Prefazione

Nota introduttiva

Cap. I - I PRIMI PASSI

1. Come muore il primo partito radicale
2. I giovani guastatori
3. Partito nuovo, politica nuova
4. Primi nuclei per un "partito, non partito"
5. Verso il congresso di rifondazione
6. Il terzo Congresso e lo statuto. Per un'alternativa laica

Cap. II - LE BATTAGLIE PER IL DIVORZIO

1. Tutti uniti, nella lega
2. Dalle manifestazioni di piazza, all'approvazione della legge
3. Il referendum: eravamo soli e disperati, siamo milioni...

Cap. III - DALLE PIAZZE AL PARLAMENTO (1967/1976)

1. Comincia la lunga marcia
2. Dietro ai mille radicali: i movimenti, le prime sedi periferiche
3. Per i referendum: col tavolo sulle spalle
4. Si contano i soldi (bilanci 1973/74/75)
5. L'Italia risponde a Pannella. Quattro radicali alla Camera
6. Dopo il successo elettorale: la disorganizzazione scientifica. Nasce la ribellione interna

Cap. IV - PROGETTO PER UN'ITALIA DIVERSA

1. Uniti a sinistra, fuori la D.C.
2. Otto referendum contro "il regime"
3. Radicali e socialisti: una relazione contrastata
4. La seconda sfida ai cattolici: l'aborto
5. I cittadini ed il Potere: "la carta delle libertà".

Cap. V - TRA AZIONE DIRETTA E PARLAMENTO

1. Stretti tra due chiese: sempre più minoranza
2. 5 milioni di firme per 8 referendum
3. Il finanziamento pubblico: prendere o lasciare
4. La svolta del '79: la lotta alla fame nel mondo
5. Il Partito Omnibus.

Cap. VI - I RADICALI NEL PARLAMENTO

1. In nome del regolamento.

Cap. VII - VERSO IL PARTITO TRANSNAZIONALE

1. Il gruppo romano e gli altri
2. La seconda rifondazione. La questione dei partiti regionali
3. Referendum: ciclo compiuto. Comincia la diaspora. Fame e massacro della natura
4. Si chiude? Il congresso di Budapest. Ma il partito non morirà

Conclusioni

APPENDICE

I congressi del Partito Radicale

Statuto del Partito Radicale - 1967

Statuto del Partito Radicale - 1989

I bilanci dal 1972 al 1989

Elezioni: le percentuali del P.R. (1976-1987)

Gli eletti nelle liste del P.R. (1976-1992)

 

CAPITOLO IV - PROGETTO PER UN'ITALIA DIVERSA

 

1. Uniti a sinistra, fuori la D.C.

 

A distanza di alcuni mesi dal congresso di rifondazione si svolse a Firenze il primo dei congressi autoconvocati per statuto, nella prima settimana di novembre del 1967.

L'analisi radicale (187) muoveva dall'esame della situazione politica italiana allora emergente: tale situazione poteva mettere in serio pericolo la nostra democrazia. Il P.R. individuava il fondamento del regime nella dittatura clericale della Democrazia cristiana, alla cui gestione il P.S.I. ed il P.R.I. non si erano opposti; anzi, avevano collaborato, con i governi di centro-sinistra, al suo perpetuarsi. Veniva criticata, ugualmente, la politica del P.C.I., che appariva inchiodata all'opposizione, e quindi ostaggio della D.C., nello stesso modo degli altri due partiti "collaborazionisti". Tuttavia, i radicali sono dell'opinione che la situazione è solo apparentemente stagnante perché i partiti di sinistra, alla lunga, non potevano essere ridotti alla realtà del prevalere dei gruppi burocratici: in effetti le posizioni di subordinazione alla D.C. dei partiti laici e di sinistra erano il frutto di una analisi inadeguata della società italiana e forse, con una spinta "movimentista", quei partiti avrebbero potuto riconsiderare le loro attuali alleanze.

Coerentemente i radicali, nella mozione politica approvata dal congresso, indicavano l'anticlericalismo e l'antimilitarismo come temi capaci di unire, dal basso, comunisti, socialisti, liberali insieme con il P.R.

Gli obiettivi concreti che venivano proposti per l'immediato erano: la conversione delle strutture militari in strutture civili, l'uscita dalla NATO, la smilitarizzazione delle forze di polizia, la denuncia unilaterale del Concordato, la confisca dei beni ecclesiastici, il divorzio, l'affermazione di una coscienza sessuale laica e libertaria.

L'interlocutore privilegiato dei radicali, in questi anni, sarà il Partito Socialista, come si è già visto esaminando le vicende che precedettero il divorzio. Questo rapporto particolare non sempre pacifico sarà una costante nella storia del P.R. I radicali tenteranno, in ogni occasione, di immettere il loro metodo movimentista nel P.S.I., un partito con venature libertarie, ma ancora strutturato secondo la tradizione. Lo stesso Pannella chiese più volte la tessera del P.S.I.

Il rapporto col P.C.I., invece, era estremamente conflittuale, anche se il P.R. lo cercava, con testardaggine, fin dalla rifondazione. Senza l'apporto del P.C.I., con il suo impianto politico ed organizzativo ed i suoi legami socialisti, non era possibile perseguire una strategia realistica di alternativa alla D.C. Il terreno di scontro tra i due partiti era proprio su quei temi sui quali il P.R. cercava di costruire l'unità a sinistra, cioè l'anticlericalismo e l'antimilitarismo. Del primo punto ci siamo già occupati quando si è scritto sulle battaglie per il divorzio, allorché il P.C.I. rivelò la sua solita doppiezza, ma si può ricordare che tutta la storia del partito comunista, nel dopoguerra, è caratterizzata da prese di posizione anticlericali. Quanto alle strutture militari, i comunisti non erano d'accordo con i propositi dei radicali. Il P.R. era per l'eliminazione totale delle strutture militari perché rappresentavano, in se stesse, un pericolo per la democrazia; invece i comunisti non erano così drasticamente contrari alle istituzioni militari (188). Pur essendo contrari all'ideologia militarista, tuttavia affermavano che il problema si risolveva col mantenere la connotazione popolare dell'esercito, conferito dal servizio di leva obbligatorio. Sulla questione militare, dunque, le posizioni del P.C.I. e del P.R. erano inconciliabili.

Le iniziative radicali per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza infatti troveranno rispondenza, soprattutto, in alcune organizzazioni cattoliche: il progetto di legge per il servizio civile, poi approvato, sarà presentato da un deputato democristiano.

La divaricazione tra i radicali e gli altri partiti di sinistra si mostrò in tutta la sua ampiezza anche riguardo ai metodi di lotta; i radicali si rifacevano a quelli già sperimentati negli Stati Uniti e dalle nuove sinistre europee, adattandoli alla realtà italiana, con prontezza ed in modo fantasioso.

Questo modo del tutto nuovo di affrontare la lotta politica, indubbiamente staccato dalla tradizione nazionale, si intrecciò anche se marginalmente con quello dei movimenti nati nel '68. I radicali, tuttavia, si trovarono in posizione esterna ai movimenti sessantottini anche se con, per certi versi, finalità comuni, come scrive Massimo Teodori (189), il quale ritiene che i radicali, unitariamente ai movimenti studenteschi, miravano a rompere lo stagnante equilibrio politico con la ripresa di una iniziativa della sinistra, ed ambedue erano contro la burocrazia dei partiti. I radicali vedevano, nel movimento studentesco, nel dissenso cattolico e nelle manifestazioni spontanee degli operai la conferma dei loro metodi di lotta. Ufficialmente, però, il P.R. si dissociò dall'azione dei movimenti, come è scritto a chiare lettere in un documento del segretario nazionale Gianfranco Spadaccia (190), in cui si condanna l'astrattezza, il massimalismo, il rivoluzionarismo verbale, il settarismo degli extraparlamentari, considerati eredi dei vizi della tradizione di sinistra del nostro Paese. Il P.R., assumendo tali posizioni nei confronti dei movimenti, rischiava l'isolamento, ma la cosa era stata messa nel conto. Del resto per i radicali era prioritaria la battaglia per il divorzio e contro lo "strapotere clericale" (191).

A proposito dei metodi di lotta con cui i radicali cercavano di influire sugli avvenimenti in prima persona, ricordiamo la manifestazione tenuta a Sofia il 24 settembre 1968 (192) da Pannella, Baraghini (membro della direzione P.R.), Azzolini (direttivo della federazione romana) e Silvana Leonardi, contro l'occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. In quell'occasione vennero distribuiti volantini anche contro la NATO e la guerra del Vietnam; i partecipanti alla manifestazione vennero arrestati, trattenuti per 24 ore e poi espulsi. L'intento del gruppo radicale era quello di infrangere la barriera del silenzio e dimostrare che l'opposizione all'occupazione sovietica era profondamente sentita dai movimenti socialisti e pacifisti occidentali, e nello stesso tempo manifestare contro l'imperialismo americano, dimostrando insomma che i radicali, in sintonia con la sinistra europea, erano contrari ai patti militari.

Pannella, inoltre, organizzò un digiuno collettivo per appoggiare i movimenti pacifisti in Cecoslovacchia.

Il filone pacifista, sempre presente nel P.R., si manifesta concretamente nel 1969 con la costituzione della Lega per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, i cui militanti, non radicali, attraverso la disobbedienza civile (alcuni di essi saranno arrestati) dimostrarono contro il militarismo (193). Queste attività faranno avvicinare al partito nuovi giovani militanti, fra i quali Roberto Cicciomessere, che diventerà segretario del partito, a soli 24 anni, nel novembre del 1970.

Un primo avvenimento traumatico si verificò, nella vita del P.R., nel corso del congresso del novembre 1969 (Milano), quando si allontanò dal partito tutto il gruppo milanese, il secondo, per importanza, dopo quello romano (194). La frattura avvenne sulla scelta della metodologia del partito. Sappiamo che il P.R., e per esso il gruppo romano, aveva privilegiato le singole lotte concrete, ed intorno a queste aveva riunito gli iscritti ed i simpatizzanti, senza mai teorizzazioni generali. Ebbene, tale strategia non era condivisa sia dai "movimentisti" sia dai nuovi iscritti, reduci da varie formazioni di sinistra, i quali tutti reclamavano la scelta di una politica "globale" che comprendesse, in modo ordinato e conseguente, gli interventi del P.R. nei vari settori della società.

Questa concezione urtava contro la natura pragmatica e salveminiana dei rifondatori del partito, che avevano sperimentato la non praticabilità delle istanze del gruppo milanese. Per esempio, alle elezioni politiche del '68 il P.R. aveva dato l'indicazione di votare e far votare scheda bianca, anche in considerazione della esiguità della struttura organizzativa (195). Il gruppo milanese, in dissenso con la decisione degli organi centrali, presentò una lista radicale nella circoscrizione Milano-Pavia, dove ottenne 1500 voti, una sconfitta che danneggiò l'immagine del partito. Le posizioni assunte dalla dirigenza radicale, in contrasto con quelle del gruppo milanese, se da un lato isolarono politicamente il partito, estraniandolo dai movimenti allora operanti sulla scena politica italiana ed europea, dall'altro valsero a tenerne ferma l'identità. Del resto, negli anni successivi gli extra-parlamentari furono emarginati o addirittura scomparvero dalla scena politica, mentre il partito radicale, tenuto fuori dall'alveo dei movimenti, poté continuare ad incidere sulla società italiana.

Un dato significativo di questo sesto congresso fu la scarsissima partecipazione degli iscritti, appena 31 (196), il che registrava l'atmosfera di indifferenza intorno alle tematiche del P.R., partito non violento in un momento in cui agivano forze portatrici di una forte carica di violenza. Apparentemente il partito radicale, con i suoi messaggi "liberali" e con i suoi metodi di lotta democratici sembrava uscito fuori dalla storia.

I radicali, intanto, si impegnavano a fondo nella battaglia per il divorzio. Decisero nel corso del successivo VII congresso straordinario (Roma, 9-10 maggio 1970) di proporre un accordo al Partito Socialista per le elezioni regionali del 1970 (197). In cambio dell'approvazione della legge sul divorzio e quella sull'obiezione di coscienza, e della democratizzazione degli strumenti pubblici di informazione, si impegnavano a garantire il voto radicale al P.S.I. Pannella giustificò l'appoggio radicale ai socialisti ricordando che il P.S.I., in quel periodo, era stato elemento determinante per l'approvazione dello Statuto dei Lavoratori e le leggi di attuazione delle regioni (198).

Il leader radicale affermò che il P.S.I. appariva più sensibile, non solo alla base, ma nei suoi gruppi dirigenti, alla necessità di ingaggiare le battaglie per i diritti civili.

Era sicuro, infine, Pannella che l'intesa con il P.S.I. avrebbe avuto una funzione unitaria per tutta la sinistra, dai comunisti ai socialproletari, dai socialisti ai radicali, per tutti i laici, per la lotta democratica in Italia.

La scarsità del seguito del partito si mostrò anche al VIII Congresso (Napoli 1-3 novembre 1970): parteciparono soltanto 80 iscritti, nonostante il consenso di opinione che si andava estendendo per tutto il Paese, in virtù delle lotte per i diritti civili (199). Si era alla vigilia del voto decisivo in Parlamento sul divorzio. Il P.R. si presentava come una forza minoritaria ma che poteva indicare degli obiettivi nuovi che sarebbero stati imposti alle forze politiche negli anni successivi: la liberazione della donna, la liberalizzazione degli anti-concezionali e la legalizzazione dell'aborto, in collaborazione coll'appena fondato movimento di liberazione della donna (200).

In sostanza questo congresso confermò la validità della linea politica fissata da quelli precedenti, nonostante le enormi difficoltà dovute allo scarso numero degli aderenti ed alle incomprensioni da parte delle altre forze politiche.

Si decise di trovare precisi strumenti di azione comune con gruppi politici esterni al partito, come la sinistra liberale e la federazione giovanile repubblicana ed altri gruppi genericamente libertari, che avevano assicurato la propria disponibilità per lotte comuni con il partito radicale.

Il congresso ribadì la proposta di referendum abrogativo del Concordato, già avanzata nel '68 e nei congressi VI e VII.

Nel IX, che si svolse a Milano il 22/2/71, si promuoverà insieme ai liberali ed ai repubblicani la costituzione della Lega per l'abrogazione del Concordato. La lega, come abbiamo già visto (201), dimostrerà scarsa capacità di iniziativa, ed i radicali, mentre tutti saranno alla ricerca di un compromesso con le forze cattoliche, si troveranno isolati sul tema del Concordato e finiranno per abbandonare il referendum, provocando la fine della Lega.

Per rompere l'isolamento in cui si venne a trovare il P.R., agli inizi degli anni Settanta, Pannella intuì che era giunto il momento di riflettere sul futuro del partito, dopo l'approvazione della legge sul divorzio, e il rapporto non più collaborativo che si stava profilando con gli altri partiti.

Il leader radicale espresse il suo convincimento in un editoriale pubblicato su "Notizie Radicali", nel numero di luglio del 1971 (202). Egli partì dalla constatazione della continuità tra il governo democristiano ed il regime fascista per affermare che la D.C. aveva occupato, seguendo il modulo del corporativismo fascista, ogni angolo della società e del sistema politico, riducendo la costituzione repubblicana ad un inganno, ad un miraggio mai realizzato.

Con un simile discorso i radicali si ergevano a difensori intransigenti della Costituzione, della legge scritta, e dei metodi democratici. Dunque, un'adesione piena, non certamente strumentale, allo Stato di diritto come valore permanente, una costante nella storia del partito radicale, che si esprimerà nelle lotte nel Paese e nelle istituzioni.

L'intendimento fondamentale dei radicali era quello di riuscire a restaurare la democrazia, con tutte le sue regole del gioco, congelate da chi si era installato al potere dal secondo dopoguerra. L'aspetto più preoccupante di una situazione così deteriorata era rappresentato, secondo Pannella, dal fatto che le forze progressiste, invece di costituirsi in alternativa, sul modello del bipartitismo perfetto della democrazia anglosassone, collaboravano, di fatto, con le espressioni politiche opposte. Insomma, i radicali tentavano di ostacolare il ricorso a quel sistema di democrazia consociativa che, sperimentata sotto banco, si espliciterà alla luce del sole, di lì a qualche anno, nei governi di solidarietà nazionale. Il P.R. se da un lato rifiutava il modo tradizionale di fare politica, inventandosi un nuovo tipo di intervento nella società, dall'altro puntava alla rivitalizzazione del sistema democratico-parlamentare mai pienamente attuato. In sostanza, il P.R. raccoglieva l'eredità delle vecchie battaglie borghesi.

Mutate le condizioni in cui il P.R. si trovò ad operare sullo scorcio degli anni settanta, al X congresso (Roma, Novembre 1971) Pannella propose lo scioglimento del partito (203). La soluzione "estrema" fatta propria dal leader radicale era giustificata dalla situazione di estremo disagio in cui si venne a trovare il P.R. in seguito alla politica conciliare sostenuta ormai apertamente dal partito comunista guidato da Berlinguer, che rendeva più difficile ogni prospettiva di realizzare una alternativa. Quel filo rosso che passava trasversalmente per tutti i partiti della sinistra, sul quale i radicali avevano fondato la loro politica unitaria, non esisteva più, e pertanto era necessario che il partito si ritagliasse un ruolo nuovo, giungendo quasi a una seconda rifondazione nella sua breve storia.

Il X congresso non accolse l'invito di Pannella all'autoscioglimento: tra i fondatori vi si opposero Mellini, Bandinelli e Teodori, seppure con sfumature diverse (204). Per Mauro Mellini il partito doveva rimanere in vita perché nel Paese esistevano dei bisogni che, in assenza del P.R., sarebbero rimasti inespressi. Per precisa scelta, fino al quel momento, i radicali avevano preferito impegnarsi in iniziative specifiche e non nel rafforzamento del partito. Ecco perché, affermava Mellini, le organizzazioni tipo la LID si erano ingrandite a scapito del PR. Ciò detto, era necessario non distruggere un organismo come il partito radicale, che aveva mostrato vitalità e grande potere di mobilitazione, ma anzi riversare nelle strutture federative l'eredità morale di tutte le battaglie per i diritti civili.

Massimo Teodori si faceva portatore di una posizione più ottimistica. Era dell'opinione che la chiusura del "regime" in Italia avrebbe necessariamente determinato delle contraddizioni, fra le quali il partito radicale avrebbe potuto trovare uno spazio per agire: i bisogni emergenti della società coincidevano con il raggio d'azione del partito radicale. Una posizione mediana fu quella espressa da Spadaccia, il quale apparve contrario sia ad una continuazione acritica sia alla proposta di Pannella. Per Spadaccia l'unica legge che contava era quella del numero e della forza politica, per cui il partito doveva consolidarsi e creare vere e proprie strutture di lotta. Riteneva pertanto inadeguata l'analisi prospettata da Teodori, perché era convinto che la supposta esistenza di contraddizioni nell'attuale sistema politico non presupponeva la possibilità che il P.R. avesse la forza di inserirsi e sfruttare tali contraddizioni. Spadaccia realisticamente poneva una scadenza, un traguardo al partito. Una sorta di prova d'appello, che avrebbe scongiurato la chiusura immediata progettata da Pannella, ma anche la continuazione senza mutamenti, proposta da Teodori. La scadenza avrebbe coinciso con le elezioni politiche del '73, nelle quali i radicali dovevano essere in condizioni di presentare liste proprie.

Il X Congresso si chiuse con una mozione di compromesso tra le varie posizioni (205). Si decise un obiettivo preciso: almeno mille iscritti per il novembre 1972, pena lo scioglimento del partito. Ma questo obiettivo sottointendeva una constatazione di carattere politico: il P.R. appariva ormai come l'unica ipotesi di partito laico esistente in Italia, e quindi cadeva l'illusione di costruire un partito contenitore di tutte le istanze laiche, libertarie e progressiste. Almeno, sui tempi brevi, il partito radicale rimaneva l'unica forza antiregime, capace di riunire intorno a sé quei movimenti di opinione "liberal" che ancora sopravvivevano nel nostro Paese, nonostante il conformismo dei partiti di sinistra dello schieramento.

 

2. Otto referendum contro il regime.

 

Nel gennaio del 1972, i radicali posero in discussione il problema della partecipazione diretta alle elezioni politiche del 1973, teoricamente previste nel '73, ma di cui era sempre più evidente la prospettiva dell'anticipo di un anno. Gianfranco Spadaccia assunse la posizione più decisa (206). La presenza elettorale del P.R. gli appariva indispensabile per ampliare la latitudine dei consensi attorno al partito, unico strumento concesso ai radicali per farsi conoscere e moltiplicare la militanza.

L'occasione per sperimentare la risposta delle urne si presentò infatti con un anno di anticipo, il 28 febbraio 1972; per la prima volta nella storia italiana, il presidente della Repubblica Giovanni Leone decretò lo scioglimento anticipato delle Camere ed indisse le elezioni per il 7 maggio successivo.

I radicali dovevano mettere in conto condizioni oggettive piuttosto sfavorevoli, soprattutto a causa del regolamento della RAI-TV per le elezioni stabilito dalla Commissione parlamentare di vigilanza, che limitava ai soli partiti già rappresentati in Parlamento l'accesso al mezzo televisivo.

L'esclusione dal più potente dei media (a quell'epoca non trasmettevano le televisioni commerciali) poneva in una condizione quasi di impotenza il partito radicale, che non aveva un supporto organizzativo, né era in grado di contare sull'effetto "tradizione" dei partiti già rappresentati in Parlamento per l'ovvio motivo che si presentava per la prima volta davanti all'elettorato. L'unica voce dei radicali era la rivista "Prova radicale" fondata nell'autunno del 1971, di scarsa diffusione, distribuita soltanto attraverso gli abbonamenti, oppure venduta nelle librerie delle grandi città.

Così il P.R., sempre nel quadro della politica di unità a sinistra, ed anche per uscire dall'isolamento, propose al gruppo riunito attorno al Manifesto di presentare liste comuni (207). L'iniziativa che, in effetti, partì da cinque dei membri della direzione (Mellini, Pannella, Franco Sircana, Spadaccia, Teodori) sembrò ai più, anche all'interno dello stesso P.R., avventata ed incoerente, date le profonde differenze ideologiche tra i comunisti espulsi dal P.C.I. ed i radicali. I cinque esponenti radicali giustificarono la loro scelta, motivandola col fatto che bisognava creare una spinta anti-regime in una elezione da loro ritenuta "truffaldina". I transfughi del P.C.I. non accettavano "il regime di ricatto dei partiti tradizionali" ed inoltre - la ragione più importante della proposta radicale - i due movimenti convergevano sull'uso del referendum, nel rifiuto del capitalismo di Stato, e nella lotta al clericalismo. Le liste proposte dal P.R. dovevano essere "aperte", capaci di coinvolgere forze diverse. Ma "il Manifesto" rifiutò l'alleanza col P.R. La giustificazione del gruppo ex-P.C.I. era di natura strettamente ideologica. Per loro non era andato sufficientemente avanti, in quegli anni, il processo di aggregazione tra forze diverse dell'area anticapitalistica. Al partito radicale ricordavano che nel passato era mancato ogni confronto di posizioni e di esperienza di base, insomma non c'era stata una verifica pratica sulle cose da fare insieme.

In seguito al rifiuto del Manifesto, il P.R. si pronunciava per l'astensione dal voto (208). I radicali assunsero questa posizione rinunciataria per motivi che si distaccavano dalle ragioni proclamate dai movimenti ultrasinistra (Lotta Continua, Potere Operaio, ed altri gruppi simili), e non per sfiducia dottrinale verso questa forma di democrazia. Anzi, i radicali riaffermano il valore delle elezioni come pratica necessaria allo svolgimento della vita democratica.

Si distaccavano, quindi, dalla concezione anarchica, e riaffermavano che le lotte libertarie passano soprattutto attraverso le istituzioni. L'astensione dal voto era un atto di resistenza al regime, insomma di disobbedienza civile, di non cooperazione con un governo ritenuto "illegale". Il rifiuto del voto non era, dunque, una manifestazione di sfiducia, ma un atto costruttivo, di oppositori. In verità c'era anche una ragione pratica per cui il P.R. si era schierato per il "non voto": il partito non era attrezzato per affrontare le elezioni. Le strutture politiche di cui disponevano i radicali erano esigue, sovraccariche di compiti, prive di quei mezzi materiali di cui disponevano, e largamente, tutti gli altri partiti. Ed infine i radicali erano condannati al silenzio, per la mancanza di accesso alla radio e alla televisione, gli unici mezzi che avrebbero potuto permettere loro di sottoporre all'opinione pubblica il progetto e le proposte radicali.

Così stando le cose, i radicali si dicevano convinti che i laici, gli anticlericali, i divorzisti, non avrebbero potuto essere rappresentati da nessuno dei partiti di sinistra, i cui dirigenti, un domani, "avrebbero contrattato qualche sottoprivilegio con il mondo clericale rappresentato dalla D.C.".

Di qui l'invito dei radicali ai loro simpatizzanti di difendere il divorzio, vincere il referendum, abrogare il concordato, riunendosi nelle Leghe e prima di tutto aderendo al P.R., che aveva bisogno di forza come non mai. E l'appello del P.R. era diretto anche ai credenti, i quali sarebbero stati avviliti dalle strette soffocanti di una Chiesa sempre più autoritaria: l'unica alternativa per i cattolici non era rappresentata dal dialogo con Berlinguer oppure con i "frontisti" del P.S.I., ma organizzarsi in prima persona per affermare i loro obiettivi. Così gli antimilitaristi si dovevano convincere che le loro tesi sui pericoli intrinseci alle strutture militari dovevano procedere di pari passo con le altre battaglie anti-autoritarie che da anni i radicali andavano combattendo. Così pure i socialisti, che rifiutavano il modello burocratico, dovevano uscire fuori dai soliti canali ed unirsi alle iniziative libertarie dei radicali. Infine, l'invito dei radicali si rivolse ai democratici, i quali iscrivendosi, partecipando, aiutando il P.R., avrebbero tenuto in piedi questo strumento aperto e disponibile che era il partito radicale. L'alternativa al voto, per i radicali, è creativa. Non è, secondo le prospettive prima delineate, né qualunquista, né rinunciataria, né anti democratica.

Dunque, anche sotto le bandiere del "non voto" i radicali continuavano il loro impegno, non venivano meno alla loro antica filosofia organizzativa: creare movimenti, attraverso gruppi di lavoro e di intervento (laici, divorzisti, antimilitaristi, anticoncordatari) con proprie regole e federati al progetto radicale.

Tuttavia l'astensione radicale non sarà definitiva. Il P.R. avrebbe in seguito partecipato alle votazioni a due condizioni. Primo: l'effettiva possibilità di concorrere allo scontro elettorale partendo da condizioni eguali per tutti i partiti; secondo: la capacità di presentare un progetto politico complessivo.

Ma intanto nel '72, preso atto che un capitolo delle esperienze di lotte del partito era ormai concluso, i radicali impostarono una nuova strategia destinata a scuotere lo stagnante panorama politico italiano per tutto il decennio successivo. All'indomani delle elezioni politiche alle quali avevano espresso il "non voto", i radicali, prima di decidere che cosa fare, si posero questo interrogativo: era possibile ad una forza di netta minoranza quale era il P.R. fare fronte alle difficoltà ed all'isolamento, senza ridursi ad una azione di semplice testimonianza o peggio senza richiudersi nel settarismo? Il partito radicale si era differenziato dalle altre forze extra-parlamentari. Si era rifiutato di svolgere una funzione solamente di critica, di pungolo dei grandi partiti della sinistra tradizionale, e peraltro non aveva mai svolto alcuna azione di disturbo della politica del P.S.I., P.C.I., P.S.I.U.P., capace di erodere i margini del dissenso.

L'ambizione del P.R. era di maggiore latitudine: voleva imporre con la propria azione politica obiettivi realmente alternativi e cercare per tali obiettivi sbocchi politici unitari capaci di coinvolgere l'intero arco dei partiti di sinistra.

A questo punto i radicali si chiesero con quali strumenti avrebbero potuto effettivamente influire sulla situazione italiana. Le iniziative di carattere settoriale, come era accaduto nel passato, non erano più sufficienti. Gli impegni anti-militaristi e nei vari movimenti per i diritti civili non avevano di per sé la forza di condizionare gli schieramenti politici o di interessare la grande opinione pubblica. Avevano bisogno di una iniziativa che fosse capace di mettere in crisi gli equilibri esistenti o di inserirsi efficacemente in tali equilibri. Per consentire una iniziativa politica ampia, di grande momento, che potesse permettere ad un partito fortemente minoritario di incidere sulla realtà istituzionale del Paese, i radicali, nel luglio del 1972 (209), cominciarono a riflettere sul referendum.

Cioè, se con questo strumento di democrazia diretta avrebbero potuto realizzare il loro progetto politico. Si è già detto che proprio nello stesso periodo il P.R. si era battuto contro tutti i compromessi che volevano evitare il referendum sul divorzio.

Il referendum era connaturato alla ideologia stessa del partito radicale, e pertanto il ricorso a questo mezzo costituzionale di democrazia diretta non poteva non essere privilegiato da un movimento che si fondava sulla partecipazione della gente comune. Infatti, poteva essere gestito dal basso, autonomamente, attraverso la mobilitazione popolare, senza il ricorso alla mediazione organizzativa dei partiti e delle istituzioni parlamentari.

Inoltre, il referendum ai radicali appariva come uno strumento potenzialmente unitario, perché avrebbe consentito di cercare il consenso già nella fase di raccolta delle firme, prescindendo dalla rottura con i partiti di appartenenza. Era una scelta realistica, in quanto teneva conto delle peculiarità dell'elettorato italiano che, generalmente, vota sulla spinta di motivazioni ideologiche o clientelari. Sicché, l'unico modo per spostarlo su posizioni progressiste, era quello di interessarlo a tematiche di contenuto concreto e di carattere diretto. L'altro punto che motivava i radicali nella scelta referendaria era la possibilità di inserire, attraverso un'azione extraparlamentare, nella lotta politica, temi che i partiti di sinistra tenevano da parte per non turbare gli equilibri parlamentari. Erano convinti di poter mettere in crisi la legislatura che al momento esprimeva una maggioranza di diverso contenuto e moderata (210). Si aggiunga, poi, che la campagna referendaria avrebbe, finalmente, consentito al P.R. l'accesso, come comitato promotore, alla RAI-TV, e quindi di uscire dal silenzio. E' da considerare, infine, che il referendum offriva ai radicali l'occasione, sempre ricercata da loro, di dare uno sbocco istituzionale e legislativo all'azione extraparlamentare; senza tale sbocco ogni iniziativa ai radicali sembrava inutile, una manifestazione fine a sé stessa.

A ridosso dell'XI Congresso, la dirigenza radicale pose mano, concretamente, a vari progetti di referendum, e predispose i piani per la organizzazione della raccolta delle firme. Vennero proposte tre iniziative di referendum: una per l'abrogazione delle norme di attuazione del Concordato, un'altra per l'abrogazione delle norme fasciste del codice penale, un'altra ancora per l'abrogazione delle leggi che assicuravano finanziamenti all'assistenza ed alla scuola clericali (211). Era importante per i radicali riuscire a mettere in comune con gli altri partiti gli strumenti organizzativi e fare insieme le campagne di informazione. Ed il P.R. non poteva agire altrimenti, tenuto conto che la disposizione costituzionale e la legge di attuazione che disciplina il referendum pongono un minimo di firme talmente alto (500.000 firme autenticate) da rendere necessario il supporto di potenti organizzazioni che soltanto i partiti di massa possiedono. Giustamente i radicali osservavano che soltanto due forze erano in grado di servirsi senza difficoltà di questo istituto: i sindacati e le parrocchie, due organismi presenti, in modo capillare, sul territorio. Al di fuori di queste due forze, soltanto il P.C.I. avrebbe avuto la possibilità di convogliare sulle firme un così elevato numero di persone.

Di qui, ragionavano i radicali, la ricomparsa della bipolarizzazione della lotta politica in Italia: la Chiesa da una parte ed il partito comunista dall'altra. Cosicché proprio un istituto inserito nel nostro sistema costituzionale come complemento della democrazia rappresentativa, e quindi concepito per inserire nella lotta politica temi e problemi estranei all'equilibrio politico-parlamentare avrebbe finito per essere, per motivi organizzativi, controllato dalle due forze egemoni.

Tuttavia, nella mappa delle forze organizzate in Italia, il partito radicale vantava le esperienze ed alcuni strumenti di base per impostare, concretamente e seriamente, un lavoro organizzativo di così ampia portata e, per quei tempi, nuovo. Questo patrimonio di idee, di capacità di mobilitazione, e di uso anche spregiudicato (in senso positivo) di mezzi alternativi (digiuni, marce, e così via), i radicali lo avevano acquisito nelle battaglie per il divorzio, e nelle organizzazioni universitarie degli anni Cinquanta.

Poi, i radicali, erano in possesso di alcuni strumenti pratici, come la disponibilità di un indirizzario di oltre trecentomila nomi raccolti da organizzazioni affini al partito, o nel corso di iniziative politiche radicali (divorzio, antimilitarismo, liberazione della donna, anticoncordato) (212).

I radicali, coerentemente con il loro progetto politico, unità delle forze alternative, concepirono di coinvolgere nelle iniziative referendarie, oltre a tutti i partiti laici di sinistra, ai sindacati, anche i movimenti extra-parlamentari, le comunità ecclesiali, ed altre organizzazioni, come il movimento di liberazione della donna, ed il movimento per l'abolizione del reato di aborto. Insomma una occasione di confluenza e di unità fra le forze del cambiamento.

Pensavano di rivolgersi, particolarmente, ai vari movimenti extra-parlamentari, come il "Manifesto", "Lotta Continua", occupati in sterili mobilitazioni di tipo agitatorio per spingerli a contribuire a cambiare la realtà sociale ed istituzionale. Inoltre si interessarono alle comunità di cattolici, allora in fermento, per far loro comprendere che la lotta per il rinnovamento religioso era strettamente connesso ad un più esplicito impegno civile.

Il programma concreto doveva essere messo a punto da un apposito congresso, dopo un dibattito ed un lavoro di gruppo.

Il partito radicale, prima di affrontare una lotta così impari per un movimento di minoranza tenuto insieme da non professionisti della politica, voleva riunire la sua base, per verificare se poteva contare su forze sufficienti per far fronte alle responsabilità che sarebbero derivate da iniziative di portata così ampia, insomma se conveniva questo viaggio verso l'ignoto collettivo. Il punto dolente per i radicali che si accingevano ad impostare la campagne referendarie era, dunque, l'organizzazione. Nel X Congresso si era già posto l'obiettivo minimo di mille iscritti, per funzionare efficacemente, oppure l'autoscioglimento.

La meta fu raggiunta. Si arrivò all'XI Congresso tenuto a Torino nel novembre del 1972, con 1300 iscritti, di cui 900 mai tesserati prima. Il 18% possedeva la doppia tessera; e quest'ultima circostanza è importante rilevarla perché dimostrava che il consenso alle iniziative radicali poteva provenire da altri settori.

In questo periodo si avvicinarono al partito radicale alcuni esponenti della sinistra repubblicana, come Franco Corleone, Mercedes Bresso, che rafforzeranno il nucleo milanese (213). Infatti il problema era anche, ricordiamo, come ampliare la struttura territoriale del partito, il quale, come gli stessi radicali notavano, doveva essere laico e libertario, non poteva continuare ad essere "romano, unicefalo e carismatico". La militanza verso il P.R. si ingrossò nell'imminenza di questo XI congresso, in conseguenza di alcune azioni dirette attuate dal partito (214).

Il proselitismo avrebbe potuto avere risultati migliori, se i radicali si fossero, con più impegno, dedicati al rafforzamento del partito: essi, invece preferivano che il P.R. fosse una forza di servizio unitario ed alternativo per tutti i gruppi di sinistra socialista e libertaria (215). Si mobilitavano, non per aggiungere forza al partito, ma per organizzare battaglie civili, come quelle per la liberazione degli obiettori di coscienza, per la scarcerazione dell'anarchico Valpreda, spendevano le loro energie per manifestazioni popolari unitarie che definivano "anti-regime".

Comunque l'obiettivo fissato dal precedente congresso di Roma era stato raggiunto; per cui a Torino il partito poteva annunciare la sua sopravvivenza. Non solo. Ma approvare una mozione di largo respiro che avrebbe anticipato i tempi dello scontro con la D.C. Il congresso di Torino diventò anche la tribuna da dove fu rilanciato il progetto di una iniziativa popolare referendaria sui temi dei diritti civili. Anche la battaglia per l'obiezione di coscienza e per la liberazione di Valpreda, culminata con il digiuno di Pannella e Gardini, ebbe il suo punto culminante in questo congresso.

La mozione approvata all'XI congresso (216), in linea con la costante politica contro il partito dominante, indica nella D.C. l'erede naturale del Partito Nazionale Fascista, e ribadisce che la sinistra, nel suo complesso, non sa opporsi a tale "partito-regime"; cosicché la politica di questa sinistra si mostra "subalterna al corporativismo di Stato che si è consolidato soprattutto nei settori pubblici ereditari del fascismo". Quanto al Parlamento, esso, secondo i radicali, era ridotto ad approvare, spesso all'unanimità, migliaia di leggine corporative e non affrontava le vere riforme; mentre al contrario le Camere dovevano essere per i radicali luogo di dibattito sui grandi problemi, come il divorzio, l'aborto, l'obiezione di coscienza. L'XI congresso, dopo aver crudamente giudicato la situazione politica italiana ormai ingessata riteneva che per rinnovare il livello della generazione politica allora operante era necessario perseguire progetti precisi, intellegibili a tutti, gestibili dal basso, dalle masse democratiche, da autentici socialisti, comunisti, liberali gobettiani, dalle minoranze che sono rivoluzionarie quando legano l'affermazione dei loro diritti al vantaggio di tutti. Su tali premesse politiche, il partito radicale propose il ricorso alla volontà popolare: la sola misura che avrebbe potuto portare alla completa attuazione del patto costituzionale, all'abbattimento delle leggi reazionarie, a favore dei diritti dell'uomo, dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. E la mozione congressuale proponeva e si impegnava ad indire cinque referendum popolari abrogativi che riguardavano le leggi di attuazione del Concordato, le norme autoritarie del codice penale (per esempio reato d'aborto e consumo di droga), i codici militari, il finanziamento pubblico della scuola privata, le leggi sulla stampa che limitavano le libertà civili.

L'anno 1973 si apre in modo incoraggiante per il partito radicale. Partono le prime iniziative politiche (217). L'11 febbraio 1973, Loris Fortuna, in sintonia con il Partito Radicale, e con il movimento di liberazione della donna, presentava in Parlamento il primo progetto di legge per la legalizzazione dell'aborto. La lotta cominciata tre anni prima dalla pubblicistica radicale cominciava a coinvolgere le istituzioni, e quindi le forze politiche organizzate, le quali non avrebbero più potuto sottrarsi alla discussione su di un problema già aperto in molti paesi europei. Con una lettera al "Messaggero" di Roma, Pannella apre un altro fronte, come annunciò, trionfalisticamente, "Notizie radicali" nel numero del 27 gennaio 1973: quello della droga. Il leader radicale prese a difendere i giovani fumatori di marijuana e di hascisc, ed annunciò che, insieme con altri militanti radicali, avrebbe fumato, pubblicamente, delle droghe leggere. Era una dimostrazione provocatoria contro il disegno di legge, fortemente punitivo, presentato dal governo Andreotti, contro i consumatori di droga.

La forza del P.R., costituita da circa 1300 iscritti, decisi ad autofinanziarsi, e ad autogestirsi, era ormai una realtà; la rifondazione del partito, decisa dal congresso del novembre 1972, non appariva più una velleità. Ma l'impegno primario e solenne che il P.R. si era assunto non si concretizzava: il lavoro di organizzazione dei cinque referendum, non faceva alcun passo avanti. Si doveva attendere il successivo congresso di novembre per mettere a punto il programma politico della campagna dei referendum ma il ritardo appariva una grave errore, perché avrebbe compromesso la disponibilità delle altre forze politiche a gestire insieme con i radicali questo progetto di enorme importanza per gli assetti futuri delle istituzioni.

Ecco per quali motivi venne indetto un congresso straordinario nel pieno dell'estate del 1973, a Roma (8-9 luglio). Questo congresso, dimostratosi uno dei più vivi e stimolanti, sortì due importanti risultati: l'adesione al progetto radicale di tutti i maggiori gruppi extra-parlamentari (Il Manifesto, Lotta continua, Avanguardia operaia, Partito comunista marxista-leninista) ed anche della corrente di sinistra del Partito Repubblicano (218). L'altro fatto fu il dichiarato impegno di molti militanti di sedi periferiche a partecipare al lavoro organizzativo in Roma: si allargava, così, la base dei partecipanti al lavoro quotidiano, svolto, in passato, sempre dal piccolo nucleo residente in Roma. Il congresso registrò poi la convergenza sul progetto politico radicale di alcune forze di sinistra, verso le quali il P.R., da sempre, aveva mostrato attenzione, e che si erano affiancate nella battaglia per il divorzio. Giacomo Mancini, allora uno dei massimi esponenti del Partito Socialista, aveva fatto pervenire al congresso radicale un messaggio di saluto, contenente espressioni di incoraggiamento; inoltre parteciparono ai lavori del congresso l'on. Vincenzo Balzamo, responsabile dei diritti civili del P.S.I. e Fabrizio Cicchitto della sinistra dello stesso partito.

Il Congresso, sul piano operativo, decideva di costituire un comitato di gestione dei referendum, che avrebbe affiancato la segreteria nazionale e gli altri organi del partito; ed, inoltre, di dare incarico ad un comitato di realizzare, di lì a due o tre mesi, un quotidiano radicale.

Dunque furono gettate le premesse politiche ed organizzative per poter indire i referendum abrogativi per il 1975. Ma il risultato più importante, anzi insperato ai fini della strategia radicale, fu la convergenza di forze costituzionali ed extra-parlamentari sul progetto di lotta comune di tutta la sinistra, di tutti coloro che si battevano per il rinnovamento.

Ecco perché il P.R. chiese ai militanti ed ai sostenitori, agli aderenti delle Leghe per i diritti civili, un rilancio delle iniziative, che potesse testimoniare la presenza radicale come collante di tutti i gruppi pro referendum. Si aggiunse, dopo il congresso, l'adesione del Partito socialista di unità proletaria. Tutte queste forze, eterogenee, pur riunite intorno al progetto dei referendum, ribadirono la loro autonomia politica ed organizzativa.

Lotta Continua propose di selezionare e concentrare i referendum su due o tre punti, Codice Rocco, Codici militari, ed aborto. Intanto si acquisivano nuovi indirizzari, e si costituivano i primi comitati di lavoro a livello provinciale (219).

Il XIII Congresso (1-2-3 novembre 1973) specificò il pacchetto referendario. Furono stabilite le modalità ed i contenuti del progetto. L'assemblea congressuale selezionò otto gruppi di argomenti, otto referendum. Un progetto assai ambizioso, che sollevò molte perplessità sulla possibilità tecnica di mettere in cantiere, contemporaneamente, otto iniziative, tenuto conto della consistenza del partito radicale, costituito da non più di un migliaio di iscritti.

Il congresso, tuttavia, decise di mantenere il progetto globale, gli otto referendum. Questa decisione era carica di un significato politico: voleva dimostrare l'esistenza di una alternativa al "regime (DC) ed alle sue chiusure", come era detto nella mozione finale (220).

Si cercava la collaborazione delle forze parlamentari ed extra parlamentari, insomma di "liberali" e di rivoluzionari, con una forma aperta, inventando strutture organizzative al di fuori di quelle esistenti. Era l'unico processo possibile per le minoranze democratiche, le quali, con lo strumento del referendum avrebbero potuto mettere in moto le masse sulla via del rinnovamento, tendenzialmente, almeno, socialista. Il sistema partitico, invece, era incapace di interpretare esigenze particolari, perché mancava, secondo i radicali, di un retroterra di mobilitazione; i partiti di sinistra nel nostro Paese erano ormai così istituzionalizzati da evitare la conflittualità, la tensione con gli avversari di classe.

Il criterio di scelta degli otto referendum proposti, e che più sotto specificheremo, ubbidiva anche a motivi pratici. La tecnica dei referendum esigeva di raccogliere per ogni legge da abrogare cinquecentomila firme davanti a pubblici ufficiali che provvedevano all'autenticazione ed a corredare le firme con i certificati elettorali dei sottoscrittori. Ecco perché i promotori dovevano effettuare una scelta rigorosa, cominciando dai settori dove appariva più scandalosa la sopravvivenza dei vecchi ordinamenti (221). L'indicazione per una scelta mirata ai radicali venne dalle lotte degli ultimi anni: le battaglie, cioè che avevano impegnato il PR e gli altri movimenti interessati dagli obiettori di coscienza ai divorzisti, ai fautori della legalizzazione dell'aborto: ebbene dalla riflessione su tutte quelle lotte per i diritti civili vennero fuori le scelte dei settori che era necessario, anche sotto il profilo politico, investire con il sistema dell'abrogazione per volontà popolare. Da sottoporre al referendum erano le basi del potere clericale, gli strumenti della repressione penale ordinaria e militare, ed infine, i canali dell'informazione. Colpendo quei quattro settori il PR intendeva scuotere gli equilibri politici e la stessa vita democratica del Paese, restituendole "quel tanto di verità, di confronto, di impegno civile ed ideale, senza i quali non esiste più democrazia" (222).

I referendum proposti riguardavano i seguenti temi.

Primo: l'art. 1 della legge 27 maggio 1929 che disponeva l'esecuzione del trattato e del Concordato sottoscritti tra la Santa sede e l'Italia che sancivano privilegi e vantaggi della Chiesa Cattolica specialmente in materia fiscale, nel settore scolastico, familiare e penale; secondo: gli art.li 17 e 22 della legge citata, i quali riconoscevano effetti civili alle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni concordatari; terzo: l'abrogazione totale del codice militare di pace; quarto: l'abrogazione dell'ordinamento giudiziario militare; quinto: l'abrogazione dell'ordine dei giornalisti; sesto: abrogazione della legge limitativa della libertà di stampa; settimo: libertà di antenna; ottavo e ultimo: abrogazione di alcune norme repressive del codice penale, come la pena dell'ergastolo, reati di opinione, ed il reato di aborto (223).

Il 15 marzo 1974 il partito radicale iniziò la raccolta delle firme per gli otto referendum; l'organizzazione era articolata territorialmente in centotrentacinque comitati locali, con centinaia di tavoli ubicati nelle piazze e nelle strade dei maggiori centri, dal Nord al Sud d'Italia (224).

In contemporanea si apriva la campagna per il referendum sul divorzio che era stato fissato per il 12 maggio; i radicali erano convinti che questa coincidenza avrebbe costituito un elemento di forza. Ma non fu così. Il P.R. si trovò, inaspettatamente, da solo, a raccogliere le firme per gli otto referendum, abbandonato dai gruppi extra-parlamentari sul cui apporto organizzativo i radicali avevano fatto conto. Se si esamina la tabella n. 7, solo due comitati erano stati organizzati dagli extra-parlamentari; Lotta Continua affermava che l'impegno per il referendum sul divorzio dovesse essere prioritario rispetto a quello per la raccolta delle firme per gli altri otto referendum (225). Il Manifesto confermò il suo appoggio, ma rimase una proclamazione verbale. Lo stesso atteggiamento assunse il P.D.U.P. Invece apparve significativo il contributo dato dal P.S.I. e dalla U.I.L. (cfr. Tabella 7) una testimonianza dell'attenzione dei socialisti verso i progetti radicali. I comunisti dimostrarono, invece, insofferenza e malcelata ostilità nei confronti dei referendum. Accusavano i radicali di dar una mano a Fanfani, disperdendo energie per referendum di scarsa utilità politica.

Delineatosi un quadro politico così incerto, a poche settimane dal voto del 12 maggio, i radicali decisero di sospendere la raccolta delle firme (226).

All'indomani del risultato del referendum sul divorzio, risoltosi in un trionfo per i divorzisti, specie nelle aree economicamente più arretrate del Paese, i radicali ripresero, il 15 giugno, la raccolta delle firme. Gli unici a fornire un aiuto furono gli aderenti ad Avanguardia Operaia. Tuttavia la campagna fallì, i radicali registrarono al loro attivo poco più di cento mila firme per ciascuna richiesta di referendum.

Non si può negare che la strategia politica radicale fu confermata, quasi clamorosamente, dal risultato del referendum sul divorzio: il Paese reale in cui il P.R aveva sempre creduto si mostrò, insperatamente per le convinzioni dei partiti di sinistra, più avanzato rispetto a quello legale. Per la prima volta si riuscì a creare uno schieramento unitario di sinistra vincente. Si era attuato, attraverso uno strumento di mobilitazione popolare qual il referendum, l'alternativa delle forze del progresso. Tuttavia l'insuccesso nella raccolta delle firme era la riprova della necessità di una organizzazione più puntuale, oppure di un più saldo collegamento con le altre forze politiche interessate al problema.

In seguito a questo insuccesso, il partito radicale entrò in crisi: il giovane segretario Giulio Ercolessi, che forse non aveva saputo guidare saldamente il partito durante la campagna per la raccolta delle firme, si disimpegnò dalla carica, nell'estate del 1974 (227). La crisi si estese anche alla tesoreria collegiale, eletta nel Congresso di Verona, nel novembre del '73; per cui rimase soltanto Gianfranco Spadaccia a reggere le sorti sia della segreteria che della tesoreria. Ma, nonostante la crisi, era cresciuta enormemente la credibilità del partito radicale presso l'opinione pubblica: la gente comune, stanca dei professionisti della politica, vedeva nel messaggio radicale, simboleggiato dalla figura del leader Marco Pannella, il riscatto dal male della partitocrazia, insomma cominciava a riconoscersi in una minoranza che era riuscita ad imporre, in opposizione ad enormi forze conservatrici, la inviolabilità della legge sul divorzio. Una ulteriore crescita era, però, ostacolata dal negato accesso alla televisione di Stato per le minoranze.

Per conquistare un tale diritto, indispensabile per muovere le masse nella battaglia referendaria, un gruppo di militanti radicali dava inizio ad uno sciopero della fame (228). Dopo lo svolgimento del referendum il digiuno continuò, anche da parte di militanti di varie città e centri minori. Diventò una vera e propria azione di disobbedienza civile. A metà luglio, il digiuno di Pannella, superati i settanta giorni, divenne un fatto drammatico, ed interessò i grandi organi di informazione: il presidente della Repubblica decise di ricevere il leader radicale, per dimostrargli il suo interesse "per il valore della sua azione". Il risultato più importante del lunghissimo digiuno di Pannella fu la rinnovata mobilitazione dei militanti che, dopo il fallimento della raccolta di firme per i referendum, si erano appartati. Visto il consenso intorno all'azione di Pannella, avevano moltiplicato le iniziative, le azioni dirette.

E' interessante esaminare le reazioni delle maggiori forze politiche di fronte all'azione individuale di Pannella. Il repubblicano Adolfo Battaglia giudicava "utopici" e non adeguati alla realtà del momento gli strumenti dell'azione di coscienza. I comunisti rilevavano la non centralità e la non urgenza per la vita nazionale della difesa dei diritti civili e si dichiaravano contrari alle azioni ed agli atti di minoranze, le quali non si dovevano sostituire all'azione delle masse e dei partiti che le rappresentavano (229). I laici moderati lamentavano la rottura con la tradizione del precedente radicalismo degli anni Cinquanta. Sta di fatto che, finalmente, il messaggio radicale passò, grazie ai digiuni di tanti militanti, attraverso l'informazione televisiva.

Un dato nuovo: dalle centinaia di migliaia di cittadini che erano entrati, in un modo o nell'altro, in contatto con le iniziative radicali, si passò, nell'estate del 1974, alla comunicazione verso molti milioni di persone. Dunque, un enorme salto di qualità, così salutarono i radicali il loro accesso alla televisione: potevano allargare a tutta l'Italia, in modo indiscriminato, l'area di conoscenza delle loro battaglie per i diritti civili. Sarebbe stato possibile, finalmente, condurre lotte generali per il Paese: la platea era l'Italia intera. Un passo in avanti enorme se si guarda appena indietro, quando i radicali erano una decina di "disperati".

 

3. Radicali e socialisti: una relazione contrastata

 

Il XIV Congresso radicale (Milano, 1/4 novembre 1974) nonostante l'allargamento del consenso presso l'opinione pubblica, nonostante il successo del voto del 12 maggio sul divorzio, nonostante il primo impegno del Parlamento a discutere il disegno di legge sull'aborto, registrò un diffuso pessimismo sul futuro politico, verso i partiti di sinistra, tutti tesi a raggiungere accordi o compromessi col nemico di sempre, cioè con quella D.C. che aveva imposto il "regime" in Italia (230).

Il dibattito al congresso di Milano fu caratterizzato dallo sforzo di definire una linea politica generale per il partito, una piattaforma di orientamento per gli organi dirigenti e per i militanti. Questa volta sembrò prevalere il confronto sulle prospettive politiche, mentre passò in secondo piano lo scontro sugli obiettivi immediati.

I referendum, dal dibattito congressuale, appaiono non più strumento delle iniziative radicali. Si cominciò a discutere di programma alternativo comune, a cui l'intera area della sinistra non poteva sottrarsi. Si parlò, apertamente, di una partecipazione dei radicali alle successive elezioni. Tuttavia, realisticamente, il congresso prese atto delle difficoltà organizzative a cui il P.R. sarebbe andato incontro per affrontare, con efficacia, le consultazioni elettorali. Ponendosi tali prospettive, non poteva non mutare il rapporto con le altre formazioni politiche. Per questo il ruolo del P.R. avrebbe dovuto meglio precisarsi: non solo i radicali dovevano fare opera di denuncia, di pressione, e di polemica, ma si sarebbero dovuti impegnare per il rafforzamento della componente socialista-libertaria della sinistra, insomma promuovere l'aggregazione almeno su determinati obiettivi concreti, dei partiti di sinistra. Su questi interrogativi si imperniò il dibattito durante il Congresso. Venne fuori chiara e netta l'immagine "socialista" del P.R., che si pose in una prospettiva di forza di governo: nella mozione congressuale il partito si pose come obiettivo il venti per cento dell'elettorato almeno alle forze socialiste per riequilibrare la sinistra italiana (231) e rendere così realisticamente possibile l'alternativa.

Questo congresso di Milano ribadì, dunque, quei rapporti privilegiati che i radicali avevano da sempre mantenuto con i socialisti. Pannella, pur tenendo nella sostanza la guida dei radicali, da oltre un anno non aveva più preso la tessera, per muoversi più liberamente all'interno dei vari partiti della sinistra, sempre al fine di costruire l'alternativa alla D.C. Ed in tale prospettiva, al congresso di Milano, annunciò la fondazione del "Movimento socialista per i diritti e le libertà civili-lega 13 maggio", e dichiarò di voler agire, da allora in avanti, da militante socialista.

Massimo Teodori che già negli anni '71-'73 aveva ospitato in "Prova radicale" dibattiti con esponenti della sinistra socialista, come Riccardo Lombardi, occupandosi delle prospettive del socialismo in Europa fondò nel gennaio 1975, insieme ad alcuni intellettuali di area socialista, l'associazione ARA, "Azione e Ricerca per l'Alternativa" (232). I radicali avevano scelto come interlocutore principale il partito socialista, perché in quel periodo questo partito appariva perplesso tra collaborazione con la D.C. o aperture verso "equilibri più avanzati".

Siffatta perplessità era interpretata dai radicali come un segno di possibili mutamenti. Il P.S.I., per i radicali era l'unica formazione politica avente anche un'anima "movimentista", e pertanto avrebbero potuto spingerla a far parte dell'aggregazione per l'alternativa. Di contro il partito comunista si era ormai dato una strategia definitiva, che portava, ineluttabilmente, all'abbraccio con le masse cattoliche.

Le iniziative filo-socialiste facenti capo all"'ARA" non ebbero sviluppo alcuno, si esaurirono nell'ambito culturale.

Invece le iniziative promosse da Pannella, in prima persona dal partito radicale, come la lotta per la depenalizzazione dell'aborto, ebbero l'appoggio ufficiale del P.S.I., che contribuì con 60 milioni, e raccolsero molte adesioni in tutto il territorio nazionale (furono costituiti 68 comitati per la raccolta delle firme) (233).

 

4. La seconda sfida ai cattolici: l'aborto

 

La lotta per l'aborto fu impostata dai radicali dopo la presentazione in Parlamento del disegno di legge Fortuna, del quale s'è parlato prima. L'occasione per mobilitare l'opinione pubblica sul problema dell'aborto fu il processo a Gigliola Pierobon, nel giugno del 1973, accusata di procurato aborto all'età di 16 anni. Le femministe aderenti al Movimento di liberazione della donna presero spunto da questo processo, e si autodenunciarono, nella stessa aula dove si processava la Pierobon, per il reato di aborto. Il caso suscitò clamore sulla stampa, e anche settimanali come "Annabella" gli diedero grande risalto (234). Così, ancora una volta, con un'azione diretta, i radicali erano riusciti ad infrangere il silenzio della stampa benpensante su una questione che toccava tutte le donne. Nel settembre dello stesso anno il quotidiano radicale Liberazione pubblicava le autodenunce di altre cinquanta donne, mentre il Movimento manifestava davanti al Parlamento affinché il progetto di legge Fortuna fosse discusso.

Ma tutto ciò non riuscì a sbloccare la situazione: il partito comunista si dichiarò contrario alla liberalizzazione dell'aborto; e quindi venne meno il decisivo appoggio del maggiore partito della sinistra. Un altro colpo all'iniziativa radicale venne dal mancato raggiungimento del numero di firme necessarie per indire il referendum. Quando la battaglia sembrò definitivamente persa, Pannella usò l'arma del digiuno ad oltranza, e riuscì ad essere intervistato dalla televisione di Stato, potendo così, a sorpresa, parlare dell'aborto a milioni di persone.

Intanto, mentre l'iniziativa radicale stentava, fu fondato il CISA (Centro italiano sterilizzazione aborto), che nel 1974 aprì alcuni consultori in tutt'Italia, nei quali si praticava l'aborto quasi gratuitamente (235).

L'attività di questi centri non si svolgeva in clandestinità, ma veniva ampiamente pubblicizzata. Le pratiche abortive continuarono, indisturbate, per circa un anno, finché il settimanale di destra "Candido" pubblicò un articolo di denuncia contro il centro CISA di Firenze, provocando l'intervento della magistratura. Venne arrestato il ginecologo Giorgio Conciani che operava al Centro. Alcuni giorni dopo venne arrestato Gianfranco Spadaccia, segretario nazionale del partito radicale, che si era assunto la responsabilità politica dell'attività del CISA (236).

Seguirono altri arresti ed incriminazioni: Adele Faccio ed Emma Bonino, per la loro attività di sostegno al centro per la liberalizzazione dell'aborto, subirono la stessa sorte, nel gennaio del 1975 la prima e nel giugno successivo la seconda. La reazione della polizia e della magistratura verso i fautori del referendum abrogativo del reato d'aborto, suscitò l'interesse dei due grandi settimanali, di ispirazione laica, "l'Espresso" e "Panorama" e quindi dell'opinione progressista del Paese.

Il 5 febbraio 1975 venivano depositate in Cassazione sia la richiesta di referendum per l'aborto sia sulle altre quattro tematiche approvate dal XIV congresso (concordato, reati d'opinione del codice penale, ordinamento giudiziario militare e codice penale militare). All'indomani della presentazione delle richieste di referendum, con la campagna istituzionale si incrociava la mobilitazione fondata sulla disobbedienza civile. Una valanga di autodenunce venne consegnata alla Corte di Cassazione, e, in conseguenza, partirono le comunicazioni giudiziarie a tutti gli autodenunciati (237). Il 18 febbraio, la Corte Costituzionale dichiarò parzialmente illegittime le norme che punivano il reato di aborto, depenalizzando così l'aborto terapeutico. Intanto si apriva "il fronte parlamentare": tutti i gruppi parlamentari, tranne quello del M.S.I., presentavano un proprio disegno di legge sull'aborto. Il 15 aprile si dava inizio per le strade e nelle piazze di tutti i maggiori centri, alla raccolta delle firme. Pannella riuscì ad ottenere l'appoggio dell'Espresso per il solo referendum sull'aborto; aderirono alla campagna il sindacato U.I.L. e molte federazioni socialiste (238). A questo punto della battaglia referendaria, i radicali, vista l'adesione di molti ambienti laici e progressisti alla loro iniziativa per l'aborto, decidevano di sospendere la raccolta delle firme per gli altri quattro referendum, e concentrarono il loro sforzo organizzativo sul primo (239).

Riuscirono a raccogliere, nei tempi stabiliti dalla legge, 750 mila firme, e così si poté dare inizio alle procedure per l'indizione del referendum sull'aborto.

Ma il P.R. non aveva rinunciato definitivamente alle altre proposte. Infatti, dopo le elezioni regionali del 15 giugno 1975 che registrarono un notevole successo del P.C.I., i radicali, pensando di sfruttare il clima favorevole al cambiamento politico, decisero di riprendere la battaglia per gli altri quattro referendum; aggiungendone un quinto per l'abrogazione della legge Reale sull'ordine pubblico, appena approvata dal Parlamento per combattere il terrorismo (240). Tuttavia su queste cinque tematiche, il P.R. non raccolse l'adesione delle altre formazioni politiche di sinistra, né di alcun grande organo di stampa, né ebbero il sostegno di quella larga parte dell'opinione "liberal" che l'aveva affiancato nella raccolta di firme per il referendum sull'aborto; anche i gruppuscoli extra-parlamentari si defilarono. Insomma era venuta meno l'unità laica delle forze di sinistra; di conseguenza non riuscirono a raccogliere il numero necessario di firme per gli altri referendum.

Il XV congresso del P.R., tenutosi a Firenze dall'1 al 4 novembre 1975 a cui parteciparono oltre mille iscritti e molti esponenti del P.S.I., da un lato confermò il giudizio sulla situazione politica contenuta nella mozione finale del precedente congresso di Milano, dall'altro giudicò ormai maturi i tempi, dopo il successo delle sinistre alle elezioni amministrative del 15 giugno, per predisporre un programma economico e sociale comune a tutte le componenti di sinistra e laiche (241).

I radicali chiesero alle componenti politiche a loro omogenee l'adesione alla lotta istituzionale per la piena attuazione della Costituzione, e l'eliminazione, quindi, di tutte le norme autoritarie ancora vigenti dopo trent'anni dalla caduta del fascismo. Il P.R., per attuare questo progetto politico, guardava al P.S.I., e intendeva rifarsi al modello francese, a quel 20% di forza socialista e libertaria, da autogestire, però, dal basso. Poneva, tuttavia, al P.S.I. ed alle altre forze da aggregare una prova: la loro disponibilità a discutere, e quindi ad appoggiare la legge sull'aborto che la Camera dei Deputati stava per affrontare. Se non sarebbe stato possibile riunirsi intorno ad un P.S.I. rinnovato, il P.R. avanzava la propria candidatura ad elemento aggregante di una nuova formazione socialista, perché una tale richiesta saliva indiscutibilmente dalla base del Paese.

Il P.R. chiedeva, formalmente, al Congresso del P.S.I., che si sarebbe svolto nel febbraio del 1976, un patto federativo, che senza annullare le differenze, ma anzi "potenziando e moltiplicando le diverse esperienze, energie e potenzialità, potesse creare le premesse per una più vasta unificazione di forze socialiste e libertarie" (242).

Dal tenore della mozione finale e dal dibattito emerge l'inevitabilità della partecipazione di liste radicali alle imminenti elezioni politiche. Gianfranco Spadaccia e Roberto Cicciomessere, in un editoriale su "Notizie radicali" del 18 ottobre 1975 avevano già affermato che una fase storica del partito radicale si stava concludendo, e che, finalmente, dopo venti anni di lotte per i diritti civili, ci sarebbe stato uno sbocco politico: il 1976 sarebbe stato l'anno dell'alternativa. In caso contrario, secondo gli esponenti radicali, sarebbero passati ancora dieci anni per vedere attuati quei diritti civili, oggetto di tante lotte militanti, del P.R. e delle varie leghe.

Un sondaggio della Demoskopea, pubblicato da "Panorama", aveva entusiasmato i radicali. Gli intervistati avevano dichiarato che desideravano il rinnovo della classe dirigente e dei partiti politici. La Demoskopea aveva valutato intorno al 10-12 per cento il seguito elettorale del partito radicale, costituito per la maggior parte da donne. E, dato importantissimo per i radicali, venne fuori dalla stessa indagine che il 70% degli interrogati dava grande valore alle lotte per i diritti civili. Se poi il P.R. avesse avuto l'accesso alla RAI-TV, l'indice di conoscenza dei temi radicali sarebbe clamorosamente salito. Insomma era giunto il momento tanto atteso. Il "sogno radicale" stava per realizzarsi?

Nei cinque mesi dal XV congresso radicale del novembre '75 a quello socialista del febbraio 1976, nessuna risposta venne dal P.S.I. alle proposte di aggregazione del P.R. (243).

De Martino, segretario del P.S.I., dette la risposta soltanto in sede congressuale, e fu un no chiaro alle proposte politiche radicali: il P.S.I. invitava il P.R. ad una semplice confluenza di tipo elettorale. Il congresso socialista, tuttavia, si mostrò più aperto del suo leader: dette mandato alla direzione di dar corso ad un confronto politico con il Partito Radicale; ma, nonostante la delibera congressuale, non successe nulla, non si stabilì alcun rapporto tra i due partiti, neanche un colloquio politico.

 

5. I cittadini e il potere: "La carta delle libertà"

 

I radicali si trovarono, così, soli a ridosso dello scioglimento delle Camere. Il Consiglio Federativo decise la presentazione di liste proprie per le elezioni del 20 giugno. Il segretario del P.R., a proposito del no socialista, faceva notare che i radicali "non erano postulanti che battevano alle porte del P.S.I. in attesa di qualche posto o di qualche medaglietta parlamentare: non erano disposti a distruggere quindici anni di diversità socialista" (244).

Da molti anni i radicali marcavano la sopravvivenza di numerose forze autoritarie, e quindi reclamavano una politica delle libertà: essi notavano anche che la stessa "forza espansiva" della nostra Costituzione si era rattrappita. In definitiva il P.R. si muoveva, secondo la sua tradizione originaria, sulla linea del grande filone del socialismo europeo. Il progetto radicale prendeva corpo nel febbraio del 1976 con una prima proposta di legge di iniziativa popolare per una "carta delle libertà e dei diritti civili", che, poi, in larga misura, corrispondeva ai contenuti dei referendum promossi negli anni precedenti e poi abbandonati per le ragioni che abbiamo già visto (245). I radicali, alla vigilia di una consultazione elettorale, consideravano questa "Carta delle libertà" alla stregua di un vero e proprio programma di governo e di legislatura.

Un'immersione, dunque, nelle istituzioni, per cambiarle in senso libertario, o più limitatamente per adeguare la nostra legislazione a quella più avanzata dell'Europa Occidentale.

Il progetto si articolava in due proposte di legge. La prima mirava alla revisione costituzionale dell'art. 7 della Costituzione, e quindi ad un completo riordinamento dei rapporti tra Stato e Chiesa, con il passaggio dal regime concordatario ad un regolamento dei rapporti che garantisse l'indipendenza della Chiesa e la laicità della Repubblica. Tornavano i vecchi temi radicali, in un contesto politico e sociale che stava per mutare, dato l'ingresso sulla scena politica dei gruppi ecclesiali ed il nuovo modo di concepire i rapporti con le gerarchie da parte dei cattolici.

La seconda proposta si presentava più complessa e ricca di implicazioni istituzionali, in quanto avrebbe consentito ai singoli cittadini ed ai gruppi di far valere liberamente ed immediatamente i diritti di libertà loro riconosciuti.

Essa proponeva l'abrogazione di alcune migliaia di norme vigenti e l'approvazione di centinaia di nuove norme istitutive di nuove libertà. La proposta si divideva in cinque titoli, e prevedeva, tra l'altro, la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, la smilitarizzazione della polizia, l'anagrafe delle cariche pubbliche, il diritto di accesso dei cittadini all'informazione.

Un settore riguardava i cittadini definiti "sottoprotetti", cioè gli anziani, i minori, le minoranze linguistiche, i sessualmente diversi, i profughi; infine il progetto intendeva tutelare i diritti dei cittadini nelle comunità necessarie, cioè nelle scuole, nelle caserme, negli ospedali, nei manicomi, nelle carceri, nelle fabbriche.

La linea di intervento disegnata dal P.R., così come era articolata, metteva in movimento un meccanismo di controllo su tutta una serie di poteri pubblici e privati, la cui gestione era secondo i radicali, autoritaria o quanto meno al riparo da ogni indagine esterna.

La conferma al progetto complessivo radicale venne dai 400 mila voti ottenuti dal P.R. nelle elezioni del 20 giugno: quattro radicali entrarono nel Parlamento della Repubblica, e precisamente alla Camera: Emma Bonino, Adele Faccio, Mauro Mellini e Marco Pannella. Il partito socialista era regredito così come i partiti laici minori: il P.C.I., con il 34,4% guadagnava 48 seggi. L'unica formazione laica in ascesa si rivelò quella radicale.

Nonostante il successo il partito cercò di rimanere se stesso, cioè di non perdere la sua natura originaria, basata sull'autogestione, sulla non violenza, sulla militanza di base. E per mantenere siffatti caratteri, Pannella come abbiamo visto, lanciò lo slogan: "disorganizzazione scientifica"; suscitando però polemiche interne fra chi voleva mantenere l'aggregazione spontanea di persone intorno a battaglie comuni e chi, invece, auspicava una certa stabilità organizzativa (246).

Il dilemma sull'assetto organizzativo da dare al partito era molto sentito in periferia. Il periodico d'informazione del P.R. dell'Emilia Romagna, Agenzia Radicale, affermava chiaramente che: "le associazioni locali avevano vissuto ben poco, per vita autonoma, limitandosi, nei casi migliori, a partire `tavolino in spalla' ai segnali di Roma" (247). E osservava che il P.R. registrava un ricambio rapidissimo di persone, che si gettavano anima e corpo in lotte particolarmente significative, per poi sparire per lunghi periodi o per sempre. Si disperdeva così un patrimonio di energie. Sicché il punto di forza del partito, lo spontaneismo che si formava periodicamente intorno alle lotte del momento, costituiva anche un punto di debolezza.

Pertanto i militanti di base reclamavano una continuità politica evitando, nel contempo, il pericolo di trasformare il partito radicale in uno dei piccoli partiti tradizionali.

Il problema era sentito a tutti i livelli del partito e sarà, negli anni successivi, motivo centrale di dibattiti, polemiche, accuse, abbandoni.

Dopo le elezioni del 20 giugno si formò il governo monocolore di Andreotti, che si reggeva sulla "non sfiducia" dei partiti diversi dalla D.C. e in particolare del partito comunista. Per i radicali il P.C.I. diventava così la colonna portante del "regime". Il XVII Congresso radicale tenuto a Napoli dall'1 al 4 novembre '76 denuncia lo "stato corporativo assistenziale e fascista" della D.C. ormai avallato, apertamente, dai partiti della sinistra storica.

Con il compromesso storico tra D.C. e P.C.I., il partito radicale fu così costretto a mutare la propria strategia e il PCI giudicato ormai incapace di qualunque politica alternativa; di conseguenza i radicali ritenevano ancora più necessario il ricorso al referendum per attuare la Costituzione. Ma la battaglia referendaria, rispetto all'epoca del divorzio, avrebbe assunto un orientamento politico diverso: da referendum per spostare la sinistra e costringerla a sostenere battaglie alternative, superando i compromessi con la D.C., a referendum diretto proprio contro il "regime D.C.-P.C.I." (248).

 

NOTE

 

(187) Mozione politica approvata dal IV congresso ordinario del PR 2/4 novembre 1968.

(188) Intervento dell'on. Boldrini (PCI) ed un convegno organizzato dal PR a Roma nell'aprile 1966, citato in AGHINA-JACCARINO, "Storia del Partito Radicale", Gammalibri, Milano, 1977, p. 46.

(189) MASSIMO TEODORI, "Storia del partito radicale, AA.VV. "I nuovi radicali", Mondadori, 1977, p. 105-110.

(190) Documento del segretario del PR Gianfranco Spadaccia: "Il Partito Radicale e il movimento radicale nel paese una strategia politica per la nuova sinistra", citato da M. TEODORI.

(191) Cfr. mozione politica approvata dal V congresso, nov. 1968.

(192) "Un giorno a Sofia", "L'Astrolabio", n. 39, 6 ottobre 1968.

(193) ANGIOLO BANDINELLI, "Antimilitaristi: cronache di 25 anni", in "La prova radicale

(194) MASSIMO TEODORI, op. cit. pp. 123-124.

(195) M. TEODORI, ibidem.

(196) "Corriere della Sera", 4 novembre 1969.

(197) Mozione politica approvata dal VII congresso.

(198) MARCO PANNELLA, "La più rossa delle schede", "Notizie radicali", maggio 1970.

(199) "Corriere della Sera", 2 novembre 1970.

(200) Mozione politica approvata dall'VIII congresso.

(201) Cfr. p. 90.

(202) MARCO PANNELLA, "E' ora di decidere con o senza il Partito Radicale", "Notizie Radicali", ciclostilato, 23 luglio 1971 e in "La prova radicale", anno I, n. 1, autunno 1971, pp. 48-50.

(203) Cfr. GIANFRANCO SPADACCIA, "Partito Radicale e Partito laico", "La prova radicale", n. 2, inv. 1972, pp. 2-5.

(204) Documentazione sul X congresso (Roma, novembre 1971), parziale e limitata agli interventi citati nel testo e alla mozione congressuale, in "La prova radicale", n. 2, inv. 1972, pp. 186-192.

(205) Mozione politica approvata dal X congresso.

(206) Cfr. GIANFRANCO SPADACCIA, Partito radicale e partito laico, "La prova radicale", n. 2, inv. 1972, pp. 2-7.

(207) La documentazione relativa a questa vicenda è stata pubblicata da "La prova radicale", n. 3, primavera 1972, pp. 62-80.

(208) Cfr. MASSIMO TEODORI, "Perché ci asteniamo", "La prova radicale", n. 3, primavera 1972, pp. 23-28 e tutti gli altri articoli contenuti nello stesso numero della rivista.

(209) Cfr. GIANFRANCO SPADACCIA, "Un'ondata di referendum per battere un Parlamento clerico-facista", "La prova radicale", n. 4 estate 1972, pp. 45-54.

(210) Cfr. G. SPADACCIA, art. ult. cit., p 47

(211) SPADACCIA, ibidem.

(212) Cfr. G. SPADACCIA, ult. art. cit., p. 51.

(213) "Editoriale" in "Notizie radicali", n. 172, 5 ottobre 1972.

(214) Il 1° ottobre 1972 iniziò un digiuno collettivo per affrettare l'approvazione di una legge per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza. Il 18 ottobre Marco Pannella e Alberto Gardini, un radicale "credente", dichiararono che avrebbero proseguito il digiuno senza controllo medico fino alle estreme conseguenze e per la liberazione di Pietro Valpreda.

(215) Cfr "Notizie radicali", n. 170, 1° sett. 1972.

(216) Mozione approvata dal XI congresso, Torino, 1/3 nov. 1972.

(217) Cfr. "Notizie radicali", nn. 182-186, 27 gennaio 1973.

(218) Cfr. Mozione politica approvata dal XII congresso, Roma, 8-9 luglio 1973.

(219) Cfr. "Notizie radicali", nn. 201-202, 19 luglio 1973.

(220) Mozione politica approvata dal XIII Congresso, Verona, 1/3 novembre 1973.

(221) Cfr. "Otto referendum contro il regime", Savelli, Roma, 1974.

(222) Ibidem, p. 10.

(223) "Otto referendum...", cit., pp. 22-42.

(224) Cfr. p. 99.

(225) Cfr. AGHINA-JACCARINO, "Storia del partito radicale", Gammalibri, Milano, 1977, pp. 92-94.

(226) Cfr. MASSIMO TEODORI, "I nuovi radicali", cit., p. 144.

(227) Cfr. p. 103.

(228) M. TEODORI, "I nuovi radicali", cit., p. 144-150.

(229) Cfr. TEODORI, ibidem.

(230) Cfr. gli articoli e gli atti del congresso in Notizie radicali, n. 334, 30 nov. 1974.

(231) Mozione politica approvata dal XIV Congresso, Milano, nov. 1974.

(232) Cfr. ARA, "Per l'alternativa - Dal partito del mutamento al progetto socialista", Feltrinelli, Ml, 1975.

(233) Cfr. p. 100.

(234) Cfr. MARIA ADELE TEODORI, "Cinque anni di lotte", in MLD-PR, "Contro l'aborto di classe", Savelli, Roma, aprile 1975.

(235) Cfr. p. 90.

(236) Cfr. "Notizie radicali", n. 625, 1 gennaio 1975.

(237) Cfr. M. A. TEODORI, "Cinque anni di lotte...", cit., p. 15.

(238) Cfr. "Per un altro 13 maggio", a cura del P.R., Roma, Savelli, 1975.

(239) Cfr. AGHINA-JACCARINO, op. cit. p. 123.

(240 Cfr. TEODORI, op. cit. p. 165.

(241) Per il dibattito e le deliberazioni del XV Congresso, si veda "Notizie radicali", n. 46, 16 nov. 1975.

(242) Mozione politica approvata dal XV Congresso.

(243) Per una ricostruzione dei rapporti tra radicali e socialisti in questo periodo: GIANFRANCO SPADACCIA, "Creare due, tre nuove poltrone?", "Prova radicale", n. 1, giugno 1976.

(244) SPADACCIA, ibidem.

(245) Progetto di legge d'iniziativa popolare per l'attuazione delle libertà e garanzia costituzionali, stampato a cura del PR, marzo 1976.

(246) Cfr. p. 110 e ss.

(247) Relazione della giunta uscente del PR - Emilia Romagna, "Agenzia radicale", n. 10, ottobre (?) 1976, p. 4.

(248) Cfr. Mozione politica approvata dal XVII congresso del PR, "Notizie radicali", n. 182,15 novembre 1976.