impostare la campagne
referendarie era, dunque, l'organizzazione. Nel X
Congresso si era già posto l'obiettivo minimo di
mille iscritti, per funzionare efficacemente, oppure
l'autoscioglimento.
La meta fu raggiunta.
Si arrivò all'XI Congresso tenuto a Torino nel
novembre del 1972, con 1300 iscritti, di cui 900 mai
tesserati prima. Il 18% possedeva la doppia tessera;
e quest'ultima circostanza è importante rilevarla
perché dimostrava che il consenso alle iniziative
radicali poteva provenire da altri settori.
In questo periodo si
avvicinarono al partito radicale alcuni esponenti
della sinistra repubblicana, come Franco Corleone,
Mercedes Bresso, che rafforzeranno il nucleo milanese
(213). Infatti il problema era anche, ricordiamo,
come ampliare la struttura territoriale del partito,
il quale, come gli stessi radicali notavano, doveva
essere laico e libertario, non poteva continuare ad
essere "romano, unicefalo e carismatico".
La militanza verso il P.R. si ingrossò
nell'imminenza di questo XI congresso, in conseguenza
di alcune azioni dirette attuate dal partito (214).
Il proselitismo
avrebbe potuto avere risultati migliori, se i
radicali si fossero, con più impegno, dedicati al
rafforzamento del partito: essi, invece preferivano
che il P.R. fosse una forza di servizio unitario ed
alternativo per tutti i gruppi di sinistra socialista
e libertaria (215). Si mobilitavano, non per
aggiungere forza al partito, ma per organizzare
battaglie civili, come quelle per la liberazione
degli obiettori di coscienza, per la scarcerazione
dell'anarchico Valpreda, spendevano le loro energie
per manifestazioni popolari unitarie che definivano
"anti-regime".
Comunque l'obiettivo
fissato dal precedente congresso di Roma era stato
raggiunto; per cui a Torino il partito poteva
annunciare la sua sopravvivenza. Non solo. Ma
approvare una mozione di largo respiro che avrebbe
anticipato i tempi dello scontro con la D.C. Il
congresso di Torino diventò anche la tribuna da dove
fu rilanciato il progetto di una iniziativa popolare
referendaria sui temi dei diritti civili. Anche la
battaglia per l'obiezione di coscienza e per la
liberazione di Valpreda, culminata con il digiuno di
Pannella e Gardini, ebbe il suo punto culminante in
questo congresso.
La mozione approvata
all'XI congresso (216), in linea con la costante
politica contro il partito dominante, indica nella
D.C. l'erede naturale del Partito Nazionale Fascista,
e ribadisce che la sinistra, nel suo complesso, non
sa opporsi a tale "partito-regime";
cosicché la politica di questa sinistra si mostra
"subalterna al corporativismo di Stato che si è
consolidato soprattutto nei settori pubblici
ereditari del fascismo". Quanto al Parlamento,
esso, secondo i radicali, era ridotto ad approvare,
spesso all'unanimità, migliaia di leggine
corporative e non affrontava le vere riforme; mentre
al contrario le Camere dovevano essere per i radicali
luogo di dibattito sui grandi problemi, come il
divorzio, l'aborto, l'obiezione di coscienza. L'XI
congresso, dopo aver crudamente giudicato la
situazione politica italiana ormai ingessata riteneva
che per rinnovare il livello della generazione
politica allora operante era necessario perseguire
progetti precisi, intellegibili a tutti, gestibili
dal basso, dalle masse democratiche, da autentici
socialisti, comunisti, liberali gobettiani, dalle
minoranze che sono rivoluzionarie quando legano
l'affermazione dei loro diritti al vantaggio di
tutti. Su tali premesse politiche, il partito
radicale propose il ricorso alla volontà popolare:
la sola misura che avrebbe potuto portare alla
completa attuazione del patto costituzionale,
all'abbattimento delle leggi reazionarie, a favore
dei diritti dell'uomo, dei diritti dei lavoratori e
dei cittadini. E la mozione congressuale proponeva e
si impegnava ad indire cinque referendum popolari
abrogativi che riguardavano le leggi di attuazione
del Concordato, le norme autoritarie del codice
penale (per esempio reato d'aborto e consumo di
droga), i codici militari, il finanziamento pubblico
della scuola privata, le leggi sulla stampa che
limitavano le libertà civili.
L'anno 1973 si apre in
modo incoraggiante per il partito radicale. Partono
le prime iniziative politiche (217). L'11 febbraio
1973, Loris Fortuna, in sintonia con il Partito
Radicale, e con il movimento di liberazione della
donna, presentava in Parlamento il primo progetto di
legge per la legalizzazione dell'aborto. La lotta
cominciata tre anni prima dalla pubblicistica
radicale cominciava a coinvolgere le istituzioni, e
quindi le forze politiche organizzate, le quali non
avrebbero più potuto sottrarsi alla discussione su
di un problema già aperto in molti paesi europei.
Con una lettera al "Messaggero" di Roma,
Pannella apre un altro fronte, come annunciò,
trionfalisticamente, "Notizie radicali" nel
numero del 27 gennaio 1973: quello della droga. Il
leader radicale prese a difendere i giovani fumatori
di marijuana e di hascisc, ed annunciò che, insieme
con altri militanti radicali, avrebbe fumato,
pubblicamente, delle droghe leggere. Era una
dimostrazione provocatoria contro il disegno di
legge, fortemente punitivo, presentato dal governo
Andreotti, contro i consumatori di droga.
La forza del P.R.,
costituita da circa 1300 iscritti, decisi ad
autofinanziarsi, e ad autogestirsi, era ormai una
realtà; la rifondazione del partito, decisa dal
congresso del novembre 1972, non appariva più una
velleità. Ma l'impegno primario e solenne che il
P.R. si era assunto non si concretizzava: il lavoro
di organizzazione dei cinque referendum, non faceva
alcun passo avanti. Si doveva attendere il successivo
congresso di novembre per mettere a punto il
programma politico della campagna dei referendum ma
il ritardo appariva una grave errore, perché avrebbe
compromesso la disponibilità delle altre forze
politiche a gestire insieme con i radicali questo
progetto di enorme importanza per gli assetti futuri
delle istituzioni.
Ecco per quali motivi
venne indetto un congresso straordinario nel pieno
dell'estate del 1973, a Roma (8-9 luglio). Questo
congresso, dimostratosi uno dei più vivi e
stimolanti, sortì due importanti risultati:
l'adesione al progetto radicale di tutti i maggiori
gruppi extra-parlamentari (Il Manifesto, Lotta
continua, Avanguardia operaia, Partito comunista
marxista-leninista) ed anche della corrente di
sinistra del Partito Repubblicano (218). L'altro
fatto fu il dichiarato impegno di molti militanti di
sedi periferiche a partecipare al lavoro
organizzativo in Roma: si allargava, così, la base
dei partecipanti al lavoro quotidiano, svolto, in
passato, sempre dal piccolo nucleo residente in Roma.
Il congresso registrò poi la convergenza sul
progetto politico radicale di alcune forze di
sinistra, verso le quali il P.R., da sempre, aveva
mostrato attenzione, e che si erano affiancate nella
battaglia per il divorzio. Giacomo Mancini, allora
uno dei massimi esponenti del Partito Socialista,
aveva fatto pervenire al congresso radicale un
messaggio di saluto, contenente espressioni di
incoraggiamento; inoltre parteciparono ai lavori del
congresso l'on. Vincenzo Balzamo, responsabile dei
diritti civili del P.S.I. e Fabrizio Cicchitto della
sinistra dello stesso partito.
Il Congresso, sul
piano operativo, decideva di costituire un comitato
di gestione dei referendum, che avrebbe affiancato la
segreteria nazionale e gli altri organi del partito;
ed, inoltre, di dare incarico ad un comitato di
realizzare, di lì a due o tre mesi, un quotidiano
radicale.
Dunque furono gettate
le premesse politiche ed organizzative per poter
indire i referendum abrogativi per il 1975. Ma il
risultato più importante, anzi insperato ai fini
della strategia radicale, fu la convergenza di forze
costituzionali ed extra-parlamentari sul progetto di
lotta comune di tutta la sinistra, di tutti coloro
che si battevano per il rinnovamento.
Ecco perché il P.R.
chiese ai militanti ed ai sostenitori, agli aderenti
delle Leghe per i diritti civili, un rilancio delle
iniziative, che potesse testimoniare la presenza
radicale come collante di tutti i gruppi pro
referendum. Si aggiunse, dopo il congresso,
l'adesione del Partito socialista di unità
proletaria. Tutte queste forze, eterogenee, pur
riunite intorno al progetto dei referendum,
ribadirono la loro autonomia politica ed
organizzativa.
Lotta Continua propose
di selezionare e concentrare i referendum su due o
tre punti, Codice Rocco, Codici militari, ed aborto.
Intanto si acquisivano nuovi indirizzari, e si
costituivano i primi comitati di lavoro a livello
provinciale (219).
Il XIII Congresso
(1-2-3 novembre 1973) specificò il pacchetto
referendario. Furono stabilite le modalità ed i
contenuti del progetto. L'assemblea congressuale
selezionò otto gruppi di argomenti, otto referendum.
Un progetto assai ambizioso, che sollevò molte
perplessità sulla possibilità tecnica di mettere in
cantiere, contemporaneamente, otto iniziative, tenuto
conto della consistenza del partito radicale,
costituito da non più di un migliaio di iscritti.
Il congresso,
tuttavia, decise di mantenere il progetto globale,
gli otto referendum. Questa decisione era carica di
un significato politico: voleva dimostrare
l'esistenza di una alternativa al "regime (DC)
ed alle sue chiusure", come era detto nella
mozione finale (220).
Si cercava la
collaborazione delle forze parlamentari ed extra
parlamentari, insomma di "liberali" e di
rivoluzionari, con una forma aperta, inventando
strutture organizzative al di fuori di quelle
esistenti. Era l'unico processo possibile per le
minoranze democratiche, le quali, con lo strumento
del referendum avrebbero potuto mettere in moto le
masse sulla via del rinnovamento, tendenzialmente,
almeno, socialista. Il sistema partitico, invece, era
incapace di interpretare esigenze particolari,
perché mancava, secondo i radicali, di un retroterra
di mobilitazione; i partiti di sinistra nel nostro
Paese erano ormai così istituzionalizzati da evitare
la conflittualità, la tensione con gli avversari di
classe.
Il criterio di scelta
degli otto referendum proposti, e che più sotto
specificheremo, ubbidiva anche a motivi pratici. La
tecnica dei referendum esigeva di raccogliere per
ogni legge da abrogare cinquecentomila firme davanti
a pubblici ufficiali che provvedevano
all'autenticazione ed a corredare le firme con i
certificati elettorali dei sottoscrittori. Ecco
perché i promotori dovevano effettuare una scelta
rigorosa, cominciando dai settori dove appariva più
scandalosa la sopravvivenza dei vecchi ordinamenti
(221). L'indicazione per una scelta mirata ai
radicali venne dalle lotte degli ultimi anni: le
battaglie, cioè che avevano impegnato il PR e gli
altri movimenti interessati dagli obiettori di
coscienza ai divorzisti, ai fautori della
legalizzazione dell'aborto: ebbene dalla riflessione
su tutte quelle lotte per i diritti civili vennero
fuori le scelte dei settori che era necessario, anche
sotto il profilo politico, investire con il sistema
dell'abrogazione per volontà popolare. Da sottoporre
al referendum erano le basi del potere clericale, gli
strumenti della repressione penale ordinaria e
militare, ed infine, i canali dell'informazione.
Colpendo quei quattro settori il PR intendeva
scuotere gli equilibri politici e la stessa vita
democratica del Paese, restituendole "quel tanto
di verità, di confronto, di impegno civile ed
ideale, senza i quali non esiste più
democrazia" (222).
I referendum proposti
riguardavano i seguenti temi.
Primo: l'art. 1 della
legge 27 maggio 1929 che disponeva l'esecuzione del
trattato e del Concordato sottoscritti tra la Santa
sede e l'Italia che sancivano privilegi e vantaggi
della Chiesa Cattolica specialmente in materia
fiscale, nel settore scolastico, familiare e penale;
secondo: gli art.li 17 e 22 della legge citata, i
quali riconoscevano effetti civili alle sentenze
ecclesiastiche di nullità dei matrimoni
concordatari; terzo: l'abrogazione totale del codice
militare di pace; quarto: l'abrogazione
dell'ordinamento giudiziario militare; quinto:
l'abrogazione dell'ordine dei giornalisti; sesto:
abrogazione della legge limitativa della libertà di
stampa; settimo: libertà di antenna; ottavo e
ultimo: abrogazione di alcune norme repressive del
codice penale, come la pena dell'ergastolo, reati di
opinione, ed il reato di aborto (223).
Il 15 marzo 1974 il
partito radicale iniziò la raccolta delle firme per
gli otto referendum; l'organizzazione era articolata
territorialmente in centotrentacinque comitati
locali, con centinaia di tavoli ubicati nelle piazze
e nelle strade dei maggiori centri, dal Nord al Sud
d'Italia (224).
In contemporanea si
apriva la campagna per il referendum sul divorzio che
era stato fissato per il 12 maggio; i radicali erano
convinti che questa coincidenza avrebbe costituito un
elemento di forza. Ma non fu così. Il P.R. si
trovò, inaspettatamente, da solo, a raccogliere le
firme per gli otto referendum, abbandonato dai gruppi
extra-parlamentari sul cui apporto organizzativo i
radicali avevano fatto conto. Se si esamina la
tabella n. 7, solo due comitati erano stati
organizzati dagli extra-parlamentari; Lotta Continua
affermava che l'impegno per il referendum sul
divorzio dovesse essere prioritario rispetto a quello
per la raccolta delle firme per gli altri otto
referendum (225). Il Manifesto confermò il suo
appoggio, ma rimase una proclamazione verbale. Lo
stesso atteggiamento assunse il P.D.U.P. Invece
apparve significativo il contributo dato dal P.S.I. e
dalla U.I.L. (cfr. Tabella 7) una testimonianza
dell'attenzione dei socialisti verso i progetti
radicali. I comunisti dimostrarono, invece,
insofferenza e malcelata ostilità nei confronti dei
referendum. Accusavano i radicali di dar una mano a
Fanfani, disperdendo energie per referendum di scarsa
utilità politica.
Delineatosi un quadro
politico così incerto, a poche settimane dal voto
del 12 maggio, i radicali decisero di sospendere la
raccolta delle firme (226).
All'indomani del
risultato del referendum sul divorzio, risoltosi in
un trionfo per i divorzisti, specie nelle aree
economicamente più arretrate del Paese, i radicali
ripresero, il 15 giugno, la raccolta delle firme. Gli
unici a fornire un aiuto furono gli aderenti ad
Avanguardia Operaia. Tuttavia la campagna fallì, i
radicali registrarono al loro attivo poco più di
cento mila firme per ciascuna richiesta di
referendum.
Non si può negare che
la strategia politica radicale fu confermata, quasi
clamorosamente, dal risultato del referendum sul
divorzio: il Paese reale in cui il P.R aveva sempre
creduto si mostrò, insperatamente per le convinzioni
dei partiti di sinistra, più avanzato rispetto a
quello legale. Per la prima volta si riuscì a creare
uno schieramento unitario di sinistra vincente. Si
era attuato, attraverso uno strumento di
mobilitazione popolare qual il referendum,
l'alternativa delle forze del progresso. Tuttavia
l'insuccesso nella raccolta delle firme era la
riprova della necessità di una organizzazione più
puntuale, oppure di un più saldo collegamento con le
altre forze politiche interessate al problema.
In seguito a questo
insuccesso, il partito radicale entrò in crisi: il
giovane segretario Giulio Ercolessi, che forse non
aveva saputo guidare saldamente il partito durante la
campagna per la raccolta delle firme, si disimpegnò
dalla carica, nell'estate del 1974 (227). La crisi si
estese anche alla tesoreria collegiale, eletta nel
Congresso di Verona, nel novembre del '73; per cui
rimase soltanto Gianfranco Spadaccia a reggere le
sorti sia della segreteria che della tesoreria. Ma,
nonostante la crisi, era cresciuta enormemente la
credibilità del partito radicale presso l'opinione
pubblica: la gente comune, stanca dei professionisti
della politica, vedeva nel messaggio radicale,
simboleggiato dalla figura del leader Marco Pannella,
il riscatto dal male della partitocrazia, insomma
cominciava a riconoscersi in una minoranza che era
riuscita ad imporre, in opposizione ad enormi forze
conservatrici, la inviolabilità della legge sul
divorzio. Una ulteriore crescita era, però,
ostacolata dal negato accesso alla televisione di
Stato per le minoranze.
Per conquistare un
tale diritto, indispensabile per muovere le masse
nella battaglia referendaria, un gruppo di militanti
radicali dava inizio ad uno sciopero della fame
(228). Dopo lo svolgimento del referendum il digiuno
continuò, anche da parte di militanti di varie
città e centri minori. Diventò una vera e propria
azione di disobbedienza civile. A metà luglio, il
digiuno di Pannella, superati i settanta giorni,
divenne un fatto drammatico, ed interessò i grandi
organi di informazione: il presidente della
Repubblica decise di ricevere il leader radicale, per
dimostrargli il suo interesse "per il valore
della sua azione". Il risultato più importante
del lunghissimo digiuno di Pannella fu la rinnovata
mobilitazione dei militanti che, dopo il fallimento
della raccolta di firme per i referendum, si erano
appartati. Visto il consenso intorno all'azione di
Pannella, avevano moltiplicato le iniziative, le
azioni dirette.
E' interessante
esaminare le reazioni delle maggiori forze politiche
di fronte all'azione individuale di Pannella. Il
repubblicano Adolfo Battaglia giudicava
"utopici" e non adeguati alla realtà del
momento gli strumenti dell'azione di coscienza. I
comunisti rilevavano la non centralità e la non
urgenza per la vita nazionale della difesa dei
diritti civili e si dichiaravano contrari alle azioni
ed agli atti di minoranze, le quali non si dovevano
sostituire all'azione delle masse e dei partiti che
le rappresentavano (229). I laici moderati
lamentavano la rottura con la tradizione del
precedente radicalismo degli anni Cinquanta. Sta di
fatto che, finalmente, il messaggio radicale passò,
grazie ai digiuni di tanti militanti, attraverso
l'informazione televisiva.
Un dato nuovo: dalle
centinaia di migliaia di cittadini che erano entrati,
in un modo o nell'altro, in contatto con le
iniziative radicali, si passò, nell'estate del 1974,
alla comunicazione verso molti milioni di persone.
Dunque, un enorme salto di qualità, così salutarono
i radicali il loro accesso alla televisione: potevano
allargare a tutta l'Italia, in modo indiscriminato,
l'area di conoscenza delle loro battaglie per i
diritti civili. Sarebbe stato possibile, finalmente,
condurre lotte generali per il Paese: la platea era
l'Italia intera. Un passo in avanti enorme se si
guarda appena indietro, quando i radicali erano una
decina di "disperati".
3. Radicali e
socialisti: una relazione contrastata
Il XIV Congresso
radicale (Milano, 1/4 novembre 1974) nonostante
l'allargamento del consenso presso l'opinione
pubblica, nonostante il successo del voto del 12
maggio sul divorzio, nonostante il primo impegno del
Parlamento a discutere il disegno di legge
sull'aborto, registrò un diffuso pessimismo sul
futuro politico, verso i partiti di sinistra, tutti
tesi a raggiungere accordi o compromessi col nemico
di sempre, cioè con quella D.C. che aveva imposto il
"regime" in Italia (230).
Il dibattito al
congresso di Milano fu caratterizzato dallo sforzo di
definire una linea politica generale per il partito,
una piattaforma di orientamento per gli organi
dirigenti e per i militanti. Questa volta sembrò
prevalere il confronto sulle prospettive politiche,
mentre passò in secondo piano lo scontro sugli
obiettivi immediati.
I referendum, dal
dibattito congressuale, appaiono non più strumento
delle iniziative radicali. Si cominciò a discutere
di programma alternativo comune, a cui l'intera area
della sinistra non poteva sottrarsi. Si parlò,
apertamente, di una partecipazione dei radicali alle
successive elezioni. Tuttavia, realisticamente, il
congresso prese atto delle difficoltà organizzative
a cui il P.R. sarebbe andato incontro per affrontare,
con efficacia, le consultazioni elettorali. Ponendosi
tali prospettive, non poteva non mutare il rapporto
con le altre formazioni politiche. Per questo il
ruolo del P.R. avrebbe dovuto meglio precisarsi: non
solo i radicali dovevano fare opera di denuncia, di
pressione, e di polemica, ma si sarebbero dovuti
impegnare per il rafforzamento della componente
socialista-libertaria della sinistra, insomma
promuovere l'aggregazione almeno su determinati
obiettivi concreti, dei partiti di sinistra. Su
questi interrogativi si imperniò il dibattito
durante il Congresso. Venne fuori chiara e netta
l'immagine "socialista" del P.R., che si
pose in una prospettiva di forza di governo: nella
mozione congressuale il partito si pose come
obiettivo il venti per cento dell'elettorato almeno
alle forze socialiste per riequilibrare la sinistra
italiana (231) e rendere così realisticamente
possibile l'alternativa.
Questo congresso di
Milano ribadì, dunque, quei rapporti privilegiati
che i radicali avevano da sempre mantenuto con i
socialisti. Pannella, pur tenendo nella sostanza la
guida dei radicali, da oltre un anno non aveva più
preso la tessera, per muoversi più liberamente
all'interno dei vari partiti della sinistra, sempre
al fine di costruire l'alternativa alla D.C. Ed in
tale prospettiva, al congresso di Milano, annunciò
la fondazione del "Movimento socialista per i
diritti e le libertà civili-lega 13 maggio", e
dichiarò di voler agire, da allora in avanti, da
militante socialista.
Massimo Teodori che
già negli anni '71-'73 aveva ospitato in "Prova
radicale" dibattiti con esponenti della sinistra
socialista, come Riccardo Lombardi, occupandosi delle
prospettive del socialismo in Europa fondò nel
gennaio 1975, insieme ad alcuni intellettuali di area
socialista, l'associazione ARA, "Azione e
Ricerca per l'Alternativa" (232). I radicali
avevano scelto come interlocutore principale il
partito socialista, perché in quel periodo questo
partito appariva perplesso tra collaborazione con la
D.C. o aperture verso "equilibri più
avanzati".
Siffatta perplessità
era interpretata dai radicali come un segno di
possibili mutamenti. Il P.S.I., per i radicali era
l'unica formazione politica avente anche un'anima
"movimentista", e pertanto avrebbero potuto
spingerla a far parte dell'aggregazione per
l'alternativa. Di contro il partito comunista si era
ormai dato una strategia definitiva, che portava,
ineluttabilmente, all'abbraccio con le masse
cattoliche.
Le iniziative
filo-socialiste facenti capo all"'ARA" non
ebbero sviluppo alcuno, si esaurirono nell'ambito
culturale.
Invece le iniziative
promosse da Pannella, in prima persona dal partito
radicale, come la lotta per la depenalizzazione
dell'aborto, ebbero l'appoggio ufficiale del P.S.I.,
che contribuì con 60 milioni, e raccolsero molte
adesioni in tutto il territorio nazionale (furono
costituiti 68 comitati per la raccolta delle firme)
(233).
4. La seconda sfida ai
cattolici: l'aborto
La lotta per l'aborto
fu impostata dai radicali dopo la presentazione in
Parlamento del disegno di legge Fortuna, del quale
s'è parlato prima. L'occasione per mobilitare
l'opinione pubblica sul problema dell'aborto fu il
processo a Gigliola Pierobon, nel giugno del 1973,
accusata di procurato aborto all'età di 16 anni. Le
femministe aderenti al Movimento di liberazione della
donna presero spunto da questo processo, e si
autodenunciarono, nella stessa aula dove si
processava la Pierobon, per il reato di aborto. Il
caso suscitò clamore sulla stampa, e anche
settimanali come "Annabella" gli diedero
grande risalto (234). Così, ancora una volta, con
un'azione diretta, i radicali erano riusciti ad
infrangere il silenzio della stampa benpensante su
una questione che toccava tutte le donne. Nel
settembre dello stesso anno il quotidiano radicale
Liberazione pubblicava le autodenunce di altre
cinquanta donne, mentre il Movimento manifestava
davanti al Parlamento affinché il progetto di legge
Fortuna fosse discusso.
Ma tutto ciò non
riuscì a sbloccare la situazione: il partito
comunista si dichiarò contrario alla
liberalizzazione dell'aborto; e quindi venne meno il
decisivo appoggio del maggiore partito della
sinistra. Un altro colpo all'iniziativa radicale
venne dal mancato raggiungimento del numero di firme
necessarie per indire il referendum. Quando la
battaglia sembrò definitivamente persa, Pannella
usò l'arma del digiuno ad oltranza, e riuscì ad
essere intervistato dalla televisione di Stato,
potendo così, a sorpresa, parlare dell'aborto a
milioni di persone.
Intanto, mentre
l'iniziativa radicale stentava, fu fondato il CISA
(Centro italiano sterilizzazione aborto), che nel
1974 aprì alcuni consultori in tutt'Italia, nei
quali si praticava l'aborto quasi gratuitamente
(235).
L'attività di questi
centri non si svolgeva in clandestinità, ma veniva
ampiamente pubblicizzata. Le pratiche abortive
continuarono, indisturbate, per circa un anno,
finché il settimanale di destra "Candido"
pubblicò un articolo di denuncia contro il centro
CISA di Firenze, provocando l'intervento della
magistratura. Venne arrestato il ginecologo Giorgio
Conciani che operava al Centro. Alcuni giorni dopo
venne arrestato Gianfranco Spadaccia, segretario
nazionale del partito radicale, che si era assunto la
responsabilità politica dell'attività del CISA
(236).
Seguirono altri
arresti ed incriminazioni: Adele Faccio ed Emma
Bonino, per la loro attività di sostegno al centro
per la liberalizzazione dell'aborto, subirono la
stessa sorte, nel gennaio del 1975 la prima e nel
giugno successivo la seconda. La reazione della
polizia e della magistratura verso i fautori del
referendum abrogativo del reato d'aborto, suscitò
l'interesse dei due grandi settimanali, di
ispirazione laica, "l'Espresso" e
"Panorama" e quindi dell'opinione
progressista del Paese.
Il 5 febbraio 1975
venivano depositate in Cassazione sia la richiesta di
referendum per l'aborto sia sulle altre quattro
tematiche approvate dal XIV congresso (concordato,
reati d'opinione del codice penale, ordinamento
giudiziario militare e codice penale militare).
All'indomani della presentazione delle richieste di
referendum, con la campagna istituzionale si
incrociava la mobilitazione fondata sulla
disobbedienza civile. Una valanga di autodenunce
venne consegnata alla Corte di Cassazione, e, in
conseguenza, partirono le comunicazioni giudiziarie a
tutti gli autodenunciati (237). Il 18 febbraio, la
Corte Costituzionale dichiarò parzialmente
illegittime le norme che punivano il reato di aborto,
depenalizzando così l'aborto terapeutico. Intanto si
apriva "il fronte parlamentare": tutti i
gruppi parlamentari, tranne quello del M.S.I.,
presentavano un proprio disegno di legge sull'aborto.
Il 15 aprile si dava inizio per le strade e nelle
piazze di tutti i maggiori centri, alla raccolta
delle firme. Pannella riuscì ad ottenere l'appoggio
dell'Espresso per il solo referendum sull'aborto;
aderirono alla campagna il sindacato U.I.L. e molte
federazioni socialiste (238). A questo punto della
battaglia referendaria, i radicali, vista l'adesione
di molti ambienti laici e progressisti alla loro
iniziativa per l'aborto, decidevano di sospendere la
raccolta delle firme per gli altri quattro
referendum, e concentrarono il loro sforzo
organizzativo sul primo (239).
Riuscirono a
raccogliere, nei tempi stabiliti dalla legge, 750
mila firme, e così si poté dare inizio alle
procedure per l'indizione del referendum sull'aborto.
Ma il P.R. non aveva
rinunciato definitivamente alle altre proposte.
Infatti, dopo le elezioni regionali del 15 giugno
1975 che registrarono un notevole successo del
P.C.I., i radicali, pensando di sfruttare il clima
favorevole al cambiamento politico, decisero di
riprendere la battaglia per gli altri quattro
referendum; aggiungendone un quinto per l'abrogazione
della legge Reale sull'ordine pubblico, appena
approvata dal Parlamento per combattere il terrorismo
(240). Tuttavia su queste cinque tematiche, il P.R.
non raccolse l'adesione delle altre formazioni
politiche di sinistra, né di alcun grande organo di
stampa, né ebbero il sostegno di quella larga parte
dell'opinione "liberal" che l'aveva
affiancato nella raccolta di firme per il referendum
sull'aborto; anche i gruppuscoli extra-parlamentari
si defilarono. Insomma era venuta meno l'unità laica
delle forze di sinistra; di conseguenza non
riuscirono a raccogliere il numero necessario di
firme per gli altri referendum.
Il XV congresso del
P.R., tenutosi a Firenze dall'1 al 4 novembre 1975 a
cui parteciparono oltre mille iscritti e molti
esponenti del P.S.I., da un lato confermò il
giudizio sulla situazione politica contenuta nella
mozione finale del precedente congresso di Milano,
dall'altro giudicò ormai maturi i tempi, dopo il
successo delle sinistre alle elezioni amministrative
del 15 giugno, per predisporre un programma economico
e sociale comune a tutte le componenti di sinistra e
laiche (241).
I radicali chiesero
alle componenti politiche a loro omogenee l'adesione
alla lotta istituzionale per la piena attuazione
della Costituzione, e l'eliminazione, quindi, di
tutte le norme autoritarie ancora vigenti dopo
trent'anni dalla caduta del fascismo. Il P.R., per
attuare questo progetto politico, guardava al P.S.I.,
e intendeva rifarsi al modello francese, a quel 20%
di forza socialista e libertaria, da autogestire,
però, dal basso. Poneva, tuttavia, al P.S.I. ed alle
altre forze da aggregare una prova: la loro
disponibilità a discutere, e quindi ad appoggiare la
legge sull'aborto che la Camera dei Deputati stava
per affrontare. Se non sarebbe stato possibile
riunirsi intorno ad un P.S.I. rinnovato, il P.R.
avanzava la propria candidatura ad elemento
aggregante di una nuova formazione socialista,
perché una tale richiesta saliva indiscutibilmente
dalla base del Paese.
Il P.R. chiedeva,
formalmente, al Congresso del P.S.I., che si sarebbe
svolto nel febbraio del 1976, un patto federativo,
che senza annullare le differenze, ma anzi
"potenziando e moltiplicando le diverse
esperienze, energie e potenzialità, potesse creare
le premesse per una più vasta unificazione di forze
socialiste e libertarie" (242).
Dal tenore della
mozione finale e dal dibattito emerge
l'inevitabilità della partecipazione di liste
radicali alle imminenti elezioni politiche.
Gianfranco Spadaccia e Roberto Cicciomessere, in un
editoriale su "Notizie radicali" del 18
ottobre 1975 avevano già affermato che una fase
storica del partito radicale si stava concludendo, e
che, finalmente, dopo venti anni di lotte per i
diritti civili, ci sarebbe stato uno sbocco politico:
il 1976 sarebbe stato l'anno dell'alternativa. In
caso contrario, secondo gli esponenti radicali,
sarebbero passati ancora dieci anni per vedere
attuati quei diritti civili, oggetto di tante lotte
militanti, del P.R. e delle varie leghe.
Un sondaggio della
Demoskopea, pubblicato da "Panorama", aveva
entusiasmato i radicali. Gli intervistati avevano
dichiarato che desideravano il rinnovo della classe
dirigente e dei partiti politici. La Demoskopea aveva
valutato intorno al 10-12 per cento il seguito
elettorale del partito radicale, costituito per la
maggior parte da donne. E, dato importantissimo per i
radicali, venne fuori dalla stessa indagine che il
70% degli interrogati dava grande valore alle lotte
per i diritti civili. Se poi il P.R. avesse avuto
l'accesso alla RAI-TV, l'indice di conoscenza dei
temi radicali sarebbe clamorosamente salito. Insomma
era giunto il momento tanto atteso. Il "sogno
radicale" stava per realizzarsi?
Nei cinque mesi dal XV
congresso radicale del novembre '75 a quello
socialista del febbraio 1976, nessuna risposta venne
dal P.S.I. alle proposte di aggregazione del P.R.
(243).
De Martino, segretario
del P.S.I., dette la risposta soltanto in sede
congressuale, e fu un no chiaro alle proposte
politiche radicali: il P.S.I. invitava il P.R. ad una
semplice confluenza di tipo elettorale. Il congresso
socialista, tuttavia, si mostrò più aperto del suo
leader: dette mandato alla direzione di dar corso ad
un confronto politico con il Partito Radicale; ma,
nonostante la delibera congressuale, non successe
nulla, non si stabilì alcun rapporto tra i due
partiti, neanche un colloquio politico.
5. I cittadini e il
potere: "La carta delle libertà"
I radicali si
trovarono, così, soli a ridosso dello scioglimento
delle Camere. Il Consiglio Federativo decise la
presentazione di liste proprie per le elezioni del 20
giugno. Il segretario del P.R., a proposito del no
socialista, faceva notare che i radicali "non
erano postulanti che battevano alle porte del P.S.I.
in attesa di qualche posto o di qualche medaglietta
parlamentare: non erano disposti a distruggere
quindici anni di diversità socialista" (244).
Da molti anni i
radicali marcavano la sopravvivenza di numerose forze
autoritarie, e quindi reclamavano una politica delle
libertà: essi notavano anche che la stessa
"forza espansiva" della nostra Costituzione
si era rattrappita. In definitiva il P.R. si muoveva,
secondo la sua tradizione originaria, sulla linea del
grande filone del socialismo europeo. Il progetto
radicale prendeva corpo nel febbraio del 1976 con una
prima proposta di legge di iniziativa popolare per
una "carta delle libertà e dei diritti
civili", che, poi, in larga misura,
corrispondeva ai contenuti dei referendum promossi
negli anni precedenti e poi abbandonati per le
ragioni che abbiamo già visto (245). I radicali,
alla vigilia di una consultazione elettorale,
consideravano questa "Carta delle libertà"
alla stregua di un vero e proprio programma di
governo e di legislatura.
Un'immersione, dunque,
nelle istituzioni, per cambiarle in senso libertario,
o più limitatamente per adeguare la nostra
legislazione a quella più avanzata dell'Europa
Occidentale.
Il progetto si
articolava in due proposte di legge. La prima mirava
alla revisione costituzionale dell'art. 7 della
Costituzione, e quindi ad un completo riordinamento
dei rapporti tra Stato e Chiesa, con il passaggio dal
regime concordatario ad un regolamento dei rapporti
che garantisse l'indipendenza della Chiesa e la
laicità della Repubblica. Tornavano i vecchi temi
radicali, in un contesto politico e sociale che stava
per mutare, dato l'ingresso sulla scena politica dei
gruppi ecclesiali ed il nuovo modo di concepire i
rapporti con le gerarchie da parte dei cattolici.
La seconda proposta si
presentava più complessa e ricca di implicazioni
istituzionali, in quanto avrebbe consentito ai
singoli cittadini ed ai gruppi di far valere
liberamente ed immediatamente i diritti di libertà
loro riconosciuti.
Essa proponeva
l'abrogazione di alcune migliaia di norme vigenti e
l'approvazione di centinaia di nuove norme istitutive
di nuove libertà. La proposta si divideva in cinque
titoli, e prevedeva, tra l'altro, la riforma del
Consiglio Superiore della Magistratura, la
smilitarizzazione della polizia, l'anagrafe delle
cariche pubbliche, il diritto di accesso dei
cittadini all'informazione.
Un settore riguardava
i cittadini definiti "sottoprotetti", cioè
gli anziani, i minori, le minoranze linguistiche, i
sessualmente diversi, i profughi; infine il progetto
intendeva tutelare i diritti dei cittadini nelle
comunità necessarie, cioè nelle scuole, nelle
caserme, negli ospedali, nei manicomi, nelle carceri,
nelle fabbriche.
La linea di intervento
disegnata dal P.R., così come era articolata,
metteva in movimento un meccanismo di controllo su
tutta una serie di poteri pubblici e privati, la cui
gestione era secondo i radicali, autoritaria o quanto
meno al riparo da ogni indagine esterna.
La conferma al
progetto complessivo radicale venne dai 400 mila voti
ottenuti dal P.R. nelle elezioni del 20 giugno:
quattro radicali entrarono nel Parlamento della
Repubblica, e precisamente alla Camera: Emma Bonino,
Adele Faccio, Mauro Mellini e Marco Pannella. Il
partito socialista era regredito così come i partiti
laici minori: il P.C.I., con il 34,4% guadagnava 48
seggi. L'unica formazione laica in ascesa si rivelò
quella radicale.
Nonostante il successo
il partito cercò di rimanere se stesso, cioè di non
perdere la sua natura originaria, basata
sull'autogestione, sulla non violenza, sulla
militanza di base. E per mantenere siffatti
caratteri, Pannella come abbiamo visto, lanciò lo
slogan: "disorganizzazione scientifica";
suscitando però polemiche interne fra chi voleva
mantenere l'aggregazione spontanea di persone intorno
a battaglie comuni e chi, invece, auspicava una certa
stabilità organizzativa (246).
Il dilemma
sull'assetto organizzativo da dare al partito era
molto sentito in periferia. Il periodico
d'informazione del P.R. dell'Emilia Romagna, Agenzia
Radicale, affermava chiaramente che: "le
associazioni locali avevano vissuto ben poco, per
vita autonoma, limitandosi, nei casi migliori, a
partire `tavolino in spalla' ai segnali di Roma"
(247). E osservava che il P.R. registrava un ricambio
rapidissimo di persone, che si gettavano anima e
corpo in lotte particolarmente significative, per poi
sparire per lunghi periodi o per sempre. Si
disperdeva così un patrimonio di energie. Sicché il
punto di forza del partito, lo spontaneismo che si
formava periodicamente intorno alle lotte del
momento, costituiva anche un punto di debolezza.
Pertanto i militanti
di base reclamavano una continuità politica
evitando, nel contempo, il pericolo di trasformare il
partito radicale in uno dei piccoli partiti
tradizionali.
Il problema era
sentito a tutti i livelli del partito e sarà, negli
anni successivi, motivo centrale di dibattiti,
polemiche, accuse, abbandoni.
Dopo le elezioni del
20 giugno si formò il governo monocolore di
Andreotti, che si reggeva sulla "non
sfiducia" dei partiti diversi dalla D.C. e in
particolare del partito comunista. Per i radicali il
P.C.I. diventava così la colonna portante del
"regime". Il XVII Congresso radicale tenuto
a Napoli dall'1 al 4 novembre '76 denuncia lo
"stato corporativo assistenziale e
fascista" della D.C. ormai avallato,
apertamente, dai partiti della sinistra storica.
Con il compromesso
storico tra D.C. e P.C.I., il partito radicale fu
così costretto a mutare la propria strategia e il
PCI giudicato ormai incapace di qualunque politica
alternativa; di conseguenza i radicali ritenevano
ancora più necessario il ricorso al referendum per
attuare la Costituzione. Ma la battaglia
referendaria, rispetto all'epoca del divorzio,
avrebbe assunto un orientamento politico diverso: da
referendum per spostare la sinistra e costringerla a
sostenere battaglie alternative, superando i
compromessi con la D.C., a referendum diretto proprio
contro il "regime D.C.-P.C.I." (248).
NOTE
(187) Mozione politica
approvata dal IV congresso ordinario del PR 2/4
novembre 1968.
(188) Intervento
dell'on. Boldrini (PCI) ed un convegno organizzato
dal PR a Roma nell'aprile 1966, citato in
AGHINA-JACCARINO, "Storia del Partito
Radicale", Gammalibri, Milano, 1977, p. 46.
(189) MASSIMO TEODORI,
"Storia del partito radicale, AA.VV. "I
nuovi radicali", Mondadori, 1977, p. 105-110.
(190) Documento del
segretario del PR Gianfranco Spadaccia: "Il
Partito Radicale e il movimento radicale nel paese
una strategia politica per la nuova sinistra",
citato da M. TEODORI.
(191) Cfr. mozione
politica approvata dal V congresso, nov. 1968.
(192) "Un giorno
a Sofia", "L'Astrolabio", n. 39, 6
ottobre 1968.
(193) ANGIOLO
BANDINELLI, "Antimilitaristi: cronache di 25
anni", in "La prova radicale
(194) MASSIMO TEODORI,
op. cit. pp. 123-124.
(195) M. TEODORI,
ibidem.
(196) "Corriere
della Sera", 4 novembre 1969.
(197) Mozione politica
approvata dal VII congresso.
(198) MARCO PANNELLA,
"La più rossa delle schede", "Notizie
radicali", maggio 1970.
(199) "Corriere
della Sera", 2 novembre 1970.
(200) Mozione politica
approvata dall'VIII congresso.
(201) Cfr. p. 90.
(202) MARCO PANNELLA,
"E' ora di decidere con o senza il Partito
Radicale", "Notizie Radicali",
ciclostilato, 23 luglio 1971 e in "La prova
radicale", anno I, n. 1, autunno 1971, pp.
48-50.
(203) Cfr. GIANFRANCO
SPADACCIA, "Partito Radicale e Partito
laico", "La prova radicale", n. 2,
inv. 1972, pp. 2-5.
(204) Documentazione
sul X congresso (Roma, novembre 1971), parziale e
limitata agli interventi citati nel testo e alla
mozione congressuale, in "La prova
radicale", n. 2, inv. 1972, pp. 186-192.
(205) Mozione politica
approvata dal X congresso.
(206) Cfr. GIANFRANCO
SPADACCIA, Partito radicale e partito laico, "La
prova radicale", n. 2, inv. 1972, pp. 2-7.
(207) La
documentazione relativa a questa vicenda è stata
pubblicata da "La prova radicale", n. 3,
primavera 1972, pp. 62-80.
(208) Cfr. MASSIMO
TEODORI, "Perché ci asteniamo", "La
prova radicale", n. 3, primavera 1972, pp. 23-28
e tutti gli altri articoli contenuti nello stesso
numero della rivista.
(209) Cfr. GIANFRANCO
SPADACCIA, "Un'ondata di referendum per battere
un Parlamento clerico-facista", "La prova
radicale", n. 4 estate 1972, pp. 45-54.
(210) Cfr. G.
SPADACCIA, art. ult. cit., p 47
(211) SPADACCIA,
ibidem.
(212) Cfr. G.
SPADACCIA, ult. art. cit., p. 51.
(213)
"Editoriale" in "Notizie
radicali", n. 172, 5 ottobre 1972.
(214) Il 1° ottobre
1972 iniziò un digiuno collettivo per affrettare
l'approvazione di una legge per il riconoscimento
dell'obiezione di coscienza. Il 18 ottobre Marco
Pannella e Alberto Gardini, un radicale
"credente", dichiararono che avrebbero
proseguito il digiuno senza controllo medico fino
alle estreme conseguenze e per la liberazione di
Pietro Valpreda.
(215) Cfr
"Notizie radicali", n. 170, 1° sett. 1972.
(216) Mozione
approvata dal XI congresso, Torino, 1/3 nov. 1972.
(217) Cfr.
"Notizie radicali", nn. 182-186, 27 gennaio
1973.
(218) Cfr. Mozione
politica approvata dal XII congresso, Roma, 8-9
luglio 1973.
(219) Cfr.
"Notizie radicali", nn. 201-202, 19 luglio
1973.
(220) Mozione politica
approvata dal XIII Congresso, Verona, 1/3 novembre
1973.
(221) Cfr. "Otto
referendum contro il regime", Savelli, Roma,
1974.
(222) Ibidem, p. 10.
(223) "Otto
referendum...", cit., pp. 22-42.
(224) Cfr. p. 99.
(225) Cfr.
AGHINA-JACCARINO, "Storia del partito
radicale", Gammalibri, Milano, 1977, pp. 92-94.
(226) Cfr. MASSIMO
TEODORI, "I nuovi radicali", cit., p. 144.
(227) Cfr. p. 103.
(228) M. TEODORI,
"I nuovi radicali", cit., p. 144-150.
(229) Cfr. TEODORI,
ibidem.
(230) Cfr. gli
articoli e gli atti del congresso in Notizie
radicali, n. 334, 30 nov. 1974.
(231) Mozione politica
approvata dal XIV Congresso, Milano, nov. 1974.
(232) Cfr. ARA,
"Per l'alternativa - Dal partito del mutamento
al progetto socialista", Feltrinelli, Ml, 1975.
(233) Cfr. p. 100.
(234) Cfr. MARIA ADELE
TEODORI, "Cinque anni di lotte", in MLD-PR,
"Contro l'aborto di classe", Savelli, Roma,
aprile 1975.
(235) Cfr. p. 90.
(236) Cfr.
"Notizie radicali", n. 625, 1 gennaio 1975.
(237) Cfr. M. A.
TEODORI, "Cinque anni di lotte...", cit.,
p. 15.
(238) Cfr. "Per
un altro 13 maggio", a cura del P.R., Roma,
Savelli, 1975.
(239) Cfr.
AGHINA-JACCARINO, op. cit. p. 123.
(240 Cfr. TEODORI, op.
cit. p. 165.
(241) Per il dibattito
e le deliberazioni del XV Congresso, si veda
"Notizie radicali", n. 46, 16 nov. 1975.
(242) Mozione politica
approvata dal XV Congresso.
(243) Per una
ricostruzione dei rapporti tra radicali e socialisti
in questo periodo: GIANFRANCO SPADACCIA, "Creare
due, tre nuove poltrone?", "Prova
radicale", n. 1, giugno 1976.
(244) SPADACCIA,
ibidem.
(245) Progetto di
legge d'iniziativa popolare per l'attuazione delle
libertà e garanzia costituzionali, stampato a cura
del PR, marzo 1976.
(246) Cfr. p. 110 e
ss.
(247) Relazione della
giunta uscente del PR - Emilia Romagna, "Agenzia
radicale", n. 10, ottobre (?) 1976, p. 4.
(248) Cfr. Mozione
politica approvata dal XVII congresso del PR,
"Notizie radicali", n. 182,15 novembre
1976.